giovedì 14 giugno 2012

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):(Parte 35°): Divergenze tra Garibaldi e Cavour dibattito al Parlamento di Torino si convoca il Plebiscito altri provvedimenti di Garibaldi




Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.


Il 21 ottobre di quell'anno 1860 fu giorno memorando per questo Regno delle Due Sicilie: si fece il Plebiscito! Di questo grande avvenimento dirò tutto quello ch'è necessario a sapersi come semplice cronista.
Quando si fece il Plebiscito, l'esercito e il Re di Piemonte erano già entrati nel Regno; nel porto di Napoli dimorava la flotta sarda, e vi erano in Napoli soldati piemontesi di guarnigione e quarantamila garibaldini.
Giorni prima che si facesse il Plebiscito, si affissero in Napoli de' cartelli dichiaranti nemico della Patria chi si astenesse o desse il voto contrario all'annessione.
In ogni luogo del Comizio si posero due urne palesi acciò si vedesse chi dava il voto negativo e chi affermativo.
Il primo a votare fu il Dittatore, in seguito i garibaldini duci d'ogni nazione: Sirtori, Bixio, Turr, Eber, Eberardt, Rustow, Peard, Megiorodes, Teleki, Dunn, Milbitz, Csufady, ed altri simili nomi che straziano gli orecchi italiani, votarono per far l'Italia una!
Non si confrontarono le tessere con le liste, né con le persone. Il garibaldino Rustow nel vol. 2° pag. 114 delle sue rimembranze d'Italia, dice che a Caserta lo Stato Maggiore della sua divisione era di cinquantuno uffiziali (scusate se son pochi), né tutti presenti, si trovò di aver dato centosessantasette voti!
Nel resto del Regno si fece il Plebiscito al pari di quello di Napoli: a' villici si dicea
che mettere il SI nell'urna volesse dire che tornasse Francesco II.
L'Arcivescovo di Rossano, il 14 ottobre, scrisse al suo clero acciò considerasse se il Plebiscito portasse nocumento alla religione, e si desse il SI o il NO senza rispetto umano, valendosi della promessa libertà. Sembra che i così detti liberali avrebbero dovuto lodare questo consiglio di quell'Arcivescovo: nondimeno fu costui insultato e messo in carcere.
In que' paesi ove non era forza armata, ad onta degli sforzi de' liberali non si fece Plebiscito, anche alla Barra ch'è alle porte di Napoli. Alcuni paesi invece di votare, si rivoltarono contro coloro che consigliavano il Plebiscito.
Il Governatore di Capitanata, il 24 ottobre, scriveva al Ministero di Garibaldi:
Il giorno del Plebiscito è stato per questo provincia giorno di ribellione; i comizi in più comuni non si sono raccolti, e si fanno sforzi estraordinari perché il movimento non sia generale. Qui sono reazioni universali: mandate soldati ed armi.Si era decretato che pel 6 novembre doveasi pubblicare il risultato del Plebiscito del Regno al di qua del Faro, e siccome era entrato nel reame il Re V. Emmanuele, si anticipò di tre giorni. Quindi il 3 novembre dopo mezzogiorno si schierarono 24 compagnie di Guardia nazionale avanti il Palazzo Reale, e Niutta, Presidente della Suprema Corte di giustizia proclamò il risultato del Plebiscito; e concionando annunziò la decadenza de' Borboni dal Trono delle due Sicilie. Disse essere stati un milione, trecentoduemila e sessantaquattro SI per l'annessione al Piemonte, e diecimila trecento dodici NO. A questo annunzio seguirono salve di cannonate da' castelli e da' legni di guerra. Vi furono la sera commiste luminarie ed allegrezza, sbalordimenti e tristezza!
In Sicilia però l'affare del Plebiscito non passò senza che si venisse a vie di fatto. Tra quelli che voleano la Costituente e gli altri che voleano l'annessione incondizionata, furono rumori e lotte, ma messa in opera la Cuffia del silenzio, immaginata prima dall'ostetrico Raffaele per calunniare i Borboni, regnò l'ordine come in Polonia, e si fece il Plebiscito quasi unanime per l'annessione incondizionata al Piemonte. In Palermo furono trentaseimila duecento trentadue SI, e soli seicentosessantasei NO!Fece maraviglia come si trovassero que' pochi NO, tanto in Napoli, che in Sicilia, dappoichè nessun borbonico andò a votare: fu affare fatto in famiglia!
Cavour ringraziò Pallavicini (neppure Garibaldi!) sul risultato del Plebiscito perché a lui in gran parte dovuto.Il pretendente francese, Luciano Murat, con una sua lettera stampata sopra i giornali, disse la gran menzogna, che: «Le urne de' voti stavano tra la corruzione e la violenza.
Elliot Ministro inglese a Napoli, benchè fabbro di rivoluzione del Regno di Napoli, ed amico de' rivoluzionarii, scrivendo al suo Governo il 16 ottobre, non si peritò dirgli: «Moltissimi vogliono l'autonomia, ma sono sforzati a votare per l'annessione; ed infatti la formola del voto, e il modo di raccoglierlo sono sì disposti che assicurano la gran maggioranza possibile per l'annessione, ma non costatano il desidero del paese.»
Il 10 novembre, dopo che furono pubblicati i risultati della votazione di Napoli e Sicilia, lo stesso Elliot scriveva al Governo inglese. «I risultati delle votazioni in Napoli e Sicilia rappresentano appena i diciannove fra cento votanti designati, e ciò ad onta di tutti gli artifizii e violenze usate.»Il Ministro inglese Russell più inconcludente di Elliot, nel dispaccio che diresse a Torino il 31 gennaio 1861 dicea: «I voti nel suffragio universale in que' regni non hanno alcun valore, sono mere formalità dopo una rivoltura, ed una ben riuscita invasione; né implicano in sè lo esercizio indipendente della volontà della nazione, nel cui nome si son dati.» Etiam tu Russell? tu fabbricatore ed istigatore di rivoluzione, osi affermare simili corbellerie, e ti fai scrupolo di sì poca materia? Gatta ci cova...!Russell non contento di cadere in contradizione a furia di ciarle o, come direbbero i dialettici, cade nel circolo vizioso: in quel dispaccio del 31 gennaio 1861 diretto al Governo di Tornio soggiunge: «I rappresentanti della nazione (di Napoli e Sicilia) riuniti in Torino potranno tuttavia deliberare sull'annessione.» Ma se questi rappresentanti della nazione son fatti col voto popolare simile a quello del Plebiscito del 21 ottobre, come voi signor Ministro britannico chiamate questo voto mere formalità, che non implichino in se lo esercizio della volontà della nazione, e che non abbiano alcun valore, se volete poi che i rappresentanti abbiano il valore e il mandato basato su quel voto popolare per deliberare sull'annessione? Signor Russell l'avete detta troppo grossa, e sono sicuro maliziosamente; Cavour più furbo di voi quando lesse il vostro dispaccio, certo ne rise saporitamente.
Francesco II, l'8 novembre pel suo Ministro degli esteri protestava contro l'invasione piemontese nel Regno, e contro la validità del Plebiscito.
Lo stesso giorno che si fece il Plebiscito in Palermo, il Prodittatore Mordini pubblicava il seguente decreto: «Considerando il nome di Giuseppe Garibaldi esser destinato a crescere di celebrità ne' secoli, e che le future generazioni avrebbero la religiosa memoria di ricercare i luoghi stati segreti testimoni de' pensieri e delle intime risoluzioni dell'eroe del secolo XIX; udito l'unanime consiglio di Stato, fra le acclamazioni del popolo, decretiamo che la stanza ove l'eroe ha dormito a Palermo, nel Padiglione contiguo al Palazzo reale sulla porta nuova, sia serbata in eterno, con mobile come sta.»
Scrofani Ministro di Polizia fece il processo verbale di venticinque arnesi della stanza, compresi gl'ignobili, e posevi un guardiano con quindici ducati al mese! E poi i liberi pensatori ed i rivoluzionarii si ridono dei cattolici, perché costoro si recano a qualche santuario, e venerano i luoghi e le reliquie di qualche santo miracoloso! Sempre due pesi e due misure e sempre contraddizioni! Il giornale di Palermo, il Precursore, fra le altre adulazioni prodigate all'eroe Garibaldi, pubblicò che costui discendea da' re di Corsica. Ma sapea quel giornale che cosa furono la maggior parte de' re di Corsica?
In ultimo si ordinò una medaglia di argento per Garibaldi. I democratici rivoluzionarii che deridono gli usi cattolici e le decorazioni che largiscono i Sovrani,
quando poi ghermiscono essi il potere scimiotano gli uni e gli altri.
Mentre si faceva il Plebiscito in Napoli e in altri luoghi, parecchie province del Reame erano in completa anarchia e reazione. Il de Virgilii governatore di Teramo spargeva proclami alla turca contro i reazionarii: in uno di questo proclami conchiudeva: «I villani presi con le armi alle mani saranno considerati reazionarii e puniti con rito sommario (cioè fucilati) ". E finiva con questa bella frase liberalesca: Colpite i reazionarii senza pietà. E poi si fanno scrupolo degli ordini di Peccheneda e di Maniscalco, ed osano ancora chiamare tirannici quegli ordini!
Nel Chietino fu rumoroso il fatto di Camerino, paese di sei mila anime. Facendosi il Plebiscito, un villano volendo l'urna anche per Francesco II, ebbe uno schiaffo da un Dedominicis, cima di liberale annessionista. L'insulto fatto al villano fu la scintilla che destò grande incendio: tutti si armarono di armi rusticane. I soldati piemontesi tiravano schioppettate; la popolazione colpì di scuri e pietrate. I villici afforzati da quelli di S. Eufemio, paesello vicino, diedero addosso ai liberali, li disarmarono, uccisero il Dedominicis, e cantarono il Tedeum per Francesco II. Però il dì seguente accorsero i piemontesi, garibaldini, e nazionali in maggior numero, e non avendo trovato gli autori della reazione, inveirono contro chi supponessero reo, fucilarono senza giudizio: saccheggiarono Cammerino, poi S. Eufemio, portando il bottino a Chieti, ove lo venderono pubblicamente.
Nell'Aquilano quasi non si fece il Plebiscito; i popolani davano addosso a chi si avvicinasse all'urna. Quando s'intese che la truppa piemontese era entrata nel regno, invece di accomodarsi alla circostanza, gridarono, Viva Francesco II. I villani si posero la storica coccarda rossa al cappello, e si armarono di arnesi rurali per inveire contro i Piemontesi. Il celebre generale Pinelli, piemontese, credè sprezzarli, ma esso ancora non sapea come i Napoletani maneggiano le pietre. Uscì d'Aquila con alquanti soldati e cavalieri, e volse a Pizzoli; ma attorniato da quei villici, e perduto qualche soldato, voltò faccia, ed egli stesso ebbe un colpo di pietra sulle spalle!
A Marano, Casaprobbe, Campotosto, ed altri paesi i cittadini si levarono contro gli annessionisti, li cacciarono in fuga, e si posero il NO al cappello.
Intanto Pinelli, questo redivivo Schedoni, esce un'altra volta d'Aquila, e sapendo per prova quanto valevan i colpi di pietre, condusse seco un battaglione e due cannoni. Invase Pizzoli, fucila a capriccio, e mette taglie alla Musulmana. Alloggia in casa d'Alessandro Cicchitelli, e dopo di aver mangiato alla tavola di costui, sul mattino lo fa fucilare nel giardino della casa, presente la moglie!
Il 3 novembre molti garibaldini, che si titolavano Cacciatori del Velino, mossero contro Avezzano capo distretto, ed avvisarono il Sindaco a farsi loro incontro co' principali del paese, altrimenti avrebbero fatto scempio di tutti. Il Sindaco tremante tentò ubbidire, ma la popolazione suonò le campane a stormo, e mosse contro i così detti Cacciatori del Velino, dando loro addosso, a colpi di zappe, e tra gli uccisi, fuvvi un tale de Cesare.
Il Generale Pinelli, il 3 novembre dichiarò lo stato di assedio, ed alzò Corte marziale con tre articoli di una sua proclamazione da fare invidia ai maggiori tiranni.
Eccoli:«Articolo 1. Chiunque sarà colto con arme di qualunque specie (anche le pietre?) sarà fucilato immediatamente; Art. 2. Ugual pena a chiunque spingesse con parole i villani a sollevarsi; Art. 3. ugual pena a chi insultasse il ritratto del Re, o lo stemma di Savoia, o la bandiera nazionale.»
Pinelli con questa proclamazione rese un brutto servizio alla causa che intendeva di propugnare.
Il re eletto con Plebiscito unanime non era più sicuro in effigie, secondo Pinelli! Se dovea minacciare fucilazione per indurre i cittadini al rispetto!! Lo stesso Ministro piemontese Farini rivocò quel manifesto, ma lasciò il Pinelli negli Abruzzi, ove costui continuò a fucilare quei cittadini che non gli andavano a sangue.
Mentre l'esercito sardo si avanzava nel Regno, in tutto il Gargano non si fece Plebiscito, anzi molti paesi si sollevarono contro i liberali annessionisti, tra' quelli si distinsero S. Marco in Lamis, paese di 16 mila abitanti, S. Giovanni Rotondo, Rignano, ed Ascoli. In S. Marco in Lamis entrarono i soldati napoletani sbandati gridando viva Francesco II, ed ebbero seguito immenso. Un farmacista osò tirare una fucilata contro i reazionarii, e costoro si avventano contro coloro che voleano fare il Plebiscito, ne presero 27 e li menarono in carcere. Gaetano del Giudice governatore di Foggia, raccolse quanti potè liberali, e con 250 garibaldini mosse contro S. Marco in Lamis. La popolazione di questo paese vedendosi assalita, corse alle carceri, ed uccise i 27 prigionieri, andando dippoi ad incontrare del Giudice, questi ai primi colpi fu obbligato fuggire a Manfredonia, dapoichè la sua gente fu vinta e sbaragliata. Però a Manfredonia raccolse 1500 tra garibaldini e liberali, e con due cannoni muove nuovamente contro S. Marco in Lamis per la via di Rignano. Ma si trovò in mezzo a due fuochi. Il del Giudice che avea ottenuti poteri illimitati per esterminare le popolazioni reazionarie, ed avea pubblicati manifesti minacciando ruine e distruzioni a' paesi sollevati, fu costretto cercare protezione da' preti e da' borbonici per ammansire i furori di quelle popolazioni. Difatti i preti a non far versar sangue, ingannati dalle promesse del governatore del Giudice, predicarono pace e perdono a' nemici, e giunsero ad ammansire i più accaniti popolani, facendo occupare S. Marco in Lamis da' garibaldini. Il del Giudice entrò umilmente in quel paese, promettendo moderazione e fratellanza, ma appena fortificato, impose una taglia di guerra di sei mila ducati, tre mila a' preti, e tre mila al resto della popolazione, cioè a quelli che l'aveano salvato del furore de' reazionarii, e l'aveano ivi installato!
Del Giudice fucilò dieci reazionarii, e fece pagare un'altra tassa di guerra di dieci mila ducati a S. Giovanni Rotondo, metà, già d'intende ai preti suoi salvatori; e quattro mila ducati estorse al piccolo paese di Cagnano.
Vi furono carcerazioni e fucilazioni ad Ascoli e Roseto, e sempre senza giudizio neppure sommario. I reazionarii lasciati i grossi paesi salirono sopra i Monti del Gargano, ed ivi si rifugiarono tutti coloro che erano perseguitati a morte dal nuovo Giuliano governatore di Foggia del Giudice. Que' luoghi adunque divennero teatro di guerra selvaggia.
A Carbonara il 22 ottobre si gridò viva Francesco II, e voleasi fare il Plebiscito in suo favore; allora il Capitano di quei Nazionali raduna la propria gente e minaccia la popolazione; questa assale i liberali e li mette in fuga. In seguito prende i componenti il Municipio, li strascina in piazza; e siccome eransi giorni prima bruciati i ritratti dei Borboni, obbligò i novelli padri della patria a bruciare i ritratti di Garibaldi e compagni. Quella popolazione cantò in seguito il Tedeum, e fece processioni di trionfo co' ritratti di Francesco II e Maria Sofia! Arrivata la processione sul ciglione di una profonda vallata, si diede ad un tratto addosso, con le scuri, al Ricevitore del registro, e poi al Giudice Conciliatore, ma costui fu miracolosamente salvo, perché una voce gridò ch'era stato eletto da Francesco II.
Per amore del vero aggiunger debbo che alcuni di que' reazionarii, deturparono la causa che difendevano, sia per questi massacri, sia con saccheggiare di notte le case degli uccisi.
I fuggiaschi di Carbonara rapportarono ad Avellino che causa della reazione erano stati il Giudice e l'Arciprete, e le Autorità di Avellino ritennero costoro come rei, per la grande ragione che erano stati risparmiati dall'essere assassinati. Si spedì mandato di cattura contro i Giudice e contro l'arciprete: il primo fidando nella sua innocenza, ebbe il coraggio di rimanere al suo posto, onde fu arrestato, e poco mancò di essere fucilato. L'Arciprete preso da paura fuggì assieme al suo coadiutore; ma furono anche arrestati.
Dopo un anno di dibattimenti, tutti e tre vennero dichiarati innocenti, ma l'arciprete ed il suo coadiutore morirono dippoi pe' disagi che avean sofferti.
Nella provincia di Reggio di Calabria i borbonici insorsero pure nel tempo del Plebiscito. Aveano delle pratiche con la Cittadella di Messina, e speravano aiuti; ma il Ministero di Gaeta non volle o non potè animare le speranze di que' sudditi fedeli; costoro cercarono di unir molti adepti ne' paesi, e farli insorgere tutti in un giorno solo contro i liberali. Inopportunamente si mosse in Cinquefronde un Vincenzo Aiossa, che assalì e disperse le guardie nazionali. Un certo Carone di Pedali, unì molta gente di più Comuni; ma accorsero il Sottintendente Poerio, l'Intendente o governatore Plutino con garibaldini e guardie nazionali, e ne nasceva un conflitto; il sangue fu versato in diversi paesi, ed altri Comuni; né mancarono devastazioni, incendii, rapine, taglie di guerra, e fucilazioni sommarie!
Sin dal 21 ottobre 1860 s'iniziò nelle province napoletane quella terribile reazione che fece scorrere tante lagrime e tanto sangue, e che abbandonata a sè stessa, degenerò in certi punti in brigantaggio. I rivoluzionarii al potere, erano protetti dal Piemonte, e disponendo di tutti i vantaggi che ha un governo costituito, poterono lottare facilmente la reazione, la quale com'era priva di reazione, di mezzi, coesione ed appoggi, fu domata a furia di terrore e di vandalici espedienti.
Rivolgiamo ora un rapido sguardo sopra l'infelice Napoli, pria di passare al racconto di altri avvenimenti. Napoli dopo il Plebiscito rimase nello stato di quasi anarchia, ed era questo il desiderio di Cavour perché era un altro pretesto per legittimare la preparata invasione piemontese nel Regno amico.
Dopo il Plebiscito, le violenze de' camorristi e dei garibaldini non ebbero più limiti: la gente onesta e pacifica non era più sicura né delle sue sostanze, né della vita, né dell'onore.... Icamorristi padronid'ogni cosa, viaggiavano gratis sulle ferrovie, allora dello Stato, recando la corruzione e lo spavento ne' paesi circonvicini: comandavano feste con bandiere e luminarie: menavano in carcere la gente onesta, schiaffeggiavano a libito le persone più rispettabili, ferivano, uccidevano impunemente; e tutto questo accompagnandolo col solito canto:Si schiudon le tombe ecc. dell'inno di Garibaldi che si cantava a squarcia gola con musica in cadenza piacevolissima divenuta noiosa, perché ripetuta ne' saloni per affettazione, e nelle vie il giorno e la notte dai monelli e manigoldi, spesso foriera di giunterie e violenze.
Ho ripetuto più volte che tra i garibaldini v'erano de' giovani distinti per nascita, per patrimonio e per educazione; costoro agivano sempre da cavalieri; ma erano pochi; il resto di quell'oste era un'accozzaglia di gente capace di perpetrare qualunque nefandezza; quindi costoro si resero padroni de' conventi e di molte case private, pigliavano roba, mogli, figlie che menavano via con pochi scrupoli. Ciò facendo, e di ogni cosa sacra sparlando, dicevan effetto di libertà e rigenerazione de' popoli!
Il 25 ottobre si ammutinarono gli artefici dell'arsenale, e ferirono i due ispettori. Il 27 si ammutinarono gli altri artefici di Pietrarsa, e quelli della fonderia d'Heardy. I garzoni sarti fecero sciopero con lo scopo di conseguire aumento alla loro mercede. A tutti questi scontenti davan causa alcuni giornalacci sansculottes ed atei che alla Marat predicavano l'anarchia. Il 29 ottobre il Prefetto di Polizia, per ordine del ministro Conforti, minacciò punizioni esemplari a' perturbatori; ma quella minaccia rimase lettera morta.
Lo stesso Conforti il 13 novembre mostrò grande zelo per distruggere il giornale la Torre di Babele, ed impedire che arrivassero a Napoli alcuni giornali francesi, sol perché metteano in celia persone inviolabili, cioè metteano in celia esso Conforti e compagnia. Intanto quel ministro, cima di liberale, in tempo diverso avea fatto tanto scalpore insieme ad altri della stessa sua risma, perché Ferdinando II avea proibita l'entrata nel suo Regno ad alcuni giornali piemontesi ed esteri, i quali consigliavano rivoluzione ed esterminio.
I reverendi padri Gavazzi, Pantaleo, e Giuseppe da Forio sbizzarrivano con le loro concioni da protestanti e liberi pensatori, convertendo chiese in teatri, e teatri in chiese. Gavazzi il più impudente ed avventato, corse più volte il pericolo di essere ucciso da' popolani, perché bestemmiava la Madonna SS.a; quel rinnegato fu costretto a fuggire, togliersi la barba, e la camicia rossa, dichiarando con avvisi a stampa essere egli liberale, ma non protestante...!
Pria di finire quest'epoca memoranda dei garibaldini successe un fatto che sembra incredibile, ed io se l'avessi trovato scritto in qualche autore borbonico o cavourriano avrei gridato alla calunnia; ma è Rustow duce e scrittore garibaldino che ce lo racconta nelle sue Rimembranze d'Italia, vol.2pag. 103, edizione di Lipsia 1861. Io non farò che tradurlo letteralmente dal francese da quello scrittore garibaldino, il quale naturalmente è prodigo di elogii verso i suoi, e specialmente verso Garibaldi.
Ecco di che si tratta: «Trovando Garibaldi nella regia di Caserta assieme ad un solo uffiziale in una camera, costui gli puntò la pistola e gridò:alla fine ti colgo, ho aspettato tre mesi, muori, e gli tirò il colpo alla vita, ma l'arme fallì. A' gridi accorse Missori dalla camera vicina, e Garibaldi esclamò: arrestate quest'uomo, che ho amato. Pochi giorni dopo, il 28 ottobre, trovandosi Garibaldi sulle alture di S. Angelo in mezzo a molti garibaldini, sopraggiunse un uffiziale, e gli disse: ora il... è stato precipitato da una roccia; e si è rotto il collo. Garibaldi rispose freddamente: Va bene...! e siccome scriveva, seguitò a scrivere.»
In questo fatto, se pure è vero quanto dice Rustow, Garibaldi si svela l'uomo il più scellerato: egli che avea decretato l'apoteosi di Agesilao Milano, feritore in pubblico di Re Ferdinando II, e che questo Sovrano fu costretto a dare un esempio salutare all'esercito, non si fa poi alcuno scrupolo di fare assassinare un uomo che dicea aver amato, e facendolo precipitare da un precipizio...! Nel delitto di Agesilao Milano vi sono tante aggravanti, che non si trovano punto nel tentato assassinio di Garibaldi: nondimeno Ferdinando II, dopo un suo regolare giudizio, volea far grazia a quel regicida; e fu costui mandato al patibolo perché così vollero i sedicenti fedeli che poi tradirono, ed oggi mertamente son disprezzati: costoro fecero i terroristi, e poi i liberali di commedia.
La risoluzione di Garibaldi di far morire senza un regolare giudizio, ed in quel modo colui che avea amato è mostruosa; io stento a crederla ad onta che l'asserisce Rustow, il quale elogia a sazietà in altri luoghi delle sue Rimembranza il suo duce supremo Garibaldi.
Le ultime avvisaglie contro i garibaldini sul Volturno accaddero il 19 ottobre. Supponendo i regï, che i nemici facessero opere di offesa contro la piazza, il Generale in capo ordinò delle ricognizioni militari, tagliando gli alberi all'estremità del Poligono, ossia Campo di S. Lazzaro. La sera del 18 i garibaldini tentarono impedire il taglio degli alberi, e ne seguirono scaramucce a' posti avanzati. La mattina del 19 i Reggimenti piemontesi, e quello inglese attaccarono i regï, e fu un avanzare e retrocedere a vicenda. Gl'inglesi però sempre ubbriachi, e non conoscendo la posizione della piazza, si cacciarono fin sotto le batterie, e furono decimati dalla metraglia; tra gli altri venne ucciso il loro capitano Dixon.
Il tenente-colonnello Ussani, visti fanti e cavalieri vicino la Casina Ragni, li cacciò a furia di granate: spazzò poi la strada che mena a S. Maria, e costrinse il nemico a smettere i cominciati lavori contro Capua.
Intanto l'artiglieria che era a piè del monte Gerusalemme, tirando contro le fortificazioni de' garibaldini vi cagionò gran danni, ed incendiò la Casina Lucarelli.
Garibaldi avea fatto alzare altre batterie sulla cima del Monte S. Iorio, ove non poteano giungere i colpi lanciati da' regï a causa della troppo elevazione in cui si trovano i pezzi: purtuttavia il Capitano di artiglieria de Rada, mercè alcuni cannoni rigati da 4, diresse tanto bene i colpi contro i nemici fortificati sull'alta montagna di S. Jorio, che ne fu ucciso un uffiziale, costringendo alla fuga gli altri garibaldini.
Lo stesso giorno 19 nel campo de' regï giunse il Direttore della guerra generale
Antonio Ulloa, il quale comunicò al generalissimo Ritucci una deliberazione del Consiglio di Stato, con la quale si consigliava costui di spingersi alle offese contro il nemico, concedendogli tutte le facoltà e libertà di azioni per operare a suo modo.
In quella deliberazione, tra le altre cose si dicea, che le condizioni del Regno erano tali, che si richiedeva il pronto annientamento della rivoluzione; essere questo il desiderio della diplomazia per togliere al Piemonte qualunque pretesto d'invadere col suo esercito il Reame di Napoli.
Ritucci, al solito, oppose le sue difficoltà, e disse pure al Direttore Ulloa, che quella deliberazione era del giorno 15, cioè quattro giorni innanzi, ed in quello spazio di tempo, già i Piemontesi si erano molto avanzati; quindi non era più a tempo di guerreggiare i garibaldini, ma che invece sarebbe necessario garentirsi le spalle dell'esercito sardo.
Ulloa, in qualità di Direttore della guerra, scrisse una lettera a Ritucci in nome del ministero della guerra, ove spiegava le ragioni di quella deliberazione; e soggiungea a voce, che il Re aveagli ordinato che si rimanesse in Capua finchè fosse cominciata la pugna contro Garibaldi.
Ritucci restio sempre a prendere l'offensiva, dopo essersi consigliato col suo Stato maggiore, e specialmente co' generali Bertolini, e con Matteo Negri, si decise rimanere sulla difensiva per la ragione che i Piemontesi campeggiavano negli Abruzzi. Mandò a Gaeta il tenente-colonnello Giobbe, per far sentire al Re le ragioni, per le quali si fosse deciso a non attaccare i garibaldini. Dicea pure che avrebbe assalito il nemico, se il Re glielo avesse espressamente ordinato, ma senza farsi mallevadore di un felice risultato. Francesco II, forse annoiato dell'ostinazione di Ritucci, ordinò col telegrafo a costui, che il Direttore Ulloa ritornasse a Gaeta, e che circa la guerra facesse a modo suo, dovendo poi rendere ragione al Consiglio di Stato.
Non è qui necessario far lunghi commenti sopra quest'altra ostinazione di Ritucci, dirò solamente, che questi prima aspettava che i garibaldini si piegassero sotto la propria obesità; poi aspettava il commovimento dell'Europa a favore del Re di Napoli; infine quando accadde quello che dovea accadere preveduto da tutti, cioè la invasione piemontese nel Regno, questo stesso avvenimento gli servì di ragione per giustificare la sua troppo colpevole inazione. Basta leggere il dotto e circostanziato memorandum del 20 ottobre 1860 scritto pel Re dal Direttore della guerra Ulloa, per formarsi un'idea poco vantaggiosa di Ritucci e del suo Stato maggiore.
Conosciuta l'entrata dell'esercito piemontese nel Regno, si pensò a mettere Capua in istato di sostenere un lungo assedio, e all'infretta si cominciarono i lavori necessarii.
Qui finisce l'Epoca de' Garibaldini. Quest'epoca è memoranda, i posteri resteranno dubbiosi, se veramente si siano perpetrate tante viltà, tradimenti e nefandezze per abbattere una delle prime dinastie del mondo, un Regno splendido e secolare, e da quelli stessi che furono messi su dalla stessa dinastia, e beneficati da' Borboni.
Le figure più salienti di questa seconda epoca sono cinque, cioè i generali Lanza, Clary, Nunziante, Pianelli, e l'avvocatuccio D. Liborio Romano: questi cinque uomini,
chi più chi meno tutti erano stati beneficati dai Borboni, e si disobbligarono col tradimento il più inqualificabile. Questi cinque uomini sono quelli stessi che nel corso di questo Viaggio ho chiamati fatali alla dinastia e al Regno, che fecero di tutto, come se non avessero avuto una patria, per farla cadere inonorata, anzi farla rotolare nel fango. È da notarsi però, che Nunziante fece più male quando facea l'assolutista e il terrorista, anzi che quando si coprì con la maschera di liberale. A questi cinque uomini fatali fecero codazzo due altezze reali, Leopoldo di Borbone Conte di Siracusa, e Luigi di Borbone Conte d'Aquila, tutti e due fratelli di Ferdinando II. Il Conte d'Aquila meriterebbe il posto tra i primi cinque, perché in qualità di Ammiraglio ridusse la flotta napoletana (ad eccezione di pochi uffiziali e delle ciurme) ad una congrega di settarii; e la defezione della flotta fu una potente leva per rovesciare dinastia e trono.
Si distinsero nell'epoca garibaldina per viltà e tradimenti i generali Landi in Calatafimi, Lanza in Palermo, Clary in Messina, Gallotti in Reggio, Ruiz e Briganti nel Reggiano, Caldarelli in Cosenza, Ghio in Soveria-Mannelli, Lo Cascio in Siracusa, Torson la Tour in Augusta, Flores in Bovino, de Benedictis negli Abruzzi. Vi sono altri Generali che veramente non tradirono, ma si distinsero o per viltà o perché mancarono al loro dovere come soldati, come sudditi, e come gentiluomini. A tutti questi duci gallonati fecero seguito molti ufficiali superiori e subalterni, che sarebbe lungo e noioso nominarli tutti, ma che ho accennati nel corso di queste Memorie.
Circa la invasione del Regno di Napoli si dissero e si stamparono cose iperboliche sul merito militare di Garibaldi, ed hanno innalzato costui al di sopra di Turenna, di Federico II, di Napoleone I. Senza spirito partigiano vediamo quali furono le battaglie vinte dal duce rivoluzionario, e qual merito militare dimostrò da Marsala al Volturno. Per maggior comodo de' miei benevoli lettori compendierò in poche pagine la Iliade garibaldesca ricavandola da' fatti autentici, e che oggi sarebbe impudenza mettere in dubbio.
Garibaldi partì dal continente confortato dagli aiuti morali e materiali del governo sardo. Egli sbarcò a Marsala quando già sapea che la guarnigione era stata mandata a Girgenti per ordine del comando generale di Palermo: quella guarnigione a piedi comandata dal colonnello Francesco Donati sembrò pericolosa allo sbarco garibaldesco e due giorni prima fu mandata altrove. Due legni inglesi fecero la spia contro i regï, e protessero lo sbarco di Garibaldi. Tre piroscafi di guerra napoletani che si trovavano in crociera nelle acque di Marsala, presero il largo fino che non si fosse effettuito quello sbarco. Uno di quei piroscafi, il Capri, era comandato da Marino Caracciolo, che poi, come rilevasi dalla Difesa Nazionale di Tommaso Cava, a pag. 101, volle tenuto al fonte battesimale un figlio da Garibaldi, e costui memore de' servizii ricevuti da quello in Marsala, accettò con piacere di farsi compare col primo che tradì Francesco II. Marino Caracciolo è quello stesso che poi entrò il primo nel forte di Baia e prese possesso a nome del compare. Un altro legno era comandato da Guglielmo Acton, poi ministro del Regno d'Italia!
Nello stesso sbarco di Marsala, tanto celebrato da' rivoluzionarii, nulla trovo di straordinario, neppure potrebbe dirsi audace.
Garibaldi a Calatafimi fu sbaragliato coi suoi mille da solo quattro compagnie dell'8° cacciatori comandate dal maggiore Sforza. Ma Landi, come sapete, avea accomodati gli affari suoi, quando vide il compare Garibaldi a mal partito per la disobbedienza di Sforza, volendo riparare il mal fatto di costui, fuggì verso Palermo col resto della grossa brigata di 3000 uomini, lasciando le quattro compagnie senza munizioni, e senza avvertirle della sua fuga. Sin'oggi i garibaldini strombazzano che vinsero a Calatafimi, mentre furono battuti da sole quattro compagnie che non oltrepassavano cinquecento uomini, e costoro s'impossessarono pure della loro tanto celebrata bandiera di Montevideo.
Garibaldi appena assalito al Parco fuggì in disordine assieme a' suoi; e vedendosi abbandonato dalla squadre siciliane, volea gettarsi su' monti per aspettare il tempo e l'occasione d'imbarcarsi sul continente. I suoi ammiratori dicono che quella fu una gran manovra militare per ingannare i regï, ma si sà, e lo pubblicarono gli stessi garibaldini, che il loro duce era scoraggiato, ed avea abbandonato il progetto di entrare in Palermo. Crispi e il Turr cominciarono a persuaderlo della necessità di entrare audacemente in Palermo: e il comitato rivoluzionario di quella città finì di convincerlo, con fargli conoscere che avea delle pratiche con qualche duce regio, e che costui gli avrebbe lasciate libere le Porte di S. Antonino, e di Termini per entrare in Città comodamente. Difatti la sera precedente ad onta che il generale Lanza sapesse che Garibaldi dovea entrare la mattina seguente in Palermo da quelle porte, non solo richiamò attorno a sè al palazzo reale la brigata Colonna che campeggiava fuori le porte di Termini, e S. Antonino, ma sguarnì di truppa quelle due porte; alla prima lasciò 59 soldati del 9° di linea, alla seconda 260 reclute del 2° cacciatori, che ancora non sapeano maneggiare il fucile. Non trovo nulla di estraordinario che Garibaldi confortato dalle buone disposizioni di Lanza a suo riguardo, sia entrato da quelle due porte con quattromila uomini tra garibaldini e squadre siciliane.
Il generalissimo Lanza invece di combattere validamente l'invasore, avendo a sua disposizione ventiduemila uomini, prima lo lasciò fortificare con ripari e barricate, poi mandò drappelli di soldati per combatterlo, e quando costoro arrecavano danni agli invasori era solerte a richiamarli indietro. Lanza per rendere un maggior servizio alla rivoluzione, bombardò Palermo senza necessità e senza scopo militare, indi pregò Garibaldi per un armistizio, che finì poi con l'abbandono di Palermo e dell'Isola.
Il 30 maggio la sola brigata Meckel sbaragliò tutti i rivoluzionarii fortificati in Palermo. Garibaldi era perduto, gridava: tradimento! sono stato tradito! Ricorse al generale Lanza per salvarsi da' soldati di Meckel, e quel Generale trattenne il braccio di costui che stava già per stritolare Garibaldi e tutti i suoi. Dopo questi fatti, Lanza senza far bruciare una cartuccia da' ventiseimila soldati che avea sotto i suoi ordini, e che fremeano di battersi, abbandonò Palermo e la Sicilia a Garibaldi!
L'entrata di Garibaldi in Palermo si celebra da' rivoluzionarii come una gran vittoria militare,
è un'impudenza mentire con tanta sfacciataggine: lo credono i gonzi, e coloro che non sanno o non vogliono sapere i fatti di quella tragicomedia.
Il Dittatore della Sicilia vinse a Milazzo, cioè con ottomila uomini tra garibaldini e truppa piemontese in camicia rossa, oltre delle squadre siciliane, dopo otto ore di combattimento fece ritirare nel castello mille soldati napoletani. Che Garibaldi avea in Milazzo ottomila uomini tra garibaldini e truppa piemontese, lo disse egli medesimo al comandante del vapore francese ilProtis; che Bosco oppose soli mille uomini, si rileva dal documento che riportai a pag.109. È da osservarsi poi che Garibaldi oltre della superiorità del numero avea una flottiglia che bersagliava i regï in Milazzo, ed avea l'appoggio morale in Messina da Clary, ed in Napoli da' ministri liberali, D. Liborio e Pianelli. E da osservarsi ancora che il merito del fatto d'ami di Milazzo è tutto dovuto a Medici e Cosenz; sin dal principio della pugna Garibaldi lasciò il campo di battaglia e se ne andò sul Veloce.Nulla dunque si rileva di estraordinario per parte di Garibaldi circa il fatto d'armi di Milazzo, ma trovo estraordinario solamente che mille soldati napoletani lottarono 8 ore contro tutta la rivoluzione cosmopolita, e dopo di avere uccisi ottocento garibaldini, in bell'ordine si ritirarono nel castello di Milazzo, ed era ciò secondo le istruzioni di Clary date a Bosco. Garibaldi assalendo i regï in Milazzo era certo del fatto suo, dappoichè se da Messina o da Napoli fossero arrivati altri tre o quattro Battaglioni, la rivoluzione sarebbe stata distrutta anzichè acquistar forza morale e materiale. Sino a Milazzo non trovo dunque alcun fatto che dimostra essere Garibaldi un generale di qualche merito.
In Calabria, il Dittatore non sostenne alcun fatto d'armi importante; il suo passaggio sul continente calabro fu agevolato e protetto dalla squadra sarda, e da quella napoletana, e lo dimostra la 2a parte del Diario di Persano. Il fatto d'armi di Reggio o sia scaramuccia, fa poco onore a Garibaldi: costui fece assalire tre compagnie mentre dormivano sicure di non essere molestate, ignorando il tradimento del proprio generale Gallotti; e perché il prode colonnello Dusmet si oppose all'irrompente piena de' nemici che si riversavano nella piazza del duomo per opprimere i suoi soldati dormienti, è assassinato assieme al figlio...!
Dopo la scaramuccia della piazza del Duomo, i garibaldini ne sostennero un'altra finta contro il Castello di Reggio: sicuri che il comandante generale Gallotti avrebbe ceduto quando essi l'avessero desiderato, avendogli lasciata in ostaggio la sua famiglia.
Sul lido reggiamo e sopra que' vicini monti, Garibaldi sostenne insignificanti scaramucce, avendosi comprato il generale Briganti comandante una brigata, ed avendo anche a fronte il colonnello Ruiz con un'altra brigata, il quale dimostrava una inqualificabile condotta con far di tutto che i suoi soldati non combattessero, anzi, che si sbandassero. Quando Garibaldi, mercè i tradimenti di Briganti ed il contenersi equivoco di Ruiz, ebbe libero il passo, corse con tutte le sue forze ad opprimere la piccola brigata Melendez sul Piale. Melendez sicuro che Briganti e Ruiz avrebbero combattuto Garibaldi, si credea sicuro sul Piale, e giudicava opportuna la sua
posizione ed accorrere al bisogno per appoggiare l'altre due brigate. Quando meno lo pensava si vede circondato da numerosi nemici, i quali gl'intimano di rendersi, facendogli conoscere, che le brigate di Briganti e Ruiz già si erano sbandate, e che Vial non potea soccorrerlo. Melendez dopo di aver tentato tutti i mezzi di salvare la sua brigata, fu costretto rendersi pel tradimento de' suoi colleghi, e per l'inazione del comandante in capo Vial.
Fin qui non trovo nessuna azione militare di Garibaldi che lo dimostri un mediocre Generale, esso disarmava e sottometteva tre brigate non con le armi e col valore, ma coi mezzi morali...
Garibaldi, nella Provincia di Reggio non trovando più soldati, non già da combattere, ma da farli vendere e tradire da' propri Generali, marcia alla volta di Napoli. Sul suo cammino raggiunge un corpo di esercito comandato dal generale Ghio, il quale avrebbe potuto batterlo e sbaragliarlo, invece, senza colpo ferire, gli consegna quel corpo di esercito di 12 in 14 mila uomini, e si mette agli ordini del Dittatore...! Caldarelli, in Cosenza senza neppure vedere i garibaldini, fa con un messo una capitolazione e marcia con la sua brigata di conserva col nemico.
Il campo di Salerno fu tolto per le male arti de' nemici del Re, e per la dabbenaggine degli amici; e così Garibaldi giunse a Napoli, senza aver bisogno delle sue masse!
In tutta questa campagna militare del Dittatore non trovo né scienza militare qualunque, né coraggio guerriero, ma soli mezzi morali, cioè viltà, infamie e tradimenti.
Trovo però che Garibaldi, ad onta che fosse in possesso del ricco Reame delle Due Sicilie, avendo acquistata forza morale e materiale; ad onta dell'ostinazione di Ritucci a non volerlo molestare, fece cattivissima prova militare nella guerra del Volturno. In effetti quando il 1° ottobre fu attaccato in campale battaglia mal diretta, e peggio eseguita, salvo il valore di speciali individui, egli si ridusse a domandar soccorso all'esercito Piemontese; non giudicando sufficienti i battaglioni sardi che avea a sua disposizione: tutto questo glielo rinfacciò poi pubblicamente il generale Cialdini. Son questi fatti inappuntabili, e volerli negare o travisare sarebbe impudenza.
Conchiudo con ripetere quello che dissi ragionando de' fatti di Calabria, cioè che Garibaldi sarà un grand'uomo, che supera in istrategia e coraggio i più rinomati Generali d'Europa; il fatto si è che nell'invasione del Reame di Napoli nulla operò di estraordinario militarmente; e tutto quello che egli fece l'avrebbe fatto un uomo qualunque dotato di talenti non estraordinarii se avesse avuto i suoi mezzi.
So che questo mio giudizio non andrà a sangue agli ammiratori ciechi di Garibaldi; ma dopo 15 anni gli uomini di senno non giudicano più sulle notizie a sensation del 1860, al contrario valutano gli uomini di quel tempo con la realtà de' fatti compiuti. Valga per tutto vedere oggi Garibaldi Deputato di Parlamento italiano.


(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).