venerdì 31 maggio 2013

La nobiltà in una società cristiana - Perpetuità della sua missione e del suo prestigio nel mondo contemporaneo. (Estratto dall'opera di Plinio Corrêa de Oliveira "Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana").




1. Clero, nobiltà e popolo

Nel Medioevo, la società era costituita da queste tre classi, ciascuna delle quali con incarichi, privilegi e onori speciali.
Al di là di questa divisione tripartita esisteva in quella società una netta distinzione tra governanti e governati, inerente all'intero corpo sociale, soprattutto all'interno di una Nazione. Al governo tuttavia partecipavano non solo il Re, ma anche il clero, la nobiltà e il popolo, ciascuno a suo modo e in proporzione.
Com'è noto, la Chiesa e lo Stato costituiscono entrambi società perfette, distinte l'una dall'altra e ciascuna sovrana nel proprio campo: la Chiesa in quello spirituale e lo Stato in quello temporale.
Questa distinzione non impedisce tuttavia che il clero possa partecipare alla funzione governativa nello Stato. Per capirne il motivo, è bene ricordare brevemente in che consiste la missione specificamente spirituale e religiosa che primariamente lo riguarda.
Dal punto di vista spirituale, il clero è l'insieme di persone alle quali incombe il dovere, nella Chiesa di Dio, di insegnare, governare e santificare; mentre ai semplici fedeli tocca di essere istruiti, governati e santificati. Questo è l'ordinamento gerarchico della Chiesa.
Numerosi sono i documenti del Magistero ecclesiastico che stabiliscono questa distinzione tra Chiesa docente e Chiesa discente. Lo afferma, per esempio, san Pio X nell'Enciclica Vehementer Nos:
"La Scrittura c'insegna, e la Tradizione dei padri ce lo conferma, che la Chiesa è il Corpo Mistico di Cristo, Corpo diretto da Pastori e Dottori - società pertanto di uomini, in cui alcuni presiedono agli altri con pieno e perfetto potere di governare, d'insegnare e giudicare. Quindi è una società per sua natura disuguale; cioè comprende un duplice ordine di persone: i Pastori e il gregge, ossia quelli che sono posti nei vari gradi della Gerarchia e la moltitudine dei fedeli. Questi due ordini sono talmente diversi che soltanto nella Gerarchia risiede il diritto e l'autorità di orientare e dirigere gli associati al fine della società, mentre il dovere della moltitudine sta nel lasciarsi governare e seguire con ubbidienza la direzione di quelli che la reggono".
Questa distinzione nella Santa Chiesa tra gerarchia e fedeli, governanti e governati, è affermata anche in più di un documento del Concilio Vaticano II:
"Se quindi i laici, per disegno divino, hanno Gesù Cristo per fratello (...),così anche hanno per fratelli coloro che, costituiti nel sacro ministero, insegnando, santificando e governando con l'autorità di Cristo, pascono la famiglia di Dio" (Lumen Gentium, § 32).
"I laici cerchino, come gli altri fedeli, di accettare con prontezza e cristiana ubbidienza tutto quanto i sacri Pastori, quali rappresentanti di Cristo, stabiliscono nella Chiesa agendo in quanto maestri e governanti" (Lumen Gentium, § 37).
"Ognuno dei Vescovi, ai quali è stata affidata la cura di ogni chiesa particolare, sotto l'autorità del Sommo Pontefice, in qualità di pastori, ordinari e immediati, pascono le loro pecore in nome del Signore, esercitando su di esse il proprio ufficio di insegnare, santificare e governare" (Christus Dominus, § 11).
Per l'esercizio del sacro ministero, spetta al clero innanzitutto la missione eccelsa e specificamente religiosa di provvedere alla salvezza e santificazione delle anime. Questa missione produce nella società temporale - come ha sempre prodotto e produrrà, fino alla consumazione dei secoli - un effetto sommamente benefico. Infatti santificare le anime comporta impregnarle dei principi della morale cristiana e guidarle nell'osservanza della Legge di Dio. Ora, un popolo ricettivo a questa influenza della Chiesa si trova ipso facto predisposto idealmente a ordinare le
sue attività temporali in modo da condurle con sicurezza ad un alto grado di abilità, di efficacia e di fioritura.
È celebre l'immagine, delineata da Sant'Agostino di una società in cui tutti i membri siano buoni cattolici. Immaginate - dice - "un esercito costituito da soldati come li forma la dottrina di Gesù Cristo, governatori, mariti, coniugi, genitori, figli, padroni, servi, Re, giudici, contribuenti ed esattori come li vuole la dottrina cristiana! Osino poi [i pagani] dire ancora che questa dottrina è opposta agli interessi dello Stato! Al contrario, bisogna riconoscere senza esitare che essa è una grande salvaguardia per lo Stato, quando viene osservata fedelmente". 
In questa prospettiva, toccava al clero porre e stabilire gli stessi fondamenti morali della civiltà perfetta, che è quella cristiana. Pertanto, l'insegnamento e le opere di assistenza e di carità, erano a carico della Chiesa, che svolgeva in tal modo, senza oneri per le casse pubbliche, i servizi abitualmente affidati, negli Stati laici contemporanei, ai Ministeri dell'Istruzione e della Sanità.
Si comprende così perché il clero, per lo stesso carattere soprannaturale e sacro della sua missione spirituale, come anche per i fondamentali ed essenziali effetti del retto esercizio di questa missione sulla società temporale, sia stato riconosciuto come la prima classe della società.
D'altra parte, il clero, essendo nell'esercizio della sua altissima missione indipendente da ogni potere temporale e terreno, è un fattore attivo nella formazione dello spirito, della mentalità della Nazione. Fra clero e Nazione esiste normalmente una vicendevole comprensione, fiducia e affetto che dà al primo possibilità ineguagliabili di conoscere e orientare le aspirazioni, le preoccupazioni, le sofferenze, insomma i sentimenti della popolazione; come pure gli aspetti della sua vita temporale che ne sono inseparabili. Riconoscere al clero diritto di parola e di voto nelle grandi e decisive assemblee nazionali è quindi, per lo Stato, un mezzo prezioso di auscultare i battiti del cuore.
Si comprende così perché, pur mantenendo la sua identità di fronte alla vita politica del Paese, durante la Storia elementi del clero siano stati frequentemente, per il potere politico, consiglieri ascoltati e rispettati, collaboratori validi nell'elaborazione di certe materie legislative e di certi orientamenti di governo.
Ma il quadro dei rapporti tra i clero e il potere politico non si limita a questo.
Il clero non è una società di angeli viventi nel Cielo, ma una società di uomini che, come ministri di Dio, vivono e agiscono in concreto su questa terra. Posto ciò, il clero fa parte della popolazione del Paese; di fronte ai suoi membri ha diritti e doveri specifici. La protezione di questi diritti, il retto compimento di questi doveri sono della massima importanza per entrambe le società perfette, ossia per la Chiesa e per lo Stato. Lo afferma con eloquenza Leone XIII nell'Enciclica Immortale Dei. (4)
Tutto questo mostra che il clero si distingue dalle altre componenti della Nazione come una classe sociale perfettamente definita che è parte viva dell'insieme del Paese e, in quanto tale, ha diritto di parola nella vita pubblica.
Al clero seguiva, come seconda classe, la nobiltà. Essa aveva essenzialmente un carattere militare e guerriero. Le spettava la difesa del Paese dalle aggressioni esterne e la difesa dell'ordinamento politico e sociale. Oltre a ciò, nelle loro terre, i signori feudali esercitavano contemporaneamente, senza oneri per la Corona, funzioni in qualche modo analoghe a quelle dei presidenti delle Camere, dei giudici e dei commissari di polizia odierni.
Come si vede, queste due classi erano fondamentalmente ordinate al bene comune e, come ricompensa dei loro gravi e specifici incarichi, avevano diritto a onori e vantaggi corrispondenti; fra questi, l'esenzione dalle imposte.
A sua volta, il popolo era la classe dedicata al lavoro produttivo. Erano suoi privilegi il partecipare alla guerra in una misura molto minore che la nobiltà, e, quasi sempre, l'avere l'esclusiva dell'esercizio delle professioni più redditizie, come il commercio e l'industria. I suoi membri non avevano normalmente nessun obbligo speciale verso lo Stato. Essi lavoravano per il bene comune soltanto nella misura in cui ognuno favoriva i suoi legittimi interessi personali e famigliari. Per questo era la classe non favorita da speciali onorificenze e sulla quale ricadeva di conseguenza l'onere delle imposte.
"Clero, nobiltà e popolo". Questa trilogia fa venire il mente in maniera naturale le assemblee rappresentative che caratterizzavano il funzionamento di molte monarchie del periodo medioevale e dell'Ancien Régime: le Cortes in Portogallo e in Spagna, gli Stati Generali in Francia, il Parlamento in Inghilterra, etc.
In queste assemblee c'era una rappresentanza nazionale autentica che rispecchiava fedelmente l'organicità sociale.
Nell'Epoca dei Lumi, nuove teorie di filosofia politica e sociale cominciarono a conquistare certe classi dirigenti dei Paesi europei. Allora, per effetto di una malintesa nozione di libertà, il Vecchio Continente cominciò ad avviarsi verso la distruzione dei corpi intermedi, la totale laicizzazione dello Stato e della Nazione, e la formazione di società anorganiche, rappresentate da un criterio unicamente quantitativo: il numero dei voti.
Questa trasformazione, che dalle ultime decadi del secolo XVIII si estese fino ai nostri giorni, ha facilitato pericolosamente il fenomeno del decadimento del popolo a massa, così saggiamente descritto da Pio XII.  

2. Decadenza dell'ordinamento medioevale nei tempi moderni

Come abbiamo detto nel capitolo II, questa organizzazione della società, contemporaneamente politica, sociale ed economica, si è dissolta nel corso dei tempi moderni (secoli XV-XVIII). A partire da allora, le successive trasformazioni politiche e socioeconomiche hanno teso a confondere tutte le classi e a negare interamente o quasi interamente al clero ed alla nobiltà il riconoscimento di una situazione giuridica speciale. Dura contingenza davanti alla quale queste classi non devono chiudere gli occhi con pusillanimità, poiché questo sarebbe indegno sia di veri ecclesiastici che di veri nobili.
Pio XII, in una delle sue magistrali allocuzioni al Patriziato ed alla Nobiltà romana, descrive questo stato di cose con impressionante precisione:
"In primo luogo, guardate intrepidamente, coraggiosamente, la realtà presente. Ci sembra superfluo d'insistere per richiamare alla vostra mente ciò che, or sono tre anni, fu l'oggetto delle Nostre considerazioni; Ci parrebbe vano e poco degno di voi il velarlo con prudenti eufemismi, specialmente dopo che le parole del vostro eloquente interprete Ci hanno reso una così chiara testimonianza della vostra adesione alla dottrina sociale della Chiesa e ai doveri che da essa derivano. La nuova Costituzione d'Italia non vi riconosce più, come classe sociale, nello Stato e nel popolo, alcuna particolare missione, alcun attributo, alcun privilegio". 
Questa situazione, osserva il Pontefice, è il punto terminale di tutto un lungo concatenamento di fatti che dà l'impressione di un certo qual "fatale andare".
>Di fronte alle "assai diverse forme di vita"  che oggi si costituiscono, i membri della nobiltà e delle élites tradizionali non debbono perdersi in inutili lamentele né ignorare la realtà, ma, al contrario, prendere chiaramente posizione davanti ad esse. Questo è il comportamento tipico delle persone di valore: "Mentre i mediocri nell'avversa fortuna non fanno che tenere il broncio, gli spiriti superiori sanno, secondo l'espressione
classica, ma in un senso più elevato, mostrarsi 'beaux joueurs' , conservando imperturbabilmente il loro portamento nobile e sereno".   

3. La nobiltà deve mantenersi come classe dirigente nel contesto sociale, profondamente trasformato, del mondo attuale

Concretamente, in cosa consiste questo riconoscimento oggettivo e virile di condizioni di vita sulle quali "si può pensare come si vuole"  - e che quindi in nessun modo si è obbligati ad applaudire - ma che costituiscono una realtà palpabile nella quale si è obbligati a vivere?
La nobiltà e le élites tradizionali hanno perso la loro ragione di esistere? Devono rompere con le loro tradizioni, col loro passato? Insomma, devono dissolversi nella plebe, confondendosi con essa, spegnendo tutto ciò che le famiglie nobili conservano di alti valori di virtù, di cultura, di stile e di educazione?
Una lettura affrettata dell'allocuzione al Patriziato ed alla Nobiltà romana del 1952 parrebbe condurre ad una risposta affermativa. Questa risposta però sarebbe in palese disaccordo con quanto insegnano analoghe allocuzioni pronunciate in anni precedenti, come pure con passi di più di un'allocuzione dei Pontefici posteriori a Pio XII.
Questo apparente disaccordo risulta specialmente dai passi sopra citati, come pure da altri che lo saranno più avanti. 
Eppure non è questo il pensiero del Pontefice, espresso nella stessa allocuzione del 1952. Secondo lui, le élites tradizionali devono continuare ad esistere e a svolgere un'alta missione: "Può ben essere che l'uno o l'altro punto nel presente stato di cose vi dispiaccia. Ma nell'interesse e per l'amore del bene comune, per la salvezza della civiltà cristiana, nella crisi che, lungi dall'attenuarsi, sembra piuttosto andare crescendo, state fermi sulla breccia, nella prima linea di difesa. Le vostre qualità particolari possono trovare là anche oggi ottimo impiego. I vostri nomi, che risuonano altamente nei ricordi fin del lontano passato, nella storia della Chiesa e della società civile, richiamano alla memoria figure di uomini grandi e fanno echeggiare nelle vostre anime la voce ammonitrice del dovere di mostrarvene degni".
Tuttavia, ciò risulta ancor più chiaramente nell'allocuzione al Patriziato ed alla Nobiltà romana del 1958, in un passo parzialmente già citato: 
"Voi che, all'inizio degli anni nuovi, non mancavate di renderci visita, ricordate certamente la premurosa sollecitudine, con cui Ci adoperammo per spianarvi la via verso l'avvenire, che si annunziava fin da allora aspra per i profondi sconvolgimento e le trasformazioni incombenti sul mondo (...). Ricorderete in particolare ai figli ed ai nipoti come il papa della vostra infanzia e fanciullezza non omise di indicarvi i nuovi uffici che imponevano alla nobiltà le mutate condizioni dei tempi; che, anzi, più volte vi spiegò come la laboriosità sarebbe stata il titolo più solido e degno per assicurarvi la permanenza tra i dirigenti della società; che le disuguaglianze sociali, mentre vi ponevano in alto, vi prescrivevano particolari doveri a vantaggio del bene comune; che dalle classi più elevate potevano discendere nel popolo grandi vantaggi o gravi danni; che i mutamenti delle forme di vita possono, ove si voglia, accordarsi armonicamente con le tradizioni, di cui le famiglie patrizie sono depositarie".
Il Pontefice quindi non auspica la scomparsa della nobiltà dal contesto sociale profondamente trasformato nel nostro tempo. Al contrario, invita i suoi membri a intraprendere gli sforzi necessari per mantenersi nella posizione di classe dirigente, anche nell'ampio quadro delle categorie alle quali spetta guidare il mondo attuale. E, in questo desiderio, egli lascia trasparire una sfumatura peculiare: la permanenza della nobiltà fra tali categorie svolga un orientamento tradizionale, abbia cioè il valore di una continuità, appunto il senso di una "permanenza", ossia di una fedeltà a uno dei princìpi costitutivi della nobiltà nei secoli passati: il legame tra "le disuguaglianze sociali" che "vi ponevano in alto" e i suoi "particolari doveri a vantaggio del bene comune".
Così, "i mutamenti delle forme di vita possono, ove si voglia, accordarsi armonicamente con le tradizioni, di cui le famiglie patrizie sono depositarie".
Pio XII insiste sulla permanenza della nobiltà nel mondo postbellico, purché essa si dimostri veramente insigne per le qualità morali che devono caratterizzarla: "Talora, riferendoCi alla contingenza del tempo e degli eventi, vi esortammo a prendere parte attiva al risanamento delle piaghe prodotte dalla guerra, alla ricostruzione della pace, alla rinascita della vita nazionale, rifuggendo da 'emigrazioni' od astensioni; perché nella nuova società restava pur sempre largo posto per voi, se vi foste mostrati veramente élites ed optimates, vale a dire insigni per serenità di animo, prontezza di azione, generosa adesione".
 
4. Adattandosi prudentemente al mondo moderno, la nobiltà non scompare nel livellamento generale


Conformemente a queste osservazioni, un adeguato adattamento al mondo moderno, molto più ugualitario di quanto lo era l'Europa prima della II Guerra Mondiale, non significa per la nobiltà rinnegare se stessa né le sue tradizioni e sparire nel livellamento generale; ma, al contrario, significa permanere coraggiosamente come continuatrice di un passato ispirato a princìpi perenni, fra i quali il Pontefice mette in rilievo il più elevato, la fedeltà all' "ideale cristiano": "Ricorderete altresì i Nostri incitamenti a bandire l'abbattimento e la pusillanimità di fronte all'evoluzione dei tempi, e le esortazioni ad adattarvi coraggiosamente alle nuove circostanze, col fissare lo sguardo all'ideale cristiano, vero e indelebile titolo di genuina nobiltà".
Questo è il "coraggioso adattamento" che tocca alla nobiltà attuare "di fronte all'evoluzione dei tempi".
Di conseguenza, la nobiltà non deve rinunciare alla gloria avita ereditata, ma conservarla per le proprie stirpi e, ancor più, per attuarla a beneficio del bene comune con il "valido contributo" che essa "è ancora in grado di prestarle": "Ma perché, diletti figli e figlie, vi dicemmo, ed ora vi ripetiamo questi avvertimenti e raccomandazioni, se non per premunire voi stessi da amari disinganni, per serbare ai vostri casati l'eredità delle avite glorie, per assicurare alla società, alla quale appartenete, il valido contributo che voi siete ancora in grado di prestarle?".
 
5. Per corrispondere alle attese che in essa sono riposte, la nobiltà deve brillare per i suoi doni specifici


Dopo aver messo in rilievo ancora una volta - e a che giusto titolo! - l'importanza della fedeltà della nobiltà alla morale cattolica, Pio XII delinea un affascinante quadro delle caratteristiche con le quali la nobiltà deve contribuire per corrispondere alle attese riposte in essa. È specialmente importante in questo studio notare che queste qualità devono brillare nella nobiltà come "frutto di lunghe tradizioni famigliari", evidentemente ereditarie, che costituiscono, con questa sfumatura, qualcosa di "proprio", di specifico della classe nobiliare:
"Tuttavia - Ci domanderete forse - che cosa di concreto dovremo fare per conseguire un così alto scopo?
"Innanzitutto dovere insistere in una condotta religiosa e morale irreprensibile, specialmente nella famiglia, e praticare una sana austerità di vita. Fate che le altre classi si accorgano del patrimonio di virtù e di doti, a voi proprie, frutto di lunghe tradizioni famigliari. Tali sono la imperturbabile fortezza di animo, la fedeltà e la dedizione alle causa più degne, la pietà tenera e munifica verso i deboli e i poveri, il tratto prudente e delicato nei difficili e gravi affari, quel preciso personale, quasi ereditario nelle nobili famiglie, per cui si riesce a persuadere senza opprimere, a trascinare senza sforzare, a conquistare senza umiliare gli animi altrui, anche degli avversari e degli emuli. L'impiego di queste doti e l'esercizio delle virtù religiose e civiche sono la risposta più convincente ai pregiudizi ed ai sospetti, poiché manifestano l'intima vitalità dello spirito, da cui scaturiscono ogni vigore esterno e la fecondità delle opere".
Il Pontefice mostra qui, ai suoi illustri uditori, un modo adeguato di replicare alle invettive dell'ugualitarismo volgare dei nostri tempi, contrario alla sopravvivenza della classe nobiliare.  

6. Perfino quelli che ostentano disprezzo per le antiche forme di vita non sono del tutto insensibili al lustro nobiliare

Pio XII rileva il "vigore e fecondità di opere" come "caratteri della genuina Nobiltà", e incita quest'ultima a cooperare al bene comune avvalendosi di tali caratteristiche:
"Vigore e fecondità di opere! Ecco due caratteri della genuina nobiltà, dei quali i segni araldici, impressi nel bronzo e nel marmo, sono perenne testimonianza, perché rappresentano quasi la visibile trama della storia politica e culturale di non poche gloriose città europee. È vero che la moderna società non suole attendere con preferenza dal vostro ceto il 'la' per dare principio alle opere ed affrontare gli eventi; tuttavia essa non aiuta la cooperazione degli ingegni eletti che sono tra voi, poiché una saggia porzione conserva un giusto rispetto alle tradizioni e pregia l'alto decoro, ove sia fondato; mentre, anche l'altra parte della società, che ostenta noncuranza e forse disprezzo per le vetuste forme di vita, non va del tutto immune dalla seduzione del lustro; tanto è vero che si sforza di creare nuove fogge di aristocrazie, talune degne di stima, altre appoggiate su vanità e frivolezze, paghe soltanto di appropriarsi gli elementi scadenti delle antiche istituzioni".
In questo passo, Pio XII sembra confutare una possibile obiezione formulata da aristocratici scoraggiati alla vista dell'ondata di ugualitarismo che già allora si estendeva nel mondo moderno. Questo mondo, argomenterebbero tali aristocratici, disprezza la nobiltà e ne rigetta la collaborazione.
A questo proposito, il Pontefice stima che nella società moderna possono distinguersi due tendenze davanti alla nobiltà: l'una "conserva un giusto rispetto alle tradizioni e pregia l'alto decoro, ove sia fondato", per cui "non aiuta la cooperazione degli ingegni eletti che sono tra voi". L'altra tendenza esistente nella società, che ostenta "noncuranza e forse disprezzo per le vetuste forme di vita, non va del tutto immune dalla seduzione del lustro". E Pio XII riferisce significativi indizi di questa disposizione d'animo. 

7. Le virtù specifiche dei nobili si comunicano a qualsiasi mestiere che esercitano


Prosegue il Pontefice: "È però chiaro che il vigore e la fecondità delle opere non può manifestarsi sempre con forme ormai tramontate. Ciò non significa che sia stato ristretto il campo alla vostra attività; è stato, al contrario, ampliato nella totalità delle professioni e degli uffici. Tutto il terreno professionale è aperto anche a voi: in ogni suo settore potete essere utili per rendervi insigni: negli uffici della pubblica amministrazione e nel governo, nelle attività scientifiche, culturali, artistiche, industriali, commerciali".
Il Sommo Pontefice allude, in questo passo, al fatto che, nel regime politico e socio-economico in vigore prima della Rivoluzione francese, certe professioni non erano generalmente esercitate dalla nobiltà in quanto considerate ad essa inferiori. Il loro esercizio comportava perfino, a volte, la perdita della condizione nobiliare. Possiamo ad esempio menzionare il commercio, riservato in molti luoghi, di solito, alla borghesia ed alla plebe.
Queste restrizioni andarono cadendo nel corso dei secoli XIX e XX, fino a sparire interamente nei nostri giorni.
Pio XII sembra tener presente, in questo passo, che gli sconvolgimento delle due Guerre Mondiali, che hanno segnato questo secolo, avevano rovinato economicamente un considerevole numero di stirpi nobiliari, i cui membri furono così ridotti all'esercizio di professioni subalterne, inadatte non soltanto alla nobiltà ma anche all'alta e media borghesia. Si può perfino parlare di proletarizzazione di certi nobili.
Di fronte a una realtà così dura, Pio XII esorta queste stirpi a non dissolversi nella banalità dell'anonimato ma al contrario, praticando le proprie virtù tradizionali, ad agire con "vigore e fecondità" e a comunicare così una caratteristica specificamente nobile a qualsiasi lavoro che esercitino per propria scelta, o che siano obbligati ad accettare in conseguenza della dura necessità. In questo modo la nobiltà tornerà ad essere compresa e rispettata anche nelle condizioni più penose! 

8. Un esempio sublime: il matrimonio di due membri della stirpe regale nel cui focolare nacque e visse l'Uomo-Dio


Questo elevato insegnamento, che prende come esempio le funzioni di amministrazione pubblica del governo, come pure altre esercitate abitualmente dalla borghesia, fa pensare anche al matrimonio di due membri della stirpe regale di Davide, nel cui focolare, contemporaneamente principesco e operaio, nacque e visse durante trent'anni l'Uomo-Dio! 
Troviamo questa riflessione nell'allocuzione di Pio XII alla Guardia Nobile nel 1939: "Nobili voi eravate già, anche prima di servire Iddio e il Suo Vicario sotto lo stendardo bianco e oro. La Chiesa, ai cui occhi l'ordine della società umana riposa fondamentalmente sulla famiglia, per umile che sia, non disistima quel tesoro familiare, che è la nobiltà ereditaria. Si può dire anzi che Gesù Cristo stesso non l'ha disprezzata: l'uomo, cui affidò l'incarico di proteggere la Sua adorabile Umanità e la Sua Vergine Madre, era di stirpe reale: 'Joseph, de domo David' (Luc., I, 27). Ed è perciò che il Nostro Antecessore Leone XII, nel Chirografo di riforma del Corpo del 17 Febbraio 1824, attestava che la Guardia Nobile è 'destinata a prestare servizio più prossimo ed immediato alla Nostra stessa Persona e costituente un Corpo, tanto per il fine della sua istituzione, che per la qualità degli individui che la compongono, è il primo e più rispettabile di ogni arma del Nostro Principato'". 

9. La più alta funzione sociale della Nobiltà: conservare, difendere e diffondere gli insegnamenti cristiani contenuti nelle nobili tradizioni che la distinguono

Nella sua allocuzione del 1958, il Pontefice si riferisce al dovere di resistenza morale alla corruzione moderna, come còmpito generico delle "classi elevate, tra cui è la vostra", ossia quella del Patriziato e della Nobiltà romana: "Vorremmo infine che il vostro influsso nella società le risparmiasse un grave pericolo proprio dei tempi moderni. È noto che la società progredisce e si eleva quando le virtù di una classe si diffondono nelle altre; decade, al contrario, se si trasferiscono dall'una alle altre i vizi e gli abusi. Per la debolezza dell'umana natura si verifica più sovente la diffusione di questi, ed oggi con tanto maggiore celerità, quanto più facili sono i mezzi di comunicazione, l'informazione ed i contatti personali, non solo fra nazione e nazione, ma tra continenti. Accade nel campo morale ciò che si verifica in quello della sanità fisica: né le distanze né le frontiere impediscono ormai più che un germe epidemico raggiunga in breve tempo lontane regioni. Ora le classi elevate, tra cui è la vostra, a causa delle molteplici relazioni e dei frequenti soggiorni in Paesi dallo stato morale differente, e forse anche inferiore, potrebbero divenire facili veicoli di traviamenti nei costumi".
Il Santo Padre delinea più specificamente le caratteristiche di questo dovere che spetta alla Nobiltà: è un dovere di resistenza che va compiuto innanzitutto nel campo dottrinale, ma che si estende anche al terreno dei costumi.
"Per quanto a voi spetta, vegliate e adoperatevi, affinché le perniciose teorie ed i perversi esempi non riscuotano giammai la vostra approvazione e simpatia, tantomeno trovino in voi favorevoli veicoli e focolai d'infezione".
Questo dovere è parte integrante del "profondo rispetto alle tradizioni che coltivate e con cui intendete distinguervi nella società". Queste tradizioni sono "preziosi tesori" che spetta alla nobiltà "serbare in mezzo al popolo".
"Può essere questa la più alta funzione sociale dell'odierna nobiltà; certamente è il maggior servizio, che voi potete rendere alla Chiesa ed alla Patria",  dice il Sommo Pontefice.
Conservare, difendere e diffondere gli insegnamenti cristiani contenuti nelle nobili tradizioni che la contraddistinguono: quale uso più elevato potrebbe fare la nobiltà dello splendore dei secoli passati, che ancor oggi la illumina e la pone il rilievo?
 
10. Dovere della nobiltà: non dissolversi nell'anonimato ma al contrario resistere all'ondata dell'egualitarismo moderno


Pio XII insiste paternamente perché la nobiltà non si lasci dissolvere nell'anonimato verso il quale vogliono trascinarla l'indifferenza e l'ostilità di molti, sotto l'ondata del rude ugualitarismo moderno. Inoltre le addita un'altra funzione, anch'essa di grande portata: in virtù della presenza operante delle tradizioni che coltiva e irradia, la nobiltà deve contribuire a preservare i valori tipici dei differenti popoli da un cosmopolitismo omologatore.
"Esercitare dunque le virtù ed impiegare a comune vantaggio le doti proprie del vostro ceto, eccellere nelle professioni ed attività prontamente abbracciate, preservare la nazione dalle esterne contaminazioni: ecco le raccomandazioni che Ci sembra dovervi porgere in quest'inizio di nuovo anno".
Nel chiudere con paterne benedizioni questa così espressiva allocuzione, il Pontefice fa ancora uno speciale accenno in favore della continuità della nobiltà, ricordando che spetta ai fanciulli di nobile stirpe, lì presenti, il grave e onorifico dovere di continuare, in futuro, le più degne tradizioni della nobiltà: "Affinché l'Onnipotente convalidi i vostri propositi e adempia i Nostri voti, esaudendo le suppliche che pertanto gli rivolgiamo, discenda su di voi tutti, sulle vostre famiglie, particolarmente sui vostri bambini, continuatori nel futuro delle vostre più degne tradizioni, la Nostra Apostolica Benedizione".
 
11. Nobiltà: categoria particolarmente insigne nella società umana - Essa dovrà renderne particolare conto a Dio


Un'applicazione di questi ricchi e densi insegnamenti alla condizione contemporanea della nobiltà possiamo trovarla nell'allocuzione di Giovanni XXIII al Patriziato ed alla Nobiltà romana del 9 gennaio 1960 (l'edizione della Tipografia Poliglotta Vaticana ne riporta solo un riassunto):
"Il Santo Padre si compiace di rilevare che la distinta udienza richiama quello che è il consorzio umano nella sua interezza: una molteplice varietà di elementi, ciascuno con la propria personalità ed efficienza come fiori sotto la luce del sole, e meritevole di rispetto ed onore quali che sia la entità e proporzione.
"Il fatto, poi, di appartenere ad un ordine della società umana, particolarmente distinto, mentre richiede una adeguata considerazione, è richiamo per coloro che ne fanno parte a maggiormente dare, come si conviene a chi ha più ricevuto, e che di tutto dovrà rendere conto, un giorno, a Dio.
"In tal modo operando, si coopera alla mirabile armonia del regno del Signore, nell'intimo convincimento che anche quel che di notevole c'è stato nella storia di ogni famiglia deve rafforzare l'impegno - e proprio in conformità alla particolare condizione sociale -per il sublime concetto della fraternità cristiana e per l'esercizio
di singolari virtù: la pazienza dolce e mite, la purezza dei costumi, l'umiltà e, soprattutto, la carità. Soltanto così conseguirà per i singoli un grande ed inestinguibile onore!
"Da ciò deriva che, domani, i giovani virgulti di oggi benediranno i padri e dimostreranno che il pensiero cristiano è stato ispirazione ideale, norma di condotta, generosità, spirituale bellezza.
"Queste stesse disposizioni serviranno a sostenere anche le immancabili sventure: giacché la croce sta presso ogni dimora, dalla più umile casa di campagna, al palazzo maestoso. Tuttavia è ben chiaro e naturale che si debba passare per questa scuola di dolore, nella quale Nostro Signore Gesù Cristo ci è insuperabile Maestro.
"Ad avvalorare le migliori disposizioni dei presenti il Sommo Pontefice annunzia la sua Benedizione per ognuno e per le famiglie, invocando le divine assistenze segnatamente là ove c'è una sofferenza e maggiore è la necessità. Aggiunge l'augurio paterno di comportarsi in modo da non vivere - come suol dirsi - alla giornata, ma di sentire ed esprimere, con la vita di ogni giorno, pensieri ed opere secondo il Vangelo, dal quale sono state segnate le vie luminose della civiltà cristiana. Chi agisce in tal modo sa già adesso che anche il suo nome sarà ripetuto, nel futuro, con rispetto ed ammirazione".
Il ruolo specifico della nobiltà contemporanea è ricordato anche da Giovanni XXIII nell'allocuzione al Patriziato ed alla Nobiltà romana del 10 gennaio 1963:
"Questo proposito espresso a nome dei presenti membri del patriziato e della nobiltà romana dal loro autorevole interprete è quanto mai consolante e la sua attuazione porterà pace e letizia e benedizione.
"Chi ha più ricevuto, chi più emerge si trova maggiormente in condizioni di dare buoni esempi, ognuno deve dare il suo contributo, i poveri, gli umili, i sofferenti, e quelli che hanno ricevuto numerose grazie e godono di una situazione che porta con sé particolari e gravi responsabilità".

giovedì 30 maggio 2013

Grazie al Gallo

normal_Funerali_don_gallo_Genova0048
 
 
Non avrei mai creduto che un giorno avrei ringraziato Don Gallo. La morte, però, ti costringe a prendere una posizione, a stare di qua o di là; la morte non dialoga, non “cerca ciò che unisce”, non le serve perché sa benissimo che ciò che ci unisce in questa vita è proprio lei. La morte non è solo per il morto, la morte è anche per noi, anzi forse è più per noi che per lui: noi non possiamo sapere quale confronto ci sia stato tra il morente e Dio, ma possiamo ben renderci conto se la sua dipartita ci ha posto dinanzi all’esistenza del Creatore e che somme ne abbiamo tratto, per il nostro destino e per i Suoi disegni per noi. La morte non è un giudizio sul morto, è un giudizio su di noi, alla fine. Ed è parametro di giudizio sull’agire degli altri, nello specifico – ché qui voglio arrivare – su come gli altri intendano un cammino di Verità quale è la Fede.
Ora, i funerali di Don Gallo – per questo lo ringrazierò sempre – mi hanno fatto comprendere tante cose.
Mi hanno fatto comprendere ad esempio come è facile mettere il rispetto umano al di sopra del Corpo di Cristo, e penso senza troppi giri di parole all’Eucaristia che il Cardinal Bagnasco ha ritenuto di porgere a Valdimiro Guadagno ed al suo collega che neppure mi ricordo come si chiama. Per quale ragione un uomo di Chiesa, un principe della Chiesa, avrebbe dovuto dare l’Eucaristia, il Corpo di Cristo, ad un peccatore manifesto ed impenitente? Che Il Sig. Guadagno sia peccatore impenitente alla luce del Vangelo e del Magistero è indiscutibile, si spera. O no? Poi uno ci pensa meglio e si ricorda che già Ruini aveva comunicato Berlusconi e Vendola: perché dunque Bagnasco non può dare l’Ostia a Vladi e non so come si chiama quell’altro?
Ci sono stati molti gesti, molti silenzi di Bagnasco e della CEI, in questi anni, che hanno suscitato dubbi, hanno provocato interpretazioni rassicuranti (del tipo: “ma no, vedrai che c’è un altro fine”, “ma cosa ne sai tu cosa c’è dietro”, “è tutto per il bene” e via ipotizzando). Per il “caso Don Gallo” la lettura tranquillante era che la Curia non prendesse provvedimenti per evitare di dargli ulteriore visibilità, per non farne l’ennesimo (presunto) martire della “Chiesa oscurantista”; e qualche fondamento, questa lettura, ce l’aveva. Ma forse più fondate erano le ragioni del Cardinal Siri, che, bandita ogni tattica, spedì il Gallo a cantar fuori da Genova e tanti saluti, a tutela della salute delle anime, così come da un cesto di funghi buoni si scarta quello che buono pareva ed era invece avvelenato. Oggi non s’usa più, ad oggi gli ultimi illustri sospesi a divinis sono stati Padre Pio e, qualche anno dopo, Monsignor Lefevbre. Poi, sacramenti in libertà. Ma mentre ancora ci si stava chiedendo cosa passasse per la testa di Bagnasco e compagni, ecco che alle galliche esequie il nostro dava l’Eucaristia a Guadagno, sollevandoci così dal tedio di speculazioni alla camomilla, una sorta di benzodiazepine intellettuali che molti cattolici si autopropinano in dosi massicce da qualche tempo a questa parte. Bene, Monsignore, non sono certo io che devo insegnarLe quando amministrare un Sacramento; manco Luxuria, però.
Un’altra cosa che ho imparato dal funerale del “prete degli ultimi”, è che certi “ultimi” hanno proprio tanta voglia d’essere primi su questa terra. Non mi pare che il Vangelo dica questo, ma tant’è. Quindi il problema non è se la prostituta abortisce, o se il trans continua a transeggiare: esiste una mezza specie di “diritto alla redenzione”, che, se non offerta spontaneamente, può essere ottenuta coattivamente mediante il ricorso ai tribunali mediatici, ove operano giudici di provata imparzialità e soprattutto fini conoscitori della dottrina cattolica quali Lerner, Formigli, Santoro, Augias, per il mezzo del deposito della propria faccia davanti ad una telecamera. Certo, erano prostitute pure quelle che Don Benzi raccoglieva dalla strada, ma quelle non erano ultime abbastanza, perché hanno deciso di cambiare vita quindi non sono più ultime. Sarebbero ultimi pure i poveri che vengono assistiti da centinaia di sacerdoti e suore in tutta Italia, ma molti di quei poveri non sono comunisti e non sfilano con i Radicali, perciò non sono poi così ultimi. Erano ultimi, ora che ci penso. anche gli orfanelli di Don Bosco, ma quelli on si facevano le canne ed uno è pure diventato Santo, perciò altro che ultimi, quelli erano beghini di Parrocchia. Gli ultimi veri, quelli di Don Gallo, i trans da vetrina, le prostitute che abortiscono e via dicendo, hanno bisogno di essere primi qua, subito, lo pretendono e non gli si può dire mica di no. Cominciamo con una concessione da poco, tipo la Santa Comunione: poi, da lì ad una legge sulle coppie gay o sulla legalizzazione della prostituzione è un attimo. E ci precederanno di gran lunga nel regno dei media.
Altra lezione è stata la composta, signorile, tollerante reazione della segretaria (sì, “segretaria”) di Don Gallo che, all’alzarsi delle contestazioni a Bagnasco che s’è permesso addirittura di ricordare Monsignor Siri (che nel frattempo, immagino nella tomba stesse a 15000giri/minuto), ha invitato gli ultimi, che s’erano un po’ risentiti, a placarsi perché, come Don Gallo insegnava, bisogna ascoltare tutte le voci. Nel grande abbraccio della tolleranza, dunque, c’è posto persino per un Cardinale che in Chiesa si permette un’omelia, diciamo così, un po’ sopra le righe; un tizio impaludato senza manco una sciarpa arcobaleno che attacca a parlare di cose che poco hanno a che vedere con la politica o con la “solidarietà companera”. Tocca sentire anche questo, e va sopportato, Don Gallo ce l’ha insegnato e pazienza se gli ultimi di Don Gallo, in un momento di defaillance evidentemente dovuto alla commozione, se ne sono dimenticati ed hanno protestato.
Ho notato un prete antimafia, alle galliche esequie, e me ne sono un po’ meravigliato, perché in quello stesso giorno a Palermo veniva beatificato Don Pino Puglisi, un prete che la mafia l’ha sfidata a sorriso aperto, sorriso al quale la mafia ha risposto come sa fare lei, con una pallottola silenziata alla nuca di notte. Questo prete antimafia, questo che era ai funerali, intendo, non Don Puglisi, non ha perso occasione davanti alle telecamere di reclamare una Chiesa “libera dal potere” e bla bla bla, e manco una parola su quel sacerdote che è stato ammazzato sotto casa una notte di tanti anni fa. Ma del resto, se Bagnasco era a Genova e non a Palermo, perché Don Ciotti avrebbe dovuto essere a Palermo e non a Genova? Don Ciotti mi ha insegnato che non conta la testimonianza, conta il testimonial: e dinanzi al personaggio Don Gallo, così carismatico, così cane sciolto, il Beato Don Puglisi, siamo franchi, non regge il confronto e Don Ciotti l’ha subito capito. Don Puglisi era povero nella Chiesa, Don Gallo pretendeva povertà dalla Chiesa, e decisamente il secondo era più up to date del primo. Quindi, è il trend che va agganciato, e poi ‘ste beatificazioni sono cose d’altri tempi. Meglio intitolargli una cooperativa, piuttosto.
Ho imparato anche tante altre cose, ma quelle che ho riportato bastano e avanzano. Ma un’altra la dico. Ho imparato che la Chiesa è qualcosa di immenso, una storia millenaria che non Galli né Bagnaschi possono sovvertire. Questa storia ce la stiamo perdendo, dietro i testimonial, dietro gli ultimi ma belli, dietro ai preti rossi ed ai priori Bianchi, dietro al rispetto umano per chi non ha alcun rispetto del Divino. Ma è una storia ancora forte, ancora viva e lo prova proprio il fatto che su Don Gallo tutti i nemici della Chiesa hanno parlato e pontificato, commemorato; significa che hanno bisogno di figure come il prete comunista preservativo e canne, che devono ancora attaccare e fuorviare, confondere e piegare, perché sanno che la vittoria contro la Sposa di Cristo è lontana (a dire il vero, sarebbe una vittoria impossibile, ma loro non se ne fanno una ragione e insistono). Qualcuno è confuso e piegato, qualcuno aspetta attorno ad una fiammella accesa che la notte passi e canti il gallo. Con la “g” piccola e, possibilmente, non tre volte.
 
 Massimo Micaletti 
 
Fonte:
 

Paganesimo svelato

Saint_Boniface
 
 
Non mancano tra i filosofi e gli studiosi (o presunti tali) di oggi e di ieri coloro che pongono una serrata critica al Cristianesimo definendolo foriero di disvalori che avrebbero provocato la degenerazione e la distruzione di una società occidentale migliore che ebbe le sue fondamenta nel paganesimo greco-romano e germanico.  Per rispondere a tale accusa sarà bene andare a rispolverare i veri fondamenti “teologici” (se di teologia in questo caso si può parlare) e morali del paganesimo per poter mettere questa loro presunta capacità di instaurare una civiltà migliore al banco di prova:
 
  • Il paganesimo è naturalista; il termine ultimo dell’uomo è infatti puramente terreno non essendovi nulla di superiore ad una società che assorbe completamente la persona e utilizza la religione come instrumentum regni (si veda a tal riguardo la divinizzazione degli imperatori romani).
 
  • Il paganesimo è liberale, dottrinalmente scettico e moralmente relativista; la sua tolleranza nei confronti delle altre religioni (finchè queste non avevano la pretesa di verità assoluta) era dovuta a ciò che filosoficamente era proprio dei pagani, ossia opinionismo liberale, pluralismo e scetticismo. Essendo loro convinti che l’unico “dogma” fosse il non poter conoscere appieno la verità non potevano fare a meno da un lato di accogliere qualsiasi divinità nel loro immenso pantheon e dall’altro di perseguitare coloro (i cristiani) che sostenevano l’esistenza di una sola Verità e la capacità dell’uomo di conoscerla.
 
  • Il paganesimo è nichilista; esso infatti, negando la capacità dell’uomo di conoscere la realtà con il suo scetticismo filosofico, cade inevitabilmente nel nichilismo in quanto rimane solo il nulla essendo l’essere non conoscibile teoreticamente.
 
  • Il paganesimo è stoico; nega la libertà umana e la responsabilità in nome di un fato che sovrasta tutto e tutti disintegrando con esse ogni tipo di morale. Esso inoltre toglie ogni valenza alla conoscenza di tipo intellettivo per affermare solo quella di tipo sensitivo (trattasi del cosìdetto sensismo), attentando così alla metafisica aristotelicamente intesa.
 
  • Il paganesimo è etnista; esso infatti fa mantenere alla religione e alla divinità un carattere
“nazionale” ed etnico (un po’ come il più intransigente giudaismo talmudico, con il quale guardacaso condividerà la persecuzione dei cristiani) ritenendo che i popoli debbano restare nella loro religione, convinto com’era che alla fine tutto ciò che veneravano gli uomini fosse una cosa sola. Nell’operazione di recupero di tale concezione da parte di “filosofi” del XIX e XX secolo (Chamberlain, Rosenberg, Ciola ecc. ecc.) non sono mancate aperte concessioni al razzismo biologico.
 
  • Il paganesimo è assurdo e contrario alla retta ragione; contraddice la concezione di Dio come Essere Infinito e Unico ponendo in maniera illogica e irrazionale l’esistenza di più infiniti che non possono esistere in quanto si escluderebbero vicendevolmente (infatti un infinito sommato ad un altro infinito da come risultato in ogni caso un infinito e mai due).
 
Alla luce di ciò risulta veramente difficile credere che una società edificata sulla base di questi valori (che, ripetiamo, sono rispettivamente: naturalismo, liberalismo, scetticismo, relativismo, stoicismo, etnismo con alle volte delle vene apertamente biologiste) possa venire innalzata su un piedistallo a dispetto di quelle che non li condividerebbero. A sostegno di questa mia affermazione posso dire che storicamente parlando ci sia stato un esempio di nazione che tentò di ricreare la società su queste basi: si tratta della Germania di Hitler. Inutile ricordare che questo “esperimento” scatenò quell’ecatombe che fu la Seconda Guerra Mondiale, provocò lo sterminio di 17 milioni di persone e ridusse il paese dove fu effettuato ad un cumulo di macerie nel giro di 6 anni. Un bilancio decisamente negativo oserei dire.
 
Concludendo, si può tranquillamente affermare che non si ha nulla di nuovo sotto il sole, le stesse “considerazioni filosofiche” (o farneticazioni? Difficile dirlo) sull’argomento che sentiamo dai vari Evola, De Benoist, Faye, Ciola ecc. ecc. non sono altro che le stesse, magari rivedute e corrette per adeguarsi ai tempi, pronunciate secoli prima da Proclo, Porfirio, Giuliano l’Apostata, Nietzsche e compagnia brutta. A tale compagine andrebbe ricordato quanto disse Prudenzio nel suo Contra Symmacum: Sentieri secondari di questa strada sbagliata ce ne sono molti, come molti sono gli dèi, gli idoli, i dèmoni nei templi. E’ un illusione credere che i culti pagani portino a Dio; che cristiani e pagani giungano tutti alla stessa meta. L’idolatria conduce solo alla fine contraria alla vita: alla morte definitiva e eterna. Altre religioni non sono vie di salvezza, infatti il demonio non lascia andare al Signore della salvezza, ma mostra l’itinerario della morte, attraverso false strade. Allontanatevi pagani, non vi sono strade in comune tra voi e il popolo di Dio! Allontanatevi!
 
A cura di Federico
 
Fonte: Gnosi e Gnosticismo, Paganesimo e Giudaismo di Don Curzio Nitoglia
http://radiospada.org/

Altra ottima vignetta sulla fobia dell’omofobia

di Luca Consonni
 
398195_461902103891903_1943395883_n
 
 
Fonte:
 

Quel fatal 1866 ( 4° ed ultima parte) : La fine della guerra e le sue conseguenze.




Ogni storia ha la sua fine e questo vale anche per ciò che in questa sede mi sono accinto a  narrarvi . Siamo giunti al termine dei nefasti avvenimenti di "Quel fatal 1866" che portarono tristezza in terre un tempo felici.






L' Armistizio di Cormons e il trattato di Vienna






File:Gefecht zwischen k.k. Husaren und preußischen Kürassieren in der Schlacht von Königgrätz (A. Bensa 1866).jpg
Scontro di cavalleria nella battaglia di  Sadowa.
La Prussia, alleata dell'Italia sabauda  nella guerra contro il Cattolico  Impero d'Austria e vittoriosa a Sadowa, concluse il 26 luglio l'armistizio di Nikolsburg, che non prevedeva alcuna clausola a favore delle aspirazioni del governo sabaudo. In quel momento  l'esercito sabaudo si trovava nella situazione più disdicevole: con le  sconfitte, fatte passare per apologetiche vittorie , di Giuseppe Garibaldi  e del generale Giacomo Medici . Nel frattempo il criminale generale Enrico Cialdini aveva occupato una Padova ormai sgombra da soldati Imperiali e dalle strade deserte, mentre il generale Raffaele Cadorna era riuscito ad arrivato fino a Gradisca appunto perché non v'erano più truppe Imperiali. Per mare la grave e vergognosa sconfitta a Lissa aveva aggiunto un'onta in più , cosa che  del resto riuscì benissimo anche alla sconfitta di Custoza.
Raffaele Cadorna
Raffaele Cadorna
L'Italia sabauda , oltretutto con una opinione pubblica totalmente sfiduciata e in miseria economica, non era in grado di continuare le operazioni militari da sola e si vide pertanto costretta all'armistizio. In preparazione di esso il coniglio di Custoza, generale Alfonso La Marmora, a nome di Vittorio Emanuele II , inviò a Garibaldi l'ordine, tra l'altro ben accetto da quest'ultimo vista la situazione a dir poco critica , di sgomberare il Trentino.

Il 12 agosto 1866 tra l'Italia sabauda  (rappresentata dal generale Conte Agostino Petitti Bagliani di Roreto) e l'Impero d'Austria (rappresentato dal generale Barone Carl Möring) fu firmato a Cormòns (Gorizia) l'armistizio che pose fine ad una della pagine più vergognose nel così detto  "Risorgimento italiano" (Terza guerra di espansionismo sabaudo- disfatta di Custoza). Nel frattempo Prussia e Austria arrivarono alla firma del Trattato di Praga (23 agosto), che lasciava in sospeso le richieste sabaude ; queste  verranno  soddisfatte il 3 ottobre dello stesso anno dalla Pace di Vienna, che sancirà ufficialmente la pace e il passaggio del Veneto da colei che rappresentò la sua rinascita ( Impero d'Austria) a colei che la mise in catene e miseria (l'Italia sabauda prima e repubblicana poi)  tramite la Francia di Napoleone III.
L'armistizio congelava la situazione militare in atto, con l'esercito sabaudo faticosamente , e tra le vive proteste della popolazione,  arrivato alle porte di Gradisca, ma con gli Imperiali vittoriosi e ancora saldamente posizionati  nel quadrilatero ed in altre fortezze. L'usurpazione e la seguente annessione del Veneto e del Friuli venne rinviata nel tempo e avvenne dopo la pace di Vienna.


Testo dell'armistizio :

Cormons, addì 12 agosto 1866. Conchiusa fra i commissarii militari del Regio Esercito Italiano ed il I.R. Esercito austriaco al giorno d'oggi.
In seguito all'effettuato sgombro del
Tirolo meridionale e di alcuni luoghi della contea di Gorizia per parte delle truppe italiane i due commissari stabiliscono quanto segue salva la superiore ratificazione:
L'armistizio comincerà col giorno 13 agosto alle ore 12 meridiane e durerà quattro settimane, vale a dire, fino al 9 settembre. Le ostilità non potranno ricominciare che mediante un preavviso di giorni 10. In difetto di preavviso l'armistizio s'intenderà prolungato.
I limiti dei territori occupati dalle truppe saranno per la durata dell'armistizio i seguenti, cioè:

  • per le truppe austriache:
a) L'attuale confine Lombardo-Veneto dal Lago di Garda al Po.
b) Il
Po fino ad un chilometro al di sotto d'Ostiglia e di una linea retta fino a 7 chilometri e mezzo, al di sotto di Legnago sull'Adige presso Villa Bartolomea.
c) Il prolungamento della detta linea fino alla Fratta, la sponda destra di questo corso d'acqua sino a Pavarano, di là una linea che per Lobia va al confluente del Chiampo nell'Alpone: indi la sponda destra di quest'ultimo fino alla cima Tre Croci al confine politico.
d) Il confine politico dallo sbocco del fiume Aussa in Porto Buso fino presso Villa, indi un perimetro di 7 chilometri e mezzo intorno alle opere esterne di
Palmanova, il quale cominciando a Villa, e passando tra Gonars e Morsano termina a Percoto Torre, la sponda sinistra del torrente Torre fino a Tarcento, e di là per Prato Magnano a Salt fra Osoppo e Gemona. Al Tagliamento, la sponda sinistra del Tagliamento sino al piede del Monte Cretci, ed il dorso dei monti che separano le valli di San Pietro e di Gorto fino al Monte Coglians sul confine politico.
e) Intorno al forte Malghera un perimetro di 7 chilometri e mezzo. Il Governo italiano è in facoltà di valersi della parte della ferrovia da
Padova a Treviso compresa in tale perimetro.
f) Lo stesso perimetro di 7 chilometri e mezzo intorno alle altre opere di fortificazioni esterne di Venezia. Nelle località alle quali non si estendono uno di questi perimetri, la laguna, e se esistono canali esterni in prossimità di questi, la sponda interna dei canali stessi. Il forte di
Cavanella d'Adige non sarà occupato né dall'una né dall'altra truppa.
  • per le truppe italiane:
g) I limiti di tutte le parti del Veneto che non sono occupate dalle truppe austriache.
L'approvvigionamento di Venezia sarà libero.
L'accesso ne' territori riservati alle truppe austriache è interdetto alle truppe regie e ai volontari italiani. Egualmente alle truppe imperiali e ai volontari austriaci è interdetto l'accesso ne' territori riservati alle truppe italiane. È però fatta facoltà agli ufficiali di un esercito di attraversare per ragioni di servizio il territorio riservato all'altro, mediante scambievole accompagnamento.
Si farà il reciproco scambio dei prigionieri; l'
Italia li consegnerà in Peschiera e l'Austria in Udine.
Gli impiegati italiani che si trovano nei territori occupati dalle I.R. truppe non saranno molestati, e non lo saranno reciprocamente gl'impiegati militari austriaci in ritiro, che si trovano nei territori occupati dalle truppe italiane.
È ammesso il ritorno degli internati d'ambo le parti: però non potranno entrare nelle fortezze occupate dalle truppe del Governo dal quale furono internati.
Cormons, addì 12 agosto 1866
in casa del Podestà Signor Maggiore Conte Thurn.
CARLO MOERING Generale Maggiore, A. PETITTI Generale


Con il trattato di Vienna del 3 ottobre 1866, veniva definitivamente dichiarata chiusa la terza guerra di espansionismo sabaudo e il Veneto veniva ceduto dall'Austria alla Francia, che lo avrebbe poi rigirato  all'Italia sabauda , previo il consenso degli abitanti tramite un plebiscito; un plebiscito che sarà l'ennesima tragica farsa risorgimentale.
Il trattato fu firmato dal generale sabaudo Luigi Federico Menabrea e dal suo omologo Imperiale , Emmanuel Félix de Wimpffen.






Il  Plebiscito farsa nel Veneto (21-22 ottobre 1866)



Il timore per il governo sabaudo era lo stesso che ebbe  tutte le volte che usurpò uno Stato legittimo della penisola italiana ed il Veneto non fece certo eccezione , anzi . Il timore degli unitaristi   che temevano che  l’espansione savoiarda finisse in una bolla di sapone era fondato e appurato fin dalle prime reazioni popolari allo scoppio delle ostilità: difatti era grande la fedeltà al buon e legittimo governo asburgico  del Lombardo-Veneto con le sue tasse eque e la sua grande efficienza . A fronte di questa preoccupazione crescente, e ritenendo che una libera consultazione tra il Popolo Veneto avesse causato una battuta d'arresto nelle aspirazioni del governo  sabaudo che con i suoi prezzolati tirapiedi (poi chiamati patrioti italiani) si mobilitarono per evitare che ci fosse alcun controllo internazionale della consultazione, violando così in modo palese gli accordi decretati dalla Pace di Vienna e dall’Armistizio di Cormons. Per realizzare il proprio malvagio piano l’esercito sabaudo cominciò una crescente campagna intimidatoria accompagnata dall’occupazione di tutti i municipi veneti.
Ecco alcuni esempi di pubblica minaccia: per quello che dicevano, i manifesti per il plebiscito erano una sorta di ricatto morale a chi andava a votare, in uno di questi si può leggere: "Chi dice Sì mostra sentirsi uomo libero, padrone in casa propria, degno figlio d’Italia. Chi dice No la prova d’anima di schiavo nato al bastone croato! Il Si, lo si porta all’urna a fronte alta, sotto lo sguardo del sole, colla gioja nell’anima, colla benedizione di Dio! Il No, con mano tremante, di nascosto come chi commette un delitto, colla coscienza che grida: traditore della patria!" La Gazzetta di Verona il 17 ottobre 1866 parlando del plebiscito riporta: "Sì, vuol dire essere italiano ed adempiere al voto dell’Italia. No, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell'Italia". Come mai sottolineare l’essere veneto? Non erano forse tutti per l’unità stando a quanto ci viene riportato nei libri di scuola? Questo è uno dei vari elementi che mettono in luce il dubbio valore della farsa plebiscitaria, ed il fatto che i risultati del plebiscito siano la risultante della reale volontà della gente veneta.
La truffa ai danni dell’invitto Popolo Veneto si consumò il 19 ottobre 1866 in una stanza dell’hotel Europa, nel Canal Grande a Venezia, nella quale il plenipotenziario francese il gen. Leboeuf consegnò il Veneto ai commissari sabaudi ben due giorni prima della data in cui era fissato il referendum: questa fu la palese violazione di quanto stabilito dagli accordi internazionali sanciti dall’Armistizio di Cormons e dalla Pace di Vienna.
Il 21 ottobre 1866 ebbe luogo sul suolo Veneto la farsa plebiscitaria con tutto il Veneto invaso da forze d'occupazione dell'esercito sabaudo, in cui vennero proibite dagli occupanti perfino le tradizionali processioni religiose in quanto "assembramento pericoloso per l'ordine pubblico". Il risultato (641.758 SI, 69 NO, 273 NULLI) è la prova intangibile del broglio perpetuato, soprattutto i 69 sono emblematici: il valore sul campo di battaglia dei soldati veneti che vinsero contro l’Italia sabauda  sono dati di fatto incontestabili e provati dalle relazioni degli stati maggiori Asburgici, mentre i verbali del plebiscito redatti nei seggi sono introvabili. Lo stesso storico Luigi Sutto di Rovigo, nel 1903, fu incaricato dal Museo del Risorgimento di ricostruire dati ed episodi del Plebiscito. Il suo insuccesso fu quasi totale perché non riuscì a visionare i verbali del plebiscito. Perché gli fu vietata tale visione? La risposta è tanto semplice quanto scontata: il governo sabaudo mise in circolo menzogne madornali che volevano far credere e convincere che i favorevoli al plebiscito risultarono essere addirittura il 99,9 %, quando, si afferma, gli aventi diritto al voto erano allora il solo 26% della popolazione: “maschi con più di 21 anni”. In tutto ciò  la libertà e segretezza di voto erano inesistenti , tra minacce e soprusi verso la popolazione  si avvalevano di biglietti di colore diverso e una palese dichiarazione del votante a favore o contro per avere la situazione sotto controllo e garantirne così un risultato favorevole alla nefasta causa unitaria.
Queste poche righe ci danno un’idea del fatto che nel 1866 in Veneto sia stato perpetrato un crimine da parte dell’Italia unita contro la Popolazione Veneta e il legittimo governo . Il Veneto si andava ad aggiungere alla lunga lista dei molti popoli della penisola italica vittime dell’espansionismo sabaudo.
 Il 7 novembre, entrava in una Venezia deserta e visibilmente ostile, lontana dall'iconografia di propaganda  risorgimentale,  l'usurpatore Vittorio Emanuele II di Savoia-Carignano.
 
 
 
 
 
 
Conseguenze:
tra triste verità e leggenda nera.
 
 
 
 
Territorio Veneto asburgico.
Con l'usurpazione da parte dell'Italia sabauda del Veneto , l'ultimo lembo del Regno Lombardo-Veneto veniva occupato da un governo rivoluzionario e illegittimo. L’Imperatore Francesco Giuseppe I venne costretto a riconoscere il Regno d'Italia  e a cedere la Corona ferrea, legittima eredità della sua Casata, simbolo della sovranità sul Regno Lombardo-Veneto.
Questa grave conseguenza della guerra appena conclusa portò alla completa estromissione della guida e protezione asburgica nella penisola italiana che si faceva garante dell'ordine legittimo in essa. I movimenti anti-unitari nel Granducato di Toscana e nei ducati Emiliani occupati da sette anni dal governo unitario sabaudo , subirono una forte battuta d'arresto in quanto il loro maggiore alleato veniva a mancare della sua presenza.
Le tasse sotto il legittimo Imperial-Regio governo erano di sole 11 Lire mentre sotto l'illegittimo governo sabaudo aumentarono a 33 Lire! La leva era obbligatoria anche per coloro che avevano già servito nell'Imperial-Regio esercito , la miseria e la povertà dilagò per tutto il popolo veneto, spesso costretto a emigrare in cerca di occupazione. Altrettanto deleteria fu la sistematica distruzione del patrimonio culturale e linguistico veneto: l’arroganza unitarista del suo centralismo  si caratterizzava da subito attraverso la volontà annullatrice dell’identità locale. E, purtroppo, come ben sappiamo, ciò  non avvenne solo in Veneto.
 
I patriottardi libri di storia ci hanno rifilato , tra le altre "balle tricolore", una leggenda nera che volle e vuole ancora far passare il governo asburgico come il male assoluto:  ci viene detto che alla fine della guerra   Francesco Giuseppe I decise di procedere contro l'"etnia italiana" nelle regioni del Tirolo, Venezia Giulia e Dalmazia. Ci hanno detto che il Consiglio della Corona dell'impero, riunitosi il 12 novembre 1866 sotto la presidenza dell'imperatore stesso e con i suoi ministri più importanti, approvò un verbale intitolato "Misure contro l'elemento italiano", che deliberava la germanizzazione e la slavizzazione delle terre italofone rimaste all'Impero: «Sua Maestà ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l'influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e [...] si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori [...] con energia e senza riguardo alcuno». Queste tristi menzogne non potrebbero essere più lontane dalla realtà in quanto l'amore di Francesco Giuseppe verso TUTTI i suoi Popoli era smisurato ed essi lo ripagavano con la stessa fedeltà e amore! Le così dette "Misure contro l'elemento italiano" si riferivano  alla presenza di elementi sovversivi  nazionalisti al servizio del governo sabaudo presenti nelle province dell'Impero e nel loro organico amministrativo : 52 anni dopo queste ridenti terre subiranno l'occupazione dal nuovamente sconfitto esercito sabaudo e  durante il ventennio fascista subiranno un forzata italianizzazione.
Cerchiate in rosso le zone interessate dalla "leggenda nera".
Di conseguenza la "germanizzazione" fu analoga a quella successa all'indomani del 1848 , quando il diffidente governo asburgico mise nell'organico amministrativo delle sue provincie elementi fidati on d'evitare altri eventuali disordini. Non ci fu nessuna persecuzione culturale o linguistica nelle province sopra citate: rammentiamo sempre che codeste province rimasero fedelissime all'Imperatore fino alla fine della Prima Guerra Mondiale e anche dopo; se le cose fossero andate davvero come gli storici di regime ci vogliono far credere il comportamento di questi popoli sarebbe risultato assai differente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Conclusioni
 
Giunti al termine di questa storia , e dopo essersi resi conto dei reali avvenimenti, non si può far altro che valutare il tutto come una grande tragedia, una delle tante che colpirono la penisola italiana e i suoi popoli tra il 1859 ed il 1918.
Non si può negare la ragione dei popoli fedeli all'Imperatore che combatterono contro coloro che pretendevano di portar la "libertà" mentre portavano solo catene e ceppi.
Ci si rende facilmente conto di coloro che furono veri Patrioti (Trentini, Tirolesi, Veneti , Friulani) e invece chi fu l'invasore e il criminale (Garibaldi, Savoia, esercito "italiano").
Volete negare ciò? Liberi di farlo! Ma rammentate, negare la verità non cambia le cose ma rende il menzognero ancora più ridicolo.
 
 
 
 
 
 
Fine...
 
 
 
 
 
Fonte:
 
Wikipedia.

1866: la grande truffa.   Il plebiscito di annessione del Veneto all’Italia; AUTORE: Ettore Beggiato;   EDITORE: Venezia: Editoria Universitaria, 2007 (Seconda edizione); PAGINE: 80 pagine
 
 
Scritto a cura di:
 
Presidente e fondatore dell'A.L.T.A. Amedeo Bellizzi.
 
 

mercoledì 29 maggio 2013

Iconografia Sanfedista

Questo album propone le stampe raccolte  da Angelo D'Ambra per la mostra “L’iconografia Sanfedista” presentata a Caserta l’11/10/2009 e a San Vitaliano (NA) il 28/11/2009. L’album, come la mostra, non vuole essere solo una raccolta di illustrazioni storiche. La sua è un’ambizione maggiore, condurre l’osservatore alla scoperta di un periodo storico intenso per l’Europa, la penisola italiana, il Regno di Napoli attraverso l'esame delle immagini dell’epoca. Le campagne francesi, la Repubblica Partenopea, il saccheggio, la rapina e l’occupazione militare trovano nell’allegoria e nella caricatura delle iconografie di fine ‘700 un modo di espressione nuovo e popolare. Le immagini presentate celebrano la fine delle fragili repubbliche giacobine e il ritorno all’ordine morale e politico sotto l’egida del Trono e dell’Altare, celebrano le battaglie, le sollevazioni popolari, le vittorie dei sanfedisti come testimonianze dirette di un fase storica di viva tensione e scontro aperto.

Responsabile Album: Angelo D'Ambra.
 
 

Bene signori, due milioni. Incisione di De Finck. Parigi, Bibl. Nat.
 
 

Entrata trionfale delle opere d'arte in Francia. Incisione di Berthaut da Girardet. Milano, Raccolta Bertarelli.
 

Entrata trionfale dell'esercito della Repubblica francese comandato dal generale Championnet nella città di Napoli il 3 nevoso dell'anno VII (24 novembre 2798). Incisione anonima a colori. Roma, Archivio Museo Centrale del Risorgimento.
 
 

 
Fu sotto il re polito il franco e onesto, ed ora è protettor del furto e incesto. Incisione Anonima tedesca. Parigi, Bibl. Nat.
 

Giacobini napoletani del 1794. Disegno di F. Lapegna. Napoli, Museo di San Martino
 

Il comitato dello scartare. Incisione anonima di origine olandese. Roma, Archivio del Museo centrale del Risorgimento

 
Il democratico stordito e disperato. Incisione anonima. Milano, Raccolta Bertarelli.

Al rito dell’innalzamento dell’Albero della libertà, il popolo contrappose il contro-rituale della distruzione e dell’abbattimento.
A Napoli, l’albero della Libertà fu piantato la domenica 27 gennaio dal generale Championnet, mentre i repubblicani si sfrenarono a ballarvi intorno, ma il giorno dopo si susseguirono i tentativi da parte del popolo fedele alla Corona di distruggerlo, così il 2 febbraio, vi si misero a difesa due cannoni.
 

 
Il patriottismo in viaggio per casa del diavolo. Incisione anonima. Milano, Raccolta Bertarelli
 
 
 

Il popolo nelle provincie sedotto dagli emissari dei Giacobbini. Incisione Anonima. Vizille, Musee de la Revolution francaise
 
 

Indigestione dei commissari francesi. Incisione anonima a colori. Roma, Archivio del Museo centrale del Risorgimento
 
 
 

LA FELICITà DEI VENEZIANI PER L'ARRIVO DEGLI AUSTRIACI IL 18 GENNAIO 1798. Incisione a colori di Giuseppe Sardi. Venezia, Museo Correr.
 


 
La partenza di PioVI per Siena. Incisione anonima. Parigi. Bibl. Nat.

I rappresentanti dell’effimera Repubblica vennero portati in giro sugli asini, mentre Ferdinando IV e Maria Carolina d’Austria, sovrani di Napoli, furono celebrati come degni difensori della Santa Sede.
Il giubilo però durò poco, le truppe francesi ristabilirono il loro ordine a Roma e sotto il comando del generale Championnet marciarono su Napoli entrandovi nel gennaio del 1799.


La Religione piange Pio VI. Incisione anonima. Oarigi, Bibl. Nat.

La fragile Repubblica Romana dovette fare i conti con la turbolenza del popolo di Trastevere fedele al Papa, ma anche con il vicino Re di Napoli, Ferdinando IV che, appoggiato militarmente dal generale austriaco Mack, si lanciò alla rapida riconquista di Roma, liberata il 29 Novembre 1798.





Le conseguenze dell'invasione francese. Incisione inglese a colori di Gillray. Parigi, Bibl. Nat.


Le patriotte in viaggio per casa del diavolo. Incisione anonima. Milano, Raccolta Bertarelli




Morte di Pio VI. Incisione di Campanella. Parigi, Bibl. Nat.

Pio VI fatto prigioniero, venne portato a Siena, poi a Firenze. Nel Marzo del 1799 fu trasferito a Bologna, ma la città lo acclamò, fu allora che i Francesi decretarono la sua carcerazione in Francia, prima a Grenoble, poi a Valence, dove morì il 29 Agosto dello stesso anno.


Partenza da Roma del terzo convoglio di statue e opere d'arte per i musei del Louvre, 21 floreale anno V. Incisione anonima. Parigi, Bibl. Nat.
Ripienezza dei commissari francesi. Incisione anonima a colori. Roma, Archivio del Museo Centrale del Risorgimento




Seizing the Italian relics. Incisione inglese di Gillray. Parigi, Bibl. Nat.





Franco il mondo intero divorar, dispregiando onore e Dio, ma la Giustizia giù dal Ciel discende fuga l'inganno e l'ingordigia, estende la man pietosa a discacciare il rio Unendo insieme l'uno e l'altro Impero. Incisione di G. Piattoli. Milano, Raccolta Bertarelli.






Tutti d'accordo per tagliare l'albero dei francesi. Incisione anonima. Milano, Raccolta Bertarelli



“Championnet entra a Napoli”
Opera di Pelletan

Gli accadimenti del 1799 vanno letti nel contesto interno e internazionale in cui essi maturano. La “rivoluzione napoletana” non riuscirà a poggiarsi alla nobiltà, non ai ceti borghesi, non alle classi rurali ed ai primi nuclei di proletariato industriale, potrà fare affidamento solo sull’esercito francese, di cui, in ultima analisi, resta un prodotto. La partenza dell’armata francese lascerà i repubblicani napoletani nel panico, condannati alla disfatta.



CADUTA DE' GIACOBINI NEGLI ABISSI DELL'INFERNO
Incisione anonima
Napoli, Bibl. Nat.




“Eleonora Pimentel Fonseca
condotta al patibolo”
Giuseppe Boschetto, Napoli

Nei mesi precedenti pure i giacobini avevano minacciato la morte per ogni minima violazione dei loro proclami e dispensato senza parsimonia condanne capitali. Il conteggio dei morti nelle guerre civili è operazione sgradevole, resta tuttavia il fatto che, se da entrambe le parti il numero delle vittime fu maggiore a causa degli uccisi nei saccheggi di villaggi e di città, nelle decimazioni, nel furore dei combattimenti e delle vendette, i giustiziati furono 1563 di parte legittimista e non più di 120 di parte repubblicana.




GLI ULTIMI DUE CONSOLI DELLA REPUBBLICA ROMANA PORTATI IN CORTEO NELLA CITTA’ COME DUE DELINQUENTI
Incisione anonima. Venezia, Museo Correr.

Tra le Repubbliche “sorelle” per prima vi fu quella di Roma dove l’effimero Trattato di Tolentino non resistete alle sobillazioni interne e alle ambizioni francesi. L’assassinio ad opera di popolani romani del generale Duphot, che tentava di proteggere dei giacobini, fornì l’occasione tanto aspettata: i Francesi guidati da Berthier occuparono la città, deposero il Papa e il 15 Febbraio 1798 proclamarono la nascita della Repubblica Romana.




I COALIZZATI METTONO IN FUGA LA REPUBBLICA
Incisione anonima
Roma, Archivio del Museo Centrale del Risorgimento.




I REALISTI NELLA VANDEA
Incisione anonima, Napoli
Vizille, Musée de la Révolution francaise


Le notizie dalla Francia rivoluzionaria arrivarono a Napoli rapide e confuse. La monarchia è caduta, Luigi XVI finito sulla ghigliottina, la Bastiglia distrutta, il saccheggio, la devastazione, Robespierre e Marat, l’esercito francese che valica le Alpi e marcia sulla penisola italiana… Arrivarono però anche voci delle rivolte controrivoluzionarie nelle province di Francia e a Napoli si diffusero rapidamente le immagini della Vandea, dove la popolazione era insorta contro il governo rivoluzionario.




FERDINANDO IV E MARIA CAROLINA D’AUSTRIA
Incisione anonima
Roma, Museo Centrale del Risorgimento

I rappresentanti dell’effimera Repubblica di Roma vennero portati in giro sugli asini, mentre Ferdinando IV e Maria Carolina  d’Austria, sovrani di Napoli, furono celebrati come degni difensori della Santa Sede.
Il giubilo però durò poco, le truppe francesi ristabilirono il loro ordine a Roma e sotto il comando del generale Championnet marciarono su Napoli entrandovi nel gennaio del 1799.





ASSALTO DI CASTELNUOVO ED ARMAMENTO DELLA PLEBE
Incisione Anonima. Dall’Albo Croce del 1899. Napoli, Bibl. Nat.


Le immagini non tacciono lo scontro tra lazzari ed esercito straniero, una sfida tra due visioni del mondo irrimediabilmente contrapposte. Il popolo in processione è messo in fuga, numerosi sono gli scontri sanguinari nelle vie della città, solo l’arrivo dei soldati francesi salva i repubblicani napoletani asserragliati a Castel S. Elmo.




COMBATTIMENTO DELLA PLEBE CONTRO I FRANCESI AL PONTE DELLA MADDALENA
Incisione Anonima. Dall’Albo Croce del 1899. Napoli, Bibl. Nat.

Le province del Regno erano insorte già prima dell’appello di Ferdinando IV lanciato nel proclama dell’8 dicembre 1798 che incitava alla difesa del Reame, della Religione, “dell’onore delle vostre mogli, delle vostre sorelle, la vostra vita e la vostra roba”. Le popolazioni meridionali avevano preso spontaneamente le armi e rendevano difficile il cammino delle truppe francesi, a volte affrontate in vere e proprie battaglie.




ATTENDAMENTO DEI FRANCESI AL LARGO DELLE PIGNE
Incisione Anonima. Dall’Albo Croce del 1899. Napoli, Bibl. Nat.

Ferdinando IV, dopo aver nominato il principe Francesco Pignatelli Vicario generale del Regno, riparò in Sicilia giungendovi a bordo del vascello Vanguard dell’ammiraglio Inglese Nelson, decisione probabilmente presa sotto le insistenze della Regina Maria Carolina. Si erano sollevate Itri, Fondi, Sessa, San Geramano, Teano e si combatteva a Capua, ma il debole Vicario del Regno preferì siglare un indecoroso armistizio per poi fuggire in Sicilia dove, provocata l’ira del Re, fu imprigionato.



“Il vero miracolo di Sant’Antonio”
Incisione Anonima. Dall’Albo Croce del 1899.

Le iconografie raccontano lo stesso miracolo: una palla di cannone che provvidenzialmente fa cadere la bandiera di S. Elmo, mentre il santo scende dal cielo con la bandiera regia. L’Albero della Libertà viene spezzato da un demonio che si inabissa portandolo con se tra le fiamme. Il ritorno di Ferdinando IV è un tripudio, il sovrano è rivolto verso il popolo che lo accoglie lieto di vedersi restituita la Religione.


 



IL RITORNO DEI PRINCIPI EREDITARI A NAPOLI: Mira Signor, che torni a’ patrii liti / Del comune piacer segni infiniti
Incisione Anonima. Napoli, Bibl. Nat.

A Napoli, le antiche tradizioni degli ex-voto da un lato e delle xilografie bizantine dall’altro furono rinnovate per dare vita ad una iconografia popolare originale capace di mostrare a pieno il diffuso sentimento antifrancese e antirepubblica...no: Sant’Antonio da Padova proteggeva le truppe del Cardinale Ruffo e apriva loro la via verso la capitale del Regno per riconquistarla. Si utilizzarono vecchie incisioni in legno come modelli per ritrarre il giacobinismo con le sembianze di un mostro e i repubblicani mentre piombano nella dannazione eterna, viene invece salutato con giubilo il ritorno dell’ordine e la restaurazione del Trono.

 
 
 

“Ferdinando restitutore della Religione”
Giuseppe Cammarano. Dall’Albo Croce del 1899.

Assieme all’occupazione di Roma e Napoli, anche il Piemonte e la Toscana erano passati in mano ai Francesi. La loro dominazione però terminò in modo molto rapido nella primavera del 1799 quando ovunque fu ripristinato l’antico ordine grazie alle forze alleate della Russia di Paolo I, dall’Impero Ottomano, minacciato dalle mire di Bonaparte in Oriente, dall’Austria di Thugut e dall’Inghilterra.
 

LA PRESA DELLA BASTIGLIA.
Incisione anonima. Milano, Raccolta Bertarelli.
 
 

Ballo di patrioti e patriote nel convento di S. Martino, nella stanza del Priore. Incisione anonima. Dall'Albo Croce, 1899
 
 
 
 

Il Generale Championnet si reca ad installare il governo provvisorio. Incisione anonima. Dall'Albo Croce, 1899
 
 
 


Vito Nunziante, Ritratto di Lopresti, anno 1836.
Dall'Albo Croce, 1899

Gli insorti erano guidati da numerosi capimassa, qualche sacerdote come Don Donato De Donatis, conosciuto col nome di Generale dei Colli, il vescovo di Teramo, il parroco Don Mecarelli, contadini come Cappuccino, funzionari regi come il barone Salomone, governatore di Arischia, nobili e benestanti come Giovanni Pica di Antrodo...co e Francesco Alessandri di Celano, il medico De Angelis di Bagno e Giambattista Rodio, dottore in giurisprudenza. C’erano anche piccoli borghesi come Gaspare Antoniani, Giuseppe Cosentini di Lisciano, Giuseppe Pronio, poi Michele Pezza, detto “Fra Diavolo”, Gaetano Mammone, Gerardo Curcio, detto “Sciarra”, tutti perfetti conoscitori dei luoghi in cui agivano, legati da stretti rapporti di fiducia con gli abitanti che li tenevano al corrente degli spostamenti e delle mosse dei nemici.
 
 
 
 

Figura fantastica di Fra Diavolo. Incisione anonima. Dall'Albo Croce, 1899

Il movimento della Santa Fede univa ai battaglioni regolari anche le “masse” e le “unioni realiste”. Le formazioni “a massa” erano squadre di uomini armati con una struttura interna molto semplice adatte per gli scontri diretti. Le “unioni realiste” erano, invece, cellule operative clandestine, vere e proprie società segrete, in grado di intervenire in compiti speciali quali sabotaggi e iniziative che non era possibile affidarle a forze ufficiali.
 
 

Emblema della Repubblica Napoletana
 
 
 
 


L'EFFIGE DEL GIACOBINISMO CADUTO
Incisione anonima
Napoli, Bibl. Nat.
 
 
 
 

VIVA FERDINANDO IV
Incisione anonima
Dall'Albo Croce 1899. Napoli, Bibl. Nat.

Le iconografie dell’epoca ci presentano il Cardinale Ruffo come vero eroe. Sant’Antonio da Padova è al centro dell’attenzione, conduce alla vittoria le armate sanfediste e presiede al ritorno del Re in una Napoli festante e pacificata. Altre effigi ritraggono i sovrani Ferdinando e Maria Carolina circondati dai Santi p...
rotettori come San Michele, Sant’Antonio, San Cristoforo, San Gennaro, mentre i giacobini vanno in contro al loro destino di congiurati.
Tuttavia nel momento della restaurazione del Regno, quando ormai l’unica questione all’ordine del giorno era quella del trattamento da riservare ai giacobini napoletani, Ruffo si distinse dalle scelte assunte dalla Regina Maria Carolina. I lazzari, il popolo e persino i suoi fedelissimi, non condividevano e non comprendevano la sua clemenza e concordavano in pieno con la volontà punitiva della Regina, affiancata dall’ammiraglio inglese Nelson. La politica dei sovrani, del resto, le condanne capitali che fioccarono, era perfettamente conforme ai costumi e alle leggi del tempo, soprattutto quando dirette contro quei militari che avevano mancato al loro giuramento.




VERO MIRACOLO DI S. ANTONIO DA PADUA SORTITO IN NAPOLI ADDI’ 13 GIUGNO 1799
Insicione anonima.
Roma, Archivio del Museo Centrale del Risorgimento





MUORE LA LIBERTA', VIVA SUA MAESTA'
Incisione anonima
Dall'Albo Croce del 1899. Napoli, Bibl. Nat.

La versione della storiografia ufficiale dall’unità d’Italia in poi insiste nel sottolineare la ferocia degli insorti nei combattimenti e nelle vendette, ma tace le violenze ben più gravi degli invasori francesi e dei giacobini locali che trucidarono, saccheggiarono, incendiarono e rasero al suolo i...nteri villaggi. Ci si dimentica spesso che alla base delle spontanee resistenze popolari si trovava ancor prima del legittimismo monarchico, la difesa della propria fede religiosa, cosa totalmente diversa sia dal clericalismo, sia dalla pretesa opera di fanatizzazione delle plebi ignoranti e superstiziose, pretesa che dimentica che su un totale di 130 vescovi del Regno solo 10 erano controrivoluzionari e ben 19 repubblicani dichiarati, mentre la maggioranza preferì non assumere una posizione precisa, ma in sostanza favorevole ai Francesi ed ai giacobini per la loro ammonizione a ricordare che ogni autorità viene da Dio.





IL MIRACOLO DI S. ANTONIO. VITTORIA DEI SANFEDISTI SUI GIACOBINI.
Incisione Anonima. Dall’Albo Croce del 1899. Napoli, Bibl. Nat.


Nell’autunno del 1799 la reazione trionfa dappertutto, successi militari, sommosse contadine, festeggiamenti per i Troni restaurati. In effetti, il quadro dell’opinione politica sembra dar prova di maggiore lungimiranza: bilancio di un secolo che ha portato i primi colpi contro l’ordine politico, economico e sociale tradizionale, mostra la contrapposizione tra due sistemi, tra due mondi con una bilancia pende visibilmente dalla parte della monarchia.





SITUAZIONE POLITICA DELLE PRINCIPALI POTENZE EUROPEE NELL’ANNO 1799
Incisione anonima.
Milano, Raccolta Bertarelli


...
Parallelamente alle operazioni militari, si moltiplicarono le insurrezioni contadine. Ad Arezzo, al grido di “Viva Maria!”, l’armata aretina, inquadrata da ex-ufficiali, preti e agenti austriaci, prense Siena, Firenze e altre città della Toscana, poi passò a conquistare le Marche, l’Umbria, il Lazio. Ovunque i simboli del regime repubblicano vennero distrutti e furono ripristinati gli stemmi e i ritratti delle famiglie regnanti.
Ad aprire le ostilità fu il generale Suvorov, alla testa dell’armata austro-russa, il 26 marzo, e la sconfitta del generale Moreau a Cassano d’Adda il 27 aprile segnò la fine della Repubblica Cisalpina.
 
 



 



IL QUADRO DELL’OPINIONE POLITICA ALLA FINE DEL XVIII SECOLO
Incisione Anonima
Milano, Raccolta Bertarelli

Le notizie, provenienti dalla Cisalpina, delle ripetute sconfitte dei generali Barhtèlemy Schèrer e Jean Victor Moreau e la fuga del governo repubblicano da Milano, convinsero Mcacdonald della necessità di affrettare la partenza in modo tale da evitare di restare chiuso senza scampo nel Regno...
di Napoli. Ritenne però prudente procedere per gradi, senza fare mai menzione delle sconfitte francesi, camuffando il primo passo della ritirata come semplice spostamento del suo quartier generale da Napoli a Caserta.
Il 17 maggio Mac Donald lascia Napoli conquistata il 13 giugno dai sanfedisti. L’armata francese risale la penisola per tentare di congiungersi con Moreau. Sul fiume Trebbia però è di nuovo Suvorov ad avere la meglio ed i Francesi ripiegano su Genova ed Alessandria. Joubert è battuto a Novi il 15 Agosto, la penisola italiana è ormai liberata.





ENTRATA DEI FRANCESI A NAPOLI
Incisione Anonima
Parigi, Bibl. Nat.

Invano i seguaci delle idee repubblicane cercarono di attirarsi le simpatie del popolo, le belle parole e le promesse erano quotidianamente smentite sia dalla condotta delle truppe di occupazione, dai saccheggi spietati e dalle violenze, che dallo spoglio delle chiese e dalle esose contribuzioni di guerra.


I FANATICI GIACOBINI IN WORMS COSTRETTI A SRADICARE IL LORO ALBERO DELLA LIBERTA’
Incisione anonima,
Napoli, Vizille, Musée de la Rèvolution francaise.




“La sera del d’ 4 luglio 1799 in cui il popolo fiorentino bruciò li emblemi repubblicani”
Incisione di S. Lasino. Milano, Raccolta Bertarelli.




“Insurrezione degli aretini contro i francesi”
Incisione di Cecchi da Ermini. Milano, Raccolta Bertarelli.




BARBARO ASSASSINIO DI MARIA ANTONIETTA REGINA DI FRANCIA
Incisione anonima. Milano, Raccolta Bertarelli.




FINE TRAGICO DI LUIGI XVI
Incisione di A. Magini da Fious e Beau.
Roma, Archivio del Museo centrale del Risorgimento




ENTRATA DEI FRANCESI A ROMA
Incisione di Couché fils e Bovinet da Gudin.
Milano, Raccolta Bertarelli.



TUMULTO DELLA PLEBE INNANZI ALLA REGGIA: Viva il Re e morano i Giacobini!
Incisione Anonima. Dall’Albo Croce del 1899. Napoli, Bibl. Nat.

Il popolo, agitato dalle voci di tradimento, si radunò il 20 dicembre del 1798 sotto la Reggia chiedendo armi e gridando: Viva il Re, morano i Giacobini! Impadronitisi di circa 24 mila fucili, il popolo dette l’assalto ai castelli per poi dirigersi presso Caste...l Sant’Elmo dove, la notte prima, i repubblicani si erano impadronite della fortezza. I Francesi, accampatisi al Largo delle Pigne, scagliano l’offensiva e fermano nel sangue i popolani accorsi. Il 23 gennaio 1799 a Napoli fu, quindi, proclamata la Repubblica, un governo privo di consenso popolare e destinato a durare meno di sei mesi, che consentì ai Francesi l’asportazione di ingenti somme di danaro e con essi quadri, statue, libri e la spoliazione di gallerie, chiese ed archivi.






IL CARDINALE RUFFO
Incisione Anonima

Il Cardinale Ruffo era sbarcato l’8 Febbraio 1799 a Pezzo di Calabria, non era un militare, ne si illudeva delle sue capacità, era invece un ottimo diplomatico ed un grande organizzatore. Aveva con se una larga bandiera bianca, consegnatagli dalla regina, che recava da un lato lo stemma dei Borbone e dall’altro una croce con la scritta latina IN HOC SIGNO VINCES. Dalla Calabria organizzerà il movimento popolare che spazzerà via la Repubblica Partenopea.





“I condannati politici del 1799
in Castel Nuovo”
Giuseppe Sciuti, Napoli

Tra i motivi che alimentavano tanta ostilità antigiacobina vi furono l’imposizione del pesante ed insopportabile tributo di quindici milioni di ducati, l’ordine di bruciare e atterrare ogni località ribelle ai francesi e alla repubblica e di addossare ai parroci la responsabilità delle azioni antirepubblicane commesse nell’ambito della loro giurisdizione.




“Combattimento tra Francesi e lazzaroni (23 gennaio 1799)”
Stampa anonima

Nel giro di pochi mesi, la sollevazione guidata dal Cardinale Ruffo, sotto le insegne della Santa Fede, diretta contro l’occupante, riuscì a mobilitare le masse contadine, le Province vennero via via liberate e l’esercito di Ruffo poté convergere su Napoli conquistandola il 14 Giugno, mentre i Francesi di Mac Donald avevano già lasciato la città e ripiegato verso il nord, abbandonando i repubblicani napoletani al loro destino. Il 10 Luglio Ferdinando IV approda nel porto di Napoli.


Di :
 
Redazione A.L.T.A.