lunedì 31 ottobre 2011

Brig. Conte Cesare Anguissola, un eroe siciliano al servizio del Regno legittimo

 
 
CONTE CESARE ANGUISSOLA(1)

Di San Giorgio e San Damiano — Cavaliere di prima classe di Francesco I° - Cavaliere di prima classe di S. Ludovico di Parma - Cavaliere di S. Silvestro dello stato Pontificio - Decorato della medaglia istituita dal sommo Pontefice Pio IX per le truppe collegate al riacquisto dello stato nel 1849 - Insignito della Medaglia dell'assedio della. Cittadella di Messina - Generale di Brigata del disciollo Esercito delle Due Sicilie.
Comandante superiore del forte SS. Salvatore, e della seconda Brigata di Fanteria.

Nasceva in Palermo li 5 Ottobre 1813 da S. E. il vice Ammiraglio conte Ferdinando da nobilissima famiglia Piacentina, e dalla Contessa Luigia de' Langèle, per trovarsi il genitore di lui in quell'Isola avendo seguito Re Ferdinando I. Nel di 8 Settembre 1820 volendo questo Sovrano rimeritare i lunghi ed onorali servizi del genitore, veniva Cesare nominato Paggio della Real Paggeria ove rimaneva fino all' abbolizione di esso stabilimento.
Per volere del Re Francesco I° il 26 Gennaio 1826 dell'età di 14 anni venne nominato 2° Tenente nel 1° Granatieri della Guardia Reale, in dove apprendeva la carriera delle armi sotto il comando del chiarissimo calonnello Barone d' Orgemont. Nel 1 Settembre 1837 promosso 1° Tenente era destinato al 4° battaglione Cacciatori di linea ed al 1° Dicembre detto a Delegato del corpo, carica ch' esercitava fino alla nomina a Capitano nel 1 Marzo 1846.
Destinato al 1° battaglione dell'arma, nel 1848 faceva parte della spedizione in Palermo sotto gli ordini del Generale de Sauget , e benchè quella spedizione non avesse avuto felici
risultamenti pure I' Anguissola si distingueva al comando d'una scorta di viveri e munizioni che dai quattro venti si trasportava al Real Palazzo, sostenendo l'azione coi rivoltosi. Nel 13 Luglio 1848 passava al Reggimento Cacciatori della Guardia e destinato al comando dalla 1° compagnia partiva per la spedizione di Roma distinguendosi nell' azione di Montecompito avvenuta la notte dell' 8 Maggio percui ne veniva decorato ed ancora distinguevasi nell' attacco innanzi Velletri.
Nel 1848 facendo parte della spedizione nelle Calabrie sotto il comando del Generale Lanza si distinse nell' azione del vallo della Rotonda, ove fece molli prigionieri.
Nel 2 Gennaio 1856 promosso a Maggiore veniva destinato al 10° di linea in Palermo. Nel 18 Settembre 1857 passava al 7° di linea ed al 27 Giugno 1859 a' corpi della Guardia Reale.
Al 1 Novembre 1859 promosso Tenente Colonnello destinato al 6° di Linea, da colà passava al comando del 7° di linea. Al 1 Maggio 1860 nominato Colonnello rimaneva al comando del corpo medesimo.
Nel 25 Giugno 1860 partiva con le 8 compagnie del centro del Reggimento per Messina, ove giunto veniva destinato agli avamposti di Collereale, e da colà con dolore da non comprendere umana mente apprese la diserzione dell'ultimo di lui fratello Amilcare comandante il Veloce, e fu in tale occasione ch'egli per lavare l'onta dal germano messa al proprio nome scrisse al Maresciallo de Clary che volea da soldato partire con la colonna del Bosco.
Conchiusa capitolazione tra il Generale de Clary e de Medici, col 7° di linea ripiegava in Cittadella. In Settembre 1860 l'Anguissola a capo di una deputazione veniva spedilo in Gaeta ad umiliare le occorrenze della cittadella a S. M. il Re.
Nel di 8 Ottobre venne promosso a Brigadiere rimanendo al comando del Reggimento, ed indi destinato al comando della 2° Brigata in cittadella.
Il come Anguissola si condusse in cittadella , e come avesse dato pruova di se è inutile parlarne, operoso zelante , pieno di coraggio , fedelissimo al Re ed onorato soldato, sono le qualità che lo distinsero , e gli fecero meritare il plauso de' suoi superiori, e la stima de' subordinati. Comandante superiore del forte Salvatore, non lasciò niente a desiderare, sia pel miglioramento delle opere di fortificazione che per l'offensiva.
Resasi la piazza li 13 Marzo 1861 e reduce l'Anguissola come prigioniero di guerra, dimandò il suo ritiro e vive vita privata nel seno di sua famiglia.

1) Nove mesi in Messina e la sua Cittadella - Napoli - 1862

domenica 30 ottobre 2011

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):L'abbandono della Sicilia, il tradimento dei gallonati, e la fedelta dei semplici:Parte11.

Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.







Ritorno agli ultimi fatti di Milazzo, avendo lasciato il racconto alla conchiusa capitolazione, e al conseguente abbandono di quella piazza.
I soldati prima di uscire del Forte, posero in pezzi i bellissimi fucili di nuovo modello detti Stuzen che aveano presi a' garibaldini, e li buttarono ne' pozzi: getta rono pure i viveri che restavano e molta polvere.
Il 25, Bosco uscì dal Forte e si diresse alla Marina per imbarcarsi, accompagnato dal suo stato maggiore. Garibaldi permise a' suoi di fischiare quel prode ed onorato duce, figlio di quella Sicilia che volea rigenerare. Quei fischi plateali furono il più bel trionfo del Colonnello Bosco: perciocchè indicavano il dispetto della rivoluzio ne per non aver potuto trarre a sè quel Colonnello; indicavano la rabbia pel danno che quel prode avea recato nelle file garibaldine.
Qualche scapato rivoluzionario censura Bosco perché si battesse contro quelli che voleano unificare l'Italia, e renderla nazione libera, indipendente, e ricca. Io, senza ragionare del vantaggio o svantaggio di questa unità, e degli altri accessorii, non che degli uomini che la faceano, dirò solamente che un militare onorato non deve impigliarsi di politica; il suo sguardo non si dovrà spingere più oltre del tiro dell'arme che porta o comanda.
In forza della capitolazione restarono a Garibaldi 43 cannoni, roba da Medioevo, 93 tra muli e cavalli.
La batteria a schiena della brigata Bosco fu imbarcata; mancava un cannone, quello che fu lasciato in mezzo alla strada per incuria di pochi artiglieri quando costoro si ritirarono in Milazzo, dopo il combattimento del 20 luglio.
Quando uscimmo in bell'ordine dal Forte, con grande difficoltà potevamo avanzarci verso il porto, tanta era la piena degli armati in quella Città. Vidi de' preti vestiti mezzo alla garibaldina con fucile, pistole, pugnali, sciabola, e un Crocifisso sul petto! Quel giorno vidi poi Padre Pantaleo appena io uscii dalla fortezza, egli mi si avvicinò tosto con modi cortesi, e mi pregò a rimanermi con Garibaldi. Io lo ringraziai anche cortesemente, supponendo che quella preghiera me l'avesse fatta in buona fede, e per mio vantaggio, e gli dissi che «i miei principii non era non quelli di Garibaldi: ch'io non era belligerante, ma che esercitava una missione di carità, tanto necessaria allora a quei soldati miei filiani; e che in fine era ligato da un giuramento a seguire le bandiere del mio sovrano a qualunque costo».
Si appiccarono diverse questioni di teologia morale, e di dritto canonico tra me e il reverendo Padre garibaldino, già vestito ancora con la tonaca con camicia rossa, pistole, e il solito Crocifisso.
In quelle questioni teologiche e di dritto canonico ebbi a notare che il Padre Pantaleo, oltre di professare principii di libero pensatore, per tutt'altro ne sapea meno di me; ignorava i primi rudimenti della morale teologica, del dritto canonico, della storia sacra e della profana; in breve lo scoversi una assoluta nullità: e mi meravigliai non poco quando seppi ch'egli non avea rossore di predicare a modo suo nelle principali chiese di Sicilia e di Napoli
Disceso dentro Milazzo, fui circondato da tanti conoscenti ed amici della mia giovinezza, tutti armati, e molti in camicia rossa. Costoro da principio mi pregarono, poi mi trascinarono da Garibaldi; la forza era nelle loro mani, e fu necessità cedere alla violenza. Il Dittatore si trovava in un piccolo palazzo sulla marina, stava al balcone per vedere l'imbarco della truppa napoletana, e il baccano che facevano i suoi, i quali strappavano i fucili di mano a' soldati, ed impedivano a questo o a quello d'imbarcarsi, strascinandoli seco loro. Condotto con la violenza da Garibaldi, vidi per la prima volta questo eroe de' due mondi, il duce supremo della rivoluzione cosmopolita, il Dittatore della Sicilia! Non sò se mi sia ingannato, l'aspetto di Garibaldi non mi annunziava la sua celebrità. Trovai un uomo di statura media, di un insieme piuttosto ordinario, ma semplice e cortese ne' modi. Difatti, senza che io gli avessi detta una parola, mi strinse la mano. I miei amici parlarono a modo loro per me. Garibaldi, dopo di avermi stretta di nuovo la mano, disse: «L'accetteremo per nostro fratello, e lo destineremo a' Cacciatori dell'Etna,»
Meno male, io dissi tra me e me: ho inteso un nome siciliano col quale hanno battezzato qualche squadra di garibaldini!
Uscito dalla camera di Garibaldi, senza che io avessi profferita una parola, incontrai nella sala un caporale del 9° Cacciatori, il quale si avvicinò a me tutto allegro, mi offerse la sua fiaschetta, e m'invitò a bere alla gloria di Garibaldi. Io respinsi quella fiaschetta, e soggiunsi: tu sei un vile disertore... e più volea dire, se non che i miei amici e conoscenti mi diedero furibondi sulla voce, minacciandomi del loro sdegno, e rimproverandomi che io non era andato dal Dittatore, con sentimenti di un sincero italiano. Io risposi loro: quando mai vi ho detto che sarei venuto qui con sentimenti d'italiano, quali voi intendete? Siete stati voi che mi avete condotto qui con la violenza; io voglio partire con la truppa... No, dissero ad una voce, resterai qui non da fratello, ma da prigioniero. E bene, io risposi, torrò in pace quest'altro abuso della forza.
Intanto appena usciti sul porto, i miei guardiani voleano si notasse da Garibaldi, che stava al balcone, ch'essi unitamente agli altri si affaticavano per la santa causa strappando fucili dalle mani de' soldati che si imbarcavano, e strascinandone alcuni con loro.
Io che tutto osservava, mi avvidi di essere poco sorvegliato, e siccome restavano pochi soldati ad imbarcarsi,
noi potevamo bene avvicinarci alla banchina del porto. Io mi feci a poco a poco dalla parte ove si trovava una barchetta piena di soldati. Per non cadere in sospetto di quello ch'io avea disposto di fare, invece di guardare la barchetta, guardavo verso la città, e propriamente verso il balcone ov'era il Dittatore, quasi che mi fossi entusiasmato al solo mirarlo; intanto con passi indietro mi avvicinavo più alla mia meta. Quando mi parve il momento meno pericoloso, mi voltai, e spiccando un lungo salto dalla banchina alla barchetta, mi accovacciai in mezzo a' soldati; non sicuro tuttavia, ma in dubbio che mi venisse da quegli amici e conoscenti qualche fraterna schioppettata, che mi aveano già promessa ov'io avessi tentato di fuggire. Fortunatamente nessuno de' miei guardiani si avvide o finse di non avvedersene. Mi lasciarono tranquillo, e dopo dieci minuti, salii sopra una delle tre fregate regie, ove trovai tutti gli amici dolentissimi della mia assenza.
Giunto sulla fregata, il primo sentimento che provai fu il piacere di essermi liberato da tanti pericoli, e direi quasi miracolosamente. Ringraziai la Provvidenza la quale visibilmente mi avea protetto. Il pensiero però ch'io aveva lasciata la dolce terra della Sicilia, e che tra breve sarebbe questa sparita dagli occhi miei, mi cagionò il più vivo dolore ch'io avessi potuto sentire. Io lasciava quella terra a me tanto diletta! Io desiderava unicamente la sua felicità. Ahi, vano desiderio! Ella invece era ravvolta nella più desolante anarchia, che io credevo con sicurezza non dover essere passaggiera ma di lunga durata; e credevo che finita l'anarchia popolare comincerebbero altri guai non meno terribili. Mi si affollava alla mente quel poco che avea letto circa le rivoluzioni antiche e moderne, e mi ricordava che queste ultime principalmente, promettitrici sempre di libertà, di fratellanza e di ricchezza, finiscono col proclamare in fatto il più degradante servaggio, condurre i cittadini a scannarsi l'un l'altro, e condannarli alla miseria con ingiusti ed esorbitanti balzelli. In quel momento mi si schieravano al pensiero i fatti terribili e selvaggi della rivoluzione francese dal 1789 al 1794, e temevo ch'e' non si rinnovassero in quella infelice e cara Sicilia che io avevo abbandonata. Almeno in quella nazione francese, dopo tanto sangue e tante inaudite vicende, sorse un prode e avventuroso soldato, il quale, se bene la facesse schiava al fulminar dalla sua spada, la strappò ciò non ostante al furore atroce dell'anarchia, cui atterrò ed oppresse. E non acquietandosi a questo, arricchì cotesta nazione di un codice, che oggi è in vigore presso i popoli più culti d'Europa: l'arricchì delle spoglie opime di tanti popoli soggiogati, e la rese la più temuta in tutto il mondo. Ma cosa io potevo sperare di buono per la povera Sicilia sempre reietta ed oppressa da tutte le dominazioni? Io non m'ingannava. Mentre guardavo quelle incantevoli spiagge, quelle feraci pianure, que' monti pittoreschi, ond'io già mi dipartiva, le città, i paesi, le campagne erano in preda all'anarchia, la quale infuriava con atroce energia contro tutto e contro tutti.
I funzionarii del caduto Governo erano perseguitati a morte perché aveano servita l'abbattuta Dinastia, o perché aveano impedito a' ladri di rubare, a' manigoldi di assassinare, a' rivoluzionarii di congiurare contro l'ordine pubblico. Tutte le passioni erano sbrigliate, ogni scelleratezza prendea aspetto di gloria liberale. Assassini e ladri correano campagne e paesi, rubavano, metteano taglie, perpetravano nefandezza ch'è bello tacere.
Ho accennate le sanguinose rapine del La porta e del Meli. Un Biondi, capo di masnade dichiarò guerra all'agiatezza e all'onestà: uccise in pochi giorni molti cittadini, donne e fanciulli. Quando costui incontrava una persona sconosciuta, la invitava a leggere, ed ove questa di leggere s'intendesse la dichiarava della classe borghese, la rubava e l'uccideva. Il Biondi rimase impunito, e se ne andava trionfante per paesi e città.
Molti paesi della Sicilia insorgeano per saccheggiare ed uccidere i ricchi e notabili, o insorgevano per abbattere quelle caste che si formavano per rubare ed opprimere le popolazioni.
In Trecastagne, S. Filippo d'Argirò, Castiglione nella provincia di Catania, avvennero scene di sangue per i suddetti motivi. Anche a Mirto, ad Alcara, a Caronia nella provincia di Messina uccisero i più notabili di quei paesi con modi selvaggi né pure risparmiarono i garzoncelli e le donne. Nella Piazza di Mirto, e nella Casina di compagnia di Alcara, avvennero fatti atroci. Sarei troppo prolisso se volessi raccontar tutte le ruberie, scene cruente e rappresaglie che avvennero in que' tempi in parecchi paesi e città della Sicilia. I mali della Sicilia cagionati dall'anarchia giunsero a tale, che un Saia liberalissimo disse al Prodittatore Depretis: «Questo vostro modo di governare ci fa desiderare il Maniscalco,» Io che ritornai in Sicilia nel maggio del 1861, sentiva la gente del popolo domandarsi con ansia: «ma quando metteranno la legge
com'era sotto il passato Governo?»
A tutti questi mali di quella disgraziata e sempre oppressa Isola, se ne aggiungeva un altro non meno terribile, le rappresaglie insensate e crudeli che facevano i duci garibaldini contro i paesi in rivolta. Di tanti fatti di simile natura ne racconterò un solo, e ciò per non essere troppo prolisso in queste memorie. Questo fatto servirà a lettori come un modello per conoscere la sciagurata condizione di que' paesi e città della Sicilia, e delle maniere ond'erano i siciliani trattati da coloro che si dicevano liberali, e liberatori dalla schiavitù borbonica.
Il 1° agosto di quell'anno 1860, i popolani di Bronte, grosso paese nella provincia di Catania, si levarono a tumulto a causa dei demanii di quel paese: gridarono repubblica, e moschettarono non pochi borghesi. Ad alcuni di costoro arsero le case, altri buttarono da' balconi, non esclusi bambini e donne.
Accorsero sei compagnie di soldati piemontesi, e poi Nino Bixio con due battaglioni cacciatori, quello dell'Etna,
e l'altro delle Alpi,
i quali entrarono in Bronte tirando fucilate alla cieca. Il Bixio con la burbanza e col dispotismo di un generale moscovita in Polonia, chiamò a sè il Sindaco, l'arciprete, ed altri notabili del paese. Dichiarò a costoro che Bronte era reo di lesa umanità, ed impose una multa di lire trecento per la prima ora, di cinquecento per la seconda, di mille per le sussequenti, sino a che si svelassero i ribelli. La paura di queste multe indusse a scoprire i rei della ribellione. Bixio ne fece fucilare ventiquattro immediatamente nella pubblica piazza, indi riscosse le multe di guerra da quelle stesse famiglie ch'erano state saccheggiate ed assassinate: legò i meno rei e li menò a Catania.
È certo che que' popolani di Bronte, i quali commisero que' terribili delitti, erano rei di morte. Ma non si devono fucilare gli uomini senza neppure un giudizio sommario. Secondo Bixio bastava la semplice denunzia per fucilare un cittadino, non avendo riguardo a que' tempi di terrore e di funestissime passioni. Difatti tra quegli infelici fucilati vi furono degli innocenti designati come ribelli per isbaglio, o per vendette private.
E poi un Bixio fucilare i ribelli e gli assassini! egli il primo ribelle ed istigatore dei massacri de' poliziotti di Palermo! L'entrata di Bixio in Bronte, le sue taglie di guerra alla turca, e a danno di quegli stessi che furono vittima della rivolta, e le fucilazioni senza giudizio, mostrano un bestiale rivoluzionario in trionfo.
Qual conto poi si facesse Bixio della umanità, da lui dichiarata lesa in Bronte, lo dimostra pure il seguente fatto. Un uomo di civile condizione di Bronte si avvicina a Bixio o per difendersi, e per difendere gli altri, o per altre ragioni: il Bixio infastidito, trasse la rivoltella e freddò quell'uomo a' suoi piedi!
Bixio morì ancora non vecchio, in estraneo e lontano paese, e gli sia lieve la terra che lo ricopre. Noi cattolici, speriamo che l'infinita misericordia di Dio gli abbia ispirato il pentimento e l'orrore de' suoi delitti, e che l'avesse perdonato, ad onta che avrebbe voluto gettare nel Tevere il Senato cattolico, cioè tutti i Cardinali!
La Sicilia riboccava di avventurieri che piombavano a stormi d'ogni parte dell'Europa; i quali si affannavano a cercar fortuna, ed accrescevano i mali dell'Isola, perché la facevano da redentori e padroni.
I partiti si dilaniavano e si combatteano a morte tra loro, ognuno avea i suoi luridi giornali: chi volea la repubblica, chi l'annessione condizionata, chi incondizionata. Chi si dichiarava per Cavour, chi per Garibaldi. Chi volea l'autonomia col Principe di Genova, chi col conte di Siracusa, chi col Principe Napoleone. Vi era il partito puro borbonico, però questo si faceva piccino piccino e si nascondea in que' momenti poco propizii per lui. In questo caos di ruberie, di nefandezze, di assassinii, di rappresaglie selvagge, e partiti lottanti ad oltranza, chi avea carpito un buono e lucroso impiego, gridava che tutto andava a maraviglia, e che fossero ritornati i be' tempi dell'età dell'oro.
Intanto i rivoluzionarii italiani dal 1860, figli legittimi e naturali di quelli di Francia del 1789, si slanciavano contro le chiese, saccheggiavano monasteri, capitoli, mense, vescovili, luoghi pii, imponendo taglie, vettovaglie e danari.
Nel clero di Sicilia era un poco di fradicio, si trovarono Preti e frati i quali coadiuvarono allo spoglio. Quali preti e frati già in toletta garibaldina con tuniche rosse, mischiando pistole e pugnali e crocifissi, salian su i pergami a predicare anarchia, eresie, ed infamie contro la vera ed unica gloria italiana, il nostro S. Padre Pio IX. Essi beffeggiavano tutto quello che vi è di più sacro nella religione santissima de' nostri padri, e si ridevano delle scomuniche. Giunsero a tal punto le bestemmie, l'eresie, ed i saturnali di que' preti spretati, di que' frati sfratati, da meritare gli elogi di Garibaldi, il quale dichiarò che in Palermo avea trovato un clero progressista.
Ma Garibaldi confondeva una fazione di ecclesiastici senza contegno e senza coscienza, col resto del clero di Palermo, il quale è e sarà sempre dignitoso, esemplare, e tutto per la Romana chiesa, madre e maestra di tutte le chiese del mondo.
Però questa vergogna del garibaldesco elogio toccò pure a Monsignor Giambattista Naselli Arcivescovo di Palermo, siccome il primo Prelato italiano che rendesse visita a Garibaldi. Il Naselli era di poco ingegno, gli eran piaciute sempre la buona vita, e le comodità, ed era facile strumento degli astuti. Consigliato dal suo Segretario Casaccio, ch'è una vera cosaccia, dall'astuto de Francisci Provicario, e forse da' suoi parenti, commise azioni poco degne di un Prelato.
Il de Francisci poi, già Parroco e Provicario, per far dimenticare la sua amicizia col Direttore di Polizia Maniscalco, che chiamava compare innanzi a chi non volea sentirlo, che vantava protezioni, e che minacciava arresti ad ogni piè sospinto, si fece rivoluzionario di occasione: consigliava male l'Arcivescovo, e per quanto avea scandalizzato con la protezione di Maniscalco, altrettanto e più scandalizzò con fare il sanculotte.
Quel povero Arcivescovo mal consigliato da que' volponi in sostanza, andò e tornò dall'Olivuzza alla Casa pretoria, ove abitava Garibaldi, e con turpi onoranze, tra suoni e bandiere, era sempre accompagnato dal segretario Casaccio, e dal Parroco Provicario de Francisci.
Arrivò a tale la condiscendenza del Naselli, con la rivoluzione, ch'egli Arcivescovo intervenne ad una buffonata di Garibaldi.
I re di Sicilia per ispeciale privilegio erano Legati apostolici della S. Sede, ed il giorno di S. Rosalia Protettrice di Palermo, soleano intervenire alla Messa solenne, e far uso di quelle prerogative che aveano. Garibaldi nel 1860, il giorno di S. Rosalia, dopo di aver fatto il pellegrinaggio al monte di questa Santa, volle fare da sovrano, ad onta di tutta quella democrazia che ci ha sempre imposto. Intervenne nel Duomo alla Messa solenne, montò sul trono reale in camicia rossa, e all'Evangelo snudò la spada, come a mostrar di difendere la fede cattolica secondo il cerimoniale prescritto in quella solennità dai sovrani di Sicilia. L'arcivescovo Naselli diede poi le incensate prescritte a Garibaldi atteggiato a sovrano!...
Il canonico Ugdulena, liberale dal 1848, poi graziato e premiato da' Borboni, nel 1849 si era col Pontefice scolpato de' suoi trascorsi e si era mostrato pentito. Nel 1860, rifattosi liberale, salì a ministro garibaldino. E più meritò promovendo le schiere rivoluzionarie, schiccherando lettere a' vescovi contro le canoniche discipli ne, e la libertà della Chiesa, ed approvando quel diluvio di protestantesimo che inondò l'Isola di Sicilia.
Nondimeno moltissimi furono gli ecclesiastici che rimasero illibati dal contagio rivoluzionario, e principalmente i vescovi dell'Isola, i quali spregiando calunnie, esilii e carceri, si alzarono impavidi a sostegno dei dritti della Chiesa manomessa.
Il Vescovo di Caltanissetta Monsignor Guttadauro dichiarò pubblicamente non parteggiare affatto pe' rivoluzionarii, e severo ai suoi lo inibì. Monsignor Criscuolo Vescovo di Trapani, minacciò sospensioni e scomuniche a qualunque sacerdote che facesse comunella co' garibaldini.

Monsignor Celesia, allora Vescovo di Patti, che non fa patti perché non volle giurare fedeltà a Garibaldi, e perché inibì a' sacerdoti della sua diocesi a fare da
sansculottes,
minacciando le censure ecclesiastiche, fu perseguitato, strappato dalla sua sede. Prima fu mandato a Palermo, ove l'Arcivescovo Naselli lo rimproverò perché non avesse giurato fedeltà al nuovo ordine di cose; indi fu mandato in Firenze, e poi a Roma ove dimorò circa cinque anni.
Monsignor Natoli, Vescovo di Caltagirone, sofferse che una schiera di garibaldini entrassero nelle sue stanze, per istrapparlo dal palazzo e dalla sua diocesi. Monsignor Papardo Vicario Generale di Messina con una Pastorale avea detto: «I garibaldini essere predoni nemici di giustizia,» Garibaldi per vendicarsi lo chiamò a Palermo. Ei si negò, e fu tradotto colà con la forza per essere giudicato e condannato da una giunta speciale, la quale non trovò nulla da condannare; in cambio gl'intimò l'esilio. Ma il Vescovo Papardo protestò che non partirebbe se non a forza, e a forza fu sbandito dalla sua terra natale e dalla Sicilia.
E così i sedicenti liberali, i quali riempivano il mondo di lamenti e piagnistei quando il passato Governo esiliava qualche rivoluzionario, il quale avea attentato all'ordine pubblico, e che era stato giudicato da' tribunali a pene maggiori; non appena ghermirono il potere, non si fecero e non si fanno scrupolo di maltrattare ed esiliare i Guardiani del gregge dell'Uomo-Dio; uomini tutti preclari per iscienza e per virtù, rispettati ed amati dal popolo; e li trattavano in quel modo, o perché difendevano i sacrosanti diritti della Chiesa, che aveano giurato difendere sino al martirio.
Garibaldi, sebbene avesse esordito scacciando i Gesuiti e i Liguorini, avvedendosi di essere cattolica la Sicilia, si moderava ad affettata devozione: egli volea scimiottare altri conquistatori. I suoi dicevanlo santo, inviato da Dio (come Maometto), visitava monasteri fingendo devozioni, dicendo non voler molestare le vergini del Signore, aver per pura necessità cacciato i Liguorini e i Gesuiti. Si inchinava a' santi, e faceva strombazzare a' suoi che facesse pellegrinaggi al Monte di S. Rosolia. Però, il Garibaldi con la sua santa
devozione personificava la favola del lupo, il quale per ingannar le pecore si coprì di una pelle di pecora, e siccome questa non era sufficiente a coprirlo tutto intiero, or gli apparivano gli orecchi, ora il muso ed ora la coda di lupo, ad onta che facesse tutti gli sforzi per occultarli. Di fatti avendo egli creato un collegio pei figli del popolo però ogni alunno dovea pagare tre carlini al giorno - fecero Direttore il Mario, celebre repubblicano, il quale col permesso del devoto
Garibaldi stampò nel programma le seguenti parole: «L'educazione (nel collegio), non sarà quella de' preti, non s'insegneranno ridicolaggini di confessione, di comunione, di Papa, ma invece dottrine accomodate ai tempi, alle nuove condizioni della Italia rigenerata,» Ed in fine, Garibaldi conchiuse e coronò la sua devozione mostrata a Palermo col chiamare il Papa ch'è la vera gloria d'Italia: sozzura, cancro d'Italia, vergogna di diciotto secoli.
Ed in seguito: metro cubo di letame.
Mi spiace tra le altre cose, che Garibaldi non abbia letto Monsignor della Casa. Leggilo, caro exdittatore, se negli ozii tuoi ozio ti resta e tu grande italiano amerai certamente que'libri che sono testo di lingua italiana, e nel Galateo di Monsignor della Casa troverai bellissimi avvertimenti anche per te che sei l'eroe de' due mondi.
I garibaldini versavano a piena voce la miscredenza e la depravazione nel popolo. Alcuni giornalacci, in capo la Forbice
di Palermo, schizzavano idee sovversive, cele bravano l'anarchia alla Marat, la scostumatezza alla Aretino. Metteano in burla preti, vescovi, e Papa: metteano in caricatura i Santi, l'Immacolata, e Iddio stesso. La Sicilia fu inondata di libri d'ogni tristizia pieni; commedie, racconti, storiacce, filosofie empie, catechismi guasti e corrotti, almanacchi osceni, storie galanti, poesie luride, e compendii di protestantesimo, scritti da preti e frati ai quali facea incomodo la sottana, e tra gli altri, in capo l'ex-domenicano ex Parroco de Santis. E quei libri che stillavano veleno nei cuori, sofismi ne' pensieri, voluttà ne' sensi, che emancipavano il figlio imberbe da' genitori, la moglie dal marito, che assassinavano la società, si appellavano libri rigeneratori, capilavori di senno e di scienza, e chiamavano tiranno, nemico dell'intelligenza il Governo Borbonico perché li avea proibiti.
Intanto correano tempi di chi piglia piglia. Da' ben de' Liguorini e Gesuiti si volsero ducati diciottomila annui all'istruzione pubblica, il resto non si sa a quale uso fossero stati impiegati. Si ordinò una sovraimposta del due per cento sul valore di tutti i bei del clero, da pagarsi in tre rate.

Da tutte le parti del mondo erano arrivati sussidii ed oblazioni per la
santa causa della rivoluzione,
fatta questa vincitrice non si tenne conto di que' danari; e si obbligò il tesoro siciliano a pagar milioni per armi, munizioni, vestiarii, cavalli, spie, ed altri compensi a' compatrioti, non essendosi costoro satollati ancora, essendo simili alla lupa di Dante.
Si erogarono ducati settecentomila, prezzo di quattro decrepiti legni a vapore, che la rivoluzione comprò più per ingraziarsi gl'inglesi che per vero bisogno.
Il Dittatore, non contento di tutte queste spese, dettò in ottobre allo Scrivano di razione il seguente ordine:
«Rimborserà il tesoro generale di un milione e quattrocentomila ducati per estinguere cambiali all'estero, senza darne conto,
ponendo l'esito al capitolo delle spese nello Stato discusso.»
Vi era attorno a quest'ordine la firma di Domenico Peranni allora ministro di finanze.
Per quanto io sappia, nessun sovrano assoluto diede mai un simile ordine nell'erogare il danaro de' contribuenti, neppure Luigi XIV di Francia, il quale dicea: Lo Stato son io.
Ma a' rivoluzionari è tutto lecito, e principalmente a Garibaldi, ed adepti.
Di tanto male, di tanto danno che ha sofferto, soffre e soffrirà la Sicilia, chi fu la cagione primaria? quella camerilla che circondava Ferdinando II, a capo della quale era il Duca di Mignano, Alessandro Nunziante; e poi i componenti di quella camerilla, quali abbandonarono quali tradirono il giovine ed innocente Francesco II.
Causarono la rivolta e le disgrazie della Sicilia tutti que' napoletani che bazzicavano in Corte, la maggior parte oriundi della Sicilia stessa che odiavano e deridevano i siciliani; consigliavano Re Ferdinando a non visitar mai quell'Isola, ad averla come terra di conquista, e a trattare i siciliani come i Lacedemoni trattavano gli Iloti, se non in tutto almeno in parte.
I Siciliani non pativano molto relativamente a pagar tributi, ne pagavano meno de' napoletani, e questi erano i meno vessati di tasse in confronto agli altri Stati d'Italia. Ma, non in solo pane vivit homo.
I napoletani andavano in Sicilia e trattavano quelli isolani come un popolo schiavo, e quel che più monta, li disprezzavano.
Si era chiusa la comunicazione tra l'Isola e Napoli, era proibito ad un siciliano recarsi alla Capitale dei due regni riuniti, ove risiedea la Corte e il sovrano. Per ottenere un passaporto erano così lunghe le pratiche e le molestie che si doveano sostenere, che metteano un grande scoraggiamento anche a' più volentierosi. I siciliani che venivano a Napoli erano sorvegliati e molestati da una trista e sciocca polizia che mai li lasciava tranquilli. Io che, per concorrere a Cappellano militare, fui chiamato a Napoli con ufficio del Cappellano maggiore, il quale era un Arcivescovo, un Capo di Corte, e faceva l'ufficio di Ministro col Portafoglio, penai non poco per ottenere il passaporto, ed in Napoli fui tanto vessato ed insultato dalla polizia, che stava per ritornarmene in Sicilia, senza neppure presentarmi al cappellano maggiore. Fu un mio compattriota che mi animò a rimanere, e mi ottenne dalla polizia la grazia
di trattenermi in Napoli sino al giorno del concorso, e partire subito, senza che io avessi potuto sapere i resultati.
Nell'organico del 1849, fu stabilito che gli impiegati siciliani nelle diverse amministrazioni della Capitale doveano essere la terza parte: in realtà appena erano la decima parte. Due soli preti siciliani chiedemmo di concorrere al posto di cappellani militari, fra trentadue altri candidati napoletani, e neppure ci voleano ammettere. Convenne che facessimo delle pratiche per non essere esclusi.
Tutto questo offendea l'orgoglio siciliano, ma questa offesa era niente a petto di quella che i Siciliano era erano visitati dal Re, essendo Palermo la vera sede della monarchia de' due regni riuniti. È vero che Ferdinando II nel suo lungo regno visitò qualche volta la Sicilia, ma le sue visite furono sì rapide che pochissimi siciliani poteano vederlo, mentre si facea avvicinare da chiunque lo desiderasse.
La real Famiglia prodigava le sue beneficenze in Napoli: il Re, i principi, le principesse reali, e la Regina Maria Teresa, tanto calunniata anche di avarizia, pagavano di propria borsa senza ostentazione e millanterie migliaia di pensioni mensili a semplice titolo di soccorsi a' bisognosi. Io conosco oggi tante famiglie napoletane cadute nella più desolante miseria, che allora viveano co' soccorsi della real Famiglia. Napoli era la prediletta de' Borboni, la Sicilia meno amata per intrighi di nemici. I Siciliani non invidiavano i Napoletani, come diceano e dicono tutt'ora coloro che rovinarono la Dinastia. Un popolo generoso qual'è il Siciliano, è difficile ad esser vinto dalla trista e bassa passione dell'invidia. Il popolo siciliano potea dire al napoletano: non invideo miror magis.
I Siciliani, per essere contenti, desideravano poco: e fu un grande errore non averli contentati a tempo opportuno.
Difatti so con certezza che Francesco II e qualche altra persona della real Famiglia, conobbero il male che si era fatto senza colpa loro e se ne dolevano poi in Gaeta e nell'esilio di Roma.
I veri Siciliani per essere contenti non desideravano quello che pretendono i rivoluzionari di tutti i regni del mondo, cioè franchigie, o costituzioni politiche ammodernate come mezzo di afferrare il potere, dissanguare i popoli, ed infine detronizzare i re. I veri ed onesti cittadini siciliani non desideravano né costituzioni politi che, né franchigie astratte, vuote di senso e dannose al vivere civile. Essi desidera vano di avere in Palermo la Corte almeno per più mesi dell'anno: e si sarebbero pure contentati di un Vicerè della real Famiglia, che risiedesse in Palermo. Desideravano un'istruzione elementare tanto necessaria ne' piccoli paesi, il commercio, l'agricoltura agevolata, e le opere pubbliche proporzionate a quelle di Napoli.
Sotto i Borboni, le finanze e la sicurezza pubblica, che sono il perno sul quale si aggira la civile società, nulla lasciavano a desiderare; e credo difficile il ritorno di quei tempi qualunque studio facesse l'attuale ordine di cose, anche sforzandosi ad operare con tutta la buona fede possibile; que' tempi di ottimo regime e di personale sicurezza, resteranno un desiderio non solo per la presente generazione, ma chi sa per quante altre che verranno appresso di noi.
Il Governo passato era detto da' rivoluzionarii il Governo della tirannide
e della negazione di Dio.
Ma non governò mai con lo stato di assedio e con leggi eccezionali, eccettuati pochi mesi nel 1849: intanto non vi erano tutti que' ladri, mafiosi
ed assassini che vi sono oggi. Difatti mentre pubblico queste memorie, già si dibatte nel Parlamento di Roma una legge speciale di Sicurezza pubblica per regalarla alla Sicilia qual manicaretto de' più appetitosi: come se non esistesse il Codice penale e la legge di pubblica Sicurezza per infrenare l'audacia di pochi ladri, mafiosi
e simile gente! È una vergogna per questo Governo, il quale si proclama liberalissimo e riparatore, e poi ad ogni momento ricorre alle leggi eccezionali per istrascinare la sua malaugurata esistenza. Per infrenare pochi ladri ed assassini non ha rossore di chiedere leggi draconiane, che in effetto colpiscono i buoni cittadini mettendoli in balìa di Proconsoli desiderosi di distinguersi con efferate rappresaglie. Non contento di ciò il Governo manda de' Prefetti che insultano quella classica terra, e calunniano gli abitanti dichiarandogli ingovernabili, barbari e peggio..! Oggi la Sicilia non è più l'Isola progressista, la terra delle grandi iniziative,
sol perché non soffre in pace le prepotenze e le giunterie de' Proconsoli continentali. Badate signori Proconsoli! e ricordatevi come i Siciliani trattarono i Savoiardi nel principio del secolo passato regnando V. Amedeo II di Savoia.
Il Conte Maffei allora Vicerè della Sicilia vi potrebbe servire di salutare esempio. Io ve lo avverto per vostro bene.
In Sicilia sotto i Borboni l'istruzione pubblica elementare ne' piccoli paesi lasciava a desiderare, ottima invece nelle Città ove erano collegi della tanto benemerita e calunniata Compagnia di Gesù, ed altri istituti e collegi tenuti da religiosi.
L'Agricoltura specialmente e il commercio dell'isola erano poco prosperi.
Fortuna che quella terra è ferace, e che potentemente suppliva al bisogno del paese. Il commercio era ristrettissimo a causa delle poche comunicazioni con continente. né pure nell'interno dell'Isola il commercio potea avere un sufficiente sviluppo, in quanto che si mancava di strade e particolarmente di ferrovie.
Difatti lo sventurato Re Francesco II, che volea la prosperità di quell'isola, appena salì sul trono de' Padri suoi, decretò una rete ferroviaria per la Sicilia assegnando i fondi corrispondenti. Ma le sopravvenute calamità del Reame impedirono a quel benefico Sovrano di effettuare le sue leali e vantaggiose risoluzioni a prò della Sicilia e del resto del Regno.
In Sicilia la giustizia era amministrata da magistrati dotti ed integerrimi. Vi era qualche eccezione, e questa bisogna imputarla alla debolezza dell'umana natura più che al Governo.
Il popolo siciliano è di cuore ardente: o vi ama con entusiasmo, o vi odia a morte: trattatelo con franchezza e lealtà, ed esso si gitterà per voi se occorresse anche nel fuoco. Difatti i siciliani furono il baluardo della monarchia de' Borboni dal 1789 al 1815. Ma se lo trascurate, se lo disprezzate, vi farete un nemico pericoloso che presto o tardi si vendicherà rabbiosamente.
Se mi si dicesse da qualche traditore che bazzicava in Corte, e che tutt'ora si vanta borbonico: «qual guadagno han fatto i siciliani ribellandosi contro i Borboni? ««Nessuno, risponderei, anzi han perduto quello che loro restava, ed han fatto malissimo a rivoltarsi contro il legittimo Sovrano, maggiormente che Francesco II sebben non ebbe il tempo di effettuare alcuna riforma avea tutta la buonissima volontà di contentare i Siciliani ».
Il popolo siciliano fu messo alla disperazione solo da coloro che tradivano il Re ed il paese, ed ingannato dai mestatori della rivoluzione cosmopolita; e si può ad esso applicare il bel verso da tutti ripetuto: incidit in Scyllam cupiens vitare Charibdim.
Vi ho detto però che il Siciliano o tosto o tardi si vendica. Io non esprimo de' desiderii, né voti, desidero solamente che si ricordino i casi avvenuti in Sicilia sul finire del Secolo XIII quando si disse: Quod Siculis placuit sola Spirlinga negavit.
Il popolo siciliano è ora senza mezzi, ma la sua storia è là per assicurarvi, che senza millanteria potrebbe ripetere col suo antico ed illustre compatriota Archimede: Da mihi punctum caelum terramque movebo.
Simili riflessioni io facevo mentre la fregata salpava e si avviava alla volta di Napoli. Oh Dio! io mi sentiva stringere il cuore da una mano di ferro nel vedermi allontanato da quella terra infelice ma troppo cara per me. A me giovava di starmi sull'estrema poppa del naviglio, perché mi sembrava in questo modo essere più vicino alla diletta mia Patria. Le mie braccia erano conserte al seno, i miei occhi erano pregni di lagrime. Addio, esclamai, o Patria mia, chi sa.... se ti rivedrò mai più...! forse lascerò queste mie travagliate ossa in qualche Campo di battaglia.
La fregata solcava quel mare tranquillo e trasparente con una rapidità non ordinaria.
Io guardavo verso il Sudovest, e lontano lontano vedea le amene spiagge, e i cari monti che mi videro nascere, ed ove passai la mia infanzia e la mia adolescenza. Quelle spiagge e que' monti mi sembrarono troppo angusti e meschini nella mia prima giovinezza, ed ora desidero la pace di quella solitudine. Quelle spiagge e que' monti, oh quante care e dolci memorie suscitavano nell'anima mia!
Ivi io era cresciuto, ardito e baldo, ignaro a' mali della vita. Ivi sopra quelle spiagge e que' monti mi deliziava con giuochi fanciulleschi, e faceva prove di nautica e ginnastica abilità.
Ivi mi appresero a conoscere ed amare il Creatore, i parenti, il prossimo. Ivi mi beavo nelle carezza e ne' consigli de' miei affettuosissimi genitori. Oh! ad un uomo volgare, queste rimembranze sembreranno miserie: ma nelle anime sensibili, si identificano, direi quasi, con lo spirito istesso e formano la gioia e il dolore. Nello stato in cui mi trovava, quelle care rimembranze mi cagionavano un dolore che ha pari, e bene potevo io dire con la Francesca da Rimini di Dante: «Nessun maggior dolore - che ricordarsi del tempo felice - nella miseria.
Io aguzzava lo sguardo, e mi sembrava vedere la sommità di un monte. Oh! là io lasciava il padre mio, vecchio paralitico, dolente de' pericoli che io correva, ma contento della mia condotta: io temeva di non rivederlo mai più. Lo rividi dopo un anno, ma ohime! per poco: la ferocia rivoluzionaria mi strappò dal seno paterno e mi obbligò all'esilio. E quando il mio vecchio padre spirò l'estremo sospiro della vita, a me tolse il destino di sentire le ultime benedizioni che impartiva sul mio capo.
Cosa potete darmi di più, uomini che morrete? l'esilio, la prigione, il distacco dal più caro degli esseri che avea sulla terra? me li avete già dati! Ma voi mi avete onorato: voi, mi conduceste in quella stessa prigione che fu onorata dall'illustre Arcivescovo Monsignor Francesco Saverio Apuzzo!
Io lasciava in que' luoghi, affettuosi fratelli, sorelle ed amici. Non pochi di quest'ultimi, uniti a qualche mio parente, giudicandomi nella sventura, mi rinnegarono e mi perseguitarono.
Ma io mi sono vendicatoSì! li perdonai, e feci loro del bene, secondo i subli mi precetti del Divino Maestro, e le naturali tendenze del mio cuore.
Già le spiagge della Sicilia erano scomparse: i più alti monti sembravano a fior di acqua: a poco a poco si confusero con la gran volta celeste... sparirono...!
Ed io, abbattuto, addolorato mi prostrai e pregai il Dio delle misericordie per la salvezza e la prosperità di quell'isola che più non vedea, ma che mi parlava potentemente nella memoria e nel cuore.

(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).

sabato 29 ottobre 2011

Museo Nazionale del Risorgimento Italiano di Torino:Entri ingenuo esci ignorante.

Ingresso del Museo Nazionale del risorgimento Italiano a Torino.



Per pura curiosità mi  recai al Museo Nazionale del Risorgimento Italiano a Torino per vedere quanto lo stato illegittimo D'Italia sarebbe arrivato a spargere menzogne pur di giustificare la sua effimera esistenza, quindi mi recai nella capitale del Regno Sardo(Torino) curioso di ciò che sarebbe saltato fuori , anche se una certa idea girava già nella mia testa.Arrivato davanti a palazzo Carignano dove nella piazzetta di fronte sorge la statua di Vincenzo Gioberti(unica cosa buona)mi accinsi ad entrare, il palazzo era molto esteso e lo si capiva già al solo ingresso, salendo le scale tappezzate di rosso arrivai in biglietteria e mi si presentò davanti agli occhi un ambiente oserei dire triste e spoglio, vi erano altri visitatori di diversa età e provenienza, c'erano anche dei libri in vendita , ma ad un primo sguardo mi accorsi che erano la solita paccottiglia pro-risorgimentalista (nulla da stupirsi) di importanza totalmente nulla, e come se non bastasse le forniture erano così scarse da far aumentare di più la tristezza della biglietteria , pagai il biglietto e mi apprestai all'ingresso nella prima sala , fin dal primo istante fui bombardato da pubblicità spudoratamente pro-Savoia, che a dirla tutta mischiava fatti totalmente separati tra loro e incongruenti, tra le prime cose citate vi era l'immancabile Rivoluzione Francese, che veniva come era palese pubblicizzata come cosa buona e giusta, vi erano busti di Napoleone, il cappello frigio simbolo dei giacobini , veniva anche intrattenuta la gente con ulteriori filmati propagandistici che parlavano più che bene dei rivoluzionari e di ciò che avevano fatto, liquidando le vicende contro-rivoluzionarie come semplice banditismo spinto dalla fede che per come la raccontavano loro , era l'ignoranza che non li faceva capire l'importanza della rivoluzione. Innervosito da tale menzogne , e rattristato dalla gente lobotomizzata che seguiva tali notizie come oro colato, proseguì con la mia visita , quando arrivai nelle stanze che trattavano la restaurazione mi accorsi senza sorpresa che la sfilza di menzogne continuava, erano presentati i soliti cattivi che cattivi non erano , e i soliti buoni che di buono avevano ben poco, erano appesi all parete due grossi quadri raffiguranti gli ultimi due Savoia del ramo principale, Vittorio Emanuele I° , e Carlo Felice, rappresentanti gli ultimi Savoia decenti nella storia, avanzando di sala in sala si potevano ammirare una sfilza di ritratti e dagherrotipi raffiguranti veri e propri terroristi, come Mazzini, Garibaldi, Manin, ecc..., tanto per citarne alcuni, senza contare poi la ricostruzione della fantomatica cella di Silvio Pellico, ennesimo settario e terrorista, famoso per aver scritto "le mie prigioni", ennesima carrellata di bugie e calunnie verso il governo Asburgico.Tra una sala e l'altra incominciavano a spuntare ritratti di diversa data raffiguranti quel  rifiuto di Vittorio Emanuele II°, accompagnati da descrizioni del personaggio lontane anni luce dalla realtà, in tutte le sale del museo veniva esaltata le figura del Regno di Sardegna e del suo governo "liberale", di Cavour e delle sue presunte opere "buone", in poche parole si trattava di una manipolazione della realtà spaventosa, addirittura all'interno di una teca vi  era conservato un fazzoletto sporco del sangue di Garibaldi, quasi come fosse quello di un Santo, una vergogna!!!, all'interno del museo si poteva osservare il parlamento Subalpino, dire che sapere che proprio in quei posti hanno assassinato la vera Italia e che proprio li sedevano individui spregevoli come Cavour mette i brividi, ma la cosa che mi sconvolse particolarmente, è stata quando vidi all'interno di una sala di proiezioni , molte persone incantate ad ascoltare e ad assorbirsi tante di quelle menzogne senza nemmeno esserne a conoscenza, quella gente era convinta di sentire la verità mentre si trattava solo di menzogne.Dopo aver visto tutto ciò il museo si concludeva con le ultime sale contenenti i ritratti del Genocida Umberto I°, e con cimeli della grande guerra dove vennero mandati a morire contro la loro volontà e il loro credo milioni di giovani, uscito da queste ultime sale si presentò davanti a me un enorme sala con al suo interno quadri raffiguranti battaglie del 1848 e del 1859-1860, dopo di che terminai la mia visita e uscii dal museo.

In conclusione ho avuto la conferma delle mie precedenti riflessioni, il museo è totalmente, innegabilmente, fortemente, la più grande e colossale propaganda farsata risorgimentalista che io abbia mai visto!, non c'è una cosa raccontata con obiettività e realtà, e la povera gente che entra li pensa erroneamente che sia tutto vero, e lo da per scontato, questo stato fantoccio mi mette sempre più tristezza, arriva al ridicolo per legittimarsi e passare per cosa buona e giusta, vi do un consiglio lettori, se siete poco preparati e facilmente suggestionabili evitate certi posti, ne va della vostra cultura, anche se penso che se state leggendo queste righe un po di verità la sapete già.

Statua di Vincenzo Gioberti.




Parte iniziale del Museo(sulla sinistra i cimeli di Vittorio Emanuele II°).



Terrificante visione del Parlamento Subalpino.




Una delle tante sale a  dir poco raccapriccianti del Museo.



Il Principe dei Reazionari.

venerdì 28 ottobre 2011

Eroi dimenticati: i soldati pontifici a Castelfidardo

Nel settembre del 1860, una feroce battaglia vide italiani uccidersi fra loro. Ma la storia ricorda solo quelli dell’esercito piemontese. E’ il triste lascito di una unificazione che ha diviso il Paese


 
Un effetto veramente utile del 150 anniversario dell'Unità d'Italia potrebbe essere il riconoscimento, con oltre un secolo di ritardo, di una memoria condivisa sul processo di unità nazionale. Confrontando la realtà italiana con quella di altri Paesi si resta sconcertati nel vedere, ad esempio, come gli Stati Uniti abbiano saputo riconoscere una tradizione bipartisan da una guerra civile costata più di seicentomila morti e infinite distruzioni.

In Italia non c'è mai stato spazio per simile magnanimità: gli unici eroi degni di onore erano garibaldini e bersaglieri, ma per i loro avversari non doveva esserci scampo, neppure da morti. I borbonici erano pigri e indolenti, i pontifici (si sa!) erano "romani", degli Alberto Sordi ante litteram. Gli zuavi pontifici, volontari stranieri, quelli no: cattivi, "mercenari" e "fanatici", laddove questi ultimi due attributi sono in palese contraddizione fra loro.

Eppure, fra le pieghe della narrazione storica dei fatti risorgimentali si nota un fatto strano: e cioè che Garibaldi ha sempre avuto la meglio nei confronti dell'esercito borbonico, ma non è mai riuscito a prevalere nei confronti del piccolo esercito pontificio, composto, si badi, per due terzi da italici. Le famose "camicie rosse" sono state sempre volte in fuga dai papalini, che hanno dovuto soccombere solo alla schiacciante preponderanza dell'esercito italiano.

* * *


In effetti, i mezzi a disposizione dello Stato della Chiesa permettevano soltanto l'organizzazione di un esercito capace di sconfiggere bande di irregolari, non certo di competere con la potenza militare piemontese. Questo fu compreso pienamente da Pio IX che, di fronte alle crescenti minacce, vide l'opportunità di richiamare migliaia di volontari cattolici sotto le bandiere del Papa, non come mercenari, ma come membri di una "Brigata internazionale" costituita per intraprendere quella che venne poi chiamata la "Nona crociata".


Incaricato di tale impresa fu monsignor Frangois Xavier de Merode (1820-1874), già ufficiale dell'esercito belga e combattente della campagna d'Algeria, nel 1844, che, tuttavia, dovette lottare anche contro l'immobilismo e il lassismo del governo pontificio. Come ebbe a dire lo stesso de Merode: «Pretendere di introdurre riforme in Vaticano è come voler pulire le piramidi d'Egitto con una spazzola».

Il comandante in capo venne scelto nella persona del generale Cristophe Leon de La Moriciére (1805-1865), che aveva organizzato e comandato le compagnie miste di arabi e francesi in Algeria, nel 1833. Tale nomina venne fatta solo il 3 marzo 1860, alla vigilia della spedizione dei Mille. De La Moriciére, quindi, potè fare ben poco per plasmare un esercito secondo i suoi voleri, mantenendo gli obiettivi strategici già a suo tempo prescelti: contrastare insurrezioni e infiltrazioni rivoluzionarie e, in caso di aggressione piemontese, concentrare le proprie forze in Ancona, così da provocare un possibile intervento austriaco o delle altre potenze.

* * *


Nel maggio del 1860 una colonna di trecento "camicie rosse" comandate dal famigerato Callimaco Zambianchi, uno psicopatico che aveva assassinato decine di preti durante la Repubblica Romana, venne facilmente sbaragliata da sessanta gendarmi pontifici, tutti italiani, guidati da un giovane e coraggioso colonnello francese, George de Rarecourt de la Vallèe, marchese di Pimodan (1822-1860).

Quando Garibaldi entrò a Napoli il 7 settembre 1860, Cavour fu costretto a inviare truppe nel Meridione per evitare due eventualità tra loro opposte: una possibile sconfitta delle forze garibaldine, isolate in un territorio che diveniva loro sempre più ostile o una possibile vittoria delle stesse, il che avrebbe comportato la nascita di una repubblica meridionale.

* * *


Lo schema adottato da Cavour fu prevedibile quanto efficace: infiltrazioni di garibaldini ai primi di settembre, insurrezione pilotata in Umbria e Marche tra l’8 e il 12, intervento "normalizzatore" dell'esercito piemontese. Alle forze pontificie, secondo l'ultimatum consegnato al gen. La Moriciére il 10 settembre, era interdetta ogni repressione di "manifestazione popolare", davanti alla quale avrebbero dovuto evacuare la regione senza fare opposizioni.

Il giorno dopo, 35.000 piemontesi divisi in due corpi d'armata marciarono su Ancona e sull'Umbria mentre veniva emanato un proclama del generale Enrico Cialdini (1811-1892) che merita la citazione per esteso: «Soldati del 4° corpo d'armata! Vi conduco contro una masnada di briachi stranieri che sete d'oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri Paesi. Combattete, disperdete inesorabilmente quei compri sicari, e per mano vostra sentano l'ira di un popolo che vuole la sua nazionalità e la sua indipendenza. Soldati! L'inulta Perugia domanda vendetta e, benché tarda, l'avrà!».

Quello stesso giorno le artiglierie piemontesi sbriciolavano le mura di Fano e di Pesaro e identica sorte toccava a Perugia. Più accanita fu la resistenza opposta dalla guarnigione del castello di Spoleto, composta da trecento irlandesi del battaglione San Patrizio e ventitré tiratori scelti franco-belgi che si arresero solo dopo aver esaurito le munizioni. Nelle Marche, La Moriciére aveva portato i suoi settemila uomini fino a Loreto a tappe forzate e, nell'ultima tappa, partendo da Macerata, aveva percorso lo stesso cammino che, oggi, viene seguito durante il pellegrinaggio dallo stadio Helvia-Recina al santuario di Loreto.

* * *


Il generale italiano Cialdini, però, era stato più abile, riuscendo a occupare le alture di Castelfidardo con i suoi diciassettemila soldati già il 17 settembre, sbarrando la strada per Ancona. Quella sera, La Moriciére stabilì un piano d'attacco semplice quanto rischioso: 3.500 uomini, al comando del generale Pimodan, avrebbero dato l'assalto alle colline oltre il Musone, conquistando le fattorie Le Crocette e Le Cascine, mentre altri 3.000 uomini, guidati dallo stesso La Moriciére, avrebbero aperto la strada ai carriaggi lungo la litoranea, per poi ritirarsi verso Ancona.

La missione del Pimodan era, quindi, pressoché suicida, data la superiorità numerica dell'avver­sario. I soldati pontifici si confessarono e si comunicarono nella notte e, alle otto e mezza del mattino, uscirono da Loreto, innalzando la bandiera adoperata nella battaglia di Lepanto.

* * *


La colonna di Pimodan discese l'alto monte su cui si trova Loreto e varcò il Musone, incontrando subito una fortissima resistenza da parte di alcuni battaglioni di bersaglieri. I rinforzi italiani continuavano ad affluire e la situazione dei pontifici, verso le undici, si fece pesantissima, tanto che La Moriciére, invece di proseguire verso Ancona, accorse in aiuto del suo sottoposto, ma un reggimento svizzero e uno di cacciatori italiani si dissolsero sotto il fuoco nemico.

Pimodan, intanto, dritto a cavallo in mezzo a una tempesta di pallottole, continuava a dirigere le manovre dei suoi battaglioni incurante del pericolo, fino a che una palla gli spaccò la mandibola. Reggendola con una mano continuò a incitare i suoi, mormorando: «Coraggio, mes enfants! Dio è con noi!», poi una seconda pallottola lo colpì al petto, poi una terza e una quarta, infine, lo gettò a terra. Sarebbe spirato poco dopo nella fattoria Andreani - Catena, dopo un disperato intervento chirurgico praticatogli da un giovane chirurgo italiano.

* * *


Il giorno successivo i superstiti dell'esercito pontificio si arrendevano ai generali Alberto Leotardi e Efisio Cugia, che li trattarono con il rispetto dovuto a un nemico così valoroso. Pare che, leggendo la lista dei caduti, Cugia abbia esclamato: «Che nomi! Pare di leggere una lista di invitati a un ballo di Corte sotto Luigi XIV!». Quanto a La Moriciére, riuscì a raggiungere Ancona con poche decine di uomini, ma la città cadde dopo un violentissimo bombardamento terrestre e navale, senza che la sedicente Europa cristiana muovesse un dito per impedire tale sopraffazione. A Castelfidardo i morti italiani e pontifici furono sepolti in due fosse comuni: i primi dalla parte della collina, i secondi dalla parte del mare.

Secondo Eugenio Pacioni, presidente della Fondazione Ferretti che si occupa di perpetuare la memoria dei fatti di quel giorno, le fosse furono coperte di mattoni, poi rimossi dai contadini della zona, ma furono proprio le genti del posto a volere costruire un monumento funebre sul colle Montoro, inaugurato nel 1871 e nella cripta furono sistemate le spoglie.

* * *


Vero è che, sulle colonne sono riportati solo i nomi dei caduti italiani ma i discendenti dei caduti pontifici, molti dei quali appartenenti a nobili casati europei, ancora vanno in pellegrinaggio su quelle colline. Persine un personaggio truce come Cialdini, rimasto colpito dall'eroica fine di Pimodan, depose sulla sua bara un biglietto con il motto: «Oltre il rogo/ira mortai non vive».

* * *


Ricorda

«Da molto tempo ho offerto a Dio e alla Chiesa il sacrificio della mia vita. Invidiate la mia felicità e confortate la mia povera madre. Lunga vita a Pio IX Pontefice e Re». (Parole scritte da un soldato pontificio ferito a Castelfidardo poche ore prima di morire. Tratte da: Patrick Keyes O'Clery, La rivoluzione italiana. Come fu fatta l'unità della nazione, Ares, 2000, p. 433).

* * *

Bibliografia
Piero Raggi, La nona crociata. I volontari di Pio IX in difesa di Roma (1860-1870), Libreria Tonini, 1992.

Volontari di Pio IX e zuavi pontifici, eroi della Chiesa

Negli anni cruciali dello scontro fra la Rivoluzione Italiana e la Chiesa Cattolica, volontari venuti da ogni parte del mondo, di tutte le classi sociali, offrirono i loro servigi e la vita stessa per la difesa del Papa e della Chiesa. Prova inconfutabile che la Chiesa è madre di tutte le genti e che per la luce del bene vi sarà sempre chi è pronto a combattere e morire.




I risorgimentisti accusavano il Papa di reggersi sulle baionette straniere. La Civiltà Cattolica citando anche uno dei maggiori esponenti del pensiero controrivoluzionario italiano, il conte Clemente Solaro della Margarita, per anni ministro degli Esteri del Re Carlo Alberto, ebbe buon gioco nel ricordare che «Niun popolo e niun individuo è straniero al Pontefice (…) mentre voi l’accusate di appoggiarsi a baionette straniere, egli si appoggia veramente all’amor dei suoi figli».
La necessità di organizzare la difesa dello Stato Pontificio apparve evidente nel 1860: l’Impero d’Austria cattolico era stato sconfitto dai franco-piemontesi, Bologna e le Romagne erano state sottratte al governo Pontificio e l’Imperatore Napoleone III, che pure manteneva a Roma un corpo di truppe per non alienarsi del tutto l’appoggio dei cattolici francesi, aveva ventilato l’idea che il Papa rinunciasse al Potere Temporale facendosi garantire la sua indipendenza spirituale dalle Grandi Potenze.
Il conte di Chambord, pretendente legittimo al Trono di Francia, descrisse bene la doppiezza del Bonaparte in una lettera a mons. Dupanloup: «Di tanti nemici che cospirano contro di essa [la sovranità dei Papi] quelli da temere di più non sono coloro che (...) attaccano in pieno giorno e a volto scoperto; i più temibili sono coloro che si nascondono, che hanno due facce e due lingue; che, coprendosi con le apparenze del rispetto, agiscono nell’ombra, o che, potendo e dovendo impedire il male, lasciano che si faccia».
Il 20 aprile 1860 fu nominato Pro-Ministro delle Armi il belga mons. François-Xavier de Mérode, di nobile famiglia tra i cui antenati figurava la Regina santa Elisabetta d’Ungheria. In gioventù era stato un valente ufficiale, decorato della Legion d’Onore combattendo in Algeria nell’Esercito francese, e nel 1849 (a 29 anni) era stato ordinato sacerdote.
A capo dell’Esercito Pontificio fece chiamare un altro ex combattente delle guerre d’Algeria, il generale Louis de la Moricière, che il giorno della nomina lanciò un proclama nel quale affermava: «La rivoluzione, come un tempo l’islamismo, minaccia oggi l’Europa, ed oggi, come allora, la causa del Papa è quella della civiltà e della libertà nel mondo».
I volontari accorsero da tutto il mondo con spirito di crociati e tali furono considerati dal Papa, che elargì loro tutte le indulgenze che si erano elargite nel Medioevo ai liberatori della Terra Santa. Furono formati reparti omogenei con uomini della stessa nazionalità: tiratori franco-belgi, carabinieri tedeschi, bersaglieri austriaci, il battaglione di San Patrizio composto d’irlandesi (ne furono arruolati più di 1000, su 3000 accorsi da tutte le classi sociali).

Eroismo a Castelfidardo
Alla data del 1° agosto 1860 gli effettivi dell’Esercito Pontificio erano saliti da 15.000 a 20.000 uomini, che poco più di un mese dopo dovettero affrontare le soverchianti forze piemontesi che invasero le Marche e l’Umbria, senza dichiarazione di guerra e con il via libera dato da Napoleone III («fate, ma fate presto») e dal governo liberale della protestante Inghilterra.
A Castelfidardo i papalini furono sconfitti dopo eroica resistenza da forze più di tre volte superiori; il capo di S.M. dell’Esercito pontificio Generale de Pimodan, mortalmente ferito, continuò a incitare i suoi uomini al grido di “Viva Pio IX” e “Viva il Papa Re”, finché spirando disse a la Moricière: «Generale, combatterono da eroi, l’onore della Chiesa è salvo».
La Santa Sede fece coniare una medaglia in argento della campagna con una croce di San Pietro «rovesciata ma dritta come un gladio sfoderato per la giustizia» contornata dalle parole Pro Petri Sede.

Gli zuavi pontifici arrivano da tutto il mondo
Ridotto al solo Lazio, lo Stato Pontificio fu abbandonato dalle truppe francesi, a seguito della Convenzione del settembre 1864, con la quale il Regno d’Italia si impegnava a non attaccare Roma, e Pio IX dovette riorganizzare il proprio esercito affidandolo nell’ottobre 1865 al Generale Ermanno Kanzler, nativo del Baden, entrato al servizio del Papa nel 1844.
Un mese prima il Generale de la Moricière era stato trovato morto in ginocchio e col crocifisso in mano, mentre mons. de Mérode fu congedato per le pressioni di Napoleone III. Sarà consacrato arcivescovo e morirà nel 1874 tra le braccia del Papa, pochi mesi prima di essere nominato cardinale.
I volontari stranieri furono inquadrati nel reggimento degli zuavi, nel quale nell’intero decennio ’60 si avvicendarono oltre 10.000 uomini da venticinque diverse nazioni.
Nel 1868 il corpo comprendeva 4.592 uomini, di ogni provenienza sociale, studenti, artigiani, nobili, contadini, borghesi. Tra essi 1.301 francesi, 686 belgi, 1.910 olandesi, 157 sudditi pontifici, 12 modenesi, 14 napoletani, 6 toscani, 19 svizzeri, 7 austriaci, 87 prussiani, 22 tedeschi, 32 spagnoli, 6 portoghesi, 50 inglesi, 101 irlandesi, 10 scozzesi, 2 russi, 12 polacchi, 3 maltesi, 135 canadesi, 14 statunitensi, 1 dalle isole dei mari del sud, 1 indiano, 1 africano, 1 peruviano, 1 messicano, 1 circasso: l’universalità della Chiesa era ben rappresentata!
Per finanziare le spese della difesa si era iniziato nel 1860 in Gran Bretagna a raccogliere l’“obolo di San Pietro”.
La formula del loro giuramento recitava: «Giuro a Dio onnipotente d’essere ubbidiente e fedele al mio sovrano, il Pontefice romano, nostro Santo Padre il Papa Pio IX, e ai suoi legittimi successori. Giuro di servirlo con onore e fedeltà e di sacrificare la mia vita per la difesa della sua persona augusta e sacra, per il mantenimento della sua sovranità e per il mantenimento dei suoi diritti».
È storicamente assai significato e altamente simbolico che tra gli ufficiali vi fossero due discendenti di famosi capi vandeani, che si erano battuti “Per Dio e per il Re” contro la Repubblica Francese: il conte Henri de Cathelineau e il barone Athanase de Charette de la Contrie.

Zuavi e francesi vincono a Mentana
L’Esercito Pontificio, forte di 13.000 uomini, fu messo alla prova nell’autunno 1867, quando il governo italiano lasciò che Garibaldi invadesse da nord il Lazio alla testa di un corpo di volontari, mentre ulteriori colonne di suoi seguaci penetravano da altre direzioni.
Dopo settimane di scontri minori, il 3 novembre avvenne la battaglia principale a Mentana, dove sotto il comando di Kanzler quasi 3.000 pontifici e circa 2.000 francesi (precipitosamente sbarcati a Civitavecchia dopo aver constatato il mancato rispetto della Convenzione di settembre) sconfissero duramente circa 9.000 volontari comandati da Garibaldi.
Gli storici hanno ormai accertato che il merito della vittoria spettò soprattutto ai Pontifici, a differenza di quanto sostennero i risorgimentisti e i napoleonici. Pio IX accolse Kanzler vittorioso recitando i primi versi della Gerusalemme Liberata del Tasso: «Canto l’armi pietose e ‘l Capitano / che il gran sepolcro liberò di Cristo».
Una Roma in tripudio accolse i vincitori. Al cimitero del Verano fu eretto un monumento a ricordo dei caduti pontifici, raffigurante san Pietro nell’atto di consegnare la bandiera a un crociato.

L’ultimo sangue al servizio della Chiesa
L’atto finale si compì il XX settembre 1870. Le truppe italiane, ancora una volta senza dichiarazione di guerra, invasero lo Stato Pontificio, abbandonato dalle truppe francesi a causa della guerra con la Prussia. Inutilmente il governo italiano cercò di suscitare moti anti-papali che giustificassero l’intervento. Tutte le testimonianze, anche quelle insospettabili dei diplomatici della protestante Inghilterra, attestano l’attaccamento dei romani al loro governo e la loro devozione a Pio IX, vivamente acclamato a ogni sua pubblica apparizione nei giorni precedenti l’invasione.
Al Re Vittorio Emanuele II che gli aveva scritto giustificando con speciosi argomenti l’invasione, Pio IX rispose: «Io non entrerò nei particolari della lettera, per non rinnovellare il dolore che una prima scorsa mi ha cagionato. Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che V.M. empia di amarezza l’ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai principii ch’essa contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa, che è interamente la Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V.M. per liberarla da ogni pericolo, e renderla partecipe delle misericordie onde Ella ha bisogno».
Il Papa ordinò al suo esercito di resistere quel tanto che servisse a dimostrare l’aggressione, innalzando poi bandiera bianca. Agì quindi sempre in piena coerenza con la dottrina cattolica della “guerra giusta”, che legittima pienamente l’uso della forza militare contro un ingiusto aggressore e permette anche la guerra offensiva, alla quale uno Stato ricorre per essere reintegrato in un diritto ingiustamente violato. L’Esercito pontificio combatté con valore quando vi era speranza di vittoria, fece una resistenza simbolica quando mancò ogni speranza.
Diciannove furono i caduti papalini deceduti il 20 settembre 1870 e nei giorni successivi in seguito alle ferite; tra essi italiani, francesi, olandesi, svizzeri, belgi e bavaresi. Li ricordiamo con un verso della canzone preferita degli zuavi pontifici: «Gloire à vous tous, chevaliers de Saint Pierre».

martedì 25 ottobre 2011

Vandea: Giacobinismo crudele Come il comunismo:Aleksandr I. SOLZENICYN.



«Mai, a nessun paese, potrei augurare una “grande rivoluzione”». Così diceva, giusto 10 anni fa, la coscienza spirituale della santa madre Russia. Che ha avuto anch’essa la sua Vandea. Cioè i suoi insorgenti e i suoi carnefici, i suoi massacri e i suoi oblii

Sabato 25 settembre 1993, in Francia, invitato dall’allora presidente del consiglio generale di Vandea, Philippe de Villiers, oggi parlamentare europeo, lo scrittore russo presenziò all’inaugurazione di un monumento a Les Lucs-sur-Boulogne, dedicato, in uno dei luoghi più significativi del martirologio vandeano, a ricordare l’insorgenza popolare contro la Rivoluzione detta francese, una rivolta scoppiata appunto nel 1793.
Il quotidiano parigino “Le Monde”, del 28 settembre successivo, ne pubblicava il testo del discorso, pronunciato dallo scrittore di fronte a circa 30mila persone, con il titolo “Toute révolution déchaîne les instincts de la plus élémentaire barbarie”. La traduzione italiana è comparsa sulle pagine del mensile “Cristianità” (ottobre 1993, n. 222) con il titolo “Onore alla memoria della resistenza e del sacrificio degl’insorti vandeani del 1793 contro la Rivoluzione”, per essere poi raccolto, con alcuni ritocchi, nell’antologia di scritti di Solzenicyn, “La verità è amara. Saggi, discorsi e interviste (1974-1995)”, pubblicata a cura di Aldo Ferrari a Milano nel 1995 da Minchella Editore




Due terzi di secolo fa, quand’ero bambino, leggevo già con ammirazione nei libri il racconto che rievocava l’insorgenza della Vandea, così coraggiosa e così disperata, ma non avrei mai potuto immaginare, neppure in sogno, che da vecchio avrei avuto l’onore di partecipare all’inaugurazione del monumento in onore degli eroi e delle vittime di tale insorgenza.

Sono passati venti decenni, decenni diversi a seconda dei diversi paesi, e non solo in Francia, ma anche altrove, l’insorgenza vandeana e la sua sanguinosa repressione sono state sempre di nuovo illuminate. Infatti gli accadimenti storici non sono mai compresi pienamente nell’incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma a una discreta distanza, quando vengono raffreddate dal tempo.

Per molto tempo si è rifiutato di ascoltare e di accettare quanto era stato gridato dalla bocca di coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una terra laboriosa, per i quali sembrava fosse stata fatta la Rivoluzione, ma che la stessa Rivoluzione oppresse e umiliò fino all’estremo limite, ebbene, proprio questi contadini si ribellarono contro di essa!

I contemporanei avevano ben colto che ogni rivoluzione scatena fra gli uomini gl’istinti della barbarie più elementare, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio. Essi pagarono un tributo decisamente pesante alla psicosi generale, quando il fatto di comportarsi da uomini politicamente moderati, o anche soltanto di sembrarli, veniva già considerato un crimine.

Il secolo ventesimo ha notevolmente offuscato agli occhi dell’umanità l’aureola romantica che circondava la rivoluzione nel secolo diciottesimo. Di mezzo secolo in mezzo secolo gli uomini hanno finito per convincersi, partendo dalle loro stesse disgrazie, del fatto che le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società; che danneggiano il corso naturale della vita; che annientano i migliori elementi della popolazione dando campo libero ai peggiori; che nessuna rivoluzione può arricchire un paese, ma solamente quanti si sanno trarre d’impiccio senza scrupoli; che generalmente nel proprio paese produce innumerevoli morti, un vasto impoverimento, e, nei casi più gravi, un degrado duraturo della popolazione.

Uno "slogan" intrinsecamente contraddittorio

Il termine stesso "rivoluzione" — dal latino revolvo — significa "rotolare indietro", "ritornare", "provare di nuovo", "riaccendere", nel migliore dei casi mettere sossopra, una sequenza di definizioni poco desiderabili. Attualmente, se da parte della gente si attribuisce a qualche rivoluzione la qualifica di "grande", lo si fa ormai solo con circospezione, e molto spesso con molta amarezza. Ormai capiamo sempre meglio che l’effetto sociale che desideriamo tanto ardentemente può essere ottenuto attraverso uno sviluppo evolutivo normale, con un numero infinitamente minore di perdite, senza comportamenti selvaggi generalizzati. Bisogna saper migliorare con pazienza quanto ogni giorno ci offre. E sarebbe assolutamente vano sperare che la rivoluzione possa rigenerare la natura umana. Ebbene, la vostra Rivoluzione, e in modo assolutamente particolare la nostra, la rivoluzione russa, avevano avuto questa speranza.

La Rivoluzione francese si è svolta nel nome di uno slogan intrinsecamente contraddittorio, e irrealizzabile: Libertà, uguaglianza, fraternità. Ma, nella vita sociale, libertà e uguaglianza tendono a escludersi reciprocamente, sono antagoniste: infatti, la libertà distrugge l’uguaglianza sociale, è proprio questa una della funzioni della libertà, mentre l’uguaglianza limita la libertà, perché diversamente non vi si potrebbe giungere. Quanto alla fraternità, non è della loro famiglia, è un’aggiunta avventizia allo slogan: la vera fraternità non può essere costruita da disposizioni sociali, è di ordine spirituale. Inoltre, a questo slogan ternario veniva aggiunto con tono minaccioso "o la morte", il che ne distruggeva ogni significato.

Mai, a nessun paese, potrei augurare una "grande rivoluzione". Se la Rivoluzione del secolo diciottesimo non ha portato la rovina della Francia è solo perché vi è stato Termidoro. La rivoluzione russa non ha conosciuto un Termidoro che abbia saputo arrestarla, e, senza deviare, ha portato il nostro popolo fino in fondo, fino al gorgo, fino all’abisso della perdizione. Mi spiace che non vi siano qui oratori che possano aggiungere quanto ha insegnato loro l’esperienza all’estremo limite della Cina, della Cambogia, del Vietnam, a dirci che prezzo hanno dovuto pagare, da parte loro, per la rivoluzione.

Le grandi insorgenze contadine

L’esperienza della Rivoluzione francese avrebbe dovuto bastare perché i nostri organizzatori razionalisti della "felicità del popolo" ne traessero lezioni. Ma no! In Russia tutto si è svolto in un modo ancora peggiore, e in una dimensione senza confronti. Numerosi procedimenti crudeli della Rivoluzione francese sono stati docilmente applicati di nuovo sul corpo della Russia dai comunisti leniniani e dagli specialisti internazionalisti, soltanto il loro grado di organizzazione e il loro carattere sistematico hanno ampiamente superato quelli dei giacobini.

Non abbiamo avuto un Termidoro, ma — e ne possiamo esser fieri nella nostra anima e nella nostra coscienza — abbiamo avuto la nostra Vandea, e più d’una. Sono le grandi insorgenze contadine, quella di Tambov nel 1920-1921, della Siberia occidentale nel 1921. Un episodio ben noto: folle di contadini con calzature di tiglio (1), armate di bastoni e di forche hanno marciato su Tambov, al suono delle campane delle chiese del circondario, per essere falciate dalle mitragliatrici. L’insorgenza di Tambov è durata undici mesi, benché i comunisti, per reprimerla, abbiano usato carri armati, treni blindati, aerei, benché abbiano preso in ostaggio le famiglie dei rivoltosi e benché fossero sul punto di usare gas tossici. Abbiamo avuto anche una resistenza feroce al bolscevismo da parte dei cosacchi dell’Ural, del Don, del Kuban, di Tersk, soffocata in torrenti di sangue, un autentico genocidio.

Inaugurando oggi il Monumento della vostra eroica Vandea, la mia vista si sdoppia: vedo con la mente i monumenti che verranno eretti un giorno, in Russia, testimoni della nostra resistenza russa allo scatenamento delle orde comuniste. Abbiamo attraversato insieme a voi il secolo ventesimo, un secolo di terrore dall’inizio alla fine, terribile coronamento del Progresso tanto sognato nel secolo diciottesimo. Oggi, penso, crescerà sempre più il numero dei francesi che capiscono meglio, che valutano meglio, che conservano con fierezza nella loro memoria la resistenza e il sacrificio della Vandea.
tratto da: Il Domenicale, 27.9.2003 (anno II), n. 39, p. 6.



(1) Calzature popolari in scorza di betulla (ndr).

lunedì 24 ottobre 2011

Gli eroi della Vandea

                               L'eroe Vandeano  Henri du Vergier de la Rochejaquelin (1772-1794).

Il problema della Vandea è fondamentale nella storia moderna della Francia, dell'Europa e del mondo intero. Si è scritto molto sulla Vandea: noi ci riferiremo all'essenziale, ovvero alla storia.

Si può dire che era predeterminata? Io affermo di no. La Vandea era forse nel 1789 più monarchica del resto della Francia? No. La Vandea accettava il re come il 99% della popolazione francese dell'epoca. Si può dire forse che la Vandea era più religiosa o più clericale del resto della Francia? No. Non si rivela nessuna specificità clerico-religiosa in Vandea. Si può dire ancora che la Vandea fosse o sia più antistatale del resto della Francia? Assolutamente no, né più né meno del resto della Francia; non si riscontrano comportamenti specifici della Vandea, neanche in questo settore, come non se ne riscontrano nel settore amministrativo. Certo, ci si è opposti al centralismo che vige in Francia sin dai tempi di Luigi XIV, e contro questo centralismo ci si batte. Da qui sorge la nostra domanda: perché nel 1793 la Vandea è insorta? E perché è insorta solo la Vandea?

Possiamo analizzare l'insurrezione dividendola in tre fasi; la prima è quella della delusione. Oggi non è una novità, ma allora per la prima volta si andava alle urne, per la prima volta venivano eletti dei personaggi sulla base della fiducia che si riponeva in loro. Gli eletti, una volta giunti al loro scopo, hanno assunto una posizione economica, politica ed ideologica che ha portato alla delusione, al disincanto.

Ma i popoli vivono concretamente, e per farlo intendere prenderò due esempi.

Il primo è quello delle imposte e delle tasse. Sotto l'Ancien Régime -questo nome indica l'ordinamento che vigeva in Francia prima della Rivoluzione del 1789- si pagavano poche tasse, circa il 5%; dopo la notte del 4 agosto, queste tasse sono raddoppiate. Immaginate la delusione.

Il secondo esempio è quello delle lingue. Nella Francia del 1789, erano relativamente pochi i francesi che parlassero francese; nell'Ovest, i bretoni parlavano bretone, c'era poi un gruppo di bretoni dell'Est che parlava un'altra lingua che veniva chiamata "gallo", in altre zone si parlavano altri dialetti...: con il 1789 si è giunti al concetto di una lingua unica per tutta la Francia. Una situazione analoga si manifesterebbe in Europa se alla Commissione di Bruxelles dovessero decidere che da un giorno all'altro il tedesco diventi la lingua ufficiale ed unica dell'Europa. Ebbene, è esattamente quello che è avvenuto 200 anni fa, quando ai bretoni è stato detto che non potevano più parlare il bretone, agli altri abitanti della Vandea che dovevano abbandonare i loro dialetti, e che tutti dovevano invece prendere e far proprio il francese. Delusione; e dopo la delusione, la collera.

Nella storia dell'umanità, io riconosco alcune notti fondamentali, tra cui quella del 4 agosto. La percezione e la definizione del mondo prima e dopo sono completamente diverse: prima si aveva una struttura piramidale, sulla cui cima non c'era il Re, bensì Dio; il Re era un luogotenente di Dio in terra. Subito dopo venivano i tre ordini sociali: l'ordine clericale, l'ordine nobile e l'ordine del cosiddetto terzo stato. Dopo il 4 agosto, si è davanti ad un ordinamento non più piramidale ma orizzontale: Dio non c'è e tutti i suoi rappresentanti vanno eliminati. Non è stato importante uccidere Luigi XVI, ma eliminare il Re di Francia, luogotenente di Dio in terra, e la Regina, fondamento della società in Francia.

In Francia, come nel resto del mondo monarchico, vale il motto "Il re è morto, viva il re": andava quindi eliminato anche il figlio del re, l'erede al trono. Ma in Francia l'infanticidio era malvisto: si è giunti perciò a quello che è stato chiamato un assassinio per delega. Ci dobbiamo porre davanti ad una sorta di rituale iniziatico, tenendo conto della meccanica dell'instaurazione dell'ordinamento rivoluzionario. In genere, i rivoluzionari vogliono che la loro rivoluzione sia universale. Se analizziamo il dibattito nato all'interno, tra i rivoluzionari di allora, riconosciamo una similitudine veramente sorprendente con il dibattito che c'è stato tra Rosa Luxemburg e Lenin: un dibattito sulla strategia della rivoluzione universale. Vi sono due possibilità: fare la rivoluzione nel paese per meglio esportarla, oppure farla prima fuori dal paese per meglio imporla all'interno del paese. La Francia del XVIII secolo ha scelto la seconda possibilità, dichiarando, alla fine, la guerra all'Europa: non dimentichiamo che allora era come dichiarare la guerra al mondo intero, e non dimentichiamo neanche che la Francia è la figlia maggiore della Chiesa, con tutto ciò che questo primato può implicare. La Francia dunque dichiara la guerra all'Europa. La strategia scelta al momento di dichiarare la guerra all'Europa dei re, all'Europa dei tiranni è stata quella di provocare un sollevamento nei paesi circonvicini e confinanti. Ma l'occupazione francese è stata atroce: saccheggi ed altre violenze, tanto da provocare un sollevamento dei popoli occupati, non contro il tiranno bensì contro la Francia, contro l'invasore, per restaurare il proprio tiranno.


In seguito sono stati invasi i paesi che rifiutavano di sollevarsi, ma in questi paesi vi erano dei monarchi, vi erano delle truppe, vi era un popolo, e tutti hanno rifiutato questa invasione, hanno resistito ad essa, con il risultato che non solo la Francia è stata battuta, ma che è stata a sua volta invasa ed occupata. E' il caso di notare qui e di ricordare che la guerra era stata dichiarata fin dal mese di aprile del 1792.

Abbiamo visto le prime due fasi, sollevamenti ed invasione; la terza fase è quella di prendersi cura, diciamo così, della Chiesa e del sollevamento interno, dato che il 60-70% della popolazione francese si solleva.

Allora si diceva che per rigenerare la Francia bisognava sottomettere la Chiesa. Il modo in cui tale sottomissione è stata realizzata è analogo a quanto Eltsin ha fatto in Russia ai nostri giorni: ha confiscato i beni del Partito comunista dell'Unione Sovietica, perché una struttura senza beni diventa relativamente inefficace. La rivoluzione francese lo ha fatto allora colpendo la Chiesa, confiscandone i beni e imponendo poi ai preti di giurare fedeltà allo Stato, al nuovo stato. Mi soprende anche udire con quanta leggerezza si parla del giuramento di fedeltà allo Stato: credo che ognuno di voi, obbligato a prestare giuramento di fedeltà al Presidente della Repubblica o al Primo Ministro o a deputati locali, non sarebbe contento di farlo, si opporrebbe.

Allora ben il 70% dei preti rifiutarono di prestare giuramento allo Stato. Da qui sorge anche il problema della Dichiarazione dei diritti dell'uomo; lo scopo di questa Dichiarazione è quello di ottenere che i diritti fondamentali dell'uomo, le sue libertà, siano definite per legge. La legge definisce le libertà: ma ciò è intrinsecamente perverso, perché la legge è l'espressione della volontà popolare per via del sistema elettorale a maggioranza: per natura quindi la legge diventa evolutiva. Chi rifiuta il giuramento diventa un fuorilegge e come tale va punito. I preti vanno puniti, diventano come dei fuori casta. Questa punizione si può manifestare con tre tipi di sanzione: prigione, deportazione, eliminazione fisica. Nella Francia rivoluzionaria si arriva all'eliminazione fisica fin dal mese di gennaio del 1790, una data sicuramente precoce nel calendario rivoluzionario. Per renderci conto della portata di queste eliminazioni, contiamo anche qualche anno: tra il 1789 ed il 1793 passano quattro anni, e sono tanti.

La Francia, disfatta in guerra, deve ricorrere alla coscrizione: questo avviene nel marzo del '93, ma il meccanismo di reclutamento dei coscritti è proprio quello che spiega le ragioni profonde del sollevamento. E' la legge centrale a determinare il numero di coscritti, 300 mila uomini, ma sono i dipartimenti e la periferia, i sindaci, a scegliere questi uomini. Bisogna aggiungere che a quei tempi il sindaco non era eletto dal popolo, ma era scelto dal potere centrale per le sue caratteristiche politiche, personali, ideologiche, e per questa sua posizione il sindaco godeva di due privilegi: anzitutto, non andava sotto le armi, in secondo luogo, proprio lui sceglieva chi sarebbe andato sotto le armi. Chi sceglieva il sindaco? Tutti i suoi oppositori, naturalmente. Il popolo, però, in Vandea, ha detto no, e si è sollevato, per il 60 o 70%.

Le argomentazioni di questi contadini sono assai degne di nota e hanno una base giuridica codificata dall'articolo 35 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, che dice: "Quando il governo viola i diritti del popolo, per il popolo e per ogni parte del popolo l'insurrezione è il più sacro dei diritti ed il più indispensabile dei doveri". Non solo la popolazione della Vandea si è sollevata, ma anche la popolazione di Tolone, di Marsiglia e di altre città.

Per prima cosa, rileviamo che la reazione popolare non solo è legittima, ma è anche legale. Mi chiederete allora perché in Vandea l'insurrezione ha funzionato ed altrove no. Risponderei con due ordini di ragioni. La prima è che in Vandea l'insurrezione è stata spontanea e popolare, mentre in Bretagna, come a Lione, è stata nobiliare e programmata: da qui la disfatta. Questo anche perché in Vandea, essendo una zona rurale, non vi sono guarnigioni, non vi è una struttura militare, la seconda ragione sta nell'osservazione che la Bretagna era sempre insorta, e i bretoni conoscevano bene la repressione della monarchia, mentre i vandeani non sapevano che la repressione fa male: per questo insorsero. Questi elementi hanno radici molto profonde, che vediamo anche nella cultura vandeana attuale. Gli abitanti della Vandea sono diffidenti nei confronti dei preti e dei nobili, e lo erano anche allora. Non a caso, il primo generalissimo della rivoluzione è stato scelto tra i contadini, dopo aver rifiutato tutti i militari.

In un primo tempo, la guerra in Vandea è stata solo civile, seguendo tre fasi.

Nella prima fase, il sollevamento vandeano ha avuto le tipiche caratteriste dell'insurrezione. Dal marzo del 1793 fino al 29 giugno del medesimo anno, i 770 comuni sono insorti. Per 10 mila kmq, 815 mila abitanti sono insorti contro la Repubblica.


I Vandeani identificarono quasi subito il nemico con Parigi. Sulla strada si uniscono ai bretoni. Il 29 giugno del 1793 viene lanciato l'attacco su Nantes, dove il generalissimo viene ferito: morirà dopo poco, e questa è la prima disfatta subita dalla Vandea.

La seconda fase è facile da spiegare: i vandeani battuti cambiano la loro tattica e passano alla tattica di difesa. Parigi manderà delle truppe, truppe che avranno buon gioco in Vandea; questa fase va dal 29 giugno al 18 ottobre del 1793.

Nella terza fase, ci si trova davanti alla stessa circostanza della prima: l'alleanza con la Bretagna. Per allearsi o unirsi alla Bretagna, bisogna arrivarci, attraversando la Loira. Questo attraversamento è possibile in una località che si chiama Saint Florent Le Vieil, e da qui ottantamila vandeani entrarono in Bretagna. Ma la Bretagna era stata unita alla Francia solo nel 1532; i Bretoni prima di allora avevano creato una linea di difesa contro la Francia, e proprio di questa linea di difesa si avvarranno ora i Repubblicani per opporsi all'invasione dei Vandeani in Bretagna.

Due mesi dopo la disfatta, il generale Westermann ha scritto il bollettino della vittoria; spiegando al Comitato di Salute Pubblica lo svolgimento di questa disfatta della Vandea, proclama: "Non vi è più Vandea, cittadini repubblicani. La Vandea è morta sotto la nostra libera spada, con le sue donne ed i suoi bambini. L'ho appena sepolta nelle paludi e nei boschi, secondo gli ordini che mi avete dato: ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli e massacrato le donne, così che almeno quelle non partoriranno più briganti. Non ho un solo prigioniero sulla coscienza. Ho sterminato tutti". Fine della guerra civile in Vandea.

In questo contesto, viene presa la decisione dello sterminio in Vandea. La Francia era colpita, all'epoca, da due mali. Il primo male era l'insurrezione combinata Lione-Tolone, soffocata da una repressione cruenta nel novembre 1793. Il secondo, la presenza degli eserciti stranieri sin dall'ottobre-novembre 1793. Ormai però erano stati battuti: non solo, ma l'esercito francese si era già avventurato sul territorio straniero, in Francia non esisteva quindi più un problema militare, e questo ha reso possibile decidere lo sterminio - vocabolo che venne utilizzato fin da allora - della popolazione della Vandea.

La prima volta che ho letto la parola "sterminio" ne sono rimasto sorpreso: in quanto accademico, ho il dovere della critica e il diritto della sorpresa davanti ai documenti che mi trovo davanti agli occhi, e da questo diritto deriva, come immediata strategia, la ricostruzione cronologica dei fatti. Si distinguono alcune fasi: anzitutto, la fase del vocabolo, che possiamo facilmente datare aprile '93, e a cui possiamo anche assegnare una paternità, quella del ministro Carrier, che in uno dei suoi deliri verbali, dal podio dove si trovava ad arringare i colleghi, ha parlato della necessità di sterminare la popolazione della Vandea. Siamo dunque nella fase del verbo sterminare.

La seconda fase è decisamente unica, non vi è un altro esempio simile in tutta la storia dell'umanità: è una fase giuridica. Il parlamento di allora, la cosiddetta Convenzione, voterà tre leggi. La prima di queste tre leggi è del 1° agosto 1793, e tratta della necessità di distruggere fisicamente la Vandea. Recita: "Saranno inviati dal ministero della guerra materiali combustibili di ogni sorta per incendiare i boschi, le macchie, le foreste abbattute. I covi dei ribelli saranno distrutti, i raccolti saranno mietuti dalle compagnie di braccianti per essere portati alle retrovie dell'esercito e il bestiame sarà requisito. I beni dei ribelli della Vandea sono dichiarati appartenenti alla Repubblica, e ne sarà utilizzata una parte per indennizzare le perdite che avessero sofferto i cittadini rimasti fedeli alla patria. La Vandea deve essere un cimitero nazionale".

La prima legge era di distruzione, la seconda è di sterminio. In quanto legge promulgata dal parlamento, è stata stampata sul Bollettino Ufficiale della Nazione: "Bisogna che i briganti di Vandea siano sterminati prima della fine di ottobre. La salvezza della patria lo richiede. L'impazienza del popolo francese lo comanda. Il suo coraggio deve compiere l'opera. La riconoscenza nazionale spetta ora a tutti coloro i quali per valore e patriottismo avranno permesso il ritorno della libertà e della Repubblica". Vi è stata poi una terza proposta di legge, accettata di fatto, del 7 novembre del 1793 e possiamo chiamarla, dopo la distruzione e lo sterminio, la catarsi. Si tratta della "purificazione della Vandea" ed è Robespierre a stabilire una sorta di gerarchia dividendo i Francesi in due categorie, "buoni e cattivi", divisi poi in diverse sottocaste. Tra i cattivi, nel fondo del fondo, si trovano i preti e le monache, dopo la nobiltà, e infine intere popolazioni, tra cui quella della Vandea. I Vandeani sono considerati degli ominidi, delle sottospecie di uomini, ed in quanto tali non aventi diritto ad un territorio. Il nome stesso Vandea viene eliminato, deve scomparire.


L'amministrazione, però, nel suo horror vacui, desidera manifestare la sua volontà di mettere in opera una politica di ripopolazione, e assegna un nuovo nome alla Vandea chiamandola "dipartimento Vendicato", per esprimere appunto questa volontà di ripopolare quella parte di Francia un tempo abitata da cattivi Francesi.

In una terza fase, ci si pone il problema dello sterminio dei Vandeani. Il problema è duplice: per prima cosa sono tanti, 815 mila; in secondo luogo, "sono cattivi e sono così cattivi - questa è una citazione - che si rifiutano di farsi uccidere e si difendono".

Il territorio è molto ben definito: sono 10 mila kmq, e vi sono tre possibilità. La prima è quella del "metodo scientifico": il gas. Ma il genio dei Francesi non è il genio dei Tedeschi, non conoscono altrettanto bene i gas letali. Allora, si rivolgono ai loro chimici, pregandoli di studiare, di creare e di sviluppare un gas che sia adatto ad uccidere tutti i Vandeani avvelenando il territorio. Questi chimici si mettono diligentemente al lavoro, fanno degli studi e delle ricerche, degli esperimenti e pubblicano un rapporto dicendo: "Abbiamo diffuso il nostro gas, ma né le pecore né i passanti ne sono stati disturbati". Fallimento del primo metodo.

Si passa allora ad un metodo che viene detto "pragmatico", secondo cinque modalità: la ghigliottina, la baionetta, il fucile, l'affogamento, le mazzate sulla testa. A questa panoplia di strumenti pragmatici di sterminio viene posto fine sia per la lentezza del metodo - per esempio, il rendimento della ghigliottina è di un massimo di 32 individui al giorno - che per i costi elevati.

La terza soluzione, proposta dal generale Turreau, è un piano di sterminio concepito secondo tre direttive. La prima è complessa: la Francia in quel secolo ha concepito forni crematori, sistemi di conce di pelle umana, sistemi di fusione dei corpi delle donne per ricavarne il grasso, ed anche ricette gastronomiche. Il cannibalismo di allora prevedeva cervella di Vandeano in salsa repubblicana. Seconda direttiva: una flottiglia di 41 barche sulla Loira, di cui abbiamo i nomi e i luoghi d'attracco. Terza direttiva: creazione di un comitato cosiddetto di "sussistenza" il cui compito era quello di operare un saccheggio sistematico della popolazione. Ciò che è veramente unico di questo evento è che era tutto fatto sotto l'egida della legalità. I generali quindi si limitavano a fare i loro bollettini, i loro rapporti, che ho ritrovato negli archivi militari relativamente intatti, trovando quindi testimonianza di tutto l'orrore del piano di Turreau.

Tutto ciò è finito non prima della caduta di Robespierre. Alla Sorbona, dove è stata presentata questa tesi, sono state rivolte delle domande sul numero di abitanti eliminati e di case distrutte. Degli 815.000 Vandeani almeno 117.000 sono stati eliminati, ma non è tanto importante conoscere questo numero della statistica, quanto avvalersi della statistica per determinare se davvero la volontà di eliminare di preferenza le donne in quanto riproduttrici o i bambini in quanto futuri briganti, è stata rispettata. Non si può avere una risposta globale a questa domanda: si può ipotizzare una risposta basandoci sui risultati di certe analisi, fatte studiando gli elenchi dei caduti trovati in certi comuni. Possiamo dire che tutte le cifre convergono. Effettivamente il 70% degli uccisi erano donne e bambini. E poi, ma forse spetterebbe ai filosofi parlarne, può essere interessante andare a studiare i rituali di violenza e della volontà di sterminio di quella che, tra virgolette, possiamo chiamare una razza. Per il numero di case distrutte, possiamo invece avvalerci degli elenchi redatti successivamente sotto l'Impero per indennizzare i danneggiati. Da questi elenchi, si vede che in certi comuni la distruzione dei beni immobili è arrivata fino al 90%. Il risultato globale è che comunque su 50.000 case più di 10.000 sono andate distrutte.

Quando nell'86 è stato pubblicato in Francia questo libro, Il genocidio vandeano, ha destato un grande stupore. Perché i Francesi avevano dimenticato. Ho scritto un altro libro che purtroppo non è stato tradotto in italiano, che spiega perché e come i Francesi erano stati portati a dimenticare. Il libro si intitola Da un genocidio all'altro, la manipolazione della memoria. E' facile spiegare come è avvenuta questa manipolazione. Bisogna dire che già allora esisteva una profonda consapevolezza del crimine commesso contro l'umanità, tanto che è stato istituito un tribunale speciale - del tipo di quello di Norimberga - dove ci si chiedeva chi fosse colpevole, e come punirlo. Tutti sono colpevoli: colui che ha concepito lo sterminio come colui che lo ha realizzato e colui che se ne è reso complice. Quindi, vanno tutti puniti.


Fino al 1830, nessuno ha osato cercare di deturpare la verità, sia perché esistevano dei testimoni oculari sia perché erano fatti vicini. Ma dopo il 1830, due circostanze portano a cambiare la situazione: l'avvento di un re repubblicano, Luigi Filippo I, e il venire a mancare dei testimoni oculari. A questo punto, è cominciata la manipolazione.

Luigi Filippo I prende al suo soldo degli storici, dando loro il compito di purificare la storia. Ci si avvarrà poi anche di diverse strutture: per esempio, le cattedre di storia, affidate a storici marxisti, che hanno proceduto a lavare e lucidare la storia, purificandola, dimenticando ciò che un loro padre culturale, quale Babeuf, aveva scritto sulla Vandea. C'è un libro che ha suscitato grande scalpore, tanto in Francia quanto in Italia, scritto da Babeuf, sul sistema delle due popolazioni. Lo trovo molto interessante, forse anche perché il Babeuf si pone qui la stessa domanda fondamentale che io, senza conoscerlo, mi ero posto: perché si è giunti a questa volontà di soluzione finale?

Robespierre e i rivoluzionari di allora avevano voluto trasformare la Vandea in un laboratorio. Il loro scopo era quello di creare un uomo nuovo, ma la creazione di un uomo nuovo richiede la messa in opera di metodi e il poter far funzionare dei metodi richiede che si disponga di un laboratorio: la Vandea, appunto. Del resto, abbiamo appena scoperto che dopo la Vandea era in programma di passare ad analoga opera con la Bretagna, e via discorrendo. Vi è una frase terribile di Saint-Just, secondo il quale se è necessario sterminare il 90% dei Francesi, bisognerà sterminare il 90% dei Francesi, perché il 10% restante varrà, e sarà sufficiente a rigenerare e la Francia e l'Europa. Per costruire un nuovo mondo, bisogna distruggere il vecchio. Per distruggere il vecchio mondo, bisogna distruggerne la popolazione. In questa cornice, si inserisce il fenomeno dello sterminio in Vandea.

Veniamo ora alle morale.

Quello della Vandea è il primo genocidio della storia ideologica del mondo contemporaneo. Se non fosse stato dimenticato il genocidio della Vandea, forse non sarebbe accaduto ciò che è accaduto nel XX secolo.

Come è stato possibile dimenticare tutto questo? E' proprio qui l'essenza del problema: il non dimenticare, il non manipolare la storia, il dovere di dire, il dovere di ricordare.

                 La morte dell'eroe Vandeano Charles-Artus de Bonchamps (1760-1793).