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sabato 8 ottobre 2016

Nota dei Carlisti del Principato di Cataluña: Ne di Esercizio Ne di Origine

Ne di Esercizio Ne di Origine


In vista della annunciata visita di Carlo Saverio di Borbone-Parma a Barcellona e per avvertire il popolo catalano e il resto degli spagnoli di fronte ad una più che probabile confusione e eterodossia delle sue parole e atti pubblici i carlisti catalani dichiarano: 

1- Non vi è alcuna costanza nella volontà di Carlo Saverio di accettare i cinque fondamenti della Legittimità spagnola che stabilì il Re Don Alfonso Carlo come una condizione indispensabile per il suo futuro successore: (1) la Unità Cattolica, (2) la costituzione naturale e organica degli Stati e Corpi della società tradizionale, (3) la federazione storica delle differenti regioni della Patria spagnola, (4) la autentica Monarchia Tradizionale e (5) i principi, spirito e stesso stato di diritto e legislativo precedente al così detto diritto nuovo. 

2- Nessuno dei manifesti e dichiarazioni pubbliche di Carlo Saverio di Borbone-Parma sono in linea dottrinale al pensiero politico carlista, vale a dire, nulla ha a che vedere con il pensiero tradizionalista catalano. Al contrario tutto è in linea con la corrente delle ideologie della modernità, con certi abboccamenti al nazionalismo che ripugna la coscienza dei carlisti catalani.

3- Suo figlio non ha alcun diritto al Trono di Spagna. Il legittimo Stato di diritto e legislativo della Monarchia spagnola stabilisce una successione semisalica agnatica alla Corona, che è anche quella tradizionale della Corona di Aragona. Una pragmatica contro questa norma non  può stabilirsi senza il concorso delle Cortes convocate espressamente a tal fine. Contro questo abuso dispotico di Ferdinando VII si sollevarono i carlisti. Lo stesso abuso dispotico è da considerarsi per chi considera i discendenti di un matrimonio diseguale, non dinastico, come successori al Trono. Questo è il caso del figlio di Carlo Saverio di Borbone-Parma.  

Alcuni carlisti catalani hanno avuto occasione di salutare in Barcellona in altre occasioni Carlo Saverio di Borbone-Parma. E desiderarono che accettasse i principi intangibili della legittimità spagnola. Lamentandosi che egli non avesse preso tale strada.



Carlisti del Principato di Cataluña. Valls, 7 ottobre  2016.
Festività di Ntra. Sra. del Rosario.


Nota: alcune parti sono state adattate pur rispettando integralmente il messaggio divulgato da tale comunicato.


Redazione A.L.T.A.


sabato 11 giugno 2016

Tra Prammatica sanzione del 1759, Corona di Spagna, delle Due Sicilie e di Parma e "perplessità neoborboniche/neolegittimiste"

E' vero che la Prammatica Sanzione di S.M.C. Carlo III di Spagna del 1759 determinò la separazione definitiva tra la Corona di Spagna e la Corona delle Due Sicilie ( e anche quella di Parma) così che il legittimo Re di Spagna non possiede voce in capitolo nei confronti del ramo di Napoli (e anche nei confronti di quello di Parma)? No! E ciò si può spiegare in 3 punti:

1º. Una prammatica sanzione è una norma di rango inferiore alle leggi fondamentali. In ogni caso, la prammatica del 1759 è complementare a dette leggi e non le contraddice.

2º. Le monarchie di Napoli e Parma sono state costituite come suffraganee, vale a dire, semi-sovrane. Prova di ciò è che il Re di Napoli e i Duca di Parma utilizzavano il titolo di Infante di Spagna prima di quello inerente alla propria semi-sovranità o tra i titoli ad essi appartenenti.

3º. Ciò che Carlo III fece fu separare i rami (ramo maggiore, ramo di Napoli, ramo di Parma) per evitare il cambio di corone (se stesso alla morte dei suoi fratelli, è stato prima Duca di Parma, poi Re di Napoli e Sicilia e, infine, Re di Spagna) in modo che, non essendoci discendenza di Filippo V maggiore alla sua persona, succedesse il figlio a Napoli e in Sicilia ( così come il fratello ed i suoi figli mantennero la semi-sovranità su Parma). Per tutto il resto, rimangono in vigore le disposizioni legislative di successione spagnola.

La pretesa di una dinastia delle Due Sicilie o di Parma completamente indipendenti è storicamente e legalmente ridicola.


Riguardo agli “ostinati relativisti” che si aggrappano, o cercano di aggrapparsi, a ciò che non c’è, e nello specifico a coloro che rinnegano la condizione di Infanti di Spagna dei membri dei rami Ispanoitaliani di Napoli e Parma, riporto una serie di “punti esplicativi”.

Primo esempio:

 


Ricordiamoci che Ferdinando I di Parma (Parma, 20 gennaio 1751Fontevivo, 9 ottobre 1802) non era figlio del Re di Spagna! Egli era figlio di Filippo I di Parma, figlio a sua volta di Filippo V di Spagna e fratellastro minore di Ferdinando VI di Spagna e fratello minore di Carlo III di Spagna. 

Un altro esempio sull'aggiunta del titolo di Infante di Spagna prima di quello inerente alla propria semi-sovranità o tra i titoli appartenenti ai membri dei rami Ispanoitaliani è il seguente:

 




Infante di Spagna (vale a dire un suddito del Re di Spagna), era il Duca di Parma Roberto I (1848-1907), ed è qualcosa di universalmente conosciuto e riconosciuto:


L'Infante di Spagna è un suddito del Re di Spagna e soggetto alle leggi di successione spagnola! Per chi afferma che i re delle Due Sicilie o i duchi di Parma non aggiunsero in tutti i documenti l’intera lista dei titoli a loro correlati, vorrei ricordare che nemmeno il Re di Spagna usava la sua titolatura completa in tutti gli atti legislativi, naturalmente.

Vorrei riportare un Concordato con la Santa Sede come un esempio di atto legislativo di alto livello nel quale viene riportato il titolo di Infante di Spagna prima degli altri  titoli:

 



Sono stati Infanti di Spagna, e quindi sudditi del Re di Spagna, tutti i Re di Napoli e tutti i duchi di Parma dalla restaurazione ispanica di questi stati da parte di Don Filippo V.

I membri del ramo Due Sicilie usarono il titolo di Infante di Spagna,  cosa che smisero di fare e ripresero pubblicamente nel corso del travagliato secolo XIX, specie dopo che la successione spagnola  subì le  complicazioni derivanti dall’usurpazione liberale. Durante la terza guerra carlista riutilizzarono quel titolo apertamente, pur non essendo né loro né i membri della ramo di Parma figli o fratelli del Re di Spagna.

Per essere più chiari , se il successore alla Corona delle Spagne è un fratello  o un cugino del Re, per esempio, non è Principe delle Asturie, titolo che spetta  solo al primogenito del regnante, ma  è  Infante ereditario.

In maniera definitiva con Filippo V e, fuori da ogni dubbio, con Carlo III, i figli degli Infanti di Spagna che non sono incorsi in causa di esclusione sono Infanti di Spagna a loro volta. E’ questo il caso dei Borbone-Parma e Borbone-Due Sicilie i quali usarono questo titolo apertamente durante la Terza Guerra Carlista, come detto precedentemente. 
E’ impossibile per un Borbone possedere il diritto al Trono delle Spagne  senza essere Infante di Spagna. Quando Ferdinando II delle Due Sicilie protestò contro  la "prammática sanzione" con la quale Ferdinando VII pretendeva  di alterare  l’ordine successorio spagnolo, lo fece tra le altre ragioni anche perché tale atto pregiudicava i propri diritti al Trono più alto (quello di Spagna). Ciò implica, anche se non l’ha usato  (diplomáticamente) in questo documento, che si riconosceva  come Infante di  Spagna:



Per chi non demorde e si aggrappa al “Per la grazia di Dio” e non “Per la grazia del Re di Spagna” è utile ricordare che "Per la grazia di Dio" governa qualunque governante. La dottrina cattolica insegna che tutti i poteri  vengono da Dio. Questo non ha nulla a che fare con la dottrina del “diritto divino” dei re, che è protestante.

Per concludere, osservate attentamente lo stemma reale delle Due Sicilie: nelle armi reali delle Due Sicilie, che sono quelle di Spagna con aggiunte, è chiaro che appartengono ai Borbone di Spagna. Il linguaggio araldico era molto chiaro per i nostri antenati.
Infine, ricordiamoci che ciò non significa che il Regno delle Due Sicilie fosse un "Viceregno", appellativo scorretto da usare anche quando ci si riferisce al periodo così detto spagnolo, ma che il Re delle Due Sicilie (come il Duca di Parma), essendo Infanti di Spagna, erano (e sono) sudditi del Re di Spagna al quale devono la propria infeudazione.  

Ringraziamo gli amici della Comunión Tradicionalista  per averci fornito il materiale presentato in questo articolo. 

Redazione A.L.T.A.  
 

martedì 29 marzo 2016

S.A.R. Sisto Enrico di Borbone, un Principe Legionario.


Il passato 12 marzo S.A.R. Don Sisto ha ricevuto a El Pardo un alto riconoscimento legionario, con la imposizioni della insignia de honor de la Hermandad de Caballeros Legionarios de Sevilla, dalle mani di una insigne famiglia carlista e legionaria, come ce ne sono molte. Vale la pena ricordare i particolari del suo percorso nel Tercio.


La Famiglia Reale si distinse negli anni sessanta del secolo scorso per un incredibile attivismo in azioni umanitarie. Per la famiglia rivale il confronto era troppo difficile da raggiungere:  l'Infanta María Francisca aveva servito nella Croce Rossa in ausilio degli ungheresi durante la repressione sovietica del 1956; la allora infanta María de las Nieves aveva svolto il Servizio Sociale  nel Castillo de la Mota en Medina del Campo, e inoltre la allora infanta Cecilia si adoperò in aiuto al disastro umanitario nel Biafra. Nel gennaio 1964 José Arturo Márquez de Prado, capo nazionale aggiunto del Requeté, spinse per l'inserimento nella Legión di S.A.R. Don Sisto. L'iniziativa partì in gran parte da suo fratello maggiore  Carlo Ugo e contava dell'appoggio entusiasta di Don Javier. In una operazione totalmente riservata il Comandante Sisto Barranco, delegato dello Stato Maggiore dei Requetés, capo carlista de Melilla e del Banderín de Enganche della Legión e  Capitano della Legión Morán Carapeto –ambe due avevano combattuto nella Cruzada nel Tercio de Requetés sivigliano de Nuestra Señora de los Reyes e mantenevano vivo l'entusiasmo e gli ideali di quei giorni -- realizzarono le modalità opportune per l'inserimento di  S.A.R. sotto il nome di Enrique de Aranjuez. Nell'ambiente militare solo loro conoscevano la sua vera identità, e mai venne dispensato da favoritismo alcuno, obbedendo agli ordini come un soldato qualunque. Con Don Sisto si arruolò un altro giovane carlista bilbaíno, Juan Carlos García de Cortázar, che lasciò i suoi studi al quarto corso della carriera di ingegneria industriale, per stare al fianco dell'Infante.  Finalmente sul finire del  1964 Don Sisto iniziò il  periodo di istruzione a Melilla, nel Tercio Gran Capitán, I de la Legión, giurando sulla bandiera  il 2  maggio 1965, rendendo questa data molto significativa. Al giuramento assistettero vari carlisti andalusi e valenziani, che mantennero segreta l'identità dell'Infante di Spagna. Il giuramento alla bandiera fu il seguente:

·         ¿Juráis a Dios y prometéis a España, besando con unción su bandera, respetar y obedecer siempre a vuestros jefes, no abandonarlos nunca y derramar, si es preciso, en defensa del honor e independencia de la Patria y del orden dentro de ella, hasta la última gota de vuestra sangres?

Quando alcuni "juanisti" scoprirono la presenza di Don Sisto nella Legión iniziarono a fare pressione sui vertici più alti e più sensibili del governo costituito, i cui membri facevano parte dei seguitori del ramo liberale alfonsino. Però nel corpo degli ufficiali legionari e tra il popolo carlista la presenza di Don Sisto suscitava grande simpatia.
 
 
La pretesa di  Don Sisto era quella di realizzare i suoi tre anni di servizio militare. Tuttavia la chiamata Segreteria Tecnica di Carlo Ugo capì che era più propizio pubblicizzare la cosa sfruttando  la sua presenza, filtrandolo ai  media di comunicazione e dedicando  un reportage sulla stampa carlista.  Il franchismo licenziò anticipatamente il legionario Enrique de Aranjuez dopo undici mesi cercando di attutire l'impatto propagandistico  dovuto alla sua presenza, che era in contrasto con l'immagine dei membri della dinastia liberale (il chiamato "Conde de Barcelona" servì sotto bandiera nemica nella Royal Navy e  Juan Carlos fu dispensato di una blanda e favoritistica istruzione all'interno dell'accademia generale, con un  più che mediocre espediente). Da allora Don Sisto mantenne strette relazioni con la Legión, ricevendo riconoscimenti da parte di diversi Hermandades e manifestando pubblicamente la sua disposizione e spirito legionario, come nel manifesto “A los Navarros” del novembre 1977, che oggi non potrebbe essere di maggiore attualità :

·         (…) Yo pido a todos los navarros que por encima de actitudes partidistas y bajo la Bandera de España, que como soldados todos hemos jurado, en esta hora triste y de prueba en que parece que se quiere castigar a Navarra su glorioso sacrificio en la Cruzada del 36 y su valor —con los que logró para su Escudo, que con los de Castilla, León y Aragón forman el real y nacional de España, la Gran Cruz Laureada de San Fernando—, formen en derredor de sus Instituciones naturales para defender las legítimas libertades que constituyen sus Fueros.

Un altro fatto degno di nota è che la Repubblica francese reclamò a Don Sisto la realizzazione del servizio militare, come già aveva fatto suo fratello Carlo Ugo. Don Sisto era nato in esilio, a Pau, città occitana, puramente ispanica, ma sotto la Francia. Tuttavia, come Infante di Spagna, Don Sisto comprendeva di non poter giurare sulla bandiera della Rivoluzione francese e non rispose alla chiamata  del servizio militare francese. Per questo fatto fu condannato a un anno di prigione dal Tribunale permanente delle Forze Armate, il quale dispose anche il sequestro dei suoi beni.
 
 
Dopo essere stato congedato dalla Legión contro la sua volontà e contro il  suo diritto, Don Sisto passò in Portogallo, dove ospitato da amici e parenti della Famiglia Reale lavorò nei principali ambiti della amministrazione civile e anche nel mondo della finanza con la familia Espíritu Santo. Visitò le province portoghesi in Africa, dove mise a  servizio la propria istruzione militare.
 
 
 
 
Fonte:  http://elmatinercarli.blogspot.it/2016/03/sar-don-sixto-enrique-principe.html


Di Redazione A.L.T.A.

martedì 19 gennaio 2016

IL LEGAME TRA LA CORNA DELLE DUE SICILIE E QUELLA DI SPAGNA


La Penisola italiana, e il Regno di Napoli e di Sicilia all'ascesa
di Alfonso V d'Aragona (I di Napoli e Sicilia).
E’ storica e tradizionale la vincolazione politica delle Sicilie alla Corona aragonese; fin dalla fine del secolo XIII con la presenza in Sicilia, e in Sardegna, della milizia catalana. Dal secolo XIV il dominio fu pacifico e di accordo, rispondendo allo spirito imperiale spagnolo, una vera federazione basata sull’unione personale e nei mutui fueros. Nel secolo XV, Alfonso V d’Aragona conquistò il Regno di Napoli (con maggiore diritto degli Anjou, discendendo dalla dinastia catalana come da quella castellana, per ambo i lati discendente dalla Casa di Svevia) legandolo al Regno d’Aragona e divenendo Alfonso I di Napoli.

Durante il secolo XVI e XVII, Sardegna, Sicilia e Napoli, e i presidi di Toscana e Milano, formarono parte della grande confederazione ispanica, corrispondendo al Re cattolico dal 1556 il Vicariato perpetuo del Santo Impero in Italia.

La Guerra di Successione Spagnola fece naufragare la vincolazione dei due Regni di Sicilia con  l’Aragona, così come la vincolazione dei Paesi Bassi con la Castiglia. Ma Filippo V di Spagna, con proprio desiderio aumentato dalla benevola influenza di Isabella Farnese, sua seconda moglie, si dedicò alla restaurazione dell’Impero spagnolo in Italia.
Don Carlo di Borbone: Duca di Parma dal 1731
al 1735; Re di Napoli come Carlo VII dal 1734
al 1759; Re di Spagna come Carlo III dal 1759
al 1788.

Ciò ebbe inizio nel Ducato di Parma, dove, morto il Duca Antonio si estinse la linea maschile dei Farnese. Passo a regnare in quelle contrade nel 1731 l’Infante Don Carlo, fino al 1735, essendo divenuto Re di Napoli nel 1734, dove regnò fino al 1759, ascendendo al Trono di Spagna con il nome di Carlo III,  lasciando a Napoli suo figlio terzogenito Don Ferdinando. Con questa formula, più flessibile politicamente rispetto al dominio diretto, si assicurava l’egemonia spagnola in Italia anche nel secolo XVIII. Il Re di Spagna non diede la proprietà degli Stati di Napoli e Sicilia agli Infanti titolari, ma la riservò per se, dando  a questi i suddetti Stati come infeudazione, con diritto a titolarsi Re, ma conservando per il Monarca spagnolo l’uso di questi titoli, che continuarono a figurare nella larga enumerazione dei regni del Re cattolico, così come la sua autorità sugli Infanti feudatari, senza che ciò significasse in realtà un annullamento dell’indipendenza delle Due Sicilie, ma piuttosto un alleanza perpetua fondata su basi molto più salde di quanto potesse essere con un semplice Trattato. Allo stesso modo, venendo a mancare la successione sul Trono di Napoli, questa spetta al Re di Spagna che nomina un Infante per la successione; mentre se viene a mancare la successione in Spagna il Re di Napoli è chiamato alla successione lasciando uno dei suoi figli o fratelli a Napoli o, rinunciando al Trono spagnolo, nominare uno di questi alla successione spagnola. Accadde così quando Carlo VII di Napoli succedette al Trono di Spagna divenendo Carlo III e lasciando a Napoli il terzogenito Don Ferdinando.

 
Da sinistra: Ludovico I d'Etruria, la Regina
Infanta Maria Luisa con i figli Maria Luisa Carlotta e
Carlo Ludovico.




E 'curioso che il tiranno d'Europa, l’usurpatore Napoleone Bonaparte, per creare il Regno d'Etruria si accordò con le autorità spagnole e l’Infanta Maria Luisa, e suo figlio, nipote dell’inflessibile Duca Ferdinando I di Parma, anche se con intenzione di mantenerlo per pochi anni, rispettando  l'applicazione di condizioni simili per il Nuovo Regno, essendo il Ducato di Parma di esplicita proprietà della Casa di Spagna.

 






S.A.R. Alfonso di Borbone-Due Sicilie; Re
delle Due Sicilie dal 1894 al 1900.



L’instaurazione del ramo liberale in Spagna, non venne riconosciuto dai Borbone Hispanoitaliani, salvo alcune eccezioni nel tempo, come nel caso del ramo di  Napoli che, all’inizio del secolo  XX, vide la dolorosa e tardiva defezione del Conte di Caserta (Alfonso I delle Due Sicilie) il quale, morto suo fratello, l’integerrimo Francesco II delle Due Sicilie, trascinò con se l’intero ramo dei Borbone-Napoli privando i suoi membri del diritto alla successione in Spagna e nelle Due Sicilie. Infatti, come da noi riportato nei precedenti scritti, i Sovrani di questi Stati italiani, come principi reali della dinastia  borbonica spagnola, erano Infanti di Spagna,  titolo che frequentemente anteponevano all’espressione  dei propri titoli reali.  





Stemma di S.A.R. Sisto Enrico di Borbone.
Chiaro è che i discendenti di colui che fu generalissimo del Reale Esercito di Carlo VII di Spagna, avendo perduto la legittimità di origine e quella di esercizio, sono impossibilitati giuridicamente ad ascendere al Trono di Spagna e a quello di Napoli, e a fregiarsi dei titoli connessi: essendo Infanti e feudatari, sono tenuti a mantenersi fedeli al Re di Spagna (legittimo); una volta venuta meno la fedeltà essi perdono i diritti tanto al Trono di Spagna quanto a quello delle Due Sicilie, a maggior ragione in quest’ultimo caso, essendo stati infeudati.

Essendo Infanti di Spagna e infeudati, venuti meno alla fedeltà nei confronti di colui nel quale risiede il Vicariato del Santo Impero in Italia , il Re Cattolico, la loro esclusione è maggiormente sostenuta. Ricordiamoci che Carlo IV di Spagna stava per detronizzare suo fratello Ferdinando IV di Napoli per molto meno.

Ciò interessa, ovviamente, anche il diritto di fregiarsi dei titoli connessi che spettano ad oggi a S.A.R. Sisto Enrico di Borbone.


Redazione A.L.T.A.

Fonte:

¿QUIÉN ES EL REY? di
FERNANDO POLO;
NOTA AL CAPITOLO XI; NOTA 10.

martedì 8 dicembre 2015

venerdì 4 settembre 2015

Gaetano di Borbone-Parma: il valoroso Principe Requeté


La famiglia Reale e Ducale di Parma, Villa Pianore 1906: il
piccolo Gaetano e seduto sulle ginocchia della madre.
S.A.R. Gaetano Maria Giuseppe Pio di Borbone-Parma e Braganza nacque nella residenza familiare di Villa Pianore, nella città di Lucca, l'11 giugno 1905. Li  fu battezzato dal suo padrino e amico di suo padre, papa Pio X, attraverso un cardinale, il quale lo rappresentava. Gaetano fu il minore dei ventiquattro figli di suo padre, il quale ne ebbe dodici per matrimonio.
Era figlio di Roberto I di Parma e della sua seconda moglie, l'infanta Maria Antonia del Portogallo , figlia di Michele I del Portogallo . All'età di due anni divenne orfano di padre, e fu trasferito a Parigi, da suo fratello maggiore Sisto, dove ricevette una educazione da Principe cristiano. Successivamente studiò in Francia, Italia e Lussemburgo.

S.A.R. Gaetano di Borbone-Parma con la
moglie Margherita della Torre e Tasso.

Gaetano sposò a Parigi il 29 aprile 1931 la Principessa Margherita della Torre e Tasso, figlia di Alessandro della Torre e Tasso primo Duca di Duino, dalla quale ebbe una figlia: Diana Margherita (nata a Parigi il 22 maggio 1932) sposata con il Principe Francesco Giuseppe di Hohenzollern.

Una volta iniziata la Guerra Civile Spagnola, il 12 gennaio  del 1937 si arruolò, con il permesso di suo fratello Francesco Saverio, reggente della Comunión Tradicionalista, nei Requeté, nel Tercio de Navarra, e assunse lo pseudonimo di  Gaetan de Lavardín. Il 7 di aprile con il Tercio de Navarra sconfisse il nemico nel monte Saibigain, punto chiave per aprire il cammino verso la città di Bilbao. Il tercio si distinse per il suo valore in questa vittoriosa operazione, e fu proposto per la medaglia militare collettiva. In seguito alla sua partecipazione a questo combattimento, Don Gaetano raggiunse il grado di Alfiere per meriti militari.



S.A.R. Gaetano di Borbone-Parma (nel centro) davanti
all'ospedale "Alfonso Carlos" di Pamplona con la divisa da
Requeté.

Il 9 di maggio davanti a Bizcargui fu ferito al collo da una granata,  e per la gravità della ferita venne trasferito all'ospedale “Alfonso Carlos” di Pamplona, nel quale dovette rivelare la sua vera identità. Durante la sua permanenza in ospedale ricevette la visita del colonnello Rada, che li conferì il grado di  Tenente, nuovamente per meriti militari. Durante la sua convalescenza ricevette la visita di sua sorella Zita , Imperatrice d'Austria-Ungheria per matrimonio con S.M.I.R e A. l'Imperatore Carlo I d'Austria e IV d'Ungheria, e dal di lei figlio Otto d'Asburgo-Lorena.
S.A.R. Gaetano di Borbone-Parma in divisa
da Requeté.


Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, partecipò al conflitto dalla parte degli alleati, insieme ai fratelli Francesco Saverio e Felice, quest'ultimo Granduca del Lussemburgo per via del suo matrimonio con Carlotta del Lussemburgo. Nel 1943 tentò di arruolarsi in un battaglione austriaco che serviva nell'esercito statunitense, ma venne rifiutato a causa delle sue origini francesi. Successivamente fu professore al  Campo Ritchie, nel quale si formavano giovani ebrei tedeschi per svolgere operazioni speciali in territorio tedesco.
Partecipò allo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944.

L'8 marzo 1958, Don Gaetano  subì un grave incidente stradale nei pressi di Cannes, in Costa Azzurra, dove si trovava per visitare il fratello Luigi. Morì il giorno dopo  essere stato portato in ospedale e fu sepolto il 10 marzo con il berretto rosso dei Requeté, come egli aveva richiesto.





Fonte:

www.carlismo.es



Di Redazione A.L.T.A.

sabato 19 aprile 2014

Da schiavo lobotomizzato a uomo libero...




“Siamo per lo più brave persone, dedite al lavoro e alla famiglia. Non c’è nulla di più importante. Noi lavoriamo e accudiamo i nostri cari e le istituzioni si occupano di mandare avanti uno stato paterno e protettivo. Crediamo a tutto quello che ci vien detto. Alziamo la voce, di tanto in tanto in un timido rigurgito di giustizia, contro coloro che ci vengono indicati come contrari alla legge e ci sentiamo vivi. Capiamo poco della legge e di politica ma noi abbiamo altro da fare e alle leggi ci pensano i politici che "abbiamo votato" : sennò che ci stanno a fare? Quello che è giusto ce lo devono dire loro. Idem per quello che è sbagliato. (E continuando così, per anni, un senso di ottundimento e di stanchezza prende il sopravvento).
Godiamoci quel poco che ci rimane. E’ già tanto. Il “Grande Fratello” alla sera rappresenta la nostra cultura (l’ha detto la Marcuzzi!). La partita alla domenica il nostro momento di sfogo e un po’ di invidia nel vedere qualche buzzurro che sa a malapena pronunciare il suo nome che sgambetta per qualche milione di euro.
Siamo integerrimi, paghiamo quello che c’è da pagare e quando non possiamo farlo chiediamo finanziamenti ad interessi altissimi per poter essere in regola. Se ci va male ci tolgono la casa. Già la casa … il sogno di tutti gli "italiani". Il mito del tetto sulla testa. Casa e un buon piatto di minestra. Intanto là fuori qualche "testa calda" dichiara di voler cambiare le cose che non vanno bene. Vuol capire, pensare, conoscere ma … cosa?. A noi di vedere non ci importa. Vogliamo una vita tranquilla, senza scossoni, senza impegnarci in prima persona se non quando manifestiamo il nostro “diritto di voto” e, a testa alta, possiamo dire d’avere compiuto il nostro dovere piazzando una "X".
A volte a caso. A volte perché ce l’ha detto chi dice di capirne più di noi. A volte perché siamo ingenuamente convinti che andare a votare sia veramente funzionale e utile, magari perché quel nome ci sembra quello di una persona onesta. Le cose poi non cambiano mai ma è così ovunque, siamo in buona compagnia. La speranza è l’ultima a morire e quando le cose vanno male un'alzata di spalle e occhi al cielo sperando nella manna dal cielo. A volte i problemi non ci fanno dormire la notte e, non sapendo come risolverli, ricorriamo a qualche goccetta che grazie al cielo ci aiuta a staccare i contatti. A dire il vero il giorno dopo ci sentiamo un po’ storditi ma per qualche ora abbiamo chiuso gli occhi, le orecchie, il cuore e  … la mente.
Intanto … là fuori le "teste calde", le stesse di prima, insistono nel rivelare verità nascoste. Alzano al cielo gonfaloni giallo e rossi o bandiere bianco gigliate. Sfilano in corteo e gridano verità. Che disordine! Per fortuna che le forze dell’”ordine” ci proteggono da tanto “caos”. Alla radio dicono peste e corna di questi "esagitati". Bisogna isolarli! Anche alla tv, dove nell'ingenua mente non è concepibile la menzogna, confermano il rischio che corre la società civile a causa di questa masnada di “terroristi”, come quella volta  che volevano addirittura occupare Venezia, e con i carri armati per giunta!
Ci ricordano un evento simile capitato tanti anni fa: un piccolo gruppo di "incoscienti" che è stato punito duramente per avere issato sul campanile di San Marco la stessa bandiera che vediamo oggi sventolata nei cortei. E i giornali ? Hanno appena smesso di parlare, pensa un po’, di un certo plebiscito. Dopo averlo boicottato perché fasullo ne hanno dimostrato la illegittimità e le numerose irregolarità. E ora sono costretti a trattare dell’atto terroristico, per fortuna così puntualmente sventato! In che mondo viviamo! Non si può stare in pace, stravaccati sul divano a guardarci il nostro programma di gossip preferito, che si è disturbati da queste notizie ridicole. A proposito di che plebiscito si trattava? Ho visto qualcosa su internet ma io non faccio caso a certe goliardate anacronistiche. E tu come te la passi?”
“Io sono uno di quelli che sventolano la bandiera della legittimità. Ero come voi ma ho voluto riprendere in mano la dignità che ci hanno tolto tentando di trasformarci in automi senza spina dorsale e senza libertà concrete.
Ho voluto imparare a pensare con la mia testa. Ho voluto conoscere la vera storia che ci è stata nascosta a scuola. E nonostante ciò non sono un terrorista, non sono un razzista, non sono un delinquente ne tanto meno un pazzo. Amo l’Italia come una penisola che racchiude popoli diversi con cultura , storia e tradizioni diverse. Non tollero i così detti "italiani"  e non amo lo stato italiano unitario che ha solo e sempre significato il male per l'Italia e come al solito  non sta dando un grande esempio di giustizia e di rispetto per quello che dovrebbe essere il suo fantomatico popolo. Amo la pace e non sono un guerrafondaio ,  fin che ho potuto ho sperato che si potesse perseguire l'obbiettivo d'indipendenza dei popoli d'Italia , che condividono in milioni questo ideale, in pace. E in teoria lo si potrebbe fare senza l’uso delle armi perché le leggi internazionali scarabocchiate su un foglio lo consentirebbero.
Anch’io sono responsabile per aver lasciato che le cose precipitassero giorno dopo giorno. Anch’io ho preferito sonnecchiare sul divano mentre sentivo in lontananza le grida di protesta di chi aveva aperto gli occhi. Ma ora non più, ora mi sento legittimista quando vedo come le legittime richieste di libertà concrete di un popolo vengono distorte per metterle in cattiva luce agli occhi di chi, come voi, non ha ancora deciso di pensare senza condizionamenti ideologici!
Quando capiterà vi si aprirà davanti un orizzonte impensabile e vi accorgerete di quanto vergognosi siano stati i tentativi di manipolare la verità al fine di pilotare le vostre scelte, le vostre opinioni. Svegliatevi! Andate oltre alle apparenze! Non accettate come oro colato quello che vi vien detto dai soliti ben pensanti , o fatto parzialmente vedere! Quante volte ci capita ormai di incontrare persone costrette  ad assumere farmaci in questo oscuro periodo di intenso stress e di tensione emotiva . Essi si sentono annullati, senza la voglia di reagire nei confronti di qualsiasi cosa li accada, desiderosi solo di chiudere gli occhi e… non pensare . Niente di nuovo, ma credete che sia solo lontanamente giusto?
A non far pensare le persone ci pensa il sistema anche senza l'ausilio di farmaci  e con sistemi subdoli e li sperimentiamo quotidianamente da anni lasciandoci “drogare” dalle false informazioni, da una descrizione della realtà che di reale non ha nulla! Mi sento legittimista come non mai prima d’ora e se mi vogliono far passare per “pazzo” o per “sovversivo” o per razzista mi piacerebbe che le persone come voi non accettassero supinamente questo punto di vista ma rivendicassero il diritto di verificare se è veramente così! Se non vi va di farlo non v’è dubbio che meritate lo stato attuale delle cose. Io sono uno di quelli che non accettano più”.


Presidente e fondatore A.L.T.A.

Amedeo Bellizzi

Biella , 19 aprile 2014.

venerdì 21 febbraio 2014

La Rivoluzione del 1859 nel Ducato di Parma.

Da Carlo II alla Rivoluzione del 48' (1847-1848).


 
File:Maria Luigia dagherrotipo.jpg
Dagherrotipo di Maria Luigia d'Asburgo-Lorena
nel 1847, all'età di 56 anni.
 Il 17 dicembre 1847, Maria Luigia d'Asburgo-Lorena , alla quale il Congresso di Vienna del 1814-1815 e quello parigino del 1817 assegnarono  in vitalizio del
Ducato di Parma , morì. Con la morte della duchessa, gli Stati parmensi tornarono alla legittima dinastia dei Borbone di Parma, i cui membri  nel frattempo erano stati nominati duchi di Lucca ed avevano preso legittimo possesso del territorio della fu Repubblica Aristocratica, sciolta da Napoleone nel giugno 1805.
Nel corso del tempo che intercorre dal Congresso di Vienna agli anni 40' del secolo XIX vi furono alcune modificazioni territoriali che interessarono lo Stato parmense: Durante la stesura del Trattato di Firenze, il
28 novembre 1844, i rappresentanti dei governi toscano, modenese e parmense alla presenza dell'ambasciatore sabaudo e di quello asburgico avevano già deciso di apportare dei cambiamenti territoriali rispetto a quanto deciso a Vienna e Parigi quasi 30 anni prima. Il Granducato di Toscana , al momento dell'annessione del Ducato di Lucca, cedette al Ducato di Modena e Reggio il Vicariato di Fivizzano e le quattro enclaves lucchesi di Gallicano, Minucciano, Montignoso del Lago di Porta. In cambio della rinuncia modenese a Pietrasanta e Barga, il Granducato di Toscana cedette Pontremoli e l'alta Lunigiana al Ducato di Parma, che a sua volta cedette i territori del Ducato di Guastalla (Guastalla, Luzzara e Reggiolo) a Modena .
I due ducati emiliani, per delineare le loro frontiere, effettuarono delle cessioni territoriali comprendenti alcune fasce di territorio lungo il fiume
Enza, divenuto così confine: parti del brescellese (Coenzo a Mane, Lentigione, Sorbolo a Mane), Poviglio, Gattatico, parte dell' attuale comune di Canossa (Ciano, i castelli di Canossa e di Rossena, Borzano d'Enza, Compiano, Gombio, Roncaglio) e parte della Valle dei Cavalieri (Succiso, Miscoso, Cecciola, Lugolo, Castagneto, Poviglio, Storlo, Pieve S. Vincenzo, Temporia e Cereggio) andarono al Ducato di Modena, mentre Scurano e Bazzano vennero annessi al Ducato di Parma.

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Carlo Ludovico di Borbone-Parma.

 Il 31 dicembre 1847 giunse a Parma Carlo Ludovico di Borbone , nato in esilio a Madrid il 22 dicembre 1799, figlio di Ludovico I di Borbone-Parma e di Maria Luisa di Borbone-Spagna , Re d'Etruria sotto reggenza materna dal 1803 al 1807 , e Duca di Lucca come stipulato durante il Congresso di Vienna dal 1815 al 9 ottobre 1847. Egli aveva una particolare personalità che ne delineava i tratti di un Principe educato durante il periodo avvelenato dai miasmi della Rivoluzione francese esportata dal Bonaparte in tutta Europa.
Il 5 settembre 1820 Carlo sposò a Lucca la Principessa
Maria Teresa di Savoia (1803-1879), una delle figlie gemelle del Re Vittorio Emanuele I di Sardegna. Carlo era di tendenze comportamentali borghesi e con una natura socievole. Maria Teresa era malinconica, regale nel comportamento e, a differenza di suo marito, era profondamente Cattolica. Quando il 13 marzo 1824 Carlo divenne Carlo I Duca di Lucca, un Ducato piccolo ma ben tenuto, Carlo si mostrò poco incline al dovere di governare i suoi Stati, e molto spesso egli era in viaggio fuori dal Ducato, e in specie nei primi anni , lasciava il governo ai suoi  ministri guidati da Ascanio Mansi. Nei primi anni del 1830 Carlo cominciò a nutrire un crescente interesse per gli affari di stato. Il suo Ducato non era stato influenzato dai movimenti rivoluzionari del 1831. Nelle relazioni esterne, riconobbe l’usurpatore Luigi Filippo d’Orleans, che era arrivato al potere grazie alla settaria Rivoluzione del luglio 1830. Nello stesso tempo fu alleato con i Carlisti in Spagna; ciò può renderlo agli occhi dello storico , se è possibile, ancor più instabile nella presa di posizioni politiche del tentenna Carlo Alberto di Savoia-Carignano. Nel 1833, dopo un soggiorno di tre anni fuori dal suo Ducato, Carlo tornò a Lucca e concesse un'amnistia generale nei confronti dei sovversivi. Carlo studiava e raccoglieva testi biblici e liturgici ed era interessato a diversi rituali religiosi, aveva anche tendenze apertamente filo-protestanti. Aveva costruito una cappella greco-ortodossa nella sua villa di Marlia. Incoraggiò anche l'istruzione laica e la medicina, favorendo la creazione di scuole laiche. Queste riforme furono attuate inizialmente dal suo ministro Mansi durante l'assenza del Duca. Carlo aveva però deluso i liberal-settari che avevano sperato in un ritorno alla costituzione del 1805 e le loro speranze sovversive si spostarono inutilmente verso il suo unico figlio ed erede che però era assai diverso da lui . A causa delle riforme filo-liberali ideate principalmente dai suoi ministri e dalla gestione Statale di questi ultimi l'economia del Ducato era in declino dal 1830 e si era ulteriormente deteriorata con gli anni. Nel 1841, i dipinti della Galleria Palatina vennero venduti. Il 1 settembre 1847, avvennero a Lucca alcuni tumulti liberal-settari volti a chiedere al Duca Carlo Lodovico riforme liberali che nella confinante Toscana erano già state concesse dal fin troppo mite Granduca Leopoldo II ; dopo un iniziale rifiuto il Duca concesse alcune richieste ma poi, non poté reggere alle pressioni dispotiche dei sovversivi e partì per Modena, da dove trasformò il Consiglio di Stato in un Consiglio di Reggenza. Il 9 ottobre 1847 egli abdicò in favore del Granduca di Toscana, il quale lo ricompensò con una cospicua rendita annuale fino a che non avesse preso possesso del suo legittimo Stato, il Ducato di Parma . Mentre si svolgevano questi preludi di sovversione il Convegno massonico di Strasburgo organizzava la tempesta rivoluzionaria che avrebbe investito la penisola italiana e tutta l’Europa l’anno successivo. 
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Carlo II di Parma.


Quando il 31 dicembre 1847 Carlo giunse a Parma , prese possesso del suo legittimo Trono , prendendo il nome di Carlo II di Parma. Egli fu accolto caldamente a Parma, un paese che però non conosceva bene. Gli mancava il carattere e l'acume politico per essere in grado di superare una situazione assai diversa da quella che aveva lasciato nel Ducato di Lucca. Parma era stata rettamente governata e non c'era spazio per i modi borghesi di Carlo. Non si sentiva libero di seguire le proprie discutibili idee politiche liberal-borghesi arrivando a scrivere "È meglio morire che vivere così. Durante il giorno, e quando sono solo, piango. Ma questo non aiuta". Non iniziava il suo governo nel Ducato di Parma con la giusta tempra essenziale per la tempesta che si sarebbe da li a poco abbattuta sui suoi Stati.
Nei suoi primi atti di governo, cercò di riorganizzare l'amministrazione centrale. Firmò anche un'alleanza militare con l'Impero d’Austria. Pochi mesi dopo il suo arrivo, Parma fu investita dall’incendio Rivoluzionario del 1848. Carlo II fu costretto a scegliere tra la soppressione della rivoluzione, facile visto che il popolo era per la maggiore dalla parte della Corona, o la concessione di riforme liberali . Decise per la seconda e nominò una reggenza con il compito di preparare una costituzione. La sua intenzione era quella di conservare il Trono per il figlio il quale si trovava nel Regno di Sardegna per l’istruzione militare e che aveva chiesto aiuto al falso
Carlo Alberto di Sardegna. Tuttavia i settari a Piacenza avevano impunemente chiesto di aderire al Piemonte e Carlo Alberto non volendo lasciar scappare l’occasione per ingrandirsi territorialmente in maniera facile voleva l'annessione. Il capo sovversivo della Rivoluzione parmense del 1848 era il settario Girolamo Cantelli. Nei giorni della sovversione arrivò ad impossessarsi di 80.000 franchi.
Durante la Prima Guerra d’espansionismo sabaudo l'Esercito Imperial-Regio sconfisse le truppe di Carlo Alberto a Custoza, e poi a Milano, conducendolo a  firmare l'armistizio di Salasco il 9 agosto 1848.

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Carlo II di Parma nel 1850.


Nel mese di aprile 1849, le truppe Imperial-Regie guidate dal grande Radetzky liberarono Parma e Piacenza. Il 9 aprile la reggenza venne trasformata in un governo provvisorio. Solo quattro mesi dopo aver ripreso il legittimo Trono dei suoi avi, Carlo II decise nuovamente di lasciare Parma trovando asilo nel castello di Weisstropp, in Sassonia. Il 19 aprile 1848, Carlo II abdicò in favore del figlio. Dopo la sua abdicazione, Carlo II assunse il titolo di Conte di Villafranca. Successivamente visse seguendo le sue inclinazioni; egli viveva come un alto borghese con le mani bucate , dedicava il tempo ai suoi hobby alternando i suoi soggiorni tra Parigi e Nizza e il castello di Weisstropp. Sempre a corto di denaro, vendette la sua proprietà di Urschendorff al suo amico Thomas Ward. Nel 1852 si recò in Spagna per riconoscere sua cugina l’usurpatrice Isabella "II". Non è mio compito ora dilungarmi ulteriormente sulla vita di questo sovrano poco onorevole , ma è giusto che il lettore sappia che egli arrivò addirittura a guardare con favore l'unità d'Italia considerandola come "uno sviluppo positivo". La sua educazione fu generatrice delle sue colpe , e in questo modo egli è rimasto nella storia.


Il governo di Carlo III di Parma (1848-1854).


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Carlo III di Parma.

Carlo III di Parma (Ferdinando Carlo Vittorio Giuseppe Maria Baldassarre di Borbone-Parma) era nato nella Villa delle Pianore vicino
Lucca il 14 gennaio 1823 ed era l’unico figlio maschio di Carlo II e di sua moglie la Principessa Maria Teresa di Savoia.
Egli si sposò il 10 novembre  1845 con Luisa Maria Teresa di Borbone-Francia (1819-1864), sorella maggiore di Enrico V di Francia. La coppia ebbe quattro figli: Margherita Maria Teresa Enrichetta, Roberto Carlo Luigi Maria, Alice Maria Carolina Ferdinanda Rachele Giovanna Filomena ed Enrico Carlo Luigi Giorgio, Conte di Bardi. Carlo III prese possesso del suo legittimo Ducato il 25 agosto 1849, dopo aver decretato da Vienna alcuni atti sovrani, fra i quali la riforma degli statuti dell'Ordine di San Lodovico.
Essendo lo stato Parmense alleato militarmente con L'Austria egli poté godere dell'appoggio dell'esercito Imperial-Regio per difesa contro minacce esterne ed eventuali attività sovversive che potevano nuocere alla quiete dello stato e del suo popolo fedele. Anche se molti libri di storia raccontano che si sia servito dell'esercito Austriaco per opprimere la popolazione che "gemeva" sofferente a causa del suo "mal governo"(ovviamente e tutta spazzatura risorgimentalista),in realtà fu molto amato dal suo popolo. Egli infatti al contrario del padre , che come si è potuto constatare non era certo esempio di principe Cristiano , fu un buon sovrano , attento al suo popolo e alla preservazione delle sue tradizioni in specie alla difesa della religione di Stato , il Cattolicesimo . Fu giustamente severo con i sovversivi che avevano seminato il disordine nei suoi Stati. Egli era desideroso di mantenere la serenità nel Ducato e garantire ai suoi fedeli sudditi pace e tranquillità. Quando arrivò a Parma con somma giustizia ed imparzialità   inflisse pesanti sanzioni ai  sovversivi settari componenti l’antico rivoluzionario governo provvisorio: a causa di costoro , che avevano tramato fin tra le aule universitarie cercando di far plagio delle menti degli studenti, Carlo III decise di chiudere  temporaneamente l’università in attesa dell'epurazione da questi elementi sovversivi sostituendoli con personale qualificato e sano nei principi.
Come detto in precedenza , il capo sovversivo della Rivoluzione parmense del 1848 , il settario Girolamo Cantelli, il quale si era impossessato della somma di 80.000 franchi e che fece parte del governo rivoluzionario , dopo la Restaurazione del Duca, era stato condannato a morte, e fu inoltre condannato alla restituzione della somma sottratta . In seguito la Duchessa Luisa Maria gli fece grazia dell’una e dell’altra condanna richiamandolo dall’esilio a Genova. Dopo questo fatto il Cantelli aveva simulato di mostrarsi partigiano galante della sovrana legittima.
La vita di Carlo III fu segnata da difficili passaggi politico-istituzionali, da delicati rapporti interni, da complotti, ma anche da passioni e da momenti di intensa umanità, nel ricorrente e mai sopito conflitto fra essere uomo ed essere Duca. Carlo III di Parma fu un personaggio intelligente, audace ed ingenuo, a volte prepotente e scontroso, appassionato ed infelice, che si impegnò per governare il Ducato con senso del dovere ed onestà, impostando una politica non priva di lungimiranza e di originali intuizioni, guidandolo nel delicato momento che precedeva gli ultimi atti del processo rivoluzionario chiamato "risorgimento". Costruendosi uno spazio fra i grandi Stati dell'epoca, cercando un suo ruolo fra le pesanti e opposte influenze, egli andò incontro ad una fine che non meritava , assassinato da un terrorista mazziniano mandato ad ucciderlo dal massone Adriano Lemmi e dallo stesso Mazzini.

L'assassinio di Carlo III di Parma.
  Era il 26 marzo 1854 quando Carlo III , in abiti borghesi e accompagnato dal suo intendente, camminava  per la sua capitale non temendo nulla da un popolo che lo amava. Nei vicoli bui della città però si nascondeva furtivo un manutengolo della setta che attendeva la sua vittima
ad una svolta di strada. Colse il Duca di sorpresa scontrandosi con lui  e parandogli le mani sul viso con piglio di affaccendato, e l’infido manutengolo disse " lasciatemi andare al centro che ho fretta". Mentre il Duca rispondeva "che sfacciataggine è questa!", l’assassino gli squarciava con larga ferita il ventre, dal basso, e tenendo il coltello immerso, si spinse alcuni passi indietro , in modo da trovarsi al coperto dall’intendente poco più dietro che accompagnava il Duca. Carlo III stramazzò al suolo , l’intendente accorse, l’assassino seguitò la sua corsa fino a rimescolarsi con un gruppo di gente. L’augusto ferito fu portato al palazzo per mano dell’intendente e dell’alabardiere, in mezzo alla gente accorsa e preoccupata per le sorti del sovrano. Furono subito dati ordini perché le porte della città fossero chiuse, e fatte delle perquisizioni domiciliari. Bisogna dire altresì che cinque o sei giorni prima dell’assassinio gli sgherri della setta scrissero in vari luoghi della città, "morte al Duca", e poco prima del fatto: "sepoltura al Duca". Nel giorno in cui succedette il crimine , si trovarono troncati i fili del telegrafo verso Piacenza e verso la Lombardia e per evitare che potessero essere rannodati in ciascuna direzione erano stati troncati in tre punti. Carlo III ci mise un giorno a morire , tra un’atroce agonia. Egli spirava il 27 marzo 1854 e gli succedeva il figlio di appena cinque anni Roberto (divenuto Roberto I di Parma) sotto la reggenza della vedova Duchessa Luisa Maria. L’assassinio del buon Carlo III fu solo un preludio del precipitare inesorabile degli eventi.


Roberto I e la Reggenza di Luisa Maria verso la Rivoluzione (1854-1859).


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La Duchessa Luisa Maria con il figlio
Roberto I di Parma.
La Duchessa Luisa Maria operò bene per governare il Ducato di Parma durante la sua reggenza in nome del figlio Roberto I , ma ella fu troppo benevola con certe serpi che si fingevano ravvedute del loro torbido passato ma che in realtà continuavano a tramare nell’ombra. Diversi agenti filo-piemontesi si infiltrarono in incognito nel Ducato di Parma mettendosi in stretta collaborazione con i già esistenti e clandestini comitati liberali che agitavano gli spiriti nel Ducato sotto la direzione del Conte Cavour. Queste "cellule dormienti" attendevano dal diabolico ministro il segnale dell’azione e qualche uomo sicuro per operare il movimento sovversivo. A questo punto entra in scena Filippo Curletti, l’Agente Segreto del Conte Cavour (J.A.) , che dopo aver organizzato i disordini nel Granducato di Toscana , profittando della Guerra tra Franco-Piemontesi ed Esercito Imperiale Austriaco, ebbe l’ordine di raggiungere immediatamente Parma per dare una mano all’infido ed irriconoscente Conte Cantelli. Prima di partire da Firenze dovette rimontare il suo personale, di cui due terzi erano scomparsi. Ciò gli riuscì facile; i fuoriusciti di Roma, di Milano e di Venezia gli fornirono gli elementi della sua nuova truppa rivoluzionaria. Le cose si svolsero a Parma come a Firenze, non si allontanò l’armata, ma il generale Trotti venne comprato al partito della Rivoluzione e così ordinò ai soldati di rimanere entro le mura della cittadella. A Parma si provò qualche sorpresa vedendo il conte Cantelli prendere parte attiva all’espulsione della Duchessa. Anche se non si credeva alla sincerità della sua conversione politica, si supponeva almeno che la sua gratitudine gli imponesse una specie di momentanea neutralità: si può giusto quantificare l’enorme indifferenza con la quale egli seppe calpestare una gratitudine "molesta".

Il 1° maggio 1859 , la Duchessa decise di lasciare per motivi di sicurezza Parma, nominando un governo provvisorio. Ella non sapeva che le agitazioni che percorrevano la capitale erano frutto di macchinazioni di pochi sovversivi comandati dal Curletti. Ma come avvenne altrove gli sgherri rivoluzionari sovvertirono la reggenza composta dai Ministri nominati dalla Duchessa con lo scopo di adempiere agli ordini ricevuti fin dal principio da Torino: unire il Ducato al Piemonte immediatamente.
Invece, dopo soli quattro giorni , una volta che l’esercito fu libero di uscire dalla cittadella , e con la partecipazione del popolo fedele, il governo legittimo venne Restaurato. La Duchessa Luisa Maria rientrò a Parma scortata dal fedele esercito e dal popolo in festa. Ella scrisse: "Ho parlato un poco per ciascuno a tutta questa brava gente. Hanno voluto trascinare la mia carrozza sin presso i Cappuccini e si ostinavano a condurmi fino al palazzo". Ma nonostante l’appoggio della popolazione e dell’esercito , la Restaurazione del governo legittimo in quel maggio del 1859 sarebbe durata appena trentacinque giorno terminando il 9 giugno. Nel frattempo la polizia parmense aveva scoperto in città diversi depositi di armi dove gli uomini della "Società Nazionale" diretta dal Cavour nascondevano le armi fornite dal governo di Torino.
Su incarico del governo piemontese , intanto, si muoveva il generale Ignazio Ribotti al comando di una brigata detta "Cacciatori della Magra". Con una prima violazione delle norme internazionali: senza dichiarazione di guerra e senza alcuna azione ostile del Ducato verso le truppe piemontesi , gli uomini di Ribotti varcarono il confine ed entrarono a Pontremoli. Il prefetto, Marchese Appiani di Piombino , rifiutò di riconoscere l’autorità piemontese e venne arrestato. Sorte analoga ebbero i gendarmi di stanza in quella provincia . Nelle stesse ore, un corpo di 700 toscani comprati alla Rivoluzione o costretti a parteciparvi si schierò con l’artiglieria non lontano da Pontremoli. Così venne conquistata una città che non si considerava e non era in guerra.

Il Conte di Cavour.
 La Duchessa tentò di ricorrere alle vie diplomatiche , chiese le ragioni a Cavour che fece lo gnorri , ribadì la sua neutralità nella guerra in corso contro l’Impero d’Austria e sollecitò la liberazione del Marchese di Piombino. La risposta del meschino Primo Ministro torinese fu quasi sprezzante: "Il Ducato di Parma, essendo la base d’operazione dell’armata nemica, non è possibile impedire che, anche da parte nostra, non accadono ostilità".
Stretta tra le invasioni fedifraghe dell’esercito piemontese e le interne azioni sovversive degli sgherri del Curletti , la Duchessa decise di lasciare nuovamente Parma on d’evitare una possibile carneficina e la conseguente sofferenza del suo amato e fedele popolo. Salutò i soldati e i suoi fedelissimi. Poi in carrozza , partì, attraversando in perfetta tranquillità tutte le vie di Parma . Lasciò un proclama , in cui invocava a testimoni del suo operato i sudditi e la Storia. Lasciò poi istruzioni a un governo provvisorio e un messaggio ai suoi soldati. Parlava di "forze irresistibili" e invitava tutti a "cedere dignitosamente" per evitare inutili spargimenti di sangue.

Da sinistra: Guardia Civica e Soldato
 Semplice del Ducato di Parma.
 L’esercitò la seguì fin fuori le terre del Ducato di Parma , e fu li che decise di sciogliere i suoi soldati dal vincolo del giuramento di fedeltà. L'esercito che la seguì era composto all'incirca da 2.800 uomini , e la parte principale era formata dalla Brigata Ducale . I duemila ottocento uomini componenti la truppa Parmense, una volta sciolti dal giuramento di fedeltà , giunsero a Brescello  la mattina del 10 Giugno e quarantuno di loro decisero di arruolarsi nella truppa Estense, molti altri nell'esercito Pontificio, mentre alcuni giovani Ufficiali in quello del Regno Delle Due Sicilie.
La condotta della Duchessa in questa occasione è inconcepibile, se non si suppone che ella sia stata ingannata, come successe a Firenze, sulla vera situazione delle cose. Per come stavano davvero le cose , sarebbe bastato un colpo di fucile per mandare a vuoto la cospirazione di Parma, come quella di Firenze.
 
 




Le conseguenze della Rivoluzione nel Ducato di Parma.


Alle quattro pomeridiane di quel 9 giugno 1859, poche ore dopo che la Duchessa lasciò Parma seguita dal suo fedele esercito tra lo sgomento e la tristezza del popolo fedele , il governo provvisorio da lei incaricato fu soppiantato dagli uomini del Curletti. Venne nominata dai sovversivi una "Commissione di Governo" della quale era presidente l’infido Girolamo Cantelli.

Girolamo Cantelli.

Si videro in Parma gli scempi che si videro commessi a Firenze meno di due mesi prima: gli sgherri della Rivoluzione si impadronirono delle casse pubbliche ripulendole d’ogni ricchezza ; fu trafugata nel solo pomeriggio del 9 giugno 1859 la somma di 1.500.000 Lire-Oro. Il palazzo del governo venne ripulito di tutto ciò che avesse un minimo di valore tra vestiti, armi , argenteria, oggetti in oro e vasellame. I metalli preziosi vennero fusi e ridotti a somma da spartire tra le fila dei sovversivi, come fosse una liquidazione dal lavoro svolto. Alle otto dello stesso giorno tutte le casse pubbliche erano vuote. Quelli che non avevano preso parte al saccheggio dei beni si applicarono nel saccheggio dei mestieri: c’era chi si installò alle poste chi ai ministeri e così via.
Alla fine gli impiegati delle amministrazioni che si erano insediati a Parma non possedevano altro titolo per i posti che occupavano che l’attribuzione che se ne fecero nell’ora della sovversione di loro propria autorità. Mentre la guerra nel Regno Lombardo-Veneto continuava , il 16 giugno da Torino si provvide senza nessuna autorità legittima a nominare un commissario incaricato di amministrare il Ducato di Parma per conto del Regno di Sardegna : venne nominato il conte Diodato Pallieri . Egli era una vero e proprio governatore/dittatore , come Ricasoli a Firenze o Farini a Modena.

Luigi Carlo Farini.
 A Pallieri successe l’avvocato Giuseppe Manfredi , un altro settario arrivista dell’alta borghesia, che promosse l’unificazione amministrativa di Parma e Modena : unificazione che diede vita da prima alle «Provincie provvisorie» (entità composta dall'unione dei Ducati di Parma, Modena e delle Legazioni Pontificie delle Romagne)e successivamente alle «Regie provincie dell'Emilia» nelle quali il Farini era il dittatore incontrastato con il benestare del governo di Torino e con un proprio esercito di mercenari a disposizione. Aveva a disposizione una "Polizia Politica" che era incaricata di soffocare qualsiasi tentativo controrivoluzionario : non furono poche le violenze commesse da questi uomini di bassa lega nei confronti della popolazione fedele al governo legittimo. Mentre tali empietà si susseguivano in quelle terre che fino a non molto tempo prima godevano della benevolenza e della prosperità del buon governo ducale , la Duchessa Luisa Maria in esilio a San Gallo in Svizzera scriveva il 20 giugno 1859 la seguente lettera di protesta:



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La Duchessa Luisa Maria.


"Noi Luisa Maria di Borbone, Reggente, pel Duca Roberto I, gli Stati Parmensi, ecc.
"Egli è col più vivo dispiacere che, allontanata dal paese, che Noi reggevamo con vero affetto in nome dell’orfano nostro Figlio, veniamo a sapere i più gravi cangiamenti politici avvenuti contro le disposizioni da Noi lasciate, e contro i diritti e gli interessi del Duca di Parma. Noi dobbiamo dunque, a nostro malgrado, volgere lagnanze verso una parte dei sudditi nostri, e verso un Governo vicino che intese a soppiantarci, e, senza giusti motivi, considerarci come nemici. Per vero Noi dovevamo attenderci a simili avvenimenti. Nell’interno avevamo avuto, nella restaurazione spontanea del 3 di maggio ultimo, un pegno rassicurante dei buoni sentimenti dei nostri sudditi. Quanto all’esterno erano incessanti le dimostrazioni di una cordiale amicizia da parte di tutte le Potenze, comprese le belligeranti, la quale amicizia rispondeva perfettamente alla politica da Noi costantemente seguita.
"Eppure gli avvenimenti succedutisi nei dominî di nostra famiglia, prima in Pontremoli, poi nella capitale, indi a Piacenza ci presentano lesioni recate ai diritti di nostro figlio, il Duca di Parma Roberto I; e però non possiamo ristarci di protestare pubblicamente e solennemente, come pel presente atto protestiamo: contro gli atti di ribellione coi quali i Municipî di Parma, di Piacenza e di Pontremoli, erigendosi ad interpreti delle popolazioni, hanno preteso di scioglierle dalla sudditanza ducale, ed hanno proclamata l’annessione del paese al Regno sardo; contro il procedere del Governo piemontese prima verso la provincia di Pontremoli, poscia verso altre parti dei Ducati, sia fomentando e appoggiando la rivoluzione, sia occupandole a mano a mano colle sue truppe, sia accogliendone la dedizione, contro ogni diritto, in onta alle stipulazioni dei Trattati europei e dei più speciali col Piemonte, e senza provocazione o causa giusta di guerra. E coerentemente rifiutiamo ogni argomento che voglia farsi valere come ragione, o pretesto di diritto o di fatto per renderci solidali coll’Austria negli atti di ostilità, che questa Potenza ha esercitati verso il Piemonte, partendo dalla fortezza di Piacenza; contro tutti coloro che nel corso delle vicissitudini politiche abbiano recato o recassero per qualunque modo lesione ai diritti di nostro Figlio; diritti che pel presente atto intendiamo di conservare in tutta la loro integrità.
"Protestiamo poi e dichiariamo di considerare tutti gli atti verificati e che si verificassero contrarî ai diritti dell’amatissimo nostro Figlio nei Ducati di Parma per ogni effetto irriti e come non avvenuti; protestiamo contro le loro conseguenze, e ci riserbiamo di far valere in qualsiasi tempo e in ogni modo che sia di ragione, i diritti tutti sopra enunziati. E queste proteste Noi facciamo davanti a Dio e agli uomini, non solo nell’interesse di nostro Figlio, ma in quello ancora de’ sudditi di lui: e intendiamo che siano significate alle Potenze, sulle quali riposa il diritto pubblico europeo. Facciamo poi appello alle stesse Potenze, confidando che nella loro alta giustizia, nell’interesse dei Trattati, dell’inviolabilità dei diritti dei Sovrani e degli Stati, e nella loro magnanimità, vorranno prendere a cuore ed efficacemente sostenere la causa del giovinetto Sovrano di Parma.

Dato a San Gallo, in Svizzera, questo giorno 20 di giugno 1859.

"LUISA".



L’11 luglio 1859 , dopo le sanguinose battaglie di Solferino e San Martino , venne firmato da Napoleone III e l’Imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria l’Armistizio di Villafranca. Esso pose fine alla Seconda Guerra d’espansionismo sabaudo e alle mire che il Cavour aveva su Venezia. L’armistizio di Villafranca, a cui anche l’ignorante e meschino Vittorio Emanuele II di Sardegna pose la firma il 12 luglio, fu ratificato dal 

Firma del Trattato di Zurigo.
 
Trattato di Zurigo del novembre 1859. Come il lettore ben informato sa , tale trattato non venne rispettato dal governo di Torino il quale ignorò le disposizioni chiaramente esposte all’Art. 18 e 19:

"Art. 18. Sua Maestà l’Imperatore dei Francesi e Sua Maestà l’Imperatore d’Austria si obbligano a favorire con tutti i loro sforzi la creazione di una Confederazione tra gli Stati Italiani, che sarà posta sotto la presidenza onoraria del S. Padre, e lo scopo della quale sarà di mantenere l’indipendenza e l’inviolabilità degli Stati confederati, di assicurare lo svolgimento de’ loro interessi morali e materiali e di garantire la sicurezza interna ed esterna dell’Italia con l’esistenza di un’armata federale.
"La Venezia, che rimane posta sotto la corona di Sua Maestà Imperiale e Reale Apostolica, formerà uno degli Stati di questa Confederazione, e parteciperà agli obblighi come ai diritti risultanti dal patto federale, le cui clausole saranno determinate da un’assemblea composta dei rappresentanti di tutti gli Stati Italiani.
"Art. 19. Le circoscrizioni territoriali degli Stati indipendenti dell’Italia, che non presero parte nell’ultima guerra, non potendo esser cambiate che col concorso delle Potenze che hanno presieduto alla loro formazione e riconosciuta la loro esistenza, i diritti del Gran Duca di Toscana, del Duca di Modena e del Duca di Parma sono espressamente riservati tra le alte parti contraenti.




La Duchessa Luisa Maria ed il figlio Roberto I di Parma , secondo il suddetto trattato , avrebbero dovuto rientrare in possesso dei loro legittimi Stati ed entrare a far parte della Confederazione Italiana che si era deciso di istituire. Come purtroppo ben si sa , ai sovrani di Parma, Modena , Toscana e Legazioni Pontificie delle Romagne venne impedito di riprendere ciò che legittimamente gli spettava per diritto e per trattato internazionale. Le proteste alle potenze d’Europa non sortirono l’effetto sperato dai sovrani spodestati con l’inganno della Rivoluzione.

Assassinio del Colonnello Anviti a Parma.
 Le atrocità continuarono a susseguirsi in quelle province e una in particolare generò largo sdegno nell’opinione pubblica d’Europa : mi riferisco all’assassinio del Colonnello Anviti :
Mentre Filippo Curletti si trovava nel suo gabinetto Farini giunse da lui correndo: "presto… presto… a Parma. Vi hanno arrestato il colonnello Anviti alla stazione della strada ferrata… il boia dei Borboni". Il Curletti rispose: "Cosa vuole che si faccia?" … "Vuole che glielo conduca qui?" E Farini "Oh! No! Non sapremmo cosa farne!… è un uomo particolare". "Ma…" - non potremmo toccarlo senza far gridare – "bisognerebbe che la popolazione si incaricasse della cosa … mi capite". Con "popolazione" il Farini si riferiva ai manutengoli prezzolati al servizio del Curletti.
Luigi Anviti, era stato fedele uomo di Carlo III di Parma (l’amato Duca assassinato nel 1854); colonnello incaricato dell’ordine pubblico, eseguì il suo compito in maniera tanto egregia  da inimicarsi  i liberal-settari. Egli si trovava al comando dell’Esercito Ducale che seguì la Duchessa Luisa Maria quando il Ducato di Parma venne turbato dai sovversivi filo-piemontesi. Dopo lo scioglimento dell’Esercito Ducale da parte della Duchessa, Anviti prese la via dell’esilio per qualche tempo. Egli era figlio del conte Eduardo, era nato a Piacenza nel 1810; divenne un giovane dal carattere difficile, ma era fedele alla Corona Ducale e su di lui si riversarono il risentimento e il rancore dei liberali , i quali cospiravano negli scantinati e se vanivano scoperti da lui ne ricevevano punizioni e meritate bastonature. Anviti era stato anche vittima di un agguato, quando un manutengolo di loggia gli sparò codardamente alle spalle, riuscendo però a fuggire all’estero. L’Anviti riuscì ad arrestare i due collaboratori , Andrea Carini e Francesco Panizza, che vennero giudicati, condannati e fucilati. Un fatto che eccitò ancor di più contro di lui i liberal-settari.
Luigi Anviti,  che, come si è detto, dopo aver lasciato Parma esiliò nelle Romagne in attesa degli eventi e speranzoso che le cose si sarebbero sistemate positivamente, ingannato dalle promesse di amnistia del governo dittatoriale sardo-piemontese , cercò di ritornare a casa sua a Piacenza. In quel fatale 5 ottobre, Anviti decise di viaggiare sul cosiddetto treno rosso, un convoglio a vapore da poco inaugurato sulla linea Bologna- Piacenza. Quando il treno fece sosta nella stazione di Parma, fu riconosciuto dalle spie della Rivoluzione e fatto arrestare dai gendarmi con una tranquillità surreale e senza nessun disordine. Venne condotto alla prigione della città senza nessuna violenta reazione popolare verso di lui e condotto alla presenza del direttore Galetti. Il Galetti ricevette l’ordine di lasciar prelevare l’Anviti da un gruppo di sgherri appositamente incaricati dal governo provvisorio. Galetti come ricompensa fu avanzato e abbandonò la direzione delle prigioni per quella delle poste.
Fra botte e coltellate Anviti fu trasportato al Caffè degli Svizzeri che era solito frequentare: Là giunto, l’infelice, che non era ancora morto , fu collocato sopra d’un tavolo, e a colpi di spada gli fu tagliata la testa. Alla testa insanguinata si volle far trangugiare una tazza di caffè, gli si pose un sigaro in bocca, ed in questo modo fu portata sulla piramide della piazza del Governo di Parma. Una torcia da vento le fu collocata dinanzi, così che fosse meglio veduta, e la banda di sgherri divertendosi, faceva suonare da suonatori ambulanti, accompagnando loro stessi con la voce, "inni patriottici"!. Il cadavere del povero Anviti fu trascinato per diverse ore per le strade della città, alla presenza di un corpo di 25 carabinieri incaricati della guardia alla prigione, ed in una città che possedeva allora una guarnigione di circa 6000 uomini, senza che le autorità intervenissero. Gli stessi mandanti dello scempio ordinarono ai giornali di scrivere che a commettere tale barbarie "furono austriaci mandati colà apposta": affermazione ridicola e priva di senso logico. L’uomo che dopo avere trascinato per le strade di Parma il cadavere insanguinato del colonnello Anviti, decapitandolo per porne la testa come trofeo sulla piramide della piazza del Governo, tale Davidi, fu lo stesso giorno nominato direttore delle prigioni di Parma.
Qualche giorno dopo i fatti il console francese Paltrinieri domandò, in nome della Francia, che venissero puniti gli autori dell’assassinio. Successivamente si arrestarono, con gran chiasso, durante la giornata per dare all’Europa una soddisfazione apparente, ventisette persone a caso. La sera stessa il direttore Davidi ricevette l’ordine di lasciare evadere i prigionieri. L’affare fu così soppresso e non se ne sentì più parlare.




I Plebisciti nel Ducato di Parma.

Il dittatore Luigi Carlo Farini.


Il governo di Torino istituì per l’11 e 12 marzo 1860 i plebisciti per l’annessione al Regno di Sardegna anche nel Ducato di Parma. Anche a Parma alla vigilia del plebiscito , il dittatore Farini per stroncare la crescente nostalgia popolare per la Duchessa e in odio agli antichi emblemi e vessilli dei Farnese e dei Borbone, emanò ai Prefetti una circolare, in data 10 novembre 1859, in forza della quale " chiunque innalzasse una bandiera che non sia la bandiera nazionale italiana, oramai fatta nostra, troverà nell’autorità ferma e severa repressione". Sempre dal Farini fu vietata la libertà di stampa e di parola a chi non era del partito piemontese fino alla sera del giorno che precedette le votazioni ; impossibile naturalmente in così breve giro di ore mettere in piedi giornali o comitati per il no ; a differenza dei fautori del no , che erano o esiliati o incarcerati, i liberali poterono organizzare comitati per l’annessione in ogni Comune e inviare in ognuno una trentina di uomini armati per atterrire i contadini , minacciati dai padroni liberali , i quali si erano impossessati delle terre feudali che offrivano sostentamento ai contadini, di licenziamento dalle loro terre, se si fossero pronunziati per l’amata Duchessa . Per parte sua la stampa risorgimental-massonica dichiarava reo di morte chi non avesse votato per l’annessione. I tipografi parmensi furono diffidati dallo stampare scritti contrari all’annessione e "avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel regno separato ". Gli unici giornali che erano autorizzati a circolare attaccavano ogni legittimista-Duchista o antisabaudo, definendolo "nemico della patria, partigiano dell’Austria". I nobili ed i possidenti fedeli e cattolici essendo quasi tutti dovuti uscire dal paese, la classe numerosissima dei contadini restò alla balìa dei pochi possidenti e nobili devoti al Piemonte; i quali non perdonarono ad insinuazioni, a comandi, a minacce e perfino a scacciamenti dalle terre che fecero proprie , perché i poveri contadini votassero per l’annessione. Gli antisabaudi e chi votava no se la vide brutta anche a Parma: un contadino gridò Viva la Duchessa! e fu ucciso all’istante. Un altro osò gridare "Evviva la Duchessa! e subito fu arrestato e incarcerato. D’altra parte la stampa del regime liberal-massonico, spuntata un po’ ovunque e tutta al soldo dei nazionalisti, l’aveva scritto a chiare lettere: "Chi dice SÌ mostra sentirsi uomo libero, padrone in casa propria, degno figlio dell'Italia. Chi dice NO fa prova d’anima di schiavo nato al bastone croato. Il SÌ, lo si porta all’urna a fronte alta, sotto lo sguardo del sole, con la gioja nell’anima, con la benedizione di Dio! Il NO, con mano tremante, di nascosto come chi commette un delitto, colla coscienza che grida: traditore della patria!". 
Filippo Curletti.

Farini si mostrò molto concitato contro i duchisti e principalmente contro i preti e le monache, in special modo alla vigilia dei plebisciti. Egli disse al Curletti leggendo i suoi rapporti : "Non bisogna avere pietà con quelle canaglie". Dietro simili disposizioni del governo Curletti aveva carta bianca per gli arresti e le incarcerazioni. Riccardi e Curletti profittarono di questa posizione. Agenti della più infima specie reclutati da loro si introducevano presso le persone conosciute per il loro attaccamento alla dinastia ducale, presso i preti, nei conventi, ed all’atto di operare gli arresti, facevano comprendere che con qualche opportuno lascito di denaro si sarebbe potuto riconquistare la libertà, od anche evitare l’imprigionamento. Simili argomenti mancarono raramente di riuscita; vi si sottometteva; ed era la scelta più semplice da fare. Il prodotto di queste estorsioni era rimesso al Riccardi, genero di Farini. Le somme erano più o meno considerevoli, lo si comprende, secondo la fortuna delle persone arrestate. Le somme estorte si aggiravano comunque a non meno di 4.000 franchi a testa.
In seguito giunse a Torino la nota dal gabinetto francese, che domandava il richiamo, prima del voto, dei commissari piemontesi. Il Piemonte non poteva sottrarsi a questa esigenza: vi si sottomise, comunque di mala voglia, per le Romagne, la Toscana ed il Ducato di Parma mantenendovi presenti comunque agenti al servizio del partito nazionalista. Il Curletti ed i suoi uomini si erano fatti consegnare i registri parrocchiali per stendere le liste degli elettori. E quindi prepararono tutti i biglietti. I giorni del plebiscito un piccolo numero di elettori si presentò a prendervi parte, ma al momento della chiusura delle urne, gli agenti del Curletti vi gettarono dentro i biglietti, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti; non tutti peraltro, ciò si intende; essi ne lasciarono da parte qualche centinaio o qualche migliaio, secondo la popolazione del collegio. Bisognava bene salvare le apparenze, almeno di fronte all’estero, perché per l’interno sapevano a quale espediente attenersi.
Anche prima dell’apertura del voto carabinieri ed agenti di polizia travestiti ingombravano le sale dello scrutinio e l’ingresso alle medesime. Era sempre fra di loro che sceglievano il presidente dell’ufficio e gli scrutatori. In certi collegi questa introduzione di massa nell’urna dei biglietti degli agenti (chiamata dal Curletti e i suoi "completare il voto") si fece con tale sicurezza e con così poca attenzione, che lo spoglio dello scrutinio diede più votanti che elettori inscritti. Vi si rimediò facilmente con una rettificazione nel processo verbale. Poi per i biglietti negativi o ostili al Piemonte, necessari al fine di dare al voto un’apparenza di sincerità, gli uomini del Curletti lasciarono il pensiero agli stessi elettori.

Immaginetta di propaganda
risorgimentalista sui plebisciti.
 Come ben sapete i verbali dei risultati e le schede sparirono subito e già nel 1903 non si trovavano più né presso le preture né presso i municipi. Vediamoli comunque questi risultati truccati, comprendenti i Ducati di Parma, Modena e Legazioni Pontificie delle Romagne:

Parma, Modena e Romagne (11-12 marzo 1860): SÌ 426.006. NO 756. Annessionisti: 99,82 % Contrari: 0,17 %.

Il Ducato di Parma venne così fuso al Regno di Sardegna , e Parma divenne una volgare provincia lasciata ad appassire. Le insurrezioni nelle campagne in favore della dinastia legittima furono prontamente soffocate o prevenute col terrore delle minacce. L’economia del Ducato sprofondò e là dove abbondavano gli impieghi vi si trovava ora disoccupazione e mal contento misto alla nostalgia dei bei tempi passati.
In codesta trista maniera si conclude la narrazione dei fatti che interessarono il Ducato di Parma in quei nefasti avvenimenti che ne decretarono l’occupazione e la fine della sua indipendenza. Possiate perdonarmi se vi ribadisco che non mi si deve accusare di esagerazione… io non esagero in nulla… tutto ciò è della più scrupolosa esattezza. Ma credetemi quando dico che anche a Parma un colpo di fucile avrebbe rovesciato gli esiti nefasti e impedire la vittoria della Rivoluzione in quelle terre.

Presidente e fondatore A.L.T.A. Amedeo Bellizzi.  

Fonte:


Filippo Curletti- LA VERITÀ SUGLI UOMINI E SULLECOSE DEL REGNO D’ITALIA RIVELAZIONI DI J. A. ANTICO AGENTE SECRETO DEL CONTE CAVOUR (a cura di Elena Bianchini Braglia).

Controstoria dell’Unità d’Italia – Fatti e misfatti del Risorgimento (Di Gigi Di Fiore).

La Civiltà Cattolica.