martedì 31 gennaio 2012

MEMORIE PER LA STORIA DEL GIACOBINISMO SCRITTE DALL' ABATE BARRUEL TRADUZIONE DAL FRANCESE. TOMO I. 1802 (Parte 6°)CAPITOLO IV.PRIMO MEZZO DEI CONGIURATI.L'ENCICLOPEDIA.

Per distruggere l'infame nel senso di Voltaire e per giungere al punto di rovesciare gli altari ed il culto del Dio predicato dagli Apostoli occorreva cambiare l'opinione pubblica, cioè bisognava aver ragione della fede dei popoli cristiani sparsi sulla superficie della terra: all'inizio della loro coalizione i congiurati non avevano il potere di averne ragione con la forza, bisognava perciò che la rivoluzione delle idee religiose fosse preparata con destrezza e portata fino al punto in cui la trovarono i nostri legislatori Giacobini.
Era necessario che l'incredulità avesse conquistato un numero di adepti abbastanza grande per poter dominare nelle corti, nei senati, nelle armate e nelle differenti classi del popolo; per fare simili progressi di corruzione e d'empietà occorrevano molti anni, e perciò Voltaire e Federico non potevano pensare di vederne gli effetti. ( Lett. di Fed. a Volt. 5 maggio 1767. ) I consigli dei congiurati non potevano essere dunque per nulla paragonabili a quelli dei nostri conquistatori carmagnoli;a così non parleremo qui di ghigliottine, di requisizioni violente e di combattimenti ingaggiati per abbattere gli altari del cristianesimo.
I primi mezzi dei sofisti avrebbero dovuto essere meno tumultuosi, più in sordina, più occulti, più lenti, ma perfino nella loro lentezza sarebbero stati addirittura più insidiosi ed efficaci; occorreva che l'opinione pubblica perisse in qualche modo di cancrena prima ancora che gli altari cadessero sotto la scure, e questo Federico l'aveva previsto quando scriveva a Voltaire che minare sordamente e senza strepito l'edificio era come obbligarlo a cadere da se stesso. (13 agosto 1775.) D'Alembert se n'era accorto anche meglio, poiché
rimproverava a Voltaire di correre troppo scrivendogli che se il genere umano s'illuminava, ciò si doveva alla precauzione d'illuminarlo solo a poco a poco. (31 luglio 1762.) Infine la necessità di tali precauzioni suggerì a d'Alembert l'idea dell'Enciclopedia come mezzo migliore per illuminare lentamente il genere umano e distruggere l'infame. Egli concepì questo progetto e Diderot lo fece suo con entusiasmo, Voltaire lo sostenne con una costanza che rianimò sovente d'Alembert e Diderot, vicini a soccombere entrambi più d'una volta sotto il peso del loro compito.

Denis Diderot (1713-1784). Fu scrivano, precettore  e “bohemien”. Condannato a 5 mesi di “blanda prigionia” per stampa sovversiva nel 1749, li scontò nel castello di Vincennes. Si sposò con una camiciaia pur avendo una relazione con Sophie Valland. Fu promotore, editore e colonna dell’Encyclopedie, che non abbandonò neppure dopo la sospensione dell'opera in seguito ad una censura della Sorbona (1752). L'Enciclopedia fu ripresa per opera del ministro D'Argenson. La zarina Caterina II acquistò la biblioteca di Diderot, ma lo cacciò dalla corte.

Per comprendere fino a che punto il successo di questo famoso dizionario interessasse il capo ed i complici, è assolutamente necessario sapere in base a quale piano era stato concepito ed in che modo l'esecuzione di questo stesso piano era divenuta per loro il mezzo principale e più infallibile, destinato a cambiare gradualmente l'opinione pubblica insinuando tutti i princìpi dell'incredulità per poi rovesciare i princìpi del cristianesimo.
All'inizio l'Enciclopedia fu annunziata come l'insieme, il thesaurus più completo di tutte le conoscenze umane; religione, teologia, fisica, storia, geografia, astronomia, commercio e tutto quello che può essere oggetto di una scienza, poesia, eloquenza, grammatica, pittura, architettura, manifatture e tutto quanto è l'oggetto delle arti utili o dilettevoli, tutto insomma, persino i precetti ed i modi di procedere dei mestieri e delle più semplici arti manuali doveva essere riunito in quest'opera, che sarebbe stata l'equivalente delle più grandi biblioteche
e tale da supplire a tutte; avrebbe dovuto essere il risultato del lavoro di una società di persone scelte fra le più celebri di Francia in ogni genere di scienze. Il discorso con cui d'Alembert l'annunciò al mondo intero era scritto con abilità, ben pesato e meditato; la concatenazione delle scienze, i progressi dello spirito umano vi erano molto ben indicati, tutto ciò che aveva tratto dalle opere di Chambers e del cancelliere Bacon sulla filiazione delle idee era assai ben travestito; il sofista plagiario aveva saputo adornarsi così bene della sapienza altrui, che il prospetto dell'Enciclopedia fu considerato un capolavoro ed il suo autore come l'uomo più degno di essere posto alla direzione di un'opera così meravigliosa.



Frontespizio della prima edizione dell'Enciclopedia. Doveva essere la raccolta
delle cognizioni del genere umano: si trasformò in strumento di propaganda atea ed
anticristiana. Al suo esordio l'opera ebbe la ferma opposizione dei Gesuiti.

Così le promesse erano superbamente annunciate, anche se si aveva poca voglia di mantenerle; tuttavia vi era un obiettivo tenuto profondamente segreto e ritenuto di pressoché certa realizzazione, il quale consisteva nel fare dell'Enciclopedia un immenso deposito di tutti gli errori, i sofismi e le calunnie che potessero essere state inventate contro la religione a partire dalle prime scuole dell'empietà sino a questa enorme compilazione; ma il veleno avrebbe dovuto essere abilmente nascosto in modo che si infondesse insensibilmente nell'animo dei lettori senza che se ne potessero accorgere. Per abusare della loro credulità, l'errore non si doveva trovare mai in modo troppo scoperto, ma si doveva nascondere con cura particolare nelle voci dove si sarebbe potuto prevederlo o sospettarlo. La religione avrebbe dovuto sembrare rispettata e persino difesa nelle discussioni che la riguardavano direttamente. Qualche volta l'obiezione doveva essere confutata in
modo da persuadere che si voleva annientarla, mentre invece si pensava solo a renderla più pericolosa fingendo di combatterla. Vi è anche di più: gli autori che dovevano aiutare d'Alembert e Diderot in questo immenso lavoro non erano tutti uomini di religione sospetta; la probità di alcuni, come per esempio quella del signor Jaucourt, dotto scrittore che da solo ha composto un numero prodigioso di voci dell'Enciclopedia, era tanto nota che sembrava dovesse servire da garante contro le insidie dell'astuzia e della perfidia. Infine si
annunziava che gli argomenti religiosi sarebbero stati trattati da teologi noti per il loro sapere e per la loro ortodossia; anche se tutto ciò fosse stato verissimo, l'opera sarebbe risultata solo più perfida, poiché a d'Alembert e a Diderot rimaneva una triplice risorsa per portare a termine lo scopo ultimo della cospirazione anticristiana.
La prima era l'arte d'insinuare l'errore e l'empietà nelle voci che per loro natura ne sarebbero state meno suscettibili, nella storia, nella fisica, perfino nella chimica e nella geografia, in quelle parti cioè che si sarebbe creduto di poter consultare senza il minimo pericolo. La seconda era l'arte dei richiami, quell'arte così preziosa che, dopo aver messo sotto gli occhi del lettore alcune verità religiose, lo rinviava ad altre voci di diverso tipo per acquistare maggiori nozioni; qualche volta perfino la sola parola del richiamo poteva costituirne la satira ed il sarcasmo: per far ciò bastava porre sotto l'articolo trattato religiosamente una di queste espressioni: Vedi la voce “pregiudizio”, oppure: Vedi “superstizione”, vedi “fanatismo”. Infine, se il sofista che faceva il richiamo temeva che questa astuzia fosse insufficiente, poteva alterare le discussioni di un collaboratore onesto e aggiungere il proprio articolo sul medesimo argomento fingendo di sostenerlo
mentre lo confutava; insomma, il velo avrebbe dovuto essere abbastanza trasparente per rendere l'empietà pungente ed abbastanza oscuro per riservarsi la possibilità di eventuali scuse e sotterfugi.
Questa era l'abilità particolarmente propria al sofista volpone d'Alembert; Diderot, più ardito, si abbandonava qualche volta a tutta la follia della sua empietà, ma quando riflettendo gli tornava il sangue
freddo doveva ritoccare i suoi scritti, aggiungendovi qualche restrizione apparente in favore della religione, o qualcuna di quelle espressioni reverenziali che nondimeno lasciavano sussistere tutta
l'empietà; e se non voleva farlo, se ne incaricava il revisore generale d'Alembert,.
Soprattutto i primi volumi dell'immensa collezione dovevano essere digeriti con prudenza per non irritare il clero e tutti coloro che i congiurati chiamavano uomini di pregiudizio. Man mano che l'opera avanzava si sarebbe fatto uso di maggiore audacia e, se le circostanze non permettevano ancora di dire abbastanza apertamente tutto ciò che si voleva, rimanevano come ultime risorse i supplementi e le nuove edizioni da stamparsi in paesi stranieri, rendendole meno costose per diffonderle meglio e mettere il loro veleno alla portata dei lettori meno abbienti.
L'Enciclopedia, a forza di essere raccomandata e strombettata dagli adepti, avrebbe dovuto essere presente in tutte le biblioteche facendo in modo che a poco a poco tutto il mondo dei dotti diventasse
anticristiano.
Questo progetto non avrebbe potuto essere concepito meglio per arrivare al fine dei congiurati, e ben difficilmente avrebbe potuto essere eseguito più fedelmente di quanto lo sia stato.
Dobbiamo allo storico le prove del fatto e quelle dell'intenzione; per avere le prime basta dare un'occhiata a vari articoli di questa immensa collezione e confrontare ciò che vi si trova di abbastanza esatto sui principali dogmi del cristianesimo ed anche sulla religione naturale con gli altri articoli ai quali i nostri congiurati si preoccupano di rinviare il lettore; ci si renderà conto che l'esistenza di Dio, la libertà, la spiritualità dell'anima erano trattate all'incirca come lo dovrebbero essere da parte di qualsiasi filosofo religioso, ma il lettore
che d'Alembert e Diderot si preoccupano di rinviare alle voci "dimostrazione" e "corruzione" vedrà successivamente sparire tutta questa dottrina, perché quella che si trova nelle voci dell'Enciclopedia
raccomandate da d'Alembert e Diderot è proprio la dottrina degli scettici, degli spinozisti, dei fatalisti e dei materialisti.1
Questo trucco non sfuggì alle osservazioni degli autori religiosi, (ved. La Religione vendicata, Gauchat, Bernier, Lett. Elviesi.) e dal canto suo Voltaire si incaricò di difendere l'Enciclopedia dalle critiche, descrivendo questi autori religiosi come nemici dello stato e come cattivi cittadini; (Lett. 18 ad Alemb.) d'altronde erano queste le sue armi ordinarie, e se l'inganno gli era riuscito, bastava esaminare la sua corrispondenza confidenziale con gli autori reali dell'Enciclopedia per rendersi conto se le intenzioni che a loro si attribuivano fossero 
prive di fondamento.
Lontano cento leghe da Parigi ed esente dagli ostacoli che incontrava d'Alembert, Voltaire avrebbe desiderato che le intenzioni dei congiurati si manifestassero con attacchi più diretti; egli non gradiva certe restrizioni che per d'Alembert erano usuali, e gli rimproverò specialmente quella che aveva impiegato nella voce su Bayle; ma d'Alembert gli rispose: “Voi mi fate una lagnanza da svizzero riguardo all'articolo su Bayle. Per prima cosa non ho detto felice lui se avesse rispettato di più la religione ed i costumi: la mia frase è più modesta. Ma poi chi non sa che nel maledetto paese in cui scriviamo questo tipo di frasi è in stile notarile e serve solo da passaporto alle verità che si esprimeranno altrove? Nessuno al mondo le crede.” (L. d'Alemb. 10 ott. 1764.) Voltaire, al tempo in cui era occupato a redarre gli articoli che spediva a d'Alembert per l'Enciclopedia, non potendo nascondere quanto avrebbe preferito che si andasse direttamente all'essenziale
tralasciando i riguardi che si avevano ancora per la religione, scriveva: “Mi stringe il cuore quel che mi vien detto degli articoli di teologia e di metafisica; è cosa molto crudele stampare il contrario di quel che si
pensa.” (L. 9 ott. 1755.) D'Alembert, più astuto, si rendeva conto di quanto questi riguardi fossero necessari per non essere trattato da matto proprio da coloro che voleva convertire, cioè da coloro di cui voleva fare
altrettanti apostati: egli prevedeva il tempo in cui avrebbe potuto rispondere: “Il genere umano oggi è così
illuminato solo perché si è avuta l'avvertenza di illuminarlo a poco a poco." (L. 16 luglio 1762.)



Brano della lettera n° 145 di d'Alembert a Voltaire, 10 ottobre 1764 (Oeuvres completes de Voltaire, tomo 68, Kehl 1785). Si tratta di una vera e propria confessione: d'Alembert affermache le frasi apparentemente in favore della religione servivano solo da copertura per veicolare ben altri contenuti che si trovavano in altri luoghi dell'Enciclopedia. Querelle de suisse si può tradurre: lamentela pedante.



La frase estratta dalla lettera di Voltaire a d'Alembert del 9 ottobre 1755 (Oeuvres completes de Voltaire, tomo 68, pag. 9, Kehl 1785)

Quando Voltaire, col nome di un prete di Losanna, inviava degli articoli troppo arditi, d'Alembert gli diceva: “Noi riceveremo volentieri tutto ciò che ci verrà dalla stessa mano; chiediamo solo il permesso al vostro eretico di fare zampa di velluto in quelle parti in cui avrà mostrato troppo le unghie: è il caso di indietreggiare per saltar meglio.” (L. 21 luglio 1757.)
Per dimostrare nel medesimo tempo che non dimenticava mai quest'arte di ripiegare per saltare meglio, d'Alembert rispondeva ai rimproveri che Voltaire gli faceva sulla voce “inferno”: “Senza dubbio abbiamo delle pessime voci su teologia e metafisica; ma con dei censori teologi e un privilegio vi sfido a farli migliori. Vi sono degli altri articoli meno in vista in cui tutto è riparato.” (Ibid.)
Infine come dubitare dell'intenzione precisa e decisa degli enciclopedisti, quando si vede Voltaire esortare d'Alembert ad approfittare del tempo in cui l'autorità, maggiormente occupata in altre questioni, si mostrava meno attenta ai progressi degli empi, scrivendogli formalmente: “Durante la guerra dei parlamenti e dei
vescovi, i filosofi avranno buon gioco; avrete agio di riempire l'Enciclopedia di verità che solo vent'anni fa nessuno avrebbe osato dire.” (L. a d'Alemb. 13 nov. 1756.)
Tutti questi intrighi, tutte queste sollecitudini di Voltaire si comprendono facilmente sapendo a qual punto egli faceva dipendere dall'Enciclopedia il successo della sua cospirazione. Sono molto interessato ad una buona opera teatrale, scriveva egli a Damilaville, “ma preferirei di molto un buon libro di filosofia che distruggesse per sempre l'infame. Io pongo tutte le speranze nell'Enciclopedia.” ( L. a Damil. 23 maggio 1764. ) Quale storico dopo una confessione così formale potrebbe rifiutarsi di ammettere che questa enorme compilazione fosse destinata particolarmente a diventare l'arsenale dei sofisti contro la religione?



Étienne Noël Damilaville, funzionario statale divenuto responsabile per la raccolta del "Ventesimo" (un'imposta del 5% sui redditi introdotta in Francia a partire dal 1750) e collaboratore dell'Encyclopédie, fu uno dei corrispondenti più assidui di Voltaire.

Diderot, il cui procedere era sempre più schietto perfino nelle sue doppiezze, non nascondeva quanto gli costasse l'essere ridotto così spesso ad impiegare l'astuzia; egli non nascondeva che avrebbe voluto inserire i suoi princìpi con minori riserve, ed era facile capire cosa fossero i suoi princìpi quando diceva che: “Tutto il secolo di Luigi XIV aveva prodotto solo due uomini degni di lavorare all'Enciclopedia.”
Questi due uomini erano Perrault e Boindin; riguardo al primo non si sa il perché, mentre riguardo al secondo la ragione era più chiara: Boindin, nato nel 1676, morì con fama pubblica di ateismo, ci si rifiutò di seppellirlo con le cerimonie cristiane e questa sua fama di ateo gli aveva impedito l'ingresso nell'accademia di Francia; questi erano i titoli che, se fosse vissuto, gli avrebbero garantito una collaborazione all'Enciclopedia.
Tale era dunque lo scopo di quest'opera e l'intenzione dei suoi autori coalizzati; secondo la loro stessa confessione, l'essenziale non consisteva nel riunirvi tutto ciò che avrebbe potuto costituire il tesoro delle scienze, ma di farne invece il deposito di tutte quelle pretese verità, cioè di quelle empietà che non si sarebbe osato pubblicare quando l'autorità vegliava sui propri interessi e su quelli della religione, e di introdurre con l'ipocrisia tutte queste empietà affermando contro voglia alcune verità religiose cioè stampando diversamente da ciò che si pensava sul cristianesimo, per poi cogliere l'occasione di stampare tutto quello che si pensava contro di esso.
Malgrado tutti questi trucchi, le persone zelanti per la religione si levarono con vigore contro l'Enciclopedia; soprattutto il Delfinoa se ne risentì e ne ottenne per qualche tempo la sospensione. Gli autori ebbero degli intoppi a diverse riprese, ed d'Alembert, stanco, sembrava voler rinunciare. Voltaire, che meglio di tutti sentiva l'importanza di quest'opera che costituiva il mezzo principale dei congiurati, riconfortò il loro coraggio; egli stesso, ben lungi dall'avvilirsi, redigeva, commissionava e spediva di continuo nuovi articoli. Esaltava principalmente l'onore della perseveranza in una impresa così bella, mostrava a d'Alembert e a Diderot che l'obbrobrio degli ostacoli ricadeva sui loro persecutori, (v. le sue lett. degli anni 1755 e 1756) li sollecitava, scongiurandoli in nome dell'amicizia e della filosofia, a vincere i dispiaceri, a non lasciarsi scoraggiare di
fronte ad un compito così importante. (V. le sue lett. del 5 sett. 1752, del 13 nov. 1756 e soprattutto dell'8 gennaio 1757.)
L'Enciclopedia fu finalmente terminata e comparve col sigillo di un privilegio pubblico; questo primo trionfo annunciò ai congiurati tutti gli altri successi che potevano ripromettersi di ottenere contro la religione.
Per meglio valutare l'intenzione che aveva presieduto a questa enorme compilazione, lo storico deve conoscere la scelta che d'Alembert e Diderot si erano preoccupati di fare nel darsi dei cooperatori, soprattutto per quel che riguardava la parte religiosa. Il primo dei loro teologi fu Raynal; i Gesuiti, che avevano scoperto la sua inclinazione all'empietà, l'avevano appena scacciato dalla loro compagnia, e proprio questo fu per d'Alembert il migliore dei suoi titoli. Si sa fino a quale punto quest'esaltato abbia confermato per mezzo delle sue atroci declamazioni contro la religione sia il giudizio che avevano dato su di lui i suoi ex-confratelli sia la scelta degli enciclopedisti. Ma ciò che non si sa e che si deve sapere è l'aneddoto
della cancellazione di Raynal dal ruolo di cooperatore dell'Enciclopedia, e che unisce la sua storia con quella di un secondo teologo che, pur non essendo stato un empio, si era lasciato tuttavia trascinare dalle società filosofiche.
Costui era l'abbé Yvon, singolare metafisico ma uomo buono e pieno di candore e che spesso mancava di tutto; così usava della sua penna per sostentarsi nella sua indigenza, pensando di poterlo fare onestamente. Con tutta la buona fede del mondo egli aveva redatto la Difesa dell'abbé de Prades. Lo so da lui stesso; l'avevo sentito sfidare un teologo a trovare il minimo errore in quest'opera, arrendendosi poi alle prime parole della confutazione, e l'ho udito raccontare con la medesima semplicità come si era impegnato per lavorare
all'Enciclopedia: “Avevo bisogno di soldi, mi disse; incontrai Raynal che mi esortò a scrivere alcune voci, aggiungendo che sarei stato ben pagato. Accettai l'offerta; il mio lavoro fu rimesso al collegio degli
 da Raynal, ed io ricevetti da lui venticinque luigi. Mi credevo pagato assai bene, ma uno dei librai dell'Enciclopedia, al quale avevo svelato la mia buona fortuna, mi parve sorpreso di sentire che gli articoli portati al collegio da Raynal non erano suoi, e si indignò sospettando l'inganno. Pochi giorni dopo fui chiamato al collegio e Raynal, che aveva ricevuto mille scudi facendo passare per propria la mia fatica, fu condannato a restituirmi i cento luigi che aveva trattenuto per sé.
Questo aneddoto non sorprenderà chi conosce almeno un po' gli altri plagi letterari di Raynal, ben noto per questo genere di imprese. Il collegio non volle più niente da lui, tuttavia la sua costanza nell'empietà lo riconciliò con d'Alembert e Diderot.
Ad onore dell'abbé Yvon devo aggiungere che i suoi articoli su Dio e sull'anima nell'Enciclopedia erano proprio quelli che facevano stringere il cuore a Voltaire, ma d'Alembert e Diderot supplirono assai
bene a quelle voci con i loro richiami.
Il terzo teologo dell'Enciclopedia, o meglio (a voler contare come d'Alembert che non osa neppure nominare l'abbé Yvon a Voltaire) il secondo di questi teologi fu il famoso abbé de Prades, costretto a fuggire in Prussia perché aveva voluto ingannare perfino la Sorbona pubblicando le sue empie tesi e facendole passare per religiose; era la doppiezza delle sue tesi che aveva ingannato l'abbé Yvon, e quando questa doppiezza fu scoperta, il parlamento procedette contro l'autore; ma Voltaire e d'Alembert lo posero sotto la protezione del re di Prussia. (Corrispond. di Volt. e d'Alemb. lett. 2 e 3.) L'onore del de Prades esige che io riveli anche ciò che non si trova nella corrispondenza dei suoi protettori; tre anni dopo quella sua specie di apostasia pubblica, ritrattò pubblicamente i suoi errori con unadichiarazione firmata il 6 aprile 1754, detestando i suoi legami con i sofisti ed aggiungendo che non gli sarebbe bastata una vita per piangere la sua condotta passata. Morì nel 1782. (Dizion. stor. di Feller.)
Un altro teologo dell'Enciclopedia fu l'abbé Morellet, uomo infinitamente caro a d'Alembert e soprattutto a Voltaire che lo chiamava Mòrsicalia perché, col pretesto di levarsi contro l'inquisizione, aveva morso la Chiesa con tutte le sue forze. (V. corrispond. di d'Alemb. lett. 16 giugno 1760 e lett. a Thiriot 26 gen.
1762. )
La maggioranza degli scrittori secolari coadiutori dell'Enciclopedia erano anche peggiori; fra costoro nominerò solamente l'empio Dumarsais, il quale godeva di una tale pessima fama che la pubblica
autorità si vide obbligata a chiudere la scuola che aveva fondato per far succhiare ai suoi allievi tutto il veleno della sua empietà. Anche questo disgraziato ritrattò i suoi errori, ma soltanto sul letto di morte; il fatto che d'Alembert lo avesse scelto come collaboratore dimostra quali fossero gli uomini che gli erano necessari e quale fosse l'intenzione dei suoi progetti enciclopedici.
Non bisogna tuttavia confondere indistintamente con tali personaggi tutti coloro che hanno avuto parte in quest'opera, ad esempio i signori Formey e de Jaucourt; quest'ultimo soprattutto ha redatto un gran numero di voci, ma tutto il rimprovero che la storia deve fargli è di aver continuato a scriverne quando si accorse, o
avrebbe dovuto accorgersi, dell'abuso che si faceva del suo zelo mescolando alle sue vaste compilazioni tutti i più empi sofismi ed inganni.
Eccezion fatta per questi due uomini e per pochissimi altri, la storia può riconoscere il resto degli altri autori enciclopedici nel quadro fatto Diderot che così li dipinge: “Tutta questa razza detestabile di lavoratori, nulla sapendo ma piccandosi di sapere tutto, cercarono di distinguersi per mezzo di una disperante universalità; si buttarono su tutto, mescolarono tutto, guastarono tutto, facendo di questo cosiddetto deposito delle scienze una voragine, nella quale, alla maniera degli straccivendoli, gettarono alla rinfusa un'infinità di cose mal combinate, mal digerite, buone, cattive, incerte ma sempre incoerenti.” Questa confessione è preziosa quanto al merito intrinseco dell'Enciclopedia, ma quanto all'intenzione degli autori principali ve ne è un'altra ancora più preziosa di Diderot proprio nel luogo delle sue opere in cui parla dell'abilità, delle pene e dei sacrifici che erano stati necessari per insinuare tutto quello che non si poteva dire apertamente senza l'opposizione del pregiudizio, il che nel suo linguaggio significava: per rovesciare le idee religiose senza che nessuno se ne accorgesse.
Peraltro le cosiddette inezie degli straccivendoli riuscirono utilissime ai congiurati, perché quelle compilazioni facevano massa ed acceleravano la comparsa dei volumi. Voltaire, d'Alembert e Diderot dal canto loro si
premuravano d'inserire qui e là in ciascun volume ciò che tendeva allo scopo fondamentale. Alla fine
l'opera fu terminata, ed i trombettieri di tutti i giornali del partito la resero famosa in tutto il mondo;
ciò ingannò l'universo letterario, ed ognuno volle avere un'Enciclopedia. Se ne fecero delle edizioni in tutti i formati e di vario prezzo, e col pretesto di fare delle correzioni si usò maggiore sfrontatezza.



La definizione dell'Enciclopedia data da Diderot, tratta da Francesco Saverio Feller, Dizionario storico ossia storia compendiata degli uomini memorabili..., vol. IV, prima trad. ital., Venezia 1832.

Al momento in cui la rivoluzione dell'empietà era quasi completa, comparve l'Enciclopedia per ordine di materie; quando la si cominciò, bisognava avere ancora qualche riguardo per la religione, ed un uomo
di grandissimo merito, il signor Bergier canonico di Parigi, credette opportuno incaricarsene arrendendosi alle sollecitazioni che gli si facevano per timore che in quest'opera la scienza religiosa fosse trattata dai suoi più grandi nemici. Avvenne ciò ch'era facile prevedere: il lavoro di quest'uomo dotto, noto per alcune eccellenti
opere contro Rousseau, Voltaire e gli altri empi del momento, fu solo un passaporto, una copertura per la nuova collezione intitolata:
Enciclopedia metodica. Quando quest'ultima venne iniziata, la rivoluzione francese era sul punto di scoppiare, e così i piccoli empi moderni che si erano incaricati di questo lavoro si resero subito conto che potevano far a meno delle riserve e dei riguardi per la religione avuti dai loro predecessori. Nonostante si debba elogiare sia il lavoro del signor Bergier che alcune altre parti di quest'opera, la nuova Enciclopedia divenne ancor più della prima il deposito dei sofismi e dei principi antireligiosi, e per mezzo di essa i sofisti del momento
portarono a termine le intenzioni ed i progetti di d'Alembert e di Diderot relativamente a questo primo mezzo impiegato dai congiurati anticristiani.

Il Sacro Romano Impero




di Nicola Cavedini

Il Sacro Romano Impero fu storicamente la realizzazione pratica del dogma della Regalità sociale di Gesù Cristo, in base al principio che anche la società temporale, guidata dall’autorità legittima, debba riconoscere la vera ed unica religione rivelata da Dio per mezzo di Gesù Cristo, e conformarsi ai suoi principi.
Al di là di suddivisioni storiografiche più o meno precise (Sacro Romano Impero carolingio, SRI della Nazione Germanica, ecc) occorre sottolineare che la monarchia universale cattolica, modello dello stato cristiano, nacque nel preciso istante in cui il detentore della suprema autorità politica si convertì alla religione di Cristo. Costantino il Grande, dunque, il primo Imperatore cristiano, fu anche, in un certo senso, il fondatore storico del SRI quando, dopo la miracolosa battaglia al Ponte Milvio, promulgò nell’anno 313 d.C. il celebre editto di Milano, con cui era concesso ai cristiani, fino ad allora fuorilegge e nemici dello stato, di poter professare pubblicamente la vera religione. Non si sottolineerà mai abbastanza, quindi, l’importanza di questo grande santo e uomo politico in ordine alla nascita dello stato cattolico e dell’Occidente cristiano.
Il nome stesso con cui, a partire dal Medioevo, la monarchia universale cristiana è stata intitolata, ossia, appunto, Sacro Romano Impero, ne indica perspicuamente le note e caratteristiche imperiture, al di là delle contingenze storiche, che ne hanno influenzato la plurimillenaria vicenda. Si trattò infatti, di un (1) Impero, ossia di una a) monarchia (la miglior forma di governo, secondo il costante insegnamento della Chiesa e della sana filosofia) b) universale, ossia plurinazionale, unificata nell’eredità 2) romana, ovvero della civiltà naturale più perfetta, il mondo classico greco-romano, sul cui fondamento, come a proprio piedistallo, s’innestò 3) il Cristianesimo (Sacro), la religione rivelata.
Storicamente parlando il SRI ebbe varie vicissitudini, ossia translationes, nel senso che ne detennero l’autorità suprema diverse nazioni e casate principesche. Queste vicende però non ne mutarono mai la sostanza, restando sempre questa sublime istituzione il corrispettivo temporale della Chiesa cattolica, il suo naturale antemurale. Il concetto di translatio Imperii (trasferimento dell’Impero) si combina sempre, però, con quello speculare di Renovatio Imperii (Restaurazione dell’Impero). Il fatto cioè che ad una nazione, storicamente parlando, ne sia succeduta un’altra nell’Impero (i Greci, i Franchi, i Germani), ad una casata pricipesca ne sia subentrata un’altra (i Carolingi, i Sassoni, i Franconi, gli Svevi, gli Asburgo, i Lorena ecc.), è consistito in un trasferimento di potere, voluto dalla Provvidenza, che ha significato però, spesso, una renovatio Imperi, ossia la restaurazione della grande concezione che ne è sottesa, ovvero l’unificazione del genere umano, non solo nell’unica Chiesa, ma pure, seppur con gradi diversi, sotto la medesima autorità temporale.
Per comodità storiografica, la vicenda della monarchia universale cristiana, può suddividersi in vari momenti:
(1) Il periodo romano-bizantino da Costantino il Grande a Costantino VII Pogonato (313-800 d. C.) in cui l’Impero cristiano, gravando verso Oriente, attorno alla capitale Costantinopoli, esercitò un’autorità diretta sui territori cristiani di levante, accontendandosi, dopo il tentativo parzialmente riuscito dell’Imperatore Giustiniano nel VI secolo di restaurare l’autorità diretta imperiale in Occidente, dell’impiego di una potestà indiretta sui regni romano-barbarici europei, dominati da elites germaniche da secoli alleate con Roma (foederati), essendo le cosiddette invasioni barbariche più una ‘spiritosa invenzione’ di umanisti e romantici, che non una realtà storica. Tra questi regni occidentali, che riconobbero sempre la supremazia imperiale di Costantinopoli, emerse ben presto quello dei Franchi.
(2) La Renovatio Imperi carolingia (800-911) sotto i discendenti diretti del grande Carlo. La restaurazione dell’Impero in Occidente non consistette in altro che nell’esercizio diretto dell’autorità imperiale sui regni occidentali europei da parte di una dinastia germanica. Ciò coincise con una delle epoche di maggior splendore culturale e spirituale dell’Europa.
(3) Il periodo che va dalla Translatio del potere supremo dai Franchi orientali a quelli occidentali (tedeschi) operata da Ottone il Grande (962) fino al cosiddetto grande Interregno (1250), rappresenta senz’altro il periodo di massimo splendore dell’istituzione, ormai divenuta, per prescrizione secolare, appannaggio delle più potenti casate feudali del Regno di Germania (Duchi di Sassonia, Duchi di Franconia, Duchi di Svevia). Se quest’epoca vide sorgere delle contese col potere sacerdotale (la celebre Lotta per le investiture), occorre però ricordare che nessun Sacro Romano Imperatore mise mai in discussione, come fa invece il laicismo giacobino moderno, la necessaria alleanza e concordia tra Sacerdotium e Imperium, e la superiorità metafisica dell’ordine soprannaturale su quello temporale. Quelle lontane controversie, che ai contemporanei parvero spesso titanici scontri tra le due supreme autorità della terra, se paragonate, infatti, dopo secoli di rivoluzione anti-cristiana, all’immensa tragedia in cui è immersa la società odierna, che nega radiciter il dogma della regalità di Cristo Dio, elevando su cataste di cadaveri lo stato ateo contemporaneo, quelle controversie lontane, dicevo, appaiono innocenti trastulli di bambini.
Durante quest’epoca la mistica allenza tra le due massime autorità del genere umano era ben rappresentata dalla splendida cerimonia d’Unzione e Incoronazione dell’Imperatore che si svolgeva a Roma da parte del Sommo Pontefice. Questi, coadiuvato dai Cardinali Vescovi di Ostia e Porto, conferiva al sovrano, già unto e incoronato Re di Germania e d’Italia, l’unzione con l’olio benedetto e gli consegnava le insegne del potere (corona, spada ecc.). Infine – per sottolineare la natura divina del potere imperiale e la necessaria collaborazione coll’autorità pontificale – il novello principe partecipava alla Messa papale dove svolgeva l’ufficio del Suddiacono, porgendo al Sommo Pontefice al momento dell’Offertorio il Calice e l’acqua per il Sacrificio. Poi era comunicato dal Papa sub utraque specie, ossia riceveva entrambe le specie eucaristiche, pane e vino, Corpo e Sangue di Cristo, alla maniera sacerdotale. La natura semi-sacerdotale – per così dire – del potere imperiale, era, così, ben indicata dalla liturgia dell’Incoronazione del Pontificale Romano. La natura sacra del sovrano cattolico per eccellenza, tale che gli permettava di accedere ai Vasi Sacri della Messa (prerogativa esclusa ai semplici laici) come un Suddiacono, significava la cura e la dedizione che a tale carica erano connesse per la vera religione e la sua Chiesa.
4) La fase decadente dell’autunno del Medioevo (1273-1439) vide, col declino della civiltà classico-cristiana medioevale, anche la decadenza dei due sommi poteri. Il Papato venne infatti sconvolto prima dalla cosidetta Cattività Avignonese (1305-1378), con l’abbandono di Roma, poi col ben più grave Scisma d’Occidente (1378-1415) per cui il medesimo Conclave elesse più Papi al medesimo tempo. Il Sacro Impero, a sua volta, dovette subire l’assalto delle monarchie nazionali, quella francese in primo luogo, superiorem non recognoscens, che non riconoscevano più, nemmeno in tesi, la supremazia del monarca universale, il Romano Imperatore, sui sovrani dei regni particolari. Questo spirito di superbia, che provocò una serie interminabile di guerre per la supremazia europea, fu l’avvisaglia di ben più devastante bufera, quella scatenata dall’empio Lutero nel 1517.
5) Nell’epoca moderna (1439-1806), caratterizzata dal predominio della Casa d’Austria (1439-1746) e dei Duchi di Lorena, che furono gli ultimi Imperatori Romani, il SRI, pur scosso all’interno del Regno di Germania dallo scisma religioso e contrastato all’esterno dagli assalti dell’Islam, alleato della Francia cattolica, non mancò ancora di mandare gli ultimi bagliori della sua antica grandezza. Gli Imperatori Romani restavano i più potenti monarchi della Cristianità e i popoli europei, soprattutto quelli cattolici, guardavano a loro come ai naturali difensori dell’ordine cristiano e della Chiesa romana. La ‘Restaurazione’ del 1815, pur avendo sconfitto Napoleone Bonaparte, il distruttore materiale del SRI, non volle essere purtroppo una nuova renovatio della monarchia universale, e quindi non fu una vera restaurazione. Gli Asburgo-Lorena, che detenevano il titolo imperiale, si avviarono così, per tutto il XIX secolo, verso la catastrofe finale della prima guerra mondiale, che con la dissoluzione della monarchia austro-ungarica, spazzo vià dall’Europa le ultime vestigia della grande istituzione.
Può sembrare che ricordare oggigiorno il SRI sia frutto solo di sterile nostalgia, apparendo impossibile la rinascita di tale istituzione. Tuttavia lo stato cattolico e la società cristiani, alleati della Chiesa, di cui il SRI fu storicamente la realizzazione più sublime, sono un elemento essenziale della dottrina cristiana. Lo stato cattolico non è un accidente storico. È vero piuttosto il contrario: lo stato cattolico è necessario, a fianco della Chiesa romana, non solo per la prosperità temporale degli individui, delle famiglie e dei popoli, ma soprattutto per il conseguimento della salvezza eterna delle anime. Per questo, quando la SS. Vergine promise a Fatima nel 1917 il trionfo del Suo Cuore Immacolato, quale esito finale e paradossale delle ultime convulsioni della rivoluzione anti-cristiana che oggi domina nel mondo, la Santa Vergine, in fondo, attestò, non solo la prossima restaurazione della Chiesa Cattolica e la diffusione universale della sua divina dottrina, ma anche la renovatio dell’unica società possibile e dell’unica autorità politica legittima, quella cattolica, quella del Sacro Romano Imperatore.

lunedì 30 gennaio 2012

Reims e la sua Cattedrale



1. Reims, città santa della monarchia di Francia - Già città gallo-romana che traeva il suo nome dagli antichi abitanti, chiamati Rémois, situata a 140 chilometri da Parigi, verso il confine con il Benelux, la città di Reims è passata alla storia per aver favorito la creazione della grande monarchia cattolica in terra di Francia, in seguito al Battesimo del Re dei Franchi Clodoveo, sulla cui conversione giocò un ruolo essenziale l’Arcivescovo San Remigio. Il Regno di Clodoveo (466 circa - 511) comprendeva i territori della Senna e della Loira e, dunque, anche Parigi. Comprendeva inoltre il grosso dell’odierno Benelux e della Germania occidentale. A Reims furono consacrati quasi tutti i Re di Francia, venticinque per l’esattezza. Quando i Carolingi introdussero, sul modello dell'unzione del Re Davide, la consacrazione dei loro Re, l’Imperatore Luigi il Pio scelse nell'816 la città di Reims per ricevere la corona. A partire da Enrico I (1027) fino a Carlo X (29 maggio 1825) tutti i Re di Francia furono consacrati nella Cattedrale di Reims eccetto Luigi VI ed Enrico IV. Quest’ultimo, a causa delle guerre di religione che avevano imperversato nel Reame, non compì il rituale viaggio a Reims, ma fu consacrato nella Cattedrale di Chartres. Il furore anticattolico della Rivoluzione si accanì contro Reims, considerata la "capitale clericale" del Regno, dove ben ventisei chiese di grande interesse storico e artistico furono distrutte. Oltre che per la celeberrima Cattedrale, Reims si segnala anche per la Basilica di San Remigio, Vescovo della città. Lì è sepolto l'Apostolo dei Franchi, colui che fu il principale artefice della loro conversione. Ogni anno, la prima domenica di ottobre, gli abitanti della città si stringono attorno al loro Santo patrono sotto la grande corona luminosa di 96 candele che ricordano, secondo la tradizione, i 96 anni della sua vita. Lo scrigno con le sue reliquie viene portato in processione prima di essere deposto di nuovo nella tomba che conteneva, fino alla Rivoluzione, un'altra insigne reliquia, ossia la Santa Ampolla, di cui tra breve diremo.

2. La Cattedrale e le sue vicissitudini - Risale al 410 la consacrazione della prima chiesa, dedicata a San Nicasio, sul luogo dove poi sorgerà la Cattedrale. Una seconda chiesa, edificata nell’862 sullo stesso luogo dov’era stato battezzato il Re Clodoveo, venne in seguito elevata al rango di Cattedrale. E questa assistette ai primi sacre, alle prime unzioni regali dei monarchi di Francia. Ma nel 1210 un furioso incendio nel centro urbano di Reims devastò la città e due anni dopo, nel 1212, si diede il via alla costruzione dell’attuale Cattedrale, dedicata alla Santa Vergine, la cui costruzione impegnò le maestranze fino al XIV secolo. Il 24 luglio 1481 un nuovo devastante incendio distrusse l’antica copertura lignea. Dopo molti anni di lavoro, il mastro carpentiere Colard Lemoine di Cambrai e poi il mastro Pierre Delaforest, con l’ausilio di sovrastrutture lignee, condussero a termine i lavori di restauro, ultimati nei primi anni del Cinquecento. Nel 1779 si ebbe la distruzione del labirinto della Cattedrale. Profanata dai rivoluzionari francesi, la Cattedrale fu riaperta al culto cattolico il 3 luglio 1795. Sottoposta a restauro nel 1865 da Viollet-le-Duc, a distanza di quattro secoli dalla prima grande opera di conservazione, il 19 settembre 1914, all’inizio della Prima Guerra Mondiale, Reims fu attaccata dalle truppe tedesche e bombardata. La copertura della Cattedrale fu nuovamente distrutta da un incendio di enormi proporzioni. Il nuovo restauro, curato dall’architetto Deneux, fu completato soltanto nel 1938, quando la Cattedrale fu riconsacrata. Questo restauro fu reso possibile grazie ai donativi del banchiere John Rockfeller, che nel 1924 aveva elargito un milione di dollari per restaurare Versailles, Fontainebleau e la Cattedrale di Reims. La nuova copertura della Cattedrale fu realizzata mediante “tavoloni di coltello”, tenuti assieme da assi passanti e cunei in legno duro. In buona sostanza fu ripresa la concezione strutturale cinquecentesca, adottata per il primo rifacimento della copertura, reinterpretata però con elementi in calcestruzzo armato.
3. Un gioiello di Fede - Clodoveo era salito al trono a soli 15 anni, nel 481: entrando in Reims, vi era stato acclamato Re dei Franchi dalla folla e dall’esercito. L'Imperatore bizantino Zenone, che aveva un diritto praticamente solo nominale sulle province galliche, gliele aveva infatti cedute. Clodoveo era pagano, come la stragrande maggioranza del suo popolo, circondato da Regni romano-barbarici ariani. Avvertiva tuttavia il fascino della Chiesa Cattolica, vera erede della grandezza imperiale romana. Quando Clodoveo decise di farsi cristiano, in seguito a un voto pronunciato nel corso di una battaglia e grazie anche all'influenza della Regina Clotilde, sua moglie, ch’era cattolica, toccò a San Remigio, Arcivescovo di Reims, impartirgli il primo dei Sacramenti, battezzandolo il giorno di Natale del 496. Assieme al Re altri tremila soldati franchi ne seguirono l’esempio, facendosi battezzare. Ma il giorno del battesimo il sacerdote incaricato di portare gli oli santi non poté, a causa della grande folla che premeva sul tempio, arrivare in tempo. San Remigio, trovatosi in imbarazzo, pregò allora Dio di voler provvedere e il miracolo avvenne. Narrano le fonti che una bianca colomba discesa dal cielo fece irruzione in chiesa e porse a San Remigio un'ampolla piena di crisma, che recava nel becco. Con quel crisma Clodoveo fu unto (così Incmaro, Arcivescovo della città nel IX secolo). Nell’irruzione della bianca colomba tutti ravvisarono il palese intervento dello Spirito Santo. Lo straordinario miracolo  fu confermato da Bolle e Brevi papali. San Remigio conservò la Santa Ampolla nell’abbazia che prese il suo nome. Dopo la sua morte e fino al 1793, la Santa Ampolla fu custodita nella tomba del Santo. Clodoveo fu il primo dei Re barbari ad abbracciare il cattolicesimo. Battezzandosi, divenne il primo monarca cattolico della Gallia e fece del suo popolo il continuatore ideale in Occidente dell’Impero Romano, tanto che nel 508 l’Imperatore d’Oriente, Anastasio, nominò Clodoveo console e patrizio, venendo così a rappresentare in Occidente l’Imperatore, con il rango di Vice-Imperatore.

4. Un gioiello dell’arte - La Cattedrale, capolavoro dell’arte gotica, è lunga 138 metri e illuminata da finestre la cui eleganza conquistò l'Europa intera. L’architetto è ignoto: qualcuno tuttavia ha avanzato il nome di Robert de Coucy. La facciata, affiancata da due alte torri laterali, presenta al centro due rosoni. Le meravigliose vetrate oggi purtroppo hanno perso molto del loro fascino originale a causa di guerre e incendi che hanno devastato l’edificio. L'interno della facciata è completamente a giorno, con un piccolo rosone circondato di bassorilievi. La volta, assai alta e acuta, per dare maggiore senso di elevazione verso il cielo, si vale, per bilanciare la spinta laterale, di archi laterali di sostegno a due ordini. Celebre anche l’orologio trecentesco a ingranaggi alloggiato in una costruzione lignea all'interno della Cattedrale, dove il rintocco meccanico delle ore era combinato a figure in movimento che rappresentavano la fuga in Egitto e la processione dei Re Magi. In origine il frontone era decorato da sculture che rappresentavano la vita della Santa Vergine, la sua nascita, la sua presentazione al Tempio, la sua dormizione. Al tempo della Rivoluzione francese questa decorazione fu sostituita da una semplice iscrizione: «Tempio della Ragione», successivamente cancellata. L’altezza massima della navata sul vuoto è di 38 metri; il rosone maggiore ha un diametro di 12, 5 metri; le torri della facciata superano gli 81 metri; l’edificio si estende su di una superficie di 6650mq, 2.303 sono le statue che la adornano; 18mila le pietre adoperate per realizzare l’intelaiatura della navata.

5. La cerimonia dell’unzione regale - La cerimonia prevedeva che all’interno del tempio si realizzasse con arazzi e tendaggi,  uno spazio chiamato sacrarium, dove il Re, circondato dai dignitari ecclesiastici e laici, era prima consacrato dall’Arcivescovo di Reims con le sette unzioni (sulla testa, sul petto, fra le spalle, su ciascuna delle spalle, sui gomiti e quindi incoronato. Solennemente intronizzato, il Re seguiva quindi la Santa Messa. Quindi i Grandi del Regno lo acclamavano allora con un triplice “Vivat rex in aeternum !” e, apertesi le porte della Cattedrale, al suono delle trombe, il popolo veniva ammesso alla presenza del monarca. Venivano quindi distribuite alla folla medaglie e monete mentre tutte le campane della città suonavano a distesa. Per mille anni questa della consacrazione del Re di Francia fu la cerimonia più grandiosa della Cristianità, tanto da surclassare, secondo alcuni, persino le incoronazioni papali e imperiali e perfino gli splendori della Corte di Bisanzio. Eccola più in dettaglio.
Il Re giungeva a Reims la vigilia, cioè di sabato, la consacrazione avendo luogo di domenica. Prendeva dimora nel Palazzo Arcivescovile che si trasformava, per un breve periodo di tempo in Palazzo Reale. Un’impalcatura con degli scalini veniva allestita nel mezzo della Cattedrale, “fra i due cori”, dicono le fonti, cioè fra i due ordini di stalli che occupano le ultime travature della navata. Recitata la compieta del sabato, una scorta costituita da guardie e da alcuni prescelti del seguito reale, sorvegliava le porte della Cattedrale, affinché il Re potesse elevare a Dio una preghiera notturna, senza venire disturbato.
Fattosi giorno, si permetteva di entrare solo ai canonici e al clero; il Re era accompagnato dall’Arcivescovo, dal Vescovo e dai Baroni e da altri ammessi dal Sovrano al rito (quos intromettere voluerit). Attorno all’altare erano stati disposti degli scranni sui quali sedevano Prelati e Pari del Regno. Giungevano quindi in processione i monaci di San Remigio, che recavano la Santa Ampolla. L’Arcivescovo andava loro incontro in direzione dell’Abbazia di Saint Denis fuori le mura o sul sagrato della Cattedrale oppure, se la folla assiepata sulla piazza era troppo numerosa, semplicemente andando verso il portale della Cattedrale. Egli riceveva la Santa Ampolla dalle mani dell’Abate, che conduceva all’interno, mentre i monaci restavano sia in Saint Denis sia nella cappella di San Nicola all’ospedale ad attendere che la cerimonia finisse e il ritorno della Santa Ampolla.
Sull’altare erano già state poste in precedenza le insegne regali: la corona, la spada dentro il suo fodero, gli speroni d’oro, lo scettro e una verga sormontata da una mano d’avorio, che l’Abate di Saint Denis in Francia aveva portato a Reims e che custodiva personalmente, ritto in piedi a lato dell’altare.
Il Re veniva quindi spogliato dei suoi vestimenti, eccettuata una tunica di seta e una camicia aperta sul petto e fra le spalle. Veniva quindi calzato di sandali color porpora, ornati di gigli d’oro, dal Gran Ciambellano di Francia; il Duca di Borgogna gli metteva gli speroni; l’Arcivescovo lo cingeva della spada, che sguainava dal fodero e gli metteva fra le mani; il Re la passava al siniscalco di Francia, il quale aveva il compito di portarla davanti a lui nella chiesa e, più tardi, alla testa del corteo regale, allorché avrebbe fatto ritorno nel Palazzo Arcivescovile. Poi l’Arcivescovo schiudeva la Santa Ampolla, traendone una piccola quantità del Santo Crisma, con l’ausilio di un ago d’oro e lo mescolava al Crisma preparato per la consacrazione del Re «il quale, solo fra tutti i Principi della terra, eccelle per il glorioso privilegio di essere unto con un olio inviato dal Cielo».
Il Prelato lo ungeva quindi sulla testa, sul petto, fra le spalle e sui gomiti, mentre gli assistenti intonavano l’antifona: Unsero il Re Salomone. Dopo il Ciambellano di Francia consegnava al Re una tunica di color porpora e una clamide; l’Arcivescovo gli dava lo scettro nella mano destra e la verga nella mano sinistra; prendeva dall’altare la corona e la imponeva al Re sulla testa, mentre i Pari ecclesiastici e laici del Regno la sorreggevano da ogni lato. Circondando così il Re, essi lo conducevano sull’impalcatura, rivestita e adornata di tappezzerie, dove egli prendeva posto su un trono in bell’evidenza, così da poter esser visto da tutti. Dopo la Santa Messa il Re discendeva e riceveva il Santissimo Sacramento sotto entrambe le specie del pane e del vino innanzi all’altare, direttamente dalle mani dell’Arcivescovo. Al termine della cerimonia d’incoronazione l’Arcivescovo gli sostituiva la corona dell’incoronazione, imponendogliene un’altra più leggera e, con quella sul capo, entrambi facevano ritorno al Palazzo Arcivescovile, fra le acclamazioni di giubilo della folla.
Particolarmente solenne fu la consacrazione a Reims del Re Sole, Luigi XIV, avvenuta domenica 7 giugno 1654, Quel giorno, all’alba, prelati e canonici si dispongono fra i cori della Cattedrale. Il grande complesso è tappezzato di stoffe e arazzi con il simbolo della Corona; il pavimento è ricoperto di preziosi tappeti turchi. Sull’altare sono stati deposti i reliquiari di San Remigio e di San Luigi. A disposizione del Re sono un inginocchiatoio e uno scranno nel coro, un trono in cima alla tribuna. Alle cinque e mezzo il Vescovo di Soissons manda i Vescovi-Conti di Beauvais e di Châlons a chiamare Sua Maestà. Preceduto da suonatori bianco vestiti e da gentiluomini disposti a semicerchio, scortato da cento Svizzeri, circondato dai dignitari della Corona e di Corte, il Re, totalmente velato alla vista, è condotto fino al coro. Dopo la recita del Veni Creator Spiritus, Prelati e canonici vanno ad accogliere la Santa Ampolla, “questo prezioso tesoro inviato dal Cielo al grande San Remigio per la consacrazione di Clodoveo”, recata dal Priore di Saint Denis.
Una volta deposto il Santo Crisma sull’altare, l’officiante invita il Sovrano a pronunziare i giuramenti previsti nel rito di consacrazione. Con formale promessa, Luigi, come i suoi predecessori, s’impegna a conservare ai suoi popoli i privilegi e le immunità. Segue quindi il solenne “giuramento del Regno”. Il Re lo pronunzia ad alta voce, con la mano sul Vangelo. Egli giura innanzi al Cielo di proteggere la Chiesa, di sterminare gli eretici, di accordare ai suoi popoli pace, giustizia e misericordia e di uniformare le leggi della Francia sui comandamenti di Dio e del diritto naturale. Eccone il testo: “Giuramento del Re al suo Reame. Nel nome di Gesù Cristo, io prometto al popolo cristiano dei miei sudditi: anzitutto di far conservare in ogni tempo alla Chiesa di Dio la pace nel popolo cristiano; d’impedire qualunque spoliazione e iniquità, di qualsiasi natura esse siano; di far osservare la giustizia e la misericordia nelle sentenze, affinché Dio, che è la fonte stessa della clemenza e della misericordia, si degni di effonderla su di me e su di voi. Di sterminare totalmente nei miei Stati tutti gli eretici condannati dalla Chiesa. Tutte queste cose ora dette io le confermo con giuramento e così mi aiutino Dio e i Santi Vangeli”[1].
Le antiche cerimonie procedono, ritualmente punteggiate di preghiere. Uno dopo l’altro il Conte di Vivonne, primo Gentiluomo del Re, gli toglie le vesti d’argento; il Duca di Joyeuse, Gran Ciambellano gli calza stivaletti di velluto; il Signor Duca d'Anjou gli mette gli speroni d’oro. Quindi l’officiante benedice la spada regia, che si ritiene appartenuta a Carlo Magno. Il Vescovo di Soissons prende il Santo Crisma, praticando sul Re sette unzioni, mentre il clero recita la formula. “Che il Re reprima gli arroganti, che sia di modello per i ricchi e i potenti, che sia buono con gli umili e caritatevole con i poveri, che sia giusto con tutti e che operi la pace fra le nazioni”. Ovviamente il diritto divino dell’investitura regia comporta come contropartita una lunga sequela di doveri. Quindi il Gran Ciambellano riveste Sua Maestà della tunica e della dalmatica, coprendogli le spalle con un mantello di color viola, trapunto di gigli d’oro. Il Re riceve poi una nuova unzione su ciascuna mano.
Il Prelato gli consegna di volta in volta l’anello, lo scettro, la mano di giustizia e la Corona di Carlo Magno. Preceduto dai Pari del Regno, Re Luigi XIV sale le scala della tribuna. Insediatosi sul trono, ben visibile a tutto il popolo, il Re riceve l’omaggio di cinque Pari. A questo punto il Signore di Soissons grida con voce altissima Vivat rex in aeternum! Immediatamente si aprono le porte della Cattedrale e la folla accorsa, sia quella che stava dentro la chiesa, sia quella rimasta all’esterno grida “Viva il Re!” in un sorprendente strepitio in crescendo, in cui si mescolano grida spontanee, musiche militari, colpi di cannone e di archibugio sparati dalla milizia cittadina e dai soldati.
Terminato questo intermezzo, la cerimonia riprende con un Te Deum e poi con la celebrazione della Santa Messa. Terminata la quale, il Re discende dal trono, recita il Confiteor, riceve l’assoluzione e si comunica sotto entrambe le specie. Dopo il ringraziamento di Sua Maestà, che dopo la Santa Comunione resta alquanto tempo raccolto in preghiera con  il Santissimo, l’officiante libera Luigi della pesante corona che fu di Carlo Magno e gliene mette in capo una più leggera, accompagnandolo alla sala del banchetto reale, “fra le acclamazioni e le grida di esultanza”.
6. Reims e la sua Cattedrale nella grande storia d’Europa e della Chiesa - Quella di Reims è per definizione la Cattedrale dei Re di Francia. Qui, nell’edificio primitivo, fu battezzato nella notte di Natale del 496 il Re Clodoveo; nella chiesa che ammiriamo ancor oggi furono invece incoronati tutti gli altri Re di Francia, tra i quali Carlo VII, ivi condotto da Santa Giovanna d'Arco (17 luglio 1429). "Re gentile, si compie oggi il piacere di Dio, che voleva che fosse levato l'assedio di Orléans e che vi conducessi in questa città di Reims per ricevere la vostra sacra unzione, mostrando che voi siete vero Re e colui al quale il Regno di Francia deve appartenere": queste le parole, citate da un cronista, pronunziate dalla Santa fanciulla al Re nei pressi dell'altare. Durante i cupi giorni della Rivoluzione, fu ordinato dalla Convenzione, affinché mai più Re per unzione divina potessero regnare sulla Francia, la distruzione della Santa Ampolla con il Sacro Crisma ricevuto da San Remigio nel 496, al momento del Battesimo del Re Clodoveo. Il 5 ottobre 1793 il deputato giacobino Philippe Rühl, protestante, figlio di un pastore luterano, infranse la preziosa Ampolla, religiosamente conservata da milletrecento anni e simbolo stesso della regalità di diritto divino, sul piedistallo della statua del Re Luigi XV. Ma la notte precedente il sacrilegio, alcuni realisti, con l’ausilio di un ago d’oro, avevano sfilato parte di quel Sacro Crisma per metterlo in salvo. Esso fu in effetti utilizzato nel 1825 per l’unzione del Re Carlo X, ultimo Sovrano legittimo di Francia. Quanto all’empio Rühl, morì suicida nemmeno due anni dopo per sfuggire alle vendette di altre fazioni rivoluzionarie.

Maurizio-G. Ruggiero

[1] Journal du voyage du roi à Reims, La Haye, chez Rutgert Alberts, 1723, premier volume, p. 135-138. http://www.chateauversailles.fr/pdf/serments_sacre_louisXIV.pdf. Traduzione nostra.

Stupenda prefazione del libro "IL RE MARTIRE vita, passioni e memorie di Luigi XVI di Francia" di Emiliano Procucci(Il Cerchio) scritta da S.A.R Luigi Alfonso di Borbone-Dampierre (Luigi XX°)


I Re Taumaturghi

S.A.R Luigi XIV° di Borbone-Francia ritratto mentre adempie al rito della Taumaturgia.
  
  Uno degli eventi più singolari e misteriosi del medioevo cristiano fu senza dubbio il miracoloso potere guaritore che i sovrani di Francia e d’Inghilterra esercitarono senza interruzione per lunghi secoli. Il monarca francese e il suo collega d’oltremanica godevano infatti della capacità soprannaturale di curare con il tocco della mano consacrata una particolare malattia, un tempo assai diffusa, l’adenite tubercolare, detta volgarmente ‘scrofolosi’. Questo morbo, chiamato ‘mal reale’, Mal le Roi, the King’s evil, era raramente mortale, ma provocava delle tumefazioni purulente e maleodoranti nel collo e nelle articolazioni, rendendo assai precaria l’esistenza di chi ne era affetto. La vita sociale del malato era pure gravemente compromessa, poiché il cattivo odore ed il pus che emanavano dalle piaghe marcescenti, confinavano chi ne era affetto ai margini della società.
Tuttavia, a partire dall’anno mille, in Francia Roberto I il Pio (996-1031), nel regno d’Inghilterra S. Edoardo il Confessore (1042-1066) furono i primi sovrani ad esercitare pubblicamente questa meravigliosa facoltà taumaturgica. Al semplice tocco della mano del Re sulle piaghe dello scrofoloso, nella più gran parte dei casi, la patologia, ritenuta incurabile dalla medicina del tempo, si avviava a felice soluzione.
Scrive Gilberto, abate di Nogent-sous-Coucy, nel trattato De Sanctorum reliquis: «Che dico? Non abbiamo visto il nostro signore, il Re Luigi, far uso di un prodigio consuetudinario? Ho veduto con i miei occhi dei malati sofferenti di scrofole nel collo o in altre parti del corpo, accorrere in gran folla per farsi toccare da lui - al quale tocco aggiungeva un segno di croce. Io ero là, vicinissimo a lui, e lo difendevo persino contro la loro importunità. Il Re mostrava verso di essi la sua generosità innata; avvicinandoli con la mano serena, faceva umilmente su di essi il segno della croce. Anche suo padre Filippo aveva esercitato con ardore questo stesso potere miracoloso e glorioso; non so quali errori, da lui commessi, glielo fecero perdere»[1]. Secondo Gilberto non soltanto l’allora regnante Luigi VI (1108-1137) godeva del singolare privilegio di guarire la scrofolosi. Anche suo padre Filippo I (1060-1108) aveva esercitato «con ardore» quel «prodigio consuetudinario».
«Confesso che assistere il Re equivale [per un chierico] compiere una cosa santa; perché il re è santo; egli è l’Unto del Signore; non invano ha ricevuto il sacramento dell’unzione, la cui efficacia, se per caso qualcuno la ignorasse o la mettesse in dubbio, sarebbe ampiamente dimostrata dalla scomparsa di quella peste che colpisce l’inguine e dalla guarigione delle scrofole»[2]. Così scriveva, sul finire del secolo XII, riferendosi a Re Enrico II d’Inghilterra (1154-1189) Pietro di Blois, un chierico d’origine francese presso la corte di Londra.
Ben presto il tocco guaritore dei regnanti di Francia ed Inghilterra assurse a tale notorietà che divenne un luogo comune dell’opinione pubblica europea colta e meno colta.  Nessuno in quelle epoche di fede si stupiva che Dio potesse legare alla funzione sacra del Re un potere straordinario. I medici indicavano nei loro trattati il tocco reale come efficace rimedio contro quella particolare patologia. Così, per fare un solo esempio, il Compendium medicinae, un manuale della prima metà del secolo XIII, attribuito a Gilberto Anglico, nel libro III, al capitolo dedicato alle scrofole, recita testualmente: «Et vocantur scropholae…et etiam morbus regius quia reges hunc morbum curant» [E si chiamano scrofole.. ed anche malattia regia in quanto i re curano tale morbo ][3].
La vera misura, tuttavia, dell’immenso successo del tocco sovrano si rileva meglio dal costante e impressionante afflusso di ammalati alle corti di Francia ed Inghilterra. Ben presto, sia lungo la Senna che a Londra, invalse l’uso di accompagnare il tocco con la consegna di una simbolica somma di danaro a mo’ di elemosina[4]. I funzionari regi annotavano spesso nei Libri dei Conti i versamenti di elemosine a vantaggio degli ammalati di scrofole. Queste importanti, anche se parziali testimonianze, fanno fede tanto del numero altissimo dei tocchi regi, quanto del diffondersi, ben oltre i confini di quei regni, della popolarità dei sovrani taumaturghi.
Così, per quanto concerne l’Inghilterra, su cui siamo meglio informati, i libri mastri di corte durante i regni in sequenza di Edoardo I (1272-1307), Edoardo II (1307-1327) ed Edoardo III (1327-1377), che abbracciano un periodo di poco superiore al secolo (1272-1377) sono la prova più eloquente della costante attività medica dei Re inglesi.
Le cifre, come osserva Marc Bloch, «nel loro insieme, sono imponenti»[5].
Edoardo I, che regnò dal 1272 al 1307, nel quinto anno di regno ‘toccò’ 627 ammalati; nel dodicesimo ricorsero alla cure reali in 197 scrofolosi; 519 invece durante il diciassettesimo anno; si sale a 1736 nel diciottesimo; il venticinquesimo ne vide accorrere 725; 983 il ventottesimo anno; mentre furono 1219 i toccati da Edoardo I nell’anno trentasettesimo di regno[6].
I libri contabili della corte francese, al contrario, non offrono alcun dato numerico. Tuttavia, grazie alla meticolosa precisione di Renaud de Roye, un funzionario di corte di Filippo IV il Bello (1285-1314), che annotò le spese di palazzo tra il 18 gennaio e il 28 giugno 1307 e dal 1° luglio al 30 dicembre 1308, indicando nome e luogo di provenienza dell’infermo cui veniva elargita l’elemosina, ci si offre un vivace spaccato della varia umanità che, in quei primi anni del secolo XIV, si accalcava, speranzosa di guarigione, presso le residenze dei principi medici.
Tutte le condizioni sociali sono rappresentate. Così, il 12 maggio 1307, si presentò al Re per essere toccata la nobildonna Jeanne de la Tour («patiens morbum regium», affetta dal mal reale)[7]. Anche i religiosi non disdegnavano far ricorso al potere guaritore del sovrano. Il libro mastro, infatti, segnala la presenza a corte di un frate agostiniano, di due francescani e di un cordigliero[8].
Gli afflitti dal morbo regio sono disposti ad affrontare un lungo e pericoloso cammino, pur di potersi accostare alla mano taumaturgica dei Re. Un uomo chiamato Guilhem, originario della regione pirenaica della Bigorre, si presentò al sovrano francese mentre soggiornava a Nemours. Era il 13 dicembre 1307. Nonostante la stagione inclemente, quel pellegrino si era impegnato in un faticoso viaggio, che gli aveva fatto attraversare quasi tutta la Francia[9].
Non sono soltanto i francesi, come la francescana, suor Agnese, di Bordeaux[10] (allora feudo soggetto al re d’Inghilterra), o Gilette, castellana di Montreuil, o Margherita di Hans,[11] a voler approfittare del rimedio reale. I libri contabili infatti segnalano infermi provenienti dalla Lorena, allora terra imperiale, dalla Savoia, dalla Svizzera[12]. Tra il 1307 e il 1308 arrivano a corte anche sedici italiani, di cui alcuni milanesi, emiliani di Parma e Piacenza, un Johannes de Verona[13], quattro veneziani, un toscano, degli scrofolosi romagnoli, una donna urbinate e un frate agostiniano di Perugia, frater Gregorius de Gando prope Perusium, ordinis Sancti Augustini paciens morbum regium [il frate Gregorio di Gando vicino Perugia, dell’ordine di Sant’Agostino, ammalato di scrofole][14].
Nel celebre testo dell’abate di Nogent, sopra citato, abbiamo ancora la più antica testimonianza della modalità cerimoniale del tocco guaritore. Elemento essenziale del rito è il contatto della mano destra nuda del monarca sulla piaga infetta dell’ammalato: «…poi con la mano destra tocca i malati»[15]. Senza questo contatto o ‘tocco’ la guarigione o l’avvio alla guarigione non è possibile. La mano del Re è una delle parti del suo corpo consacrata e unta dal sacro crisma al momento della consacrazione. Il monarca così tocca di solito per la prima volta gli scrofolosi dopo la sua solenne unzione.
Nel cerimoniale tuttavia, fin dagli inizi, si aggiunse al semplice contatto della mano, un secondo importante gesto simbolico: il segno della croce. Questo doveva essere impartito a mo’ di benedizione, tracciando cioè semplicemente nell’aria all’indirizzo dell’infermo poco prima toccato, o contemporaneamente al tocco, nel senso che il monarca toccava la piaga facendo il segno della croce. Per questo talvolta i testi medioevali che riportavano il rito di guarigione usavano designare i malati toccati dal Re col termine di ‘segnati’: «XVII egrotis signatis per regem»  [17 ammalati segnati dal Re][16], recita una nota inglese del 27 maggio 1378.
 Il significato del tocco col segno di croce è molto chiaro. Non è il sovrano il primo autore del miracolo, ma svolge solo un’azione vicaria, essendo il semplice canale o strumento della grazia celeste, che opera per il tramite del principe consacrato. Questo carattere strumentale e mediato del potere medioevale dei Re, è ancora evidenziato nel terzo elemento che accompagna e segue il tocco: le preghiere a Dio. Stefano di Conty, un monaco di Corbie, scrive durante il regno di Carlo VII di Francia (1380-1422) un trattatello sulla monarchia francese, ove ricorda che il Re, prima d’accostarsi ai malati, si soffermava un poco in preghiera[17]. Anche l’inglese Bradwardine allude ad una simile consuetudine quando ricorda che il monarca, soleva precedere il rito taumaturgico con la recita di alcune preghiere: orazione fusa [dopo aver pregato][18].
 A partire dal XVI secolo, sempre in Francia, le preghiere pronunciate al momento del tocco, si fissarono in una formula, che rimase in vigore fino alla cessazione del rito. Il sovrano infatti prese a pronunciare al momento del contatto: ll Re ti tocca. Dio ti guarisce[19]. Questa breve e suggestiva preghiera ricordava tanto al beneficiato quanto al Principe che il miracolo non derivava da un magico potere personale del Re, ma dalla potenza di Dio, di cui il sovrano era semplice strumento.
Il giorno stesso della consacrazione e unzione del Re, o poco dopo, segnava l’inizio della cerimonia del tocco. Dopo allora, ogni giorno ed ogni occasione erano buoni. Soprattutto in epoca medioevale, quando i sovrani erano soliti percorrere in lungo e in largo i loro territori, accompagnati da un seguito poco numeroso, non era inusuale vedere frotte di ammalati di ogni condizione, ma più spesso poveri, accalcarsi presso le provvisorie sedi ove il monarca soggiornava, pretendendo che tenesse fede al suo dovere guaritore.
Con il trapasso dalla monarchia feudale a quella moderna, quando i re divennero sedentari e l'apparato burocratico si fece più robusto, il rito delle scrofole si adattò alla nuova situazione. Già S. Luigi IX (1226-1270), sebbene gli scrofolosi potessero accedere al tocco ogni giorno, riservava alla cerimonia medicinale un momento preciso della giornata, cioè al mattino, subito dopo la prima messa[20]. Tale situazione rimase stabile fino al XV secolo, quando Luigi XI (1461-1483) decise di ricevere gli infermi un solo giorno della settimana[21]. Inoltre i pazienti erano sottoposti ad una visita medica preventiva che accertasse la presenza della malattia[22]. In Inghilterra, ai tempi di Enrico VII (1485-1509) non risulta essere stato dedicato un giorno particolare per il tocco[23].
Nell’epoca della Controriforma, il tocco reale mantenne intatto il proprio prestigio. Le cifre sono più eloquenti delle parole: Luigi XIII (1610-1643) nel 1611 tocca  2210 scrofolosi, 3125 nel 1620. Nella Pasqua del 1613 sono ben 1070 gli ammalati che si presentano in quel solo giorno al Louvre per il miracolo regio[24]. Il sovrano compie regolarmente la funzione nelle grandi solennità, Pasqua, Pentecoste, Natale, o Capo d’Anno, talvolta, come per il passato, alla Candelora, la Trinità, l’Assunta, Ognissanti[25]. Con Luigi XIV (1643-1715), suo figlio, nulla cambia nella sostanza. Il sovrano, ricorda Saint-Simon, «si comunicava sempre col collare dell’Ordine, facciole e mantello, cinque volte l’anno, il Sabato santo nella Parrocchia, gli altri giorni nella Cappella: la vigilia di Pentecoste, il giorno dell’Assunzione, seguita da una gran messa, la vigilia di Ognissanti e la vigilia di Natale… e ogni volta toccava gli ammalati»[26]. Se il rito si svolge nella capitale è cura del Gran Prevosto far affiggere dei manifesti che annunziano l’evento in modo d’avvisare i pazienti. Uno di essi, che avvisa del tocco della Pasqua 1657, recita così:

Da parte del Re
e del Signor Marchese di Souches, Prevosto
dell’Ostello della Maestà e Gran Prevosto di Francia.

Si fa sapere ad ognuno che legge, che Domenica prossima giorno di

Pasqua, Sua Maestà toccherà i Malati di Scrofole, nella Galleria del
Louvre, alle ore dieci del mattino, in modo che nessuno possa scusarsi per non esserne a conoscenza, e che coloro che sono afflitti da
detto male, se così gli aggrada, abbiano a trovarsì lì. Redatto a Parigi, alla presenza del Re, il 26 marzo 1657.
Firmato, De Souches.[27]

Il Re Sole nel Sabato Santo del 1666 tocca 800 scrofolosi[28]. Ammalato di gotta la Pasqua 1698, e quindi impossibilitato a compiere il rito, vede presentarsi la Pentecoste successiva circa tremila infermi. Nella solennità della SS. Trinità, il 22 maggio 1710, vide presentarsi a Versailles 2400 scrofolosi. Il sabato 8 giugno 1715, invece, vigilia di Pentecoste, tre mesi prima di morire , il sovrano toccò per l’ultima volta i malati. Gli scrofolosi s’ammassarono in circa millesettecento[29].
Nel corso del secolo dei ‘lumi’ la cerimonia del tocco regio non perse nulla della propria notorietà. Luigi XV (1715-1774) il 29 ottobre 1722, giorno della sua consacrazione, trovò una folla di duemila scrofolosi ad attenderlo nel parco di Saint-Rémi a Reims[30]. Luigi modificò leggermente, probabilmente senza alcuna intenzione recondita, la formula tradizionale che accompagnava il venerando rito. Anziché, come per il passato, dire: Il Re ti tocca, e Dio ti guarisce (con il modo indicativo) egli pronunciò: Il Re ti tocca, Dio ti guarisca (al condizionale), espressione che rimase in uso anche presso i successori.
Dinanzi al progredire dell’incredulità insufflata dall’Enciclopedismo scettico ed anti-cristiano dei seguaci di Voltaire, i fedeli monarchici inviavano spesso a Corte i certificati di guarigione. Così, poco dopo l’incoronazione di Luigi XV (ottobre 1722) il Marchese d’Argenson, amico di Voltaire e intendente reale nell’Hainaut, venne a conoscenza di una guarigione miracolosa: «Alla consacrazione del Re a Reims – scrive nelle sue Mémoriesun uomo d’Avesnes, che aveva scrofole terribili, andò a farsi toccare dal Re. Egli guarì perfettamente, intesi dir questo. Io feci fare un processo e presi informazione del suo stato precedente e susseguente, il tutto ben autenticato. Fatto ciò, inviai le prove di questo miracolo a De La Villiére, segretario di Stato della provincia»[31].
Luigi XVI (1775-1793), incoronato il 7 luglio 1775, non fu da meno. Dovette toccare 2400 ammalati! Anche per lui abbiamo dei certificati di guarigione che attestano la permanenza del miracolo reale. Un tale Rémy Rivière, parrocchiano di Matougues, fu toccato dal Luigi XVI a Reims. Riacquistò la salute. L’intendente della provincia, Roullé d’Orfeuil il 17 novembre 1775 fece stendere un certificato sottoscritto dal risanato, dal medico locale e dal parroco. Tra il novembre e il dicembre  del medesimo anno vennero stilati altri quattro certificati di guarigione riguardanti quattro ragazzi guariti dopo la cerimonia reale[32]. Il monarca continuò certamente, come i suoi avi, a toccare i malati nelle grandi solennità. Poi venne il 1789 e la prigionia. Infine, nel gennaio 1793, la ghigliottina pose fine alla sua vita. Il tocco però non morì con lui, ma sopravvisse all’uragano rivoluzionario, e rifece capolino nel nuovo secolo.
Nel 1825, a differenza del fratello Luigi XVIII (1814-1824), che non volle essere consacrato a Reims, Carlo X (1824-1830) fedele ai propri convincimenti realisti, decise di rinnovare l’antica liturgia. Così venne unto e incoronato more antiquo con il Crisma della Santa Ampolla. Come un tempo, gli scrofolosi si presentarono al sovrano per essere toccati, ma questi rifiutò, limitandosi a far loro una generosa elemosina: “Molte persone erano d’avviso di sopprimere questa cerimonia per togliere un pretesto alle derisioni dell’incredulità, e si diede ordine di rimandare gli scrofolosi. Essi si lamentarono, il Re inviò una somma di denaro da distribuir loro. Essi dissero che non era affatto ciò che volevano. L’abate Desgenettes, allora Parroco della parrocchia delle Missioni Estere, più tardi Parroco di Nôtre-Dame de la Victoire, che era alloggiato a Saint-Marcoul, vedendo la loro desolazione, si recò a perorare la loro causa, e il re annunziò la sua visita per il 31 maggio all’ospizio. I malati furono visitati dal sig. Noël, medico dell’ospizio, e dal sig. Dupuytren, primo chirurgo del re, a fine di non presentare che i malati veramente colpiti da scrofole. Rimasero cento trenta. Essi furono presentati successivamente al Re dai dottori Alibert e Thévent de Saint-Blaise. Il Re li toccò pronunciando la formula tradizionale. Il primo guarito fu un fanciullo di cinque anni e mezzo, Giovanni Battista Comus; egli aveva quattro piaghe; la seconda fu una giovine sedicenne, Marie-Clarisse Fancherm; essa aveva una piaga scrofolosa alla guancia fin dall’età di cinque anni. La terza, Susanna Grévisseaux, di undici anni. Essa presentava delle piaghe e dei tumori scrofolosi. La quarta, Maria Elisabetta Colin, di nove anni, aveva molte piaghe. La quinta, Maria Anna Mathieu, d’anni cinque aveva un tumore scrofoloso e una piaga nel collo. Si stese processo verbale di queste guarigioni e si aspettò cinque mesi prima di chiuderlo e di pubblicarlo, per assicurarsi che il tempo le confermasse»[33]. Nonostante il felice esito della mano sovrana, lo spirito incredulo del tempo prevalse. Carlo X non rinnovò più il rito venerando. Pochi anni dopo, nel luglio 1830, la marea rivoluzionaria rinascente lo travolgeva. Cessava così con l’antica cerimonia delle scrofole, anche la monarchia legittima di Francia.


[1] Citato in M. Bloch, I Re Taumaturghi, Torino, Einaudi, 1989, pp. 17-18.
[2] Pietro di Blois, Patrologia Latina, t. 207, col. 440D, citato in M. Bloch, I re…, p. 27.
[3] Gilbertus Anglicus, Compendium medicinae,  citato in M. Bloch, i Re…, p. 86 e n. 1.
[4] M. Bloch, i Re…, pp. 70-71.
[5] M. Bloch, i Re…, p. 73
[6] M. Bloch, i Re…, p. 72.
[7] M. Bloch, i Re…, p. 78, n. 17.
[8] M. Bloch, i Re…, p. 78.
[9] M. Bloch, i Re…, p. 79, n. 21.
[10] M. Bloch, i Re…, p. 79, n. 20,
[11] Ivi.
[12] M. Bloch, i Re…, p. 80.
[13]M. Bloch, i Re…, p. 81, n. 25.
[14] M. Bloch, i Re…, p. 81, n. 27.
[15] Stefano di Conty citato in M. Bloch, i Re…, p. 67, n. 5.
[16] Citato in M. Bloch, i Re…, p. 66, n. 2.
[17] M. Bloch, i Re…, p. 68.
[18] Citato in M. Bloch, i Re…, p. 73, n.5.
[19] M. Bloch, i Re…, p. 68.
[20] M. Bloch, i Re…, p. 69.
[21] M. Bloch, i Re…, p. 69.
[22] M. Bloch, i Re…, p. 70.
[23] M. Bloch, i Re…, p. 69.
[24] M. Bloch, i Re…, p. 282.
[25] M. Bloch, i Re…, p. 280.
[26] Saint-Simon, Mémoires, ed. Boislisle, XXVIII, pp. 368-369, citato in  M. Bloch, i Re…, p. 280, n. 2.
[27] Cfr. Registres d’affisches et publications des jurés crieurs de la Ville de Paris, in BN, F 48-61, citato in  M. Bloch, i Re…, pp. 280, n. 3.
[28]  M. Bloch, i Re…, p. 280, n. 1.
[29] Ivi, XV, p. 432, citato  in M. Bloch, i Re…, p. 282.
[30] M. Bloch, i Re…, p. 309.
[31] D’Argenson, Mémories, I, 201, citato in E. Delassus, Il problema dell’ora presente. Antagonismo tra due civiltà, vol. II, Piacenza, Cristianità, 1977, p.  611. Cfr. M. Bloch, i Re…, p. 311.
[32] M. Bloch, i Re…, pp. 311-312.
[33] E. Delassus, Il problema dell’ora presente. Antagonismo tra due civiltà, vol. II, Piacenza, Cristianità, 1977, pp.  611-612. Cfr. M. Bloch, i Re…, pp. 312-315 e 330-331.