lunedì 30 gennaio 2012

Il principio naturale di regalità e l’insegnamento cattolico riguardo ad esso





Il Magistero papale ha insistito spesso sul carattere naturale del principio di autorità, tanto indigesto a una certa mentalità egualitaria oggi imperante. Nel mondo contemporaneo chiunque detiene un qualsiasi potere, fosse anche il più legittimo e naturale, come ad esempio quello del padre di famiglia, sembra quasi vergognarsene, preferisce non avvalersene affatto e, se proprio è costretto dalle circostanze o dalle giuste lamentele per l’offesa recata alla giustizia, lo esercita nel minimo grado.
Alcuni teorizzano addirittura che l’autorità su questa terra sarebbe una conseguenza del peccato originale e che di essa non vi sarebbe stato bisogno, se i nostri Progenitori, Adamo ed Eva, non avessero peccato: ma è facile controbattere che il regno eterno del Paradiso, dove tutti sono confermati in grazia e il peccato, tanto originale che attuale, è bandito per sempre, è retto dall’Autorità divina e dai suoi ministri. Ma non basta. Lungi da quello che pensano certi moderni cantori dell’anarchismo, l’autorità è stata data da Dio non solo a difesa dalle insidie dei malvagi, ma per la promozione e l’organizzazione del bene comune e di ciascuno, tanto spirituale che materiale. L’autorità non è una conseguenza del peccato originale, anche se è vero che questa ne ha reso il fardello più pesante tanto sulle spalle di chi la porta quanto su quelle di chi ubbidisce; no, l’autorità è necessaria, su questa terra come in cielo, in considerazione della naturale ordinazione e disuguaglianza fra gli uomini[1].
I Romani Pontefici, particolarmente Leone XIII, hanno insegnato che l’uomo è stato creato da Dio per vivere in società, riaffermando con ciò una verità già intuita da Aristotele, allorché definiva l’uomo un essere “naturalmente politico”. Leone XIII afferma inoltre che non può esistere una società, né umana né angelica, senza autorità e che ogni legittima autorità, come mirabilmente affermato dall’Apostolo San Paolo, promana da Dio[2].
Quest’autorità, esercitata naturalmente su questa terra dal padre di famiglia o da chiunque altro legittimamente, la Chiesa la riconosce come promanante da Dio stesso e degna d’ossequio e di onore. Non è la Chiesa, come erroneamente pensano alcuni, e tanto meno il singolo sacerdote, il Vescovo o il Papa stesso a produrre o a costituire l’autorità legittima temporale, la quale, derivando da Dio, è già naturalmente perfetta nel suo ordine naturale. In forza della distinzione fra i due ordini, naturale e soprannaturale, dei quali è autore lo stesso Dio, il potere della legittima autorità politica, come del padre di famiglia, come del responsabile di un corpo intermedio (associazione, sindacato ecc.) discende direttamente nei primi due casi, indirettamente nell’altro, da Dio. Ecco perché la Chiesa si limita a riconoscerla o, come faceva un tempo con l’unzione dei Re, a conferirle un’aura di maggiore sacralità, proclamandone l’inviolabilità e arricchendo colui che ne è materialmente il titolare di grazie e di aiuti soprannaturali[3]. Ma queste grazie e prerogative si aggiungono a un’autorità che c’è già, naturalmente.
La riprova sta nell’obbedienza che prestarono i primi cristiani ai romani Imperatori prima di Costantino e quindi prima del riconoscimento del cristianesimo come religione ammessa (anno 313 d.C.) e fino a che divenisse confessione ufficiale dell’Impero (380 d.C.): i cristiani si assoggettavano volentieri all’autorità imperiale, pur se pagana, eccezion fatta, si capisce, per le pratiche idolatriche da essa imposte (donde le persecuzioni)[4]. Ciò accadeva appunto perché i primi cristiani riconoscevano negl’Imperatori pagani un’autorità, nell’ordine di natura, legittima[5].
La dottrina cattolica considera legittime tutt’e tre le forme di governo (monarchia, aristocrazia e democrazia); tanto che San Tommaso d’Aquino parla sovente di un regime di governo misto, di una monarchia temperata da elementi aristocratici e democratici, come della forma di governo ideale. È invece da condannare l’avversione di principio, tributaria dell’ideologia della Rivoluzione francese, contro la monarchia e l’aristocrazia e la tesi secondo la quale solo la democrazia sarebbe la forma di governo più adeguata alla dignità umana[6].
Naturalmente la democrazia compatibile con uno Stato cattolico non ha nulla a che spartire con l’idolatria egualitaria del popolo sovrano, cara alla Rivoluzione francese e ai suoi mentori. Un conto infatti è il mezzo tecnico dell’elezione come modalità per designare qualcuno a una determinata carica pubblica; altra cosa è affermare che il potere di chi governa, lungi dal discendere da Dio, appartenga come proprio a lui stesso o a coloro che lo hanno votato o al popolo sovrano o a un organo espresso da quest’ultimo. È ben possibile che si designi qualcuno a una determinata carica mediante elezione (anche il Sacro Romano Imperatore e il Papa stesso venivano eletti da un collegio di Prìncipi o di Cardinali elettori); ma l’Imperatore e il Papa, una volta eletti, non sono più vincolati alla maggioranza che li ha designati, ma a Dio soltanto. Invece l’ideologia mutuato dalla Rivoluzione di Francia esige la derivazione dal basso del potere politico, con l’ovvia conseguenza che ogni legge, fosse anche la più naturale o la più santa, un tempo del tutto indisponibile da parte del potere regio, viene considera oggi come sempre cangiante, revocabile e discutibile.
Per questo il Papa Pio XII si era peritato di chiarire, quando e con quali limiti la democrazia fosse accettabile da parte cattolica[7]. Pochi riflettono sul fatto che le moderne legislazioni su divorzio, aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, divorzio, unioni omosessuali equiparate al matrimonio, fiscalismo esasperato, indifferentismo religioso ecc. derivano dall’onnipotenza di un legislatore che considera proprio e non delegatogli da nessuno, tanto meno da Dio, il potere di legiferare e di governare. Se il popolo è sovrano, esso o la camera sua delegata si dà la norma e potrà ad arbitrio modificare le leggi immutabili della natura e della morale, un tempo, prima del 1789, indisponibili da parte di ogni legittima autorità. Ciò spiega le reiterate condanne papali dei falsi princìpi della rivoluzione francese[8] che, spostando dal cielo alla terra (se non addirittura all’inferno) l’origine del potere politico, hanno generato questi contemporanei Leviatani o Stati-mostri.
Se tutt’e tre le forme di governo sono legittime, non sono però tutte uguali, né sono da porre sullo stesso piano. Se è giusto, secondo le rispettive storie patrie, che ciascuno (senza disprezzare le diverse forme di governo) sia più attaccato per considerazioni d’indole affettiva o legate alla storia a una determinata forma di governo piuttosto che ad un’altra, occorre anche ammettere che vi è una gerarchia di perfezione fra le tre forme di governo. E la più perfetta forma di governo, emula di quella con cui Dio stesso regge il Paradiso e di quella con cui il padre regge la famiglia e il Padre Comune dei cristiani, il Papa, regge la Santa Chiesa, è la monarchia, “la miglior forma di governo” come già insegnava il Papa Pio VI[9].
La monarchia è dunque più perfetta dell’aristocrazia, intesa come governo del patriziato, composto da quelle persone che, distintesi come le migliori per i grandi servigi prestati per il bene comune e per la cosa pubblica, sono state nobilitate, così da accedere alle cariche di governo; e l’aristocrazia è forma più perfetta della democrazia. Infatti, poiché la principale dote naturale richiesta a una rappresentante politico è il sacrificio disinteressato del proprio interesse a vantaggio di quello comune, è cosa del tutto ovvia che un simile sacrificio e in grado tanto sommo, richieda una virtù che può essere appannaggio soltanto di pochi, di un nucleo ristretto e selezionato di persone, giammai di tutti.
Che la monarchia sia la più perfetta forma di governo è lezione impartita dalla storia: basti pensare all’evoluzione conosciuta dalle città-Stato greche (le poleis) nel corso della storia; e, dopo di esse, dalla Repubblica Romana e dai Comuni medievali, evolutisi tutti, a mano a mano che si rafforzavano e perfezionavano le loro entità statuali, dapprima verso forme di governo nobiliare, per sfociare infine in forme di governo monarchico: l’Impero di Alessandro Magno per le città greche, il Principato e poi l’Impero per Roma antica, le Signorie e i Principati, esito finale dei liberi Comuni.
Un equivoco che bisogna subito sfatare è quello che ritiene la monarchia tradizionale una sorta di moderna dittatura, paludata di bisso e di ermellino: anzitutto cardine regolatore delle società tradizionali era il principio di sussidiarietà, del tutto sconosciuto allo Stato giacobino e accentratore sorto dall’empia Rivoluzione di Francia. In forza di tale principio di sussidiarietà  ogni comunità, per quanto piccola, doveva essere messa in condizione di reggersi e provvedere a se stessa per quanto poteva; solo quando le sue risorse materiali o di personale si rivelassero insufficienti si faceva ricorso a organismi pubblici di dimensione superiore o allo Stato. Questo principio di autoctonia e di autogoverno faceva sì che il 90% del potere effettivo, incluso quello legislativo e giudiziario, fosse concentrato nelle comunità minori e nei relativi Statuti comunali, assai diversi l’uno dall’altro anche a pochi chilometri di distanza, tanto che persino la pena prevista per un determinato reato (esclusi quelli più gravi) differiva da un Comune all’altro. Ognuna di queste comunità era in buona sostanza capitale a se stessa per tutto quanto riguardava la sua vita. Ma non basta, giacché il Sovrano (impropriamente detto assoluto e meno ancora il monarca medievale) al momento della sua intronizzazione giurava di rispettare gli Statuti locali e le norme consuetudinarie affermatesi, sicché il suo margine d’intervento risultava fortemente ridotto. A monte di questa normazione così scrupolosamente, vorremmo dire maniacalmente rispettosa delle autonomie e delle sensibilità di ciascun luogo c’era una concezione per la quale il legislatore, il cui potere gli viene delegato da Dio, non inventa le norme giuridiche, novello creatore, bensì le individua, le riconosce quale esse sono nell’ordine di natura, congegnandole tecnicamente nel modo più rispettoso della verità naturale soprannaturale.
Dio è anzitutto Padre e comunica e trasferisce questa sua paternità non solo nell’autorità del pater familias o del Papa, ma anche in quella regia, dove il Re è il padre del suo popolo[10], colui che risponderà avanti a Dio del bene temporale e (assieme al clero) della salvezza dei suoi sudditi. Dio è Monarca e Reggitore di tutto l’universo, Sovrano Legislatore, che comunica tali prerogative ai Re per grazia di Dio, i cui atti si aprono non a caso con l’invocazione della Santissima Trinità. Dio è Giudice Supremo, innanzi a cui tutti dovremo un giorno comparire e tale potere giudiziario l’Altissimo lo trasferisce ai Re, nel cui nome i giudici temporali emettono le sentenze. Per questo i Re e i Papi usavano e forse usano ancora il Noi, il plurale majestatis, che indica appunto come il Sovrano parli non solo a titolo proprio, personale, bensì come rappresentante in terra e nel nome di Gesù Cristo.
In forza del dogma cattolico della Regalità sociale di Nostro Signore Gesù Cristo anche la politica e gli Stati hanno dei doveri verso il Creatore, senza di cui non sarebbero e verso il Redentore Gesù Cristo che, mediante il sacrificio della croce e quindi per diritto di conquista, ha riaperto agli uomini le porte del Paradiso loro precluse dal peccato[11].
Nella Sacra Scrittura Dio in persona si presenta con queste parole: “Per me reges regnant”, “Grazie a me i Re regnano[12]. Certo Dio assiste e conserva i Sovrani, come fa con qualunque altra autorità legittima e viene in mente in proposito il grido “God save the King!” “Dio salvi il Re!” tuttora ricorrente nella monarchia inglese. Ma l’espressione “per me reges regnant” significa anche molto di più: che Dio li costituisce, che Dio fa i Re e le autorità legittime, in quanto autore dell’ordine naturale non meno che di quello soprannaturale e comunica ad essi la propria regale paternità. E proprio a causa delle prerogative e dei favori della Maestà Divina di cui sono circondati, i Re e i governanti sono avvertiti dalla Sacra Scrittura circa il giudizio rigoroso che Dio farà sopra di loro, considerando che hanno avuto nelle loro mani il destino di molti[13].
Quel giacobino che, intingendo il dito nel sangue di Sua Maestà Cristianissima Luigi XVI, Re di Francia, appena ghigliottinato, affermò: “Oggi abbiamo decapitato Gesù Cristo!”, era ben consapevole che ogni attacco al principio di regalità si traduce in un attacco alla paternità e ai suoi diritti e viceversa; anzi, in ultima analisi si traduce in un attacco alla fonte stessa della regalità e della paternità, cioè a Dio.
Quanto all’obiezione comune che si muove all’istituto monarchico e cioè se sia giusto che eredi non all’altezza dei padri salgano sul trono, si può facilmente rispondere che l’ereditarietà non è requisito essenziale della monarchia: il Sacro Romano Imperatore fu per secoli eletto dai Principi tedeschi e, anche in Roma antica, l’Imperatore spesso veniva acclamato dalle truppe o indicato dal predecessore (come nel caso degli Antonini). Ma sarebbe sbagliato criticare superficialmente il principio dinastico, che presenta anche notevoli vantaggi: intanto mette al riparo il trono dalle ambizioni dei pretendenti, disponendo una modalità di successione più certa; in secondo luogo apparenta l’eredità al trono a una comune successione familiare.
Così in gran parte dei troni europei vigeva la legge dei Franchi Salii o legge salica, che considerava quale legittimo erede al trono il figlio maschio maggiore[14]. Non sfugge a nessuno che, come un tempo nelle famiglie, attraverso l’istituto del maggiorascato, s’impediva che i patrimoni familiari venissero spezzettati fra molti, così da evitare la rovina economica dell’intera famiglia, così il principio della successione dinastica preservava facilmente il Regno dalle cupidigie di usurpatori. Non solo, ma a differenza dei governanti odierni, che sovente sono reclutati in politica con grande improvvisazione e senza un cursus honorum rigoroso, quale quello che regolava l’accesso alle cariche dello Stato dalle minori alle maggiori, nell’antica Roma, per fare un esempio, o nella Venezia dogale per rammentarne un altro, il Principe di sangue reale, al contrario, veniva educato fin da fanciullo a sostenere il peso degli affari di Stato e per sostenere il peso della Cosa Pubblica, godendo dell’esperienza di molti consiglieri saggi e prudenti.
Inoltre nessuno protesta oggi quando un figlio non all’altezza dell’avo, eredita una grande fortuna o una grande azienda lasciatagli dal padre; né vi sarebbe alcuno così pazzo da volerlo espropriare. Sembra infatti naturale che i beni paterni, in considerazione dei sacrifici fatti e dei meriti acquisiti,  debbano comunque andare al figlio, quale ricompensa delle sue fatiche, anche se questi non disponga alle volte del talento del padre. E perché questo stesso ragionamento non dovrebbe valere per la successione dinastica? Si dimentica troppo spesso che vi è una solidarietà fra le generazioni passate e quelle succedute ad esse; come un figlio virtuoso può accrescere grandemente il patrimonio familiare di cui è erede o risollevarlo, se periclitante, così può avvenire anche dei Regni.
Si dimentica, da ultimo, che vale anche per la monarchia lo stesso principio che vige per la nobiltà e cioè che la cosiddetta nobiltà o legittimità di esercizio conta più della discendenza o legittimità di sangue[15]. È veramente nobile chi vive da nobile, non chi si fregia di un augusto blasone soltanto per disonorarlo (Dio non voglia!). Si deve vivere all’altezza di un grande passato, del ruolo che si è occupato e si occupa: Re, e nobili si può diventare per meriti eccelsi. Ma è anche vero che lo stesso Dio che fa i Re, li spodesta, se indegni.
Davvero grande è l’odio della Rivoluzione francese e dei suoi sodali ed epigoni per il principio di regalità e di autorità legittima, caro non solo ai legittimisti, ma a tutti gli uomini d’ordine. Il rivoluzionario, odiando infatti Dio, la sua autorità e le sue leggi, che preferisce trasgredire pur di assecondare le sue passioni, odia per riverbero ogni legittima autorità e quella dei Re in maniera speciale, in quanto riflesso della potestà Divina su questa terra. Non si spiegherebbe altrimenti come sia stato possibile, in poco più di cent’anni, che la geografia d’Europa, un tempo risplendente di Stati patrizi e di monarchie amatissime dai rispettivi popoli, grazie ad un pugno di agitatori si sia cambiata e con tanta violenza, fino a sostituirle dappertutto o quasi con secolarizzate repubbliche fabbricate in serie.
Per contro questa modernità così ostinatamente avversa al principio di regalità ci ha regalato e ci regala ogni giorno grande instabilità, un clima di volgarità senza precedenti nella lotta politica, interessi personali sfacciatamente messi al di sopra di tutto, una legislazione sideralmente lontana dal rispetto della morale naturale, corruzione diffusa, sistematico disconoscimento dei diritti di Dio sulla società e sullo Stato, quasi che lo Stato moderno non abbia, come qualsiasi altra creatura, precisi doveri verso Dio. Le conseguenze? Mai è stato tanto basso il livello di credibilità, come quello delle Istituzioni politiche democratiche, vissute con indifferenza, quando non con fastidio dalle persone comuni; mai come sotto il monopolio dei regimi cosiddetti democratici hanno trionfato lobbies di affaristi senza scrupoli. A paragone con l’affidabilità delle Istituzioni contemporanee, la pochade permanente della massonica Terza Repubblica francese pare l’austerità celestiale del chiostro benedettino di Cluny. Solo un ritorno alla Tradizione, anche in ambito politico, potrà consentire di riprendere il cammino interrotto e di raggiungere mete ancora più elevate. Valeva la pena sbarazzarsi così superficialmente del principio di regalità?


                                                                                                                         Maurizio-G. Ruggiero





[1] Riprendendo l’enciclica Quod Apostolici muneris di Leone XIII, Papa San Pio X nel suo Motu Proprio dell’Azione Popolare Cristiana (18 dicembre 1903), scrive che “La Società umana, quale Dio l’ha stabilita, è composta di elementi ineguali, come ineguali sono i membri del corpo umano: renderli tutti eguali è impossibile, e ne verrebbe la distruzione della medesima Società. La eguaglianza dei vari membri sociali è solo in ciò, che tutti gli uomini traggono origine da Dio Creatore; sono stati redenti da Gesù Cristo e devono alla norma esatta dei loro meriti e demeriti essere da Dio giudicati, e premiati o puniti. Di qui viene che, nella umana Società, è secondo la ordinazione di Dio che vi siano Prìncipi e sudditi, padroni e proletari, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, nobili e plebei, i quali, uniti tutti in vincolo di amore, si aiutino a vicenda a conseguire il loro ultimo fine in Cielo; e qui, sulla terra, il loro benessere materiale e morale”. “In qualunque società e comunità umana è necessario che alcuni comandino, affinché la società, priva del principio o del capo che la regge, non si sfasci e non sia impedita di conseguire quel fine per il quale si formò e si costituì. […] Dunque Dio volle che nella civile società vi fossero coloro che comandassero alla moltitudine”, Leone XIII, enciclica Diuturnum, 29 giugno 1881.
[2]In questa dottrina l’Apostolo Paolo erudì specialmente i Romani, ai quali sulla riverenza che si deve ai Prìncipi scrisse con tanta autorità e tanto peso da non potersi concepire nulla di più grave. «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite, poiché non c’è autorità se non da Dio, e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna... Perciò è necessario stare sottomessi non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza» (Rm 13,1.2.5). Consentanea a questa è la preclara sentenza del Principe degli Apostoli Pietro: «State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al Re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni, perché questa a la volontà di Dio» (1Pt 2,13-15)”, Leone XIII, enciclica Diuturnum.

[3]Dopo che gli Stati ebbero principi cristiani, la Chiesa insistette maggiormente nell’affermare e nel predicare quanto fosse inviolabile l’autorità dei governanti; dal che doveva avvenire che ai popoli, quando pensavano al principato, veniva alla mente una specie di maestà sacra che li spingeva a nutrire verso i principi maggiore riverenza ed amore. E perciò sapientemente provvide, affinché i re fossero solennemente consacrati, come per comando di Dio era stabilito nell’Antico Testamento” (Leone XIII, enciclica Diuturnum).
[4] Era costume del soldato cristiano di accoppiare una somma fortezza con un sommo amore della disciplina militare ed aggiungere all’altezza del coraggio una fedeltà incrollabile verso il Prìncipe. Per contro, se si pretendeva da lui qualche cosa che non fosse onesta, come violare i diritti di Dio, o rivolgere il ferro contro gl’innocenti discepoli di Cristo, allora egli rifiutava di eseguire l’ordine e preferiva abbandonare la milizia e morire per la religione, piuttosto che resistere con sedizioni e tumulti alla pubblica autorità” (Leone XIII, enciclica Diuturnum).
[5] È questa, in buona sostanza, l’applicazione della dottrina della potestas indirecta Ecclesiae in temporalibus, ufficialmente riconosciuta dal Magistero cattolico, in forza della quale Dio comunica direttamente il potere temporale all’autorità civile e quello spirituale alla Santa Chiesa. Altra cosa è quando l’Autorità civile violi sistematicamente le leggi date dal Creatore, sfociando in tirannide. È da considerare tirannico un governo che neghi sistematicamente una o più leggi di Dio: San Tommaso d’Aquino distingue opportunamente, al riguardo, il caso dell’usurpatore, che chiunque può deporre, da quello del tiranno propriamente detto ovvero dal caso di un governo legittimo fattosi poi tirannico, la cui rimozione può effettuarsi soltanto da parte delle pubbliche autorità. “Tuttavia se accada talvolta che la pubblica potestà venga dai Principi esercitata a capriccio ed oltre misura, la dottrina della Chiesa Cattolica non consente ai privati d’insorgere a proprio talento contro di essi, affinché non sia vieppiù sconvolta la tranquillità dell’ordine, e non derivi perciò maggior detrimento alla società” (Leone XIII Quod Apostolici muneris). Così San Pio V, proprio richiamandosi alla potestà indiretta della Chiesa nell’ordine temporale, depose dal trono d’Inghilterra Elisabetta I Tudor, detta la Sanguinaria, per la crudelissima persecuzione anticattolica contro i propri sudditi. È poi di tutta evidenza, al di là del concetto di potere monocratico veicolato dalla parola tiranno, che al giorno d’oggi può trasformarsi in tirannide (anche e assai più feroce che in passato) anche un moderno governo democratico improntato ai canoni politicamente corretti del laicismo e del relativismo morale di Stato: si pensi alla violazione di diritti i più elementari, come quello alla vita, da parte di legislazioni che hanno introdotto l’aborto, l’eutanasia, l’espianto coatto d’organi da paziente convenzionalmente dichiarato morto (c.d. morte cerebrale) o i molti attentati all’istituto familiare come quelli recati dal divorzio, dal nuovo diritto di famiglia, dalla negazione del matrimonio come unione naturale di uomo e donna, attraverso le cosiddette nozze omosex ecc.

[6]Così solamente la democrazia inaugurerà il regno della giustizia perfetta! Non si tratta di un torto fatto alle altre forme di governo, che vengono in tal modo svilite la livello di governo di ripiego impotenti?” (San Pio X, enciclica Notre Charge Apostolique, 25 agosto 1910).
[7] È appena necessario di ricordare che, secondo gli insegnamenti della Chiesa, «non è vietato di preferire governi temperati di forma popolare, salva però la dottrina cattolica circa l’origine e l’uso del potere pubblico» (Leone XIII, Enciclica Libertas, 20 giugno 1888). […] Esprimere il proprio parere sui doveri e i sacrifici, che gli vengono imposti; non essere costretto ad ubbidire senza essere stato ascoltato: ecco due diritti del cittadino, che trovano nella democrazia come indica il suo nome stesso, la loro espressione (Pio XII, Radiomessaggio Benignitas et humanitas, 24 dicembre 1944).
[8] Avendo davanti agli occhi questi precetti divini, a malapena abbiamo udito il rumore della guerra alla quale aizzavano contro la Religione Cattolica i filosofi innovatori riuniti nell’Assemblea Nazionale di Francia, della quale costituivano la maggior parte” (Pio VI enciclica Charitas quae, 3 aprile 1791). Ah, Francia! Ah, Francia! Tu che i Nostri predecessori chiamavano «lo specchio di tutta la cristianità e l'incrollabile sostegno della Fede: tu che per il tuo zelo per la Religione cristiana e per la tua pietà filiale verso la Sede Apostolica, non cammini al seguito delle altre Nazioni ma le precedi tutte», come Ci sei oggi avversa! Quale spirito di ostilità alla vera Religione ti anima! Quanto il furore che le manifesti, sorpassa gli eccessi di tutti coloro che fino ad oggi si sono mostrati i suoi più implacabili persecutori!” (Pio VI, Allocuzione al Sacro Collegio sul Martirio di Sua Maestà Cristianissima Luigi XVI, Re di Francia, 17 giugno 1793).
[9]I1 Re Cristianissimo Luigi XVI, è stato condannato al supplizio capitale da un'empia congiura e questo giudizio è stato eseguito. Vi ricorderemo in poche parole il dispositivo e le motivazioni di questa sentenza. La Convenzione Nazionale non aveva né diritto né autorità per pronunciarla. Infatti, dopo aver abolito la monarchia, la miglior forma di governo, aveva trasferito tutto il pubblico potere al popolo, che non si comporta né secondo ragione, né secondo consiglio, e che non si forma su nessun punto delle idee giuste, apprezza poche cose in base a verità e moltissime ne valuta secondo l'opinione; che è sempre incostante, facile da ingannare, attirato da tutti gli eccessi, ingrato, arrogante, crudele; che gioisce nella carneficina e nell'effusione di sangue umano, ed al quale piace contemplare le angosce che precedono l'ultimo sospiro, come in altri tempi si andava a veder spirare i gladiatori negli antichi anfiteatri” (Pio VI, Allocuzione al Sacro Collegio, cit.).
[10]Similmente la potestà dei padri di famiglia reca espressa in sé una certa effigie e forma dell’autorità di Dio «da cui ogni paternità prende nome in cielo e in terra» (Ef. 3, 15)”, così Leone XIII, enciclica Diuturnum).
[11]La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; [..] si cominciò a negare l'impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto - che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo - di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso. […] Sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio. […] Pertanto il dominio del nostro Redentore abbraccia tutti gli uomini, come affermano queste parole del Nostro Predecessore di immortale memoria Leone XIII, che Noi qui facciamo Nostre: «L'impero di Cristo non si estende soltanto sui popoli cattolici, o a coloro che, rigenerati nel fonte battesimale, appartengono, a rigore di diritto, alla Chiesa, sebbene le errate opinioni Ce li allontanino o il dissenso li divida dalla carità; ma abbraccia anche quanti sono privi di fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesù Cristo». Né v'è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli” (Pio XI, enciclica Quas primas, 11 dicembre 1925).
[12] Proverbi 8, 15.
[13]Affinché i capi dei popoli si servano della potestà ad essi data ad edificazione e non a distruzione, la Chiesa di Cristo opportunamente ricorda che anche sui Prìncipi sovrasta la severità del Giudice Supremo. Avvalendosi delle parole della divina Sapienza, essa grida a tutti nel nome di Dio: «Porgete le orecchie, voi che avete il governo dei popoli e vi gloriate di dominare molte nazioni: la potestà è stata data a voi dal Signore, e la virtù dall’Altissimo, il quale esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri pensieri... Poiché un giudizio severissimo si farà di coloro che sovrastano... Dio infatti non esonererà nessuno dal giudizio, né temerà la grandezza di chicchessia, perché Egli ha fatto il grande e il piccolo, e di tutti tiene eguale cura. Ma ai maggiori sovrasta un maggiore tormento» (Sap. 6, 2-8)”, Leone XIII, enciclica Quod Apostolici muneris.
[14] A proposito della discendenza regia in linea esclusivamente maschile, che oggi potrebbe suscitare notevoli apprensioni egualitarie da pari opportunità, tanto in sede nazionale, che in sede comunitaria o onusiana, può essere interessante la notazione che fa al riguardo il grande mariologo padre Gabriele Raschini O.S.M. quando tratta della Regalità di Maria, cioè della creatura più perfetta mai apparsa su questa terra. “Relativamente poi al termine «Regina», è da notarsi che si possono distinguere tre sorte di Regine, vale a dire: 1) la Regina-Madre (del Re); 2) la Regina-Sposa (del Re); 3) la Regina-Re, ossia un Re di sesso femminile (quale per esempio la Regina d’Olanda, la Regina d’Inghilterra, ecc.). Maria […] solo nei primi due sensi può essere salutata «Regina», ossia Regina-Madre e Regina-Sposa (del Re)”, Raschini Gabriele M., Dizionario di Mariologia, Editrice Studium, Roma 1960, p. 426.
[15] Clamoroso al riguardo il caso di Ugo Capeto, fondatore della dinasta capetingia in Francia. Figlio di un macellaio, Ugo Capeto nel 987 fu eletto Re dai Grandi del Regno al posto di un cugino discendente dai carolingi, dando origine a uno dei più importanti Casati d’Europa.