martedì 17 gennaio 2012

Le "renitenti" di Favarotta

Rosa Bommarito con i figli Caterina e Arcangelo


È una storia esemplare che illustra il comportamento delle truppe di occupazione piemontesi e dei galantuomini locali all'indomani dell'unità d'Italia e il concetto di "giustizia" o meglio di prevaricazione "mafiosa" applicato alle nostre genti. Non sono una brava narratrice ma la storia non è semplice da raccontare e ho omesso molti particolari.
I fatti si svolsero a Terrasini, allora noto come Favarotta, piccolo centro a 35 km da Palermo e riguardano da vicino la famiglia di mia madre. I fatti riportati non sono solo frutto del racconto di mia nonna e di mia madre ma sono anche ripresi da quanto riportato, in maniera edulcorata, e documentato dal sociologo ed economista N. Colajanni nel suo libro Nel Regno della mafia, edito da Rubettino nel lontano 1900.
Ecco i fatti: All'inizio del 1861 la Guardia nazionale arrestò, arbitrariamente, alcuni membri della famiglia Palazzolo-Pecorella (I Picuredda) due dei quali furono ammazzati in carcere. Un vizio siciliano, questo, mai perso. Della morte dei due Palazzolo fu accusata la famiglia Bommarito e due esponenti di questa furono, da lì a poco, barbaramente trucidati per vendetta. Ovviamente fu istruito un processo al termine del quale però i Bommarito furono assolti per non aver commesso il fatto.
Intanto era finito sotto processo anche il comandante della guardia nazionale, tal Vito Di Stefano, che aveva arrestato i due Palazzolo, uccisi in carcere. Il Di Stefano presentò delle nuove prove, gentilmente fornite dai Palazzolo, che tirarono in ballo nuovamente i Bommarito, nella persona di Vito, che fu immediatamente arrestato.
Frattanto, i Palazzolo-Pecorella avevano stretto amicizia con il piemontese Serpi, generale dei carabinieri, e un bel giorno costui invia a Vito Bommarito, nuovamente detenuto in attesa di giudizio, il sig. Ignazio Citati, Capitano d'arme e il sig. Giuseppe Sanfilippo, consigliere di prefettura che in cambio dell'estinzione dei processi in corso (come se si trattasse di una compra-vendita di noccioline) propongono il matrimonio tra Pietro Palazzolo (Picuredda), figlio del sindaco di Favarotta, e la figlia tredicenne ,Anna, del Bommarito.
Il Bommarito, altezzosamente rispose che non aveva figlie da maritare. Non contenti i commissari si rivolsero alla madre della ragazza, Grazia e ad altri parenti. Ma questi demandarono ogni decisione al padre. A questo punto Vito, capendo che difficilmente avrebbe potuto contrastare la prepotenza governativa, pensò bene di accettare la proposta ma in considerazione della troppo giovane età della figlia propose che quest'ultima trascorresse , prima delle nozze, due anni in collegio. Il generale Serpi mandò il giorno seguente i suoi portavoce dal Bommarito, che era sempre detenuto, per fissare la dote e dietro lungo mercanteggiamento estorsero al Bommarito una dote di 600 onze. Ottenuta la mano della fanciulla e la dote, fu dichiarato il non luogo a procedere sia contro i Bommarito che contro il Di Stefano. Potenza della "legge"!
Le cose però non andarono come previsto. La ragazzina, non sappiamo se istigata dal padre o di sua volontà, si rifiutò di incontrare e amare il suo "obbligato" promesso sposo. Il Palazzolo, indispettito, ricorse nuovamente al Serpi che non tardò ad attivarsi e ordinò al Bommarito, via lettera, di presentarsi immediatamente "alla sua presenza". La lettera, datata Palermo 6 agosto 1863, si concludeva " Se ritardasse( a presentarsi) altri 5 giorni si potrebbero verificare delle cose disgustose".
Il Bommarito si recò a Palermo, giurò e spergiurò che era la figlia a rifiutare il matrimonio e non lui, pregò e imprecò ma non riuscì a convincere il Serpi. Fu allora portata la ragazzina dal Serpi e ancora una volta questa si rifiutò anche quando il Serpi minacciò di rovinare la sua famiglia. Annuccia, che mostrò in verità di avere un caratterino niente male, si rifiutò ancora.
Le sedute col generale Serpi si ripeterono più volte ma la ragazza non cedette e fu per questo, che su ordine del generale, fu rinchiusa nel Collegio di Maria della Magione, in Palermo.
La cosa però non finisce qui perché adesso viene il bello. In quel periodo in Sicilia c'era lo stato d'assedio e molti paesi venivano circondati dalle truppe regie per scovare i renitenti alla leva (e per sedare o impedire le rivolte contadine contro il nuovo regime che non manteneva le promesse sulla riforma agraria). Dopo l'introduzione della leva militare obbligatoria, fino ad allora sconosciuta in Sicilia, molti giovani si erano dati alla macchia, rifiutandosi di andare sotto le armi e il novello stato italiano nulla trovava di meglio che scovare colla forza i "renitenti".
Che fa allora il nostro generale Serpi? Invia alla Favarotta, paese dove non c'erano renitenti, il 19° fanteria, fa circondare il paese e vengono arrestate nell'ordine : Grazia Norello, incinta di otto mesi, moglie di Vito e madre di Annuccia Bommarito, Laura Maniscalco, madre di Vito, Ninfa Madonia, moglie di Rosario Bommarito, figlio di Vito, Giuseppa Serra, moglie di Luigi Bommarito, fratello di Vito, Grazia Ventimiglia, moglie di Gioacchino Ventimiglia amico di Bommarito, e inoltre Salvatore Bommarito, altro fratello di Vito e Candido Comito, testimone a favore del Bommarito . Come si vede una gran bella retata di renitenti alla leva!
Il Serpi a questo punto chiamò il giudice supplente di Favarotta e dopo averlo accusato di mancanza di collaborazione gli intimò di risolvere la faccenda. Fu formata in gran fretta una commissione di "amici e parenti" della ragazza col compito di prelevare Annuccia dalla Magione e condurla alla presenza del Serpi. La commissione cercò di ottenere dall'arcivescovo l'ordine di consegna ma anche questo fu assai difficile da ottenere tanto che occorse l'intervento di eminenti personaggi, tra i quali, il dott. Pietro Cervello.
Finalmente avuta in consegna la ragazza questa fu accompagnata dal generale. Ancora una volta Annuccia, non si fece convincere al matrimonio e con le sue lacrime riuscì finalmente a commuovere l'uomo che lasciò libera la ragazza di tornare a casa, anzi in convento. La conclusione definitiva della intricata ed incredibile faccenda si ebbe grazie all'intervento del generale Govone che ordinò anche la scarcerazione delle "renitenti" e dei renitenti.
Avevo sempre pensato che mia nonna, una Bommarito, e mia madre esagerassero nel raccontare questa storia ma mi sono dovuta ricredere quando ho letto, seppure con meno dovizia di particolari truculenti, l'intera storia nel bel volumetto di Napoleone Colajanni.
Fara Misuraca