Al di qua del faro
Antonio Capece Minutolo e Luigi de’ Medici
Al termine del Congresso di Vienna, come abbiamo visto, le Potenze europee vincitrici decisero la restituzione del Regno di Napoli ai Borbone, e Gioacchino Murat fu costretto ad una fuga precipitosa [1]. All'indomani della convenzione con l'Austria, Ferdinando [2] inviò un proclama da Palermo con cui prometteva il perdono a tutti: si costituì un nuovo governo e il re rientrò via mare a Napoli facendovi un trionfale ingresso. La festa durò vari giorni e lo stesso Pietro Colletta [3] ammise nelle sue memorie che la gioia del popolo fu sincera.
Re Ferdinando volle ristabilire buone relazioni con il Papa, incrinate nel periodo napoleonico dalla confisca di beni ecclesiastici in Sicilia e dalle condanne inflitte ad alcuni preti. Il 25 febbraio del 1815 entrò in vigore un nuovo concordato che ristabiliva gli antichi privilegi della Chiesa. Il 12 giugno dello stesso anno fu firmato a Vienna il trattato d’alleanza con l’Austria, che prevedeva un generale austriaco come capo dell'esercito borbonico e 25.000 soldati a disposizione dell'Austria. La legge 8 dicembre 1816, stabilì l’annessione di fatto della Sicilia con la proclamazione del Regno delle Due Sicilie: uno stato nuovo, in precedenza mai esistito.
Il Ministero della Polizia era passato ad Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa [4], nonostante l'opposizione di alcuni ministri, tra cui il Medici [5], di idee meno reazionarie e ben visto dall’Austria. Spettò al Canosa occuparsi della condanna a morte di Gioacchino Murat dopo lo sbarco a Pizzo Calabro. Cominciò ad epurare la Polizia dagli elementi assunti dal corso Saliceti sotto Giuseppe Bonaparte, ed instaurò un rigido controllo per frenare l'azione delle sette segrete, in particolare quella dei carbonari. A sua volta creò ed organizzò la setta legittimista dei «calderari», a cui distribuì 16.000 porti d'armi, secondo l’accusa mossagli dal Medici, che arrivò a chiederne l’arresto. La vicenda si concluse con la rimozione del Ministro di Polizia [6].
Antonio Capece Minutolo
In attuazione al concordato con la Chiesa, fu disposta la restituzione delle proprietà che erano state confiscate agli ordini religiosi: a ciò si opposero Pietro Colletta e i carbonari, che erano diventati piu baldanzosi dopo la scomparsa dalla scena politica del principe di Canosa [7].
La Carboneria
All'inizio del 1800 a Napoli si era formato un folto stuolo di carbonari, ingrossatosi dopo la concessione della Costituzione a Palermo, fomentati per destabilizzare Murat e, più in generale, in funzione anti-francese, dal plenipotenziario inglese Bentinck, vero “padrone” della Sicilia fino al 1814. La Carboneria raccolse adepti nella borghesia, nell'esercito e anche nel clero. Si prefiggeva il passaggio dall’assolutismo regio al regime costituzionale. Rifiutava apparentemente il carattere antireligioso di altre sette, e della massoneria da cui proveniva (e che, in buona sostanza, continuò sempre a controllarla), e chiedeva più libertà e potere per la borghesia.
Nel 1813 si ebbero i primi tentativi insurrezionali a Cosenza, Teramo e Pescara, repressi dai francesi di Murat, che misero a sacco Altilia, considerata centro della setta. Si diffuse quindi anche nell'Italia settentrionale, dove subì l'influsso di altre sette [8].
Il moto del 1820
Dopo la restaurazione borbonica, restava il problema rappresentato dalla componente murattiana nell'esercito. Venne istituita una commissione - presieduta dal gen. Guglielmo Pepe [9] - per decidere le epurazioni. In effetti, lo stesso Pepe era il “capo spirituale” della Carboneria, e questo spiega perché i moti del 1820 si formarono proprio in seno all'esercito. Dopo un tentativo fallito a causa di fuga delle notizie, la rivolta ebbe inizio a Nola, nella notte fra il 1° e il 2 luglio, dove i tenenti Morelli e Silvati presero il comando del reggimento Borbone Cavalleria costituito da 145 uomini. Davanti alla caserma si riunirono altri rivoltosi, al comando dell'abate Menichini, a cavallo in abito talare e armato fino ai denti, e tutti insieme si avviarono poi verso Avellino. Del capoluogo irpino il Morelli proclamò la Costituzione di Spagna in nome del popolo, alla presenza del vescovo.
Il gen. Pepe seguiva da Napoli l’andamento della rivolta, agevolandola frenando l’intervento della gendarmeria. Il re, all’oscuro dei tutto, si trovava a bordo della Galatea per andare incontro ai duchi di Calabria che venivano dalla Sicilia. Tra il 5 e il 6 la situazione precipitò: anche i reggimenti di cavalleria Regina e Dragoni aderirono alla rivolta insieme a quello di fanteria Re di Napoli: il Pepe raggiunse i rivoltosi ad Avellino e ne prese il comando. Rientrato a Napoli, Ferdinando si convinse a concedere quanto gli veniva chiesto: «il re di piena volontà prometteva di pubblicare entro otto giorni le basi della Costituzione» [10].
Guglielmo Pepe
Fu nominato anche un nuovo governo e, a causa dello stato di salute del sovrano, il principe Francesco fu ancora una volta nominato Vicario Generale. Il 7 luglio del 1820 fu promulgata la Costituzione.
Le truppe in rivolta, con il Morelli a capo, giunsero davanti al Palazzo Reale. Seguirono i generali Pepe e Napoletani ed il colonnello De Concilj, nonché l'abate Menichini con circa 7.000 carbonari. Il gen. Pepe ottenne di essere ricevuto da Ferdinando, che si impegnò ad osservare la Costituzione.
Il periodo costituzionale
Le elezioni avvennero regolarmente e il Colletta riporta che i «collegi elettorali furono affollati come in paesi di antica libertà». Il 1° ottobre del 1820 ebbe luogo la seduta inaugurale del Parlamento. Il Pepe, accompagnò il re all'assemblea e dopo che il Vicario ebbe letto il discorso della corona, depose simbolicamente «ai piedi del Re il comando supremo dell'esercito costituzionale».
Anche in Sicilia intanto avvenivano cruente rivolte, come riportato nella parte “Al di là del faro” della presente lettura. Il governatore Naselli fu sostituito, e venne inviato l’esercito al comando del generale Florestano Pepe [11].
Le potenze della Sacra Alleanza guardarono con sospetto agli avvenimenti del Regno siculo-napoletano. L’Inghilterra inviò a Napoli la flotta. Il 25 luglio 1820 Metternich manifestò la sua riprovazione rifiutandosi di ricevere l'inviato del Regno, principe Cariati. Fu convocata quindi una conferenza a Troppau ove si discusse il modo di intervenire nel Regno. L'Austria era propensa ad intervenire con le armi, ma prevalse la linea di Russia e Prussia di convocare a Lubiana re Ferdinando per richiamarlo ai suoi doveri di alleato.
Metternich
Ferdinando informò il Parlamento di questo invito, ed assicurò il governo che a Lubiana avrebbe difeso la Costituzione, che ormai faceva parte del patrimonio legislativo nazionale. Arrivò a Lubiana il 18 gennaio del 1821, dove però gli fu imposto che le cose ritornassero come prima della rivolta. Nello stesso momento gli ambasciatori della Santa Alleanza a Napoli informarono il principe Francesco dell’invio nel regno dell’esercito alleato. Il Parlamento si dichiarò pronto alla guerra contro la Santa Alleanza e fu disposto l’invio di un'armata alla difesa del Garigliano e di un'altra in Abruzzo.
L'esercito austriaco non si fece attendere ed il generale Pepe diede battaglia a Rieti, dove però fu sconfitto. Gli Austriaci entrarono a Napoli il 23 marzo e la Costituzione venne annullata.
L’occupazione austriaca e la morte di Ferdinando
Ferdinando, ormai settantenne, richiamò al Ministero di Polizia il Capece Minutolo, principe di Canosa, dandogli mandato di punire i responsabili della rivoluzione e di effettuare una severa epurazione. Morelli e Silvati furono condannati a morte e giustiziati, mentre ad altri 28 la pena capitale fu convertita in reclusione. Gli Austriaci, che erano a Napoli come dominatori, imposero nuovamente il ministro Medici come capo del governo, ed il Canosa fu rimosso a causa delle vecchie ruggini.
Luigi dè Medici
Ferdinando si recò quindi al Congresso di Vienna, dove ottenne che l'armata di occupazione – che gravava interamente sulle casse del Regno - fosse ridotta. Il re rientrò a Napoli il 6 agosto del 1823 dopo un'assenza di circa otto mesi. Ebbe modo di veder terminata la chiesa di San Francesco di Paola, da lui voluta di fronte a Palazzo Reale. Nei primi giorni del gennaio del 1825 re Ferdinando incominciò a non sentirsi bene e chiese di essere dispensato dal ricevere in udienza. Morì nella notte del 4 gennaio [12].
Il contesto politico
Come abbiamo già scritto in base al regio decreto dell’8 dicembre 1816 sia la Sicilia che Napoli cessano di essere regni autonomi. Ferdinando, che era IV di Napoli e III di Sicilia diviene I di un regno unico dove entrambi i regni diventano “provincia” del Regno delle Due Sicilie [13] con capitale Napoli mentre Palermo diventa semplicemente “capovallo”.
Ferdinando I° di Borbone-Due Sicilie
Non vogliamo in questa sede giudicare se sia stata una mossa politicamente giusta o no, nata nell’ambito del Congresso di Vienna, ma possiamo certamente valutare le conseguenze che l’abolizione dell’articolo della Costituzione del 1812 che proclamava la separazione della Sicilia da Napoli: si venne a creare un movimento antinapoletano poderoso che caratterizzò il periodo che dal 1816 arriverà al 1860 e che portò allo sfascio il Regno delle Due Sicilie.
In questo stesso periodo tuttavia assistiamo anche al proseguire di quel processo di modernizzazione avviato nell’isola nel Settecento illuminista napoletano e proseguito durante il “protettorato” inglese, in analogia, se non in sintonia, a quanto succedeva nella penisola durante il periodo “murattiano”. Non dobbiamo però mai dimenticare che il processo di modernizzazione, sia a Napoli che in Sicilia fu “calato dall’alto”. Nel napoletano dall’influsso della rivoluzione francese e nel siciliano dall’influsso del liberalismo inglese. I processi di democratizzazione e modernizzazione vera, hanno bisogno di secoli per maturare e, per essere duraturi, devono essere intrinseci della storia di uno Stato. Nel momento in cui vengono imposti dall’alto o si costringe a suon di decreti o di bombe ad accettare una seppur più valida forma di governo si va incontro a ciò cui stiamo assistendo oggi in Iraq e in Afganistan.
Nel caso delle Due Sicilie il codice murattiano venne esteso per decreto anche alla Sicilia, che già stentava ad assorbire il costituzionalismo inglese. In ogni caso il passaggio dal regime feudale al regime borghese portò innegabili vantaggi al regno borbonico da cui scaturirono i numerosi “primati” e i fiori all’occhiello del Regno, ma non dobbiamo perdere d’occhio che questa “positività” è fortemente inficiata dalla “negatività” politica accumulata dai Borbone nel periodo della restaurazione [14].
Allora come oggi l’apparente benessere di una piccola parte della popolazione non significa che lo Stato stia bene. Senza considerare che le maggiori industrie erano già fin da allora in mano a capitali stranieri.
Ma torniamo a noi.
Già lord Bentinck prospettava in una lettera del 1814 al principe Francesco, nell’ipotesi di abolizione dell’indipendenza siciliana, un “grande spargimento di sangue” [15].
Lord William Bentinck
La previsione di Lord Bentinck era politica, non astrologica.
All’indomani del proclama dell’8 dicembre 1816 i siciliani però rimasero stranamente passivi perché, come racconta Paternò Castello, uno dei protagonisti dell’epoca, riferendosi anche ad anni più tardi “Ma che far potea la Sicilia scorgendo l’Europa tutta sotto il giogo della Santa Alleanza compressa? E trentamila baionette austriache in Napoli pronte a sostenere i ministri oppressori?” [16].
E il sangue arrivò, nel 1820, nel 1848 ed infine nel 1860. E sempre il “fil rouge” fu l’astio contro i Borbone per l’abolizione del regno più antico d’Italia, quello di Sicilia, come ben si comprende dall’appello dei profughi siciliani, redatto da Michele Amari ed indirizzato a Lord Palmestron “Noi non domandiamo grazia, amnistia, ritorno dall’esilio: espedienti inutili e inadeguati ai mali della patria; non domandiamo nulla di nuovo né di esorbitante; noi domandiamo nel 1856, quello che domandammo nel 1848, nel 1820, nel 1821, nel 1648, nel 1282; domandiamo la ragione, il giusto, il necessario; domandiamo di non perire.”[17]
Non tutti i siciliani erano convinti della necessità dell’indipendenza da Napoli: molti, la maggior parte, erano convinti che la Sicilia non avesse le forze per reggersi da sola e che sarebbe stata, staccandosi da Napoli, fagocitata o dall’Inghilterra o dalla Francia o dalla Russia. A Napoli di contro non tutti erano centralisti e molti auspicavano un ritorno a quel federalismo felicemente sperimentato da Carlo III. Non vi era purtroppo nessuno che avesse l’autorità politica di suggerire al sovrano questa semplice soluzione.
Sappiamo già dai capitoli precedenti che le due Sicilie espressero durante il regno dei Borboni grandi intellettuali, grandi santi, grandi eroi, ma mai espressero un grande statista accanto ai suoi Re. Poi la guerra intestina tra Napoli e Sicilia travolse ogni cosa, riducendo a provincia di uno Stato straniero (quello di Sardegna) entrambi i contendenti.
Gaetano Filangeri
È pur vero che un grande stato meridionale lo vollero le grandi potenze riunite in Congresso a Vienna e lo volle pure re Ferdinando, ma la creazione del nuovo Stato fu gestita da politici napoletani e siciliani che si rivelarono incapaci. Il Medici aveva suggerito di tornare al “federalismo” di Re Carlo che aveva creato, ricordiamolo, uno Stato meridionale su basi unitarie centralizzate per gli affari politici generali e su basi di autogoverno locale per gli affari interni di ciascuno Stato. Ma il suo rimase solo un suggerimento, certamente non si adoperò per realizzarlo. Le potenze del Congresso di Vienna non erano contrarie a tale soluzione: ad esse interessava, una volta scomparso il pericolo napoleonico, la restaurazione del grande stato meridionale, tant’è che nel testo originale francese Re Ferdinando era riconosciuto “Roi de Deux Siciles”. Nella traduzione italiana, fatta dal ministro Alvaro Ruffo divenne “Re del Regno delle due Sicilie”. L’errore di traduzione, non sappiamo quanto in buona o malafede, non fu rilevato, per convenienza da Metternich e per indifferenza da Castelraigh, con la conseguenza che lo Stato meridionale unitario su base federale divenne Stato unitario centralizzato [18]. Senza considerare che i due stati durante il periodo napoleonico avevano subito tipi di sviluppo diversi: Napoli si era sviluppata sul modello francese-murattiano, la Sicilia sul modello inglese. A Napoli i borbonici si erano ben amalgamati con i murattiani e tutti si trovarono d’accordo sulla centralizzazione e l’unificazione dei due Stati. Non così in Sicilia, che aveva applicato il modello costituzionale inglese.
Per la Sicilia non si trattò quindi di accettare ciò che era stato fatto durante il decennio inglese, come per i napoletani il periodo murattiano, ma si trattò di rigettare le riforme ottenute e sostituirle con quelle murattiane. Senza considerare che a Napoli c’era un partito murattiano filofrancese che in Sicilia non era mai esistito, dove c’erano costituzionalisti filoinglesi e democratici.
Senza alcuna forma di diplomazia fu deciso di imporre il modello murattiano alla Sicilia tanto che storici del periodo come il siciliano Paternò Castello [19] e il napoletano Luigi Blanch [20] parlarono di “conquista” e di distruzione dei due fra i più antichi Stati italiani. [21]
A causa della creazione di questo nuovo Regno e della sudditanza politica di Ferdinando I all’Austria, in una Europa che cambiava velocemente, il Mezzogiorno cancellò la sua grande tradizione statale normanna, sveva, angioina, aragonese e anche quella borbonica di Carlo e di Ferdinando “ante Congresso” e finì per confluire nell’unità nazionale italiana, realizzata dai piemontesi, con una così clamorosa disfatta che lo condannò ad una marginalità mai più riscattata.
Questo era il clima creatosi all’indomani dell’editto dell’8 dicembre 1816. Si capisce bene che la fusione dei due Regni si basava su presupposti fragilissimi e non poteva non sfociare in rivolta non appena se ne fosse presentata l’occasione.
Questa si presentò nel 1820 quando, scoppiata la rivoluzione in Spagna, questa deflagrò anche nel Regno delle due Sicilie e per di più ebbe inizio nella parte continentale, quella ritenuta più salda, per mano dei tenenti Morelli e Silvati che, come già riportato in precedenza, a capo di un centinaio di militari della Reale Cavalleria disertarono dai quartieri di Nola e iniziarono la loro marcia reclutando altri disertori e popolani al grido di “Viva Dio, Re e Costituzione”. Se solo il governo borbonico avesse avuto un minimo di consistenza avrebbe represso facilmente questa diserzione, ma era talmente debole che dopo appena quattro giorni il re emise un editto con il quale prometteva al popolo la Costituzione sulla falsariga di quella di Cadige. Quello che stiamo criticando non è “il concedere la costituzione” ma “il come” concederla. Un comportamento che mette a nudo la debolezza e l’inefficienza del quinquennio amministrato dal ministro Medici.
La rivolta della Sicilia
Una settimana dopo anche in Sicilia, resisi consapevoli della debolezza dello stato, scoppia la rivolta. Ma qui come al solito, ci si divise: nella Sicilia orientale, Messina e Catania, la rivolta fu di matrice costituzionale e in linea con i rivoltosi napoletani si chiese la costituzione spagnola, nella Sicilia occidentale, capeggiata da Palermo e Agrigento, la vicenda fu più travagliata; inizialmente si chiese la costituzione del 1812 e successivamente si accettò di aderire a quella spagnola a condizione però di aver riconosciuto per la Sicilia governo e Parlamento propri. La Sicilia non chiedeva l’indipendenza, tanto è vero che chiedeva al governo rivoluzionario insediatosi a Napoli di riconoscere il Parlamento e il governo siciliani [Colletta, Storia del Reame di Napoli]. Chiedeva il federalismo di Re Carlo e di Tanucci, ma a Napoli non capirono o non vollero capire tanto che non solo rifiutarono di riconoscere il parlamento siciliano ma inviarono le truppe col compito di reprimere la sovversione.
A questo punto della storia è bene fare il quadro delle posizioni nelle varie province del Regno: la Puglia, la Calabria, la Lucania, il Molise e la stessa Campania, chiedevano una federazione delle rispettive province, mentre le sette carbonare di Messina e Catania erano d’accordo con il centralismo di Napoli. Palermo invece chiedeva un Parlamento e un governo separati da Napoli. Come si vede non esisteva uno spirito pubblico unitario meridionale. Né nella penisola né nell’isola. Nell’isola poi l’assenza di una guida politica e di una chiarezza programmatica portarono alla rivolta ben 120 comuni in molti dei quali furono compiute efferatezze e vendette private. La frammentazione del movimento fu tale che depoliticizzarlo fu estremamente facile e a nulla valsero le squadre di popolani organizzate dal colonnello Requesenz e da Giovanni Aceto con l’intento di difendere Palermo e i suoi dintorni dalle truppe inviate da Napoli, da Catania e da Messina. Erano 25.000 gli uomini agli ordini di Florestano Pepe appoggiati dalla flotta militare e 800 regolari più i guerriglieri guidati dal colonnello Gaetano Costa da Siracusa.
La convenzione del 5 ottobre 1820: un'occasione persa
Come si può capire ci troviamo nel bel mezzo di una doppia guerra civile, quella di Palermo contro Napoli e quella tra le città della Sicilia occidentale e orientale. Le truppe alleate del Costa e del Pepe ebbero presto ragione dei guerriglieri urbani che difendevano Palermo e, a detta dello stesso Pepe [22], fu solo la mediazione del principe di Paternò che impedì un massacro fratricida firmando la convenzione del 5 ottobre.
Napoli, Messina e Catania non furono d’accordo, considerando tale convenzione troppo generosa, tanto che a Napoli non si ebbe alcun rispetto per quanto convenuto dal Pepe, che fu costretto a dimettersi e sostituito dal generale Pietro Colletta cui fu ordinato di mettere ordine nella città.
Il Pepe non aveva agito con leggerezza ma in base ai suggerimenti di Carlo Filangieri e di altri membri della giunta di governo, propensi a cercare un accordo duraturo per di salvare l’unità della nazione. Lo stesso Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli. Il Colletta, così come l’Aceto, parlano di Napoli e Sicilia come di stati confederati [23].
Pietro Colletta
In ogni caso l’annullamento della convenzione del 5 ottobre, frutto del lavoro del fior fiore delle delegazioni delle province continentali e isolane, fu un avvenimento determinante per le sorti del Regno delle due Sicilie. Se il governo di Napoli avesse colto quell’opportunità, non così facile gioco avrebbe avuto la politica espansionistica cavouriana!
Anche l’invio del Colletta non si rivelò una buona mossa, il suo autoritarismo militare servì solo ad esasperare gli animi e a rafforzare sentimenti indipendentisti che esitarono in una disobbedienza civile massiccia. Fiorirono opuscoli e giornali che invocavano l’indipendenza ed i siciliani si dimisero in massa dalle cariche pubbliche. Si viveva in stato di anarchia tanto che Colletta scriveva, in una lettera del 7 dicembre 1820, ai ministri della Marina e della Guerra “La Sicilia ha in se tutti i germi di uno sconvolgimento generale (…). Non è in aperta insurrezione, ma non è tranquilla; gli abitanti e fra questi li Palermitani, distintamente non ci combattono, ma ci aborrono; le autorità sono piuttosto sofferte che rispettate; e le leggi più tollerate che obbedite. Da questo stato a quello di aperta rivolta il passaggio è brevissimo, e perciò i rimedi parziali sono inefficaci.” [24].
E lo stesso riferiva il Nunziante, che sostituì il Colletta dimissionario. Il Colletta aveva istaurato un regime di occupazione che compattò tutta la Sicilia nell’odio per Napoli, anche le città orientali inizialmente favorevoli all’unità politica con Napoli. Insomma in quegli anni il Re di Napoli, perché solo questo era diventato per i siciliani e non più “Sa majesté sicilienne”, e soprattutto il suo governo inanellarono una tal serie di errori di cui ancora stiamo pagando le conseguenze.[25]
La situazione era confusa, variabile, equivoca, incerta e fu in questo clima che giunse la notizia (9 febbraio 1821) che veniva ritirata la Costituzione, in conformità alle decisioni prese a Lubiana da un “vertice” europeo manovrato dall’Austria. E a scanso equivoci, mentre Re Ferdinando veniva trattenuto a Lubiana, un contingente austriaco forte di 50.000 uomini, al comando del generale Frimont, varcava il Po diretto verso il Napoletano. I napoletani e i siciliani si resero conto del pericolo di farsi trovare divisi e il 16 febbraio 1821 firmavano un accordo in cui si riconosceva la costituzione presentata da una commissione di sette membri (uno per ogni provincia) presieduta da Ruggero Settimo [26], in cui si riconosceva che l’unità politica non comporta di necessità uniformità nei sistemi e nei metodi i amministrazione. Ma ormai era troppo tardi, il 23 marzo gli austriaci entravano in Napoli e il 31 maggio entravano a Palermo. L’occupazione ebbe termine nell’aprile del 1826. Fu in questa fase che in Sicilia proliferarono le “vendite” carbonare con il relativo seguito di repressioni e condanne esemplari.
Ruggero VII°
La situazione sembrò avere una svolta positiva con l’ascesa al trono del giovane Ferdinando II, l’8 novembre del 1830, ma di questo parleremo in un altro capitolo.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
Febbraio 2007