domenica 31 luglio 2016

L’ignoranza di Galantino smentita non solo dalla Bibbia ma anche dalla scienza: Sodoma (probabilmente) distrutta da un asteroide


La distruzione di Sodoma e Gomorra (dipinto di John Martin del 1852)
La distruzione di Sodoma e Gomorra (dipinto di John Martin del 1852)
 
Le dichiarazioni di Galantino non meritano particolare commento. Parola a Bibbia e scienza [RS]
 
Da Genesi 19:
Abramo andò di buon mattino al luogo dove si era fermato davanti al Signore; contemplò dall’alto Sòdoma e Gomorra e tutta la distesa della valle e vide che un fumo saliva dalla terra, come il fumo di una fornace. Così, quando Dio distrusse le città della valle, Dio si ricordò di Abramo e fece sfuggire Lot alla catastrofe, mentre distruggeva le città nelle quali Lot aveva abitato.
Da La Stampa, Mario Baudino, 28 marzo 2013:
Una tavoletta svela il segreto: “Sulla mitica città una palla di fuoco potente come quattro atomiche”
E’ stato un asteroide a distruggere Sodoma e Gomorra, o almeno a dare origine alla storia biblica che riguarda le due città punite per i comportamenti sessuali piuttosto disinibiti degli abitanti. Com’è noto, alcuni di loro fecero minacciose profferte agli angeli del Signore mandati ad ammonirli, e per passare a vie di fatto fracassarono l’ingresso della casa di Lot, l’unico giusto che aveva accolti i messaggeri. L’impresa com’è ovvio non riuscì, e la punizione celeste si abbatté come un maglio, spianando col fuoco non solo le due città ma anche altri tre centri che insieme ad esse costituivano la Pentapoli. Non sapremo mai se questa sia la vera storia, ma ora la spaventosa scena è stata estratta dal tempo immemoriale del racconto biblico e ha una data precisa nel nostro calendario: il 29 giugno 3123 a. C., poco prima dell’alba.
L’hanno calcolata due scienziati inglesi, Alan Bond (membro di un centro ricerche di Abingdon) e Mark Hempsell, dell’Università di Bristol, partendo da una tavoletta sumera conservata al British Museum. I risultati delle loro ricerche sono stati pubblicati nel libro A sumerian observation of the Köfels’s impact event (Un’osservazione sumera dell’impatto di Köfels). Che sarà mai Köfels? I geologi lo sanno bene. E’ una località dell’Austria, dove è noto che un’intera montagna venne spianata dall’impatto di un asteroide, evento apocalittico e non tramandato. Köfels ha però uno stretto rapporto con Sodoma e Gomorra. Proprio decrittando la tavoletta, che è una copia risalente al 700 a. C. della descrizione del cielo fatta da un astronomo sumero, i due scienziati hanno ricostruito i cieli del mondo come li aveva visti il loro antico predecessore nella notte fatale quando assistette a qualcosa di immenso: un grande oggetto luminoso che attraversava l’atmosfera a folle velocità da est a ovest.
Andava a Köfels, e stava per innescare un apocalittico bigliardo. Secondo questa ricostruzione (che pure non è accettata in blocco dalla comunità scientifica) l’asteroide si disintegrò sull’Austria, e una palla di fuoco da 800 milioni di tonnellate si abbattè sulla montagna, distruggendola. L’enorme potenza liberata fece rimbalzare un pennacchio di fuoco che risalì a 900 chilometri di altezza e rifece il cammino al contrario, rientrando nell’atmosfera sull’Egitto e scaricando sulla Pentapoli qualcosa come l’equivalente di quattro bombe atomiche ad altissimo potenziale. Così finirono Sodoma e Gomorra, e iniziò il mito dei peccatori sfrontati. Quanto agli abitanti della zona di Köfels non se ne sa nulla. Forse non ce n’erano. Forse erano pochissimi. In tal caso sarebbero nella nostra lunga storia le prime vittime di un danno collaterale. Proprio come le figlie di Lot, offerte agli assalitori pur di salvare gli angeli. Per loro fortuna i sodomiti non erano interessati.

A proposito di Crociate e terrorismo islamico

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Fonte: http://www.radiospada.org/

Data la grande confusione che dilaga nel mondo cristiano sulle spedizioni in Terra Santa, per gentile concessione dell’Autore pubblichiamo un breve capitolo tratto dall’ultimo libro Quello che i cattolici devono sapere – Almeno per evitare una fine ridicola. Il contributo è giunto circa 48 ore prima del terribile attentato di Nizza, alla luce del quale acquista ancor più attualità. [RS]

 Crociate

di Agostino Nobile

Nonostante siano state pubblicate numerose ricerche storiche documentate che smontano il luogo comune sulle crociate, siamo costretti a sentire e a leggere lo stesso ritornello sui media e nelle reti internet: le crociate partirono verso l’oriente per interessi economici; l’Islam pacifico fu attaccato nella propria terra dalla brutale aggressione cristiana. Capi di Stato, come l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, sono convinti che gli attacchi terroristici in occidente sono una risposta alle  crociate. La fantasia e l’ignoranza degli statisti attuali è davvero disarmante. I buddisti della Thailandia e gli induisti dell’India, non hanno mai fatto crociate, ma le bombe e i morti causati dagli islamisti in queste terre non hanno fine. Ma non bisogna andare in Asia per confutare i commenti grotteschi di questi politici. Seguendo questo bizzarro ragionamento, gli europei avrebbero ragioni valide per seminare morte in terra germanica, per le mattanze operate nel secolo scorso dai soldati teutonici. Ma anche un napoletano e un siciliano che imbracciano Kalashnikov per fare strage di piemontesi avrebbero motivi da vendere. Senza contare che pure gli indiani d’America (seguendo lo stesso ragionamento), avrebbero tutte le ragioni del mondo se iniziassero a terrorizzare chi gli ha rubato le terre e sterminato gli avi. Ma per quanto riguarda i musulmani, nemmeno questa terribile logica dà loro ragione. Infatti non sono stati i cristiani che hanno occupato le terre dei musulmani, ma quest’ultimi che hanno ucciso e cacciato i cristiani che vivevano in Medio Oriente da sei secoli prima dell’avvento dell’Islam. Dunque, in realtà, le ragioni pacifiche e violente degli islamisti appartengono ad una logica prettamente religiosa: sottomettere e umiliare il mondo non musulmano, per volere di Allah.
Gli storici e i documenti dell’epoca ci dicono che gli stessi musulmani per secoli hanno considerato le spedizioni dei cristiani una guerra contro i Franchi, e non uno scontro di religioni. Solo dopo la fondazione dello stato di Israele, i musulmani hanno iniziato a utilizzare la definizione crociata, creata in occidente. Tra i primi autori della calunnia sulle spedizioni crociate troviamo lo storico luterano Johann Lorenz von Mosheim (1693-1755), seguito dagli Illuministi. Nell’800 e nel ‘900 gli storici marxisti hanno sviluppato la leggenda aggiungendo altri falsi storici che sono stati divulgati nei testi scolastici e nei mezzi di comunicazione.
Avvicinandoci seriamente alla Storia possiamo constatare che la definizione crociata è stata coniata nel ‘700, le spedizioni in Terra Santa in realtà erano considerate pellegrinaggi per legittima difesa. J. Riley-Smith, considerato uno dei maggiori esperti anglosassoni, a proposito della leggenda che considera i crociati come uomini senza scrupoli che partivano al fine di arricchirsi, scrive: «Sarebbe stato un gioco d’azzardo stupido liquidare i beni patrimoniali per investire dopo una marcia di tremila chilometri a Oriente (…) Ha più senso supporre che i crociati, in particolar modo le famiglie dei crociati, fossero motivati da idealismo. (…) Dietro a molti crociati stava un gran numero di uomini e donne, disposti a sacrificare i loro interessi per aiutarli a prepararsi a partire». (Breve storia delle crociate ed. Mondadori). Ma la principessa e storica bizantina Anna Comnena (1083-1153), non utilizza condizionali o supposizioni, anche perché, essendo testimone oculare, ne sa molto di più dello storico britannico. Nella sua Alessiade descrive come nella prima crociata indetta da papa Urbano II, si mobilitarono anche le donne con i loro figli: «Si produsse allora un movimento di uomini e di donne come non si ricorda di averne mai visto l’uguale: le persone più semplici erano davvero animate dal desiderio di venerare il Sepolcro del Signore e di visitare i Luoghi Santi. […] L’ardore e lo slancio di questi uomini era tale, che tutte le strade ne furono coperte; i soldati franchi erano accompagnati da una moltitudine di gente senz’armi più numerosa dei granelli di sabbia e delle stelle del cielo, che portava palme e croci sulla spalla: uomini, donne e bambini che lasciavano i loro paesi». Certo, ingenui, ma di grande amore per Gesù Cristo. Ma quale sconfinata perfidia dovevano avere quei calunniatori che, nonostante questi eventi strazianti, hanno divulgato le menzogne più meschine?                                                                                                Prima di continuare, dobbiamo ricordare che le famigerate cinture di castità non esistevano nei secoli delle crociate e nemmeno nel resto del Medioevo. Sembra che la leggenda sia opera del positivista britannico Eric J. Dingwall (1890 -1986), famoso  per i suoi libri di sessuologia e per i suoi interessi sul paranormale, ma già prima di lui non pochi mattacchioni si sono adoperati per divulgare questa bufala. Comunque sappiamo per certo che le cinture di castità oggi in mostra nei musei, sono state prodotte nel ‘800  per ovvi motivi diffamatori. Solo alla fine del ‘900 i responsabili dei musei francesi e britannici si sono resi conto che si tratta di falsi risalenti al XIX secolo. Ma nonostante questa evidenza in non pochi musei internazionali le cinture di castità sono sempre in bella mostra.
Le terre cristiane furono conquistate dai musulmani subito dopo la morte di Maometto, mentre la prima crociata è avvenuta nel 1095, dunque circa quattro secoli dopo l’invasione islamica. La decisione che coinvolse la Cristianità, fu la risposta alle continue violenze inflitte ai cristiani e alla distruzione dei luoghi sacri in Terra Santa. Già nel 1009 il califfo al-Hakim bi-Amr scatenò una brutale repressione contro i cristiani, dove anche le tombe dei cristiani furono devastate. La domenica 13 agosto fece abbattere la chiesa dedicata a Maria ad al-Qantarah, nel vecchio Cairo. Ma l’episodio che provocò la reazione della Cristianità fu la distruzione della Basilica della  Risurrezione di Gerusalemme. Fu una persecuzione e una distruzione continua, i musulmani cercarono di rimuovere anche il Santo Sepolcro, distruggendone gran parte.
Come prova che confermerebbe la violenza dei crociati, gli autori della leggenda nera utilizzano il sacco di Costantinopoli per mano della Quarta crociata. Certamente è una macchia indelebile delle spedizioni, ma la Chiesa non ha nessuna responsabilità. Al contrario. Papa Innocenzo III, sapendo che alcuni nobili di spicco, capi della crociata, erano intenzioni a detronizzare l’imperatore bizantino per imporre suo fratello Alessio Angelo, scrisse loro una lettera molto chiara, riportata dallo storico Thomas F. Madden nella sua ricerca Le Crociate – ed. Lindau. : «Che nessuno di voi si convinca sconsideratamente di poter occupare o saccheggiare territori greci con la scusa che essi mostrano scarsa obbedienza alla Sede Apostolica, o perché l’imperatore bizantino ha deposto suo fratello, lo ha accecato e ne ha usurpato l’Impero». Quando i nobili Bonifacio di Monferrato, Baldovino di Fiandra, Luigi di Blois e Ugo Saint-Pol decisero di fare di testa propria «centinaia di soldati defezionarono disgustati, dirigendosi da soli verso la Terrasanta». Altre centinaia se ne tornarono a casa e chi rimase «non era certo contento». I nobili che guidavano la Quarta crociata, che avrebbe dovuto trovarsi in Terrasanta, violarono il giuramento e la minaccia di scomunica del Santo Padre. Quando papa Innocenzo III seppe dei massacri «arrossì di vergogna». Dunque, una pagina nera che non può essere addebitata alla Chiesa. Tra l’altro, bisogna aggiungere che i continui tradimenti dei Basileus bizantini, i quali tramando spesso con i musulmani determinarono sofferenze e morte tra i crociati, accentuarono l’odio dei più fanatici.
Per avere un quadro completo delle spedizioni crociate non possiamo fare a meno di leggere  la ricerca di Rodney Stark Gli eserciti di Dio (Lindau 2010). Prima di addentrarsi nelle cuore delle vicende, corredate da documenti e lettere dei personaggi principali, Stark smonta quei luoghi comuni che vogliono i musulmani pacifici e i cristiani rozzi e violenti. Menzogne talmente radicate da ingannare – come sottolinea Stark – capi  di stato e religiosi cristiani. La Terra Santa, per i cristiani di quegli anni, era molto più importante di quanto siano stati per noi le torri del World Trade Center abbattute l’11 settembre 2001 e l’attacco al Pentagono, ed era molto più umiliante del terrorismo nelle città occidentali. Se a noi turba l’idea di morire ammazzati mentre andiamo a lavorare o mentre siamo seduti al caffè, i nostri antenati erano sconvolti dal fatto che non avrebbero potuto mai più visitare i luoghi dove è nato Gesù Cristo, accogliendo con orrore la notizia sulla distruzione dei luoghi sacri e del Santo Sepolcro.
La ricerca di Stark affronta anche gli aspetti culturali e scientifici delle due religioni, già noti a tutti gli storici, ma ignorati dal grande pubblico. Per esempio, pochi sanno che «dopo la conquista islamica dell’Egitto, del Nord Africa e dalla Spagna, da tutte queste terre scomparve la ruota». Che i numeri arabi in realtà sono indiani, che l’architettura come le scienze erano sviluppate e gestite dai cristiani ed ebrei colonizzati e non dagli invasori. Per fare solo due esempi. In Spagna l’arco moresco era presente un secolo prima dell’invasione araba; l’ Alhambra di Granada è stata realizzata da architetti cristiani e ebrei.
Per quanto riguarda le prove che confermano i motivi della reazione cristiana alla violenza musulmana, si apprende, tra l’altro, che lo storico siriaco del XII secolo al-‘Azimi «riconosce che nel 1093 i musulmani della Palestina impedirono ai pellegrini cristiani di raggiungere Gerusalemme. Secondo lo stesso al-‘Azimi furono proprio i racconti dei pellegrini sopravvissuti e ritornati in patria a causare l’inizio delle prime crociate». I soprusi esistevano da anni, come le tasse esose per chi non si convertiva all’Islam, o l’obbligo per i cristiani di portare al collo una croce di circa due chili, come accadeva nel periodo in cui salì al trono il sesto imam al-Hakim. Dunque, le crociate furono la reazione contro gli invasori violenti che distruggevano i luoghi sacri e tormentavano i cristiani che vivevano in quelle terre da sei secoli prima del loro arrivo.
Le crociate fanno parte di un movimento popolare mosso dallo spirito di fedeltà al Vangelo, che come unico fine aveva la liberazione della Terra Santa. Negando questa realtà, i nostri governi, gli pseudo storici di sinistra e i testi scolastici tradiscono chi ha difeso la Cristianità e l’Europa.

Agostino Nobile è autore di: “Quello che i cattolici devono sapere – Almeno per evitare una fine ridicola” e “Anticristo Superstar
 

sabato 30 luglio 2016

L’aborigeno australiano: un homo sapiens arcaico?

Dopo il precedente, riproponiamo anche questo articolo, datato ma interessante, di M. Quagliati, uscito all’epoca su MMMGroup. Sebbene, in altre materie, le nostre opinioni divergano da quelle dell’autore, ci pare fornisca spunti utili. [RS]

di Mauro Quagliati - Fonte: http://www.radiospada.org/

La controversia scientifica sull’origine dell’uomo moderno vede in campo due principali scuole di pensiero: la teoria dell’origine africana recente, largamente condivisa dalla maggioranza degli evoluzionisti, e il modello multiregionale, sostenuto da una minoranza di paleoantropologi (M.Wolpoff, A. Thorne e altri).
Figura 1. Cranio di aborigeno australiano della tribù Pintubi, XIX secolo.
 
Secondo il modello Out-of-Africa le popolazioni umane odierne sono discendenti dei primi Homo sapiens emigrati dall’Africa negli ultimi 100.000 anni che, colonizzando gli altri continenti, si sostituirono “molto velocemente” agli antenati del genere Homo che vi abitavano. Questa tesi accreditata nella seconda metà del ‘900, porta, tra le prove a suo supporto, gli studi sulla genetica delle popolazioni umane (in base all’analisi del DNA mitocondriale, ad esempio, si nega ogni parentela “filogenetica” tra uomo di Neanderthal e sapiens moderno).
La teoria dell’origine multiregionale, che si rifà agli studi di Franz Weidenreich degli anni ’40, si basa principalmente sullo studio comparato dell’anatomia e sostiene al contrario che uomini moderni ed arcaici fossero interfecondi e, mescolandosi fra loro, lasciarono in eredità ai discendenti relitti di morfologie regionali (nota 1).  Quindi tra gli individui dei vari continenti si troverebbero tracce dei caratteri ossei dei loro lontani antenati: l’Uomo di Pechino, l’Uomo di Giava, l’Uomo di Neanderthal europeo (prove di una convivenza di lungo periodo e dell’incrocio di diversi tipi umani sono stati rinvenute in Croazia e Palestina dove, 100.000 anni fa, vivevano individui con crani ibridi neandertaliani-moderni).
In questa diatriba si collocano i caratteri cranio-facciali unici degli Aborigeni australiani. Alcune etnie presentano una calotta cranica di spessore notevole, con fronte ribassata e inclinata, forte prognatismo, arcate sopraorbitali sporgenti, a volte mento sfuggente. In paleoantropologia, questi sono i caratteri che, variando il grado di ipertrofia ossea, distinguono le varie specie di Homo pleistocenico (dal più gracile al più robusto sono: H.sapiens arcaico , H. erectus, H.neanderthalensis)

  
Figura 2. Due aborigeni australiani e un melanesiano dagli spiccati caratteri “arcaici”

Tra gli antropologi “classici” che un secolo fa proposero diversi schemi di classificazione fisica delle cosiddette razze umane, era convinzione comune che la razza australoide fosse un vero e proprio relitto del passato preistorico dell’uomo. Al contrario nel quadro della moderna teoria africanista è abitudine minimizzare la peculiarità degli aborigeni (purtroppo usate in passato con intenti razzisti), tanto che bisogna andare a ripescare delle foto d’epoca per trovare ritratti individui che sembrano proprio il prototipo ideale di “anello di congiunzione” tanto caro al dettame evoluzionista. Spesso queste somiglianze vengono considerate come adattamenti esteriori secondari, all’interno della specie Homo sapiens.
Ma cosa succede se usiamo lo stesso metro di giudizio anche per i fossili? Il cosiddetto Homo sapiens arcaico che visse nel medio pleistocene in Europa, oggi classificato come una sottospecie di passaggio tra noi e l’erectus, diventerebbe una semplice “varietà” della nostra stessa specie.
Figura 3. Sopra, capigliature bionde di aborigeni. Sotto, anche le donne mostrano tratti facciali estremi.
 
Diversi paleoantropologi (nota 2) oggi ritengono che “sapiens arcaico” sia una denominazione generica priva di fondamento biologico, contenitore di comodo che nasconde vecchi pregiudizi sulla morfologia dei progenitori, secondo cui gli antenati devono essere più robusti dei discendenti. Capita invece che il più antico Homo europeo, rinvenuto in Spagna, ad Atapuerca, abbia 800.000 anni e possieda un’anatomia molto più moderna del Neanderthal [vedasi: figura 7, aggiunta da RS], posteriore di mezzo milione di anni.
Inoltre la sopravvivenza di caratteri “primitivi” tra gli Australiani e i Melanesiani è ancora più problematica per la teoria “Out of Africa”, dato che questi, ritenuti i primi colonizzatori africani arrivati dalla rotta migratoria delle isole indonesiane, anche se scuri di pelle, non sono negrodi. Invece tradizionalmente i volti degli australoidi furono accomunati a quelli europei. Agli antropologi dell’inizio del ‘900, che conoscevano i reperti preistorici del tardo pleistocene europeo, gli Aborigeni apparvero come gli “arcaici sopravvissuti dello stesso da ceppo da cui si evolsero i Caucasici” (nota 3).
Figura 4. A sinistra, Vedda dello Sri Lanka, a destra, gruppo etnico simile dallo Yemen
 
Gli australiani erano inseriti nello stesso gruppo razziale con i Vedda (tribù semi-nomadi delle foreste dello Sri Lanka) e gli aborigeni del Giappone, gli Ainu.
Questi gruppi infatti, nonostante le diverse colorazioni della pelle, mostrano il tipico follicolo pilifero degli europei, e sviluppano un pelo corporeo, folto, ondulato e dai colori vari, dallo scuro, al biondo al rosso. Anche la forma del naso è tipica, con cavità nasali larghe, ma setto nasale sporgente (non schiacciato come quello africano). Gli omologhi europei di questo ceppo, secondo l’antropologo C.H. Stratz dovevano essere i Baschi e i Celti. Si noti che tutte queste popolazioni si trovano ai margini estremi del continente eurasiatico, come se fossero i sopravvissuti di una grande diaspora causata, plausibilmente, dall’espansione delle popolazioni indoeuropee verso ovest e mongoliche verso est, avvenuta dopo la grande crisi climatica della fine dell’ultima era glaciale. Il conseguente innalzamento dei mari ha isolato gran parte dell’Oceania dove, non a caso, sono state trovate le prove della sopravvivenza tarda di uomini molto robusti (mentre in Europa l’antica razza si è persa più velocemente).
Figura 5. Ainu delle Isole Kurili in un’antica stampa. La somiglianza con l’aborigeno australiano è notevole
 
I resti dell’Uomo di Giava (H.erectus di Ngandong) sono stati recentemente post-datati a 30.000 anni (nota 4), mentre nell’Australia sud-orientale, esemplari di H. sapiens “robusti” sono recentissimi (Kow Swamp, 10.000 anni) e posteriori ad altri australiani “gracili” (Lake Mungo, 60-30 mila anni).

Non è necessario postulare che l’uomo “moderno” derivi da quello “arcaico”. Queste sono infatti denominazioni suggestive del vecchio paradigma evoluzionista delle specie separate e successive. In generale, i fossili del pleistocene sono interpretabili come varietà di un’unica grande specie politipica (come suggerisce Wolpoff) e cosmopolita che vive sulla Terra da almeno 1,5 milioni di anni. Gli adattamenti climatici di lungo periodo hanno dato luogo a diverse varietà regionali (o razze) “gracili” e “robuste”. In fondo la differenza tra l’Homo erectus africano e il Neanderthal è qualitativamente la stessa che intercorre tra i Keniani e gli Inuit di oggi, solo amplificata nelle proporzioni: ai tropici i corpi sono alti e slanciati, con arti longilinei adatti alla dispersione del calore, nell’Artico sono tozzi, con un tronco ben piantato, ossa corte e robuste, per conservare al massimo la temperatura corporea.
Figura 6. Azzo Bassou, individuo “neanderthaliano” trovato in Marocco negli anni ’30
 
Il tardo pleistocene si è concluso con il cambiamento climatico globale di 12.000 anni fa, in seguito al quale si sono avuti sia delle massicce migrazioni che ibridazioni tra varie razze, con estinzione delle varietà umane estreme (specializzate). La specie umana rimane comunque uno dei mammiferi terrestri con le più ampie variazioni fisiche, di statura, colore e conformazione degli adulti.
NOTE
1. Alan G. Thorne, Milford H. Wolpoff, Un’evoluzione multiregionale, Le Scienze, 1992. John Hawks , Science
2. Niles Eldredge, Ian Tattersal, I miti dell’evoluzione, 1984.
3. C. S. Coon, L’origine delle razze, 1962.
4. C. Swisher III et al., Latest Homo erectus of Java: Potential Contemporaneity with Homo sapiens in Southeast Asia, Science, 274 (1996).
Il ritrovamento di Atapuerca. 800.000 anni d'età e più "moderno" dei suoi successori: un bel problema per alcuni scientisti ideologizzati.
Figura 7. Il ritrovamento di Atapuerca. 800.000 anni d’età e più “moderno” dei suoi successori: un bel problema per alcuni scientisti ideologizzati.

venerdì 29 luglio 2016

Encíclica di Pío VII che condanna i moti "indipendentisti" nell'America spagnola.

 
 
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Pio VII
Etsi longissimo


Roma, 30 gennaio 1816

Breve
Nelle drammatiche vicende che per lunghissimi anni insanguinarono l’America meridionale protesa a realizzare la propria indipendenza (sollecitata soprattutto dagli scritti e dall’azione di Simone Bolìvar), il Pontefice Pio VII, memore e vittima delle sofferenze patite a seguito della degenerazione di altra rivoluzione, invita i Vescovi a prospettare ai fedeli i gravissimi e terribili danni che possono derivare dalle ribellioni.




Ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, e ai diletti Figli del Clero dell’America cattolica soggetta al Re di Spagna.
Il Papa Pio VII. Venerabili Fratelli e diletti Figli, salute.
Sebbene siate separati da Noi da un immenso spazio di terre e di mari, Ci sono tuttavia ben noti, Venerabili Fratelli e diletti Figli, la vostra pietà e il vostro zelo nella pratica e nella predicazione della Religione.
Poiché fra gli eccellenti e principali precetti della santissima Religione che professiamo vi è quello che prescrive la sottomissione di ogni anima alle autorità superiori, Noi teniamo per certo che nei moti sediziosi, tanto dolorosi per il Nostro cuore, che si sono sviluppati in codeste regioni, voi siete stati per il vostro gregge assidui consiglieri e avete condannato le sedizioni con animo fermo e giusto.
Ciò nondimeno, dato che in terra Noi siamo rappresentanti di Colui che è il Dio della pace e che, nascendo per redimere il genere umano dalla tirannide del demonio, volle annunciare la pace agli uomini attraverso i suoi angeli, abbiamo creduto sia proprio di quella funzione apostolica che, sebbene senza merito, esercitiamo, di spronarvi ancor di più con questa Nostra lettera a non tralasciare sforzi per sradicare e distruggere completamente la funestissima zizzania delle sommosse e delle sedizioni che un uomo nemico ha seminato costì.
Il che facilmente otterrete, Venerabili Fratelli, se ciascuno di Voi, con tutto lo zelo possibile, porrà davanti agli occhi del suo gregge i gravissimi e terribili danni derivanti dalla ribellione; se illustrerà le virtù singolari ed egregie del carissimo Nostro figlio in Cristo Ferdinando, Re Cattolico della Spagna e vostro, per il quale nulla è più prezioso della Religione e della felicità dei suoi sudditi; e, infine, se illustrerete i sublimi e immortali esempi che hanno dato all’Europa gli Spagnoli, i quali non esitarono a sacrificare vita e fortune per dimostrarsi testimoni della Religione e della propria lealtà verso il Re.
Procurate dunque, Venerabili Fratelli e diletti Figli, di essere pronti ad assecondare le Nostre paterne esortazioni e i Nostri desideri, raccomandando col maggiore impegno l’obbedienza e la fedeltà al vostro Re: siate benemeriti dei popoli affidati alla vostra custodia; accrescete l’affetto che Noi e il vostro Re già vi professiamo, e per i vostri sforzi e le vostre fatiche otterrete in cielo la ricompensa promessa da Colui che chiama beati e figli di Dio i pacifici.
Nel frattempo, con i felici auspici per un impegno tanto illustre e fruttuoso, Vi impartiamo con amore, Venerabili Fratelli e diletti Figli, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, sotto l’anello del Pescatore, il 30 gennaio 1816, anno sedicesimo del Nostro Pontificato.



1918 - Manifesto dei Tirolesi ladini ai tirolesi tedeschi.

 


1918 - Manifesto dei Tirolesi ladini ai tirolesi tedeschi. Purtroppo i ladini del Tirolo si trovano ancora divisi in due regioni (Trentino-Südtirol e Veneto).

La divisione dei ladini avviene nel 1923, con il fascismo. Ancora oggi la popolazione più antica del Tirolo si trova divisa in tre province.

Oltre i referendum dei ladini della zona di Ampezzo (Haydn), il governo veneto non ha ancora dimostrato nessuna solidarietà.

Quando si farà qualcosa?

Dimostrare le contraddizioni in una favola.

 
1 - Nel 1866, Bezzecca e la Val di Ledro erano ancora territorio austriaco (dal 1363).
 
2 - Essendo territorio austriaco, il servizio postale locale era austriaco e non del Regno d'Italia.
 
3 - L'esercito austriaco e i volontari della Val di Ledro combatterono contro Garibaldi che è dovuto scappare.

4 - Il Regno d'Italia ha inventato il famoso "Obbedisco" per nascondere la sconfitta.

5 - L'attuale sindaco di Ledro dimostra pubblicamente di essere un IGNORANTE DOC sulla storia locale.

Fonte: Trento è Tirolo - Trient ist Tirol

IL PAPÀ DEL FRANCOBOLLO

Fonte: Vota Franz Josef

Esattamente 212 anni fa nasceva a Spodnja Luša presso Škofja Loka, Lovrenc Košir. Anche se l'inventore del francobollo viene tradizionalmente considerato l'inglese Sir Rowland Hill, Lovrenc Košir lo ideò già due anni prima, nel 1835, con la differenza che nel suo caso le nostre poste non sentirono la necessità introdurre immediatamente la novità, come in Inghilterra, ma solamente quindici anni più tardi, nel 1850. Detiene quindi il primato del prima pr...oposta di francobollo.
Dopo aver frequentato e terminato col massimo dei voti il ginnasio di Lubiana, Košir servì per più di 40 anni la monarchia, tra Vienna, Venezia, Milano svolgendo attività amministrativa e finanziaria nel campo della ragioneria, delle poste e comunicazioni e in quello militare; terminò la carriera a Zagabria come vice-ragioniere di stato. Durante la sua carriera operò diverse riforme postali e della contabilizzazione delle merci che gli portarono molta notorietà e grandi riconoscimenti. Anche gli anni della sua pensione furono proficui, dal momento che compilò un celebre dizionario croato-ungherese.

A Lovrenc Košir vennero dedicati numerosi francobolli sia austriaci, che jugoslavi e sloveni.

Lo Stato Tradizionalista nelle parole di Juan Vázquez de Mella

 
 
 
Lo Stato Tradizionalista è sovrano. Non concede prerogative alle regioni. Però riconosce i loro diritti. E le regioni detengono le loro leggi sagge. Che possono perfezionare. E possono usare la loro lingua. E amministrare con i loro buoni usi e costumi. E utilizzare la loro legislazione civile. Senza pregiudicare l’esistenza di un codice generale per i problemi comuni.
Ammettendo il principio r...egionalista, si può affermare: che le stesse leggi non sono applicate a tutte le regioni spagnole. Come un cappotto confezionato da un sarto non veste bene a tutti gli uomini.
Le famiglie hanno esigenze che da sole non possono soddisfare. E si aggruppano per formare il municipio. Il municipio è anteriore alla regione. E deve essere libero perchè se viene mediato, non potrà formare regioni libere. Il municipio ha assoluta libertà di amministrarsi. E di possedere proprietà comunali. Nel municipio comincia la vita pubblica del cittadino partendo dalla famiglia.

Juan Vázquez de Mella

giovedì 28 luglio 2016

VIDEO: La Prova donde l’ADN Confuta la Considdetta Teoria dell’Evoluzione


Lo strano caso dell’antenato pigmeo

 
Riproponiamo questo articolo, datato ma interessante, di M. Quagliati, uscito all’epoca su MMMGroup. Sebbene, in altre materie, le nostre opinioni divergano da quelle dell’autore, ci pare fornisca spunti utili. [RS]
 
di Mauro Quagliati
 
Apprendiamo dal National Geographic News del 27 ottobre 2004 che un nuovo membro è stato inserito nella variegata famiglia del genere umano, portando lo scompiglio tra i paleoantropologi: si tratta infatti niente di meno che di un “Hobbit”. O almeno così lo hanno battezzato affettuosamente i ricercatori indonesiani e australiani che ne hanno rinvenuto l’esemplare in una caverna dell’isola di Flores, a est di Bali. Si tratta di una serie di scheletri senza precedenti, che hanno già ricevuto l’onore di una nuova denominazione specifica: Homo floresienses. Con 1 metro di statura (per 25 kg), e circa 0,4 litri di capacità cranica, possedevano, da adulti, le proporzioni di un bambino di tre anni. Lo sconcerto cresce se si pensa che questi esseri hanno un’età giovanissima, compresa tra 18.000 e 15.000 anni.

Figura 1. Confronto tra il cranio di Homo floresienses e uomo moderno


Peter Brown, tra i più noti paleoantropologi australiani, la considera una delle più spettacolari scoperte in mezzo secolo; l’omino di Flores è destinato a sollevare una quantità di problemi e di domande imbarazzanti poiché faticherà molto a trovare un posto logico sull’albero genealogico ufficiale dell’evoluzione umana.
Innanzitutto, questo reperto rappresenta la conferma definitiva che ominidi dalla morfologia anche molto diversa dalla nostra hanno convissuto con Homo sapiens praticamente fino all’altro ieri – in termini geologici – (in realtà l’Homo erectus di Giava era già stato post-datato a 30.000 anni, a metà degli anni ’90 {1}). Questo dovrebbe finalmente segnare l’abbandono definitivo del vecchio paradigma evoluzionista che prevedeva la successione/sostituzione graduale degli ominidi nella direzione evolutiva dell’uomo anatomicamente moderno. Al contrario, la nostra specie ha convissuto per decine di migliaia di anni con gli uomini di Neanderthal in Europa e con varianti di H. erectus nell’area australe.
Poi, fatto decisivo, demolisce completamente i criteri “volumetrici” (già lungamente criticati da molte parti) di distinzione tassonomica tra le specie ominidi. Pur avendo un cervello che occupa, in termini assoluti, un terzo del volume medio di H. sapiens (1250 cc) , gli antichi abitanti dell’Isola di Flores denotano statura eretta (che si evince da uno scheletro completo), hanno lasciato utensili, resti di fuoco e di cacciagione, per cui entrano a pieno titolo nel genere Homo. Sostanzialmente erano dei pigmei dalle caratteristiche estreme, ma con i tratti cranio-facciali tipici dell’H. erectus: arcate sopraorbitali sporgenti, cranio allungato e mento assente.
In terzo luogo si pone il quesito della provenienza e dell’origine filogenetica di questo gruppo (specie? sottospecie?). I ricercatori non possono far altro che postulare l’arrivo su Flores di una popolazione di H. erectus asiatico attorno a 800.000 anni fa, che si sarebbe sviluppato in miniatura, plausibilmente a causa di una pressione evolutiva “insulare” (si noti che sull’isola esisteva una specie di elefante nano, lo Stegodonte, estinto 12.000 anni fa). Oppure si ipotizza che l’H. floresienses fosse già “pigmeo” prima di giungere sull’Isola. Ma questo non è cruciale, ciò che conta è che abbiamo un’ulteriore prova della grande plasticità delle popolazioni umane del pleistocene (1.700.000 – 12.000 anni fa), le cui caratteristiche fisiche suscitano, allo stato attuale della ricerca, una certa diatriba tra gli specialisti. Infatti è abituale considerare gli esemplari di quest’epoca, etichettati sotto le diverse denominazioni (Homo erectus, neanderthalensis, sapiens “arcaico”) come specie separate. Alcuni paleoantropologi invece le considerano adattamenti regionali di un’unica grande specie “politica” diffusa su tre continenti, nella quale, si può ora presumere, andrebbe ad inserirsi il pigmeo indonesiano. Semplificando il discorso, l’Homo pleistocenico ha dato vita a morfologie estreme rispetto a quelle dell’uomo anatomicamente moderno: il neanderthaliano era più robusto e muscoloso degli Inuit attuali, l’Homo ergaster (Kenya, 1,7 milioni di anni) era più longilineo dei più alti Turkana odierni, e i “nani” di Flores erano più minuscoli del più basso pigmeo che si conosca.
Non basta, vi è un ulteriore problema che rende decisiva tutta la questione, ed è proprio la posizione geografica dell’Isola di Flores nell’arcipelago indonesiano.

Figura 2. L’isola di Flores, a circa 600 km a ovest di Giava, è separata da Bali da due bracci di mare profondo


Questa si trova isolata da ogni altra terra circostante da uno stretto di acqua profonda, denominato limite di Wallace, che separa la maggior parte della fauna asiatica da quella australiana. Chi colonizzò Flores nel passato doveva essere in grado di superare tale limite via mare, partendo da ovest (isola di Bali) superando due tratti di mare di una ventina di chilometri ciascuno, oppure da nord (Sulawesi) affrontando un viaggio ancora più lungo.
Incredibile a dirsi, data la frammentarietà dei fossili che documentano le tappe evolutive dell’uomo, proprio questo sito era già diventato protagonista di una scoperta inaspettata, che si tinse dei toni gialli della cosiddetta “archeologia proibita”. Nel 1968, vennero rinvenuti sull’Isola degli utensili di pietra nello stesso strato degli stegodonti, di cui si conosceva l’età approssimativa di 750.000 anni. Ma, dato che l’autore della scoperta, il missionario olandese Theodor Verhoeven, non era un professionista del campo, la scoperta venne ampiamente trascurata. Una presenza di ominidi produttori di utensili era da considerarsi del tutto fuori luogo in un’isola sperduta oltre la barriera biologica di Wallace.

Figura 3. Utensili litici sull’isola di Flores datati a circa 800.000 anni


La datazione era assolutamente improponibile per una presenza umana (che, si sa, “deve” essere arrivata in Australasia non prima di 50.000 anni fa). Ed altrettanto problematica sarebbe stata l’attribuzione ad H. erectus, il quale, trenta anni fa, era ancora considerato un anello di congiunzione proto-scimmiesco, in grado sì di produrre utensili e, forse, comportamenti sociali rudimentali, ma ritenuto incapace di un’organizzazione e di una tecnologia sufficiente per affrontare il mare aperto, pur partendo dalla vicina Isola di Giava , in cui si trovava stanziato all’epoca.
Si è dovuto arrivare agli anni ’90 perché due misurazioni indipendenti, una paleomagnetica e una sulle ceneri vulcaniche, confermassero l’età dei reperti attorno a 840.000 anni. La situazione è così divenuta imbarazzante, con la comunità scientifica divisa tra gli estimatori delle inattese capacità di navigazione di H. erectus e chi invece tenta di minimizzare la scoperta.
In teoria si può ipotizzare l’emersione di ponti di terraferma dovuti dall’attività tettonica nell’area, in qualche momento del pleistocene, anche se fino ad oggi si suppone che in nessuna epoca geologica “recente” vi fosse un collegamento ininterrotto indo-australe: persino durante la massima escursione marina dell’ultima era glaciale quel tratto dell’arcipelago era coperto dal mare. Inoltre la fauna preistorica di Flores è composta da specie animali capaci di nuotare o, al limite, di andare alla deriva aggrappati a vegetazione galleggiante.
E’ stato anche suggerito che gli oggetti litici in questione non fossero effettivamente dei manufatti, insinuazione contro la quale Mike Morwood dell’Università australiana del New England è stato assolutamente categorico. Purtroppo quello di relegare potenziali utensili nella categoria dei “prodotti naturali”, quando questi vengano rinvenuti dove non dovrebbero stare, è un vizio secolare della paleoantropologia: con questa spiegazione di comodo, nella seconda metà dell’800, è passata sotto silenzio una solida evidenza della presenza umana nel pliocene e nel miocene europeo (vedasi Michael Cremo, Archeologia proibita, 1997).
Secondo i dati a disposizione sia i pigmei umani che la fauna pleistocenica caratteristica di Flores (oltre al suddetto stegodonte nano, la testuggine gigante e il varano gigante di Komodo) si sono estinti in seguito ad un’imponente eruzione vulcanica attorno a 12.000 anni fa. Anche se le evidenze archeologiche note di uomini moderni sulla nostra isola partono solo dal millennio successivo, è ora accertato che nell’area indo-australe vi sia stata una convivenza di almeno 20.000 anni tra uomini anatomicamente moderni e creature “nane”. Per cui l’ipotesi di relazioni culturali e di possibili incroci tra le diverse razze ha fatto subito capolino tra i ricercatori.
Il tema delle ibridazioni tra il sapiens e i suoi predecessori pleistocenici è tuttora ampiamente dibattuta e, nonostante i dati genetici tendano a escludere ibridi tra le razze arcaiche e quelle moderne, vi è una vasta letteratura di comparazioni ossee e craniometriche che documentano la persistenza di caratteri ancestrali nelle popolazioni regionali dei diversi continenti (in proposito si rimanda a “L’aborigeno australiano: un homo sapiens arcaico?” del sottoscritto).
In quest’ottica, l’H. floresienses diventa allora un ritrovamento coerente, trovandosi proprio nel baricentro di un’area in cui sono insediati (o almeno sopravvivevano fino al secolo scorso) diverse popolazioni pigmee di colore, sparse su diverse isole dell’Oceano Indiano. Nel Golfo del Bengala, i “negritos” delle Isole Andaman presentano caratteri pigmoidi. Le zone montuose della penisola thailandese, malese e dell’Indonesia erano popolate, fino agli anni ’20, da etnie pigmee, oggi quasi completamente scomparse (i Semang della Malaysia, gli Yali dell’Indonesia).
Inoltre, fatto dimenticato dall’antropologia, anche in Australia, nel Queensland settentrionale, è stata ampiamente documentata la presenza di un’etnia pigmea. Le caratteristiche dei “Barrineans”, studiate da Norman B. Tindale e Joseph B. Birdsell negli anni ’30, erano note agli antropologi e al vasto pubblico fino agli anni ’60. Si trattava di etnia di statura compresa tra 1,40 e 1,50 metri, con volti infantili, somiglianti agli estinti nativi della Tasmania (la popolazione più scura dell’Australia). Pare che la memoria di questa popolazione, così come un’interessante teoria alternativa sull’origine delle popolazioni aborigene australiane, sia scomparsa dalla letteratura a partire dagli anni ’60, per motivi sostanzialmente politici. La teoria di Birdsell del “triplice ibrido” (trihybrid theory) suggeriva che i variegati tratti somatici delle numerose etnie aborigene (statura e corporatura, colore della pelle, tipo e colore del pelame) fossero il risultato di un rimescolamento di lungo periodo tra popolazione di origine, rispettivamente, pigmea, Vedda (chiari di pelle, con pelo folto caucasico, e tozzi) e negroide longilinea. Questa tesi, per lo meno suggestiva, è stata completamente censurata in favore dell’origine singola attraverso la migrazione africana recente. Il modello standard risultava infatti più funzionale alle rivendicazioni (sacrosante) del movimento per i diritti politici degli Aborigeni degli anni ’60, per il quale era opportuno unificare la lotta delle diverse etnie sotto un’unica bandiera, identificare cioè il diritto ancestrale alla terra sulla base della comune origine genetica {2}.
Eppure la scarsa popolarità dei pigmei isolani pare immotivata alla luce dell’origine africana recente. Non sarebbe forse un’ottima prova di una migrazione primitiva che partendo dal cuore tropicale-equatoriale dell’Africa attraversò migliaia di chilometri toccando le coste e le isole dell’Indonesia fino alla Tasmania?
In realtà le cose non sono così semplici. Secondo le teorie ortodosse il primo uomo moderno (comparso tra 150.000 e 100.000 anni fa) dovrebbe essere un “normotipo” africano capace di adattarsi molto rapidamente ai diversi climi del mondo. Tanto rapidamente che la sua presenza è oggi attestata in Siberia, oltre il circolo polare artico, già 40.000 anni fa {3}.  La statura pigmea dovrebbe essere quindi un adattamento evolutivo secondario, abbastanza eccezionale, tipico di ambienti insulari e forestali (perché quindi la pelle scura?). Trovare questi uomini in siti isolati e così distanti fra di loro difficilmente può essere imputato ad una improbabile riduzione corporea dei colonizzatori, intervenuta ripetutamente ad ogni successiva migrazione. Non è invece più logico ipotizzare un’antica stirpe umana originariamente distribuita su un ampio bacino tra Africa e Australasia? Non sarà casuale che le aree di sopravvivenza dei pigmei siano zone marginali, distribuite a macchia di leopardo (montuose, forestali o completamente isolate come nel caso di Flores), come se queste etnie avessero già subito in passato una diaspora e una decimazione, probabilmente ad opera delle popolazioni che hanno colonizzato estensivamente il Pacifico?
Una prospettiva di questo tipo però implica la permanenza di tali caratteri fisici per molte generazioni, al di là di un estemporaneo “adattamento ambientale”, tanto da avvicinarla pericolosamente ad un concetto tabù della moderna antropologia, quello di “razza”. E’ risaputo che l’antropologia molecolare ha minimizzato l’importanza delle differenze fisiche tra i tipi umani, per il fatto che il genoma sostanzialmente non le registra. Ma la fondamentale unità genetica della specie umana non è assolutamente incompatibile con il concetto di varietà umane: i “tipi”, in ogni specie, una volta manifestati, possono rimanere stabili per lunghi periodi, a meno di mescolamenti con altre razze interfeconde.
Proprio in relazione al pregiudizio razziale, possiamo trovare un altro dei motivi che hanno “cancellato” i pigmei dell’Oceania dalla memoria storica: si tratta di qualcosa che ha a che fare con la loro faccia. A guardare alcune foto d’epoca si notano frequentemente arcate sopraorbitali piuttosto sporgenti, indice di “primitività” quando si tratta di fossili, considerate una semplice ipertrofia ossea, quando invece si ha a che fare con uomini viventi. Purtroppo è noto il modo in cui questi caratteri sono stati fraintesi in senso razzista nel secolo scorso.



Una vera rivoluzione culturale è in corso, nel giro di pochi anni sta cambiando radicalmente la stima dell’intelligenza del nostro presunto antenato diretto H. erectus, perfettamente bipede alla soglia dei due milioni di anni fa. Fino a ieri si sono sempre sottostimate le capacità tecniche e intellettuali del ramo asiatico di questa specie, rispetto a quello africano, a causa della sua robustezza e per la povertà di industria litica “evoluta” che ha lasciato. Adesso improvvisamente si presenta l’immagine di esseri simili a degli hobbit che costruiscono imbarcazioni per colonizzare le isole dell’oceano.
L’Indonesia rappresenta il nodo cruciale per il modello di popolamento dell’Oceania e qui si trovano una serie di ritrovamenti contraddittori che faticano sempre di più ad adattarsi alle idee classiche sulla migrazione degli esseri umani e ai preconcetti secondo cui il “gracile” e “moderno” deriva dal “robusto” e “primitivo”. I fossili conosciuti documentano la presenza di H. erectus in Asia a soli 300.000 anni dalla sua prima comparsa africana, la navigazione indonesiana di 800.000 anni fa, eppure non vi sono sue tracce nel continente australiano. Qui però stranamente sono stati trovati degli esseri umani recenti (10.000 anni) molto più robusti del normale {4}. E’ plausibile pensare che molti buchi nella serie fossile umana non siano dovuti solo all’aleatorietà della fossilizzazione, ma anche ad un processo di selezione semi-intenzionale dei reperti che, a quanto pare è ancora in corso.
Man mano che ci si rende conto che l’uomo del pleistocene si comportava in maniera troppo umana per essere un gradino inferiore sulla scala evolutiva, potrebbe avvalorarsi la teoria della specie unica, secondo la quale i fossili degli ultimi 2 milioni di anni non sarebbero linee evolutive ramificate nella direzione di Homo sapiens, ma bensì adattamenti regionali di un’unica grande specie politipica, l’Uomo, nella quale includere i poli opposti, dal neandertaliano dei climi freddi al nuovo pigmeo dei tropici. Probabilmente i parametri di classificazione osteologici finora considerati validi per distinguere specie diverse dovrebbero essere riesaminati alla luce dell’estrema variabilità di questi antenati. Come si comporterebbe, si chiede la paleoantropologa Susan Anton, «un ricercatore che, tra un milione di anni, guardasse i pochi resti fossili di un pigmeo africano e di un giocatore dell’NBA»? {5}.
Per concludere, va notato che questo episodio aggiunge un altro elemento ai già molti indizi, di carattere geologico e zoologico, che indicano nel periodo attorno al 10.000 a.C. la fine improvvisa di un equilibrio ecologico di lungo termine e probabilmente la fine della convivenza dell’uomo moderno con i membri più peculiari, forse specializzati, della famiglia. Alla luce di ciò si può suggerire che la denominazione convenzionale di “uomo anatomicamente moderno”, comprenda in realtà le razze fisicamente meno specializzate, che sono arrivate fino ad oggi.
Scampati alla grande crisi climatica della fine del pleistocene, sembra che i pigmei rimasti non sopravviveranno all’epoca moderna e alle politiche dei governi entro i cui confini sono capitati. Con la distruzione progressiva del loro ambiente nativo, l’omogeneizzazione culturale o il mescolamento con le popolazioni confinanti, in Africa come in Indonesia, questa antica Razza è destinata a lasciare la sua eredità solo sui libri di antropologia.
 
Note
1. C. Swisher III et al., Latest Homo erectus of Java: Potential Contemporaneity with Homo sapiens in Southeast Asia, Science, 274 (1996). 
2. In Nord America, argomentazioni simili hanno portato a sottostimare la diversità etnologica delle popolazioni native: purtroppo per una tragica ironia della storia, le rivendicazioni dei diritti dei Pellerossa americani hanno causato ostacoli allo studio del popolamento delle Americhe (come nel caso della diatriba sull’uomo di Kennewick). 
3. P.Pavolov, J.I.Svendsen, S.Indrelid, Human presence in the European Arctic nearly 40,000 years ago, Nature, 2001. 
4. Thorne, A. G., Macumber, P. G., Discoveries of Late Pleistocene man at Kow Swamp. Nature 238, 1972. 
5. Susan Anton, National Geographic News, 25/3/2002.
Fonti
Hillary Mayell, “Hobbit” Discovered: Tiny Human Ancestor Found in Asia, National Geographic News 27/10/2004.
Ancient mariners – Early humans were much smarter than we suspected, New Scientist, 14/3/1998
Ann Gibbons, Ancient Island Tools Suggest Homo erectus Was a Seafarer, Science 279,1998.
Keith Windschuttle, Tim Gillin, The extinction of the Australian pygmies, Quadrant, June 2002.

mercoledì 27 luglio 2016

La religione dei Catari secondo Bernardo Gui, inquisitore in Tolosa

 
Riprendiamo quest’interessante disamina dal Manuale dell’Inquisitore di Bernardo Gui [RS]


Sarebbe lungo descrivere in dettaglio il modo in cui questi eretici manichei pregano ed insegnano ai loro seguaci, ma questo deve essere brevemente essere preso qui in considerazione.
In primo luogo, essi usualmente dicono di essere buoni cristiani, che non giurano mentono o parlano male degli altri; che essi non uccidono alcun uomo o animale e nemmeno alcuna cosa che abbia il respiro della vita e che essi hanno la fede del Signor Gesù Cristo e i suoi Vangeli come gli Apostoli hanno detto.
Essi affermano che essi occupano il posto degli Apostoli e che, in base a quanto detto, che la Chiesa Romana e specificatamente i prelati, i chierici e i monaci, ed in particolare gli inquisitori all’eresia, li perseguitano e li chiamano eretici sebbene essi siano buoni uomini e buoni Cristiani e che essi sono perseguitati come Cristo e i suoi apostoli dai Farisei.
Essi poi attaccano e vituperano, a loro volta, tutti i Sacramenti della Chiesa e specialmente il sacramento dell’Eucarestia, dicendo che esso non può contenere il corpo del Signore perché anche se fosse stato grande come la più grande montagna i Cristiani lo avrebbero consumato tutto.
Essi affermano che l’ostia viene dalle spighe, che passa per le code dei cavalli, perché la farina viene ripulita con un setaccio (di crine di cavallo) e inoltre passa attraverso il corpo per giungere ad una vile fine, questo, essi dicono, non potrebbe accadere se il Signore fosse in essa.
Del battesimo essi affermano che l’acqua è materiale e corruttibile e e quindi creata delle potenze del male e non può santificare l’anima, ma che i preti vendono l’acqua per avarizia, esattamente come vendono la terra per la sepoltura, e l’olio agli ammalati quando li ungono e come vendono le confessioni dei peccati fatte ai preti.
Essi affermano anche che la confessione fatta ai preti della Chiesa Romana è inutile, e che poiché i preti possono essere peccatori, essi non possono legare o sciogliere, e, essendo essi stessi impuri, non possono purificare gli altri.
Essi affermano inoltre che la croce di Cristo non deve essere adorata o venerata, percé, come essi esortano, nessuno dovrebbe adorare o venerare il patibolo al quale e stato appeso il padre, o parenti, o amici.

Essi esortano anche che coloro che adorano la croce dovrebbero anche adorare le spine e la lancia, perché il corpo di Cristo era sulla croce durante la passione, così la corona di spine sulla sua testa e la lancia del soldato nel suo fianco.
Essi proclamano molte altre cose scandalose riguardo ai sacramenti.
Inoltre essi leggono i Vangeli e le Epistole in lingua volgare, che applicano e espandono a loro favore e contro l’insegnamento della Chiesa di Roma in maniera che richiederebbe troppo tempo per descriverla in dettaglio; ma tutto quanto è collegato con questo tema può essere letto pienamente nei libri che essi hanno scritto e infettato, e può essere appreso dalla confessioni di quei loro seguaci che sono stati convertiti.
 
Da  Inquisitor’s Manual of Bernard Gui [d.1331], tradotto in inglese in  J. H. Robinson, Readings in European History, (Boston: Ginn, 1905), pp. 381-383
 

lunedì 25 luglio 2016

VIDEO: 150 anni dalla vittoria Austro-Veneta a Lissa (20 luglio 1866)

 
 
 
 
 

ANGELO BERTOLO: “IL BURQA E LA MINIGONNA”.

 
E uscito il nuovo libro del prof. Angelo Bertolo: Il burqa e la minigonna. Sottotitolo: I terroristi

suicidi - fertilità e progresso, Campanotto editore, Udine, 2016. Un saggio di storia e di geopolitica

che vale la pena di leggere, perché ci fa capire che la crisi dell’Europa non è solo “materiale”

(politica, economica e scientifica) ma anche “spirituale” (morale e religiosa). Infatti, il principale

nemico non è l’Islam radicale, ma la nostra decadenza che ci rende deboli e vulnerabili.


L’analisi di Bertolo si concentra sulla dinamica demografica delle popolazioni e mette in
relazione un alto tasso di natalità con il progresso: economico, politico e culturale. Secondo l’autore

il basso tasso di fertilità dell’Europa annuncia la decadenza e la fine della stessa: dalla perdita di


conoscenze scientifiche e tecnologiche, al peggioramento delle condizioni economiche e di vita.
Non fare figli significa non avere fiducia nel proprio futuro d’individuo e di nazione.


La decadenza per Bertolo non si manifesta solo attraverso il basso di natalità, ma anche

attraverso la caduta del senso morale e religioso. In Europa fino agli anni 50 del secolo scorso, il

senso religioso e morale erano molto forti, prevalevano ancora i valori tradizionali (Dio, patria e
famiglia); l’emergere di un’ideologia individualista - edonista, libertaria in campo morale e liberista


in quello economico, misero in crisi questi valori e aprirono la strada alla crisi spirituale e materiale
che segna il declino dell’Europa. Scrive l’autore riferendosi al nostro nord est: «Nell’ultimo secolo



l’Italia del nord est, era la più arretrata delle regioni dell’Italia settentrionale, una delle più povere
d’Europa. Oggi è una delle più ricche e prospere d’Europa. Finché dura. Chi ha portato questo

progresso materiale? …. Coloro che hanno sofferto prima e durante le due guerre mondiali,


nell’emigrazione in Germania e nelle Americhe…. Quando le famiglie erano sane e numerose.

Quando gli uomini credevano in se stessi e nel Dio Padre Onnipotente».

Nell’opera di Bertolo è forte l’influenza di Giambattista Vico (1688 - 1744) con la teoria “dei

corsi e dei ricorsi storici”. Il filosofo napoletano riteneva che alcuni fatti storici si ripetessero nel


tempo; e ciò non avveniva per puro caso ma in base ad un preciso disegno della divina provvidenza.
La convinzione che la storia si ripeta, anche se in forme e modi diversi; spinge lautore a tracciare

una relazione fra la storia dell’Europa e la situazione attuale dei Paesi in via di sviluppo: il risveglio


del senso religioso e morale si associa a manifestazioni irrazionali e violente; ma è anche segno
dell’inizio di una fase di progresso e di vitalità. Il caso dell’Iran è indicativo. Komeini è stato

l’ideologo della rivoluzione islamica. Al suo arrivo in Iran, il burqa diventa sempre più popolare e


oggi l’Iran ha un peso politico ed economico superiore a quello che aveva ai tempi dello scià.
In linea di massima condivido lanalisi di Bertolo, ma con due precisazioni. Primo la crescita


economica e demografica che Bertolo indica come segnale di progresso, non può essere infinita

trova un limite nella scarsità di risorse rinnovabili e non rinnovabili: terra, cibo, acqua, risorse
energetiche, ecc. Secondo, l’analisi di Bertolo si concentra sulle dinamiche interne e sulla tradizione


storica di un determinato Paese; ma tralascia la situazione geopolitica nella quale lo stesso è
inserito. Nel caso dell’Iran, il suo peso politico nella scena internazionale, non è solo condizionato

dalle dinamiche interne; ma anche dall’attuale situazione geopolitica, che fa dell’Iran un attore


decisivo nella lotta al Califfato e nella soluzione della crisi siriana.

Il libro di Bertolo suscita critiche e perplessità, ma ha il merito farci riflettere su chi siamo e
quali valori vogliamo difendere; ora che all’orizzonte sventolano le bandiere dell’ISIS e milioni di

immigrati mussulmani invadono l’Europa. Sul futuro del Friuli e dell’Italia intera, triste e

disincantata è la previsione dell’autore, il declino economico si sommerà a quello sociale: «Fra



venti o trenta anni non ci saranno più friulani, non ci sarà più popolazione giovane che
contribuisca alla vita….. all’economia, al futuro o al presente. Forse ci saranno uomini e donne


provenienti da altre parti del mondo, civiltà differenti, con mentalità differente, con ideali
differenti. Succederà come a Costantinopoli all’Asia minore che era greca e cristiana ed è
diventata turca e mussulmana. C’entra la conquista militare turca ma c’entra anche il basso tasso
di natalità di tutta l’Asia Minore dei tempi precedenti, la conquista turca». La storia è maestra di


vita ma non ha allievi, perché spesso ripetiamo gli errori passati.

domenica 24 luglio 2016

L'eccidio di Somma Vesuviana

Fonte: Regno di Napoli e delle Due Sicilie
 

Il mito della battaglia di Bezzecca

 
 
 
Le prove storiche sono chiare. La battaglia di Bezzecca (1866) con il famoso "Obbedisco" di Garibaldi non è altro che una versione mitica di una terribile sconfitta delle camice rosse nel loro tentativo di annessione del Tirolo Meridionale (Trento e Rovereto) al Regno d'Italia.
Una battaglia disastrosa per i garibaldini, con 121 morti, 415 feriti e 1080 prigionieri. Ma anche un vero "spavento" per Giuseppe Garibaldi che quasi venne catturato dai soldati austriaci e dai volontari (Schützen) che hanno però tolto la portantina che trasportava Garibaldi (e il trofeo di guerra tirolese si trova ancora al Museo Bergisel ad Innsbruck).
Tuttavia, la data del mitico "Obbedisco" (creazione del Regno d'Italia per "nascondere" la tragica sconfitta) è controversa e targhe piene di mistificazione nazionalista lo dimostrano, così come dimostrano quanto debole sia il mito.

Fonte: Trento è Tirolo - Trient ist Tirol

sabato 23 luglio 2016

LA PRESA DI COSTANTINOPOLI, COME LA RACCONTA MAOMETTO II. STUPRI, SCHIAVISMO, NEL DNA DELLO STATO TURCO

 
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“Quando per il favore divino la fortezza fu espugnata, il nemico perdette ogni forza e fu incapace di reagire. Il popolo fedele non incontrò più ostacoli e pose mano al saccheggio in piena sicurezza. Si potrebbe dire che la vista della possibilità di poter fare bottino di ragazzi e belle donne devastasse i loro cuori e i loro animi. Trassero fuori da tutti i palazzi, che uguagliavano il palazzo di Salomone e si avvicinavano alla sfera del cielo, trassero nelle strade strappandole dai letti d’oro, dalle tende tempestate di pietre preziose, le beltà greche, franche, russe, ungheresi, cinesi, khotanesi, cioè in breve le belle dai morbidi capelli, uguali alle chiome degli idoli, appartenenti alle razze più diverse, e i giovinetti che suscitavano turbamento, incontri paradisiaci.”
Questa è la descrizione della presa di Costantinopoli da parte di Maometto II. Il brano è tratto da “Storia del signore della conquista” di Tarsun Beg Kemal, vale a dire che è il racconto ufficiale, quello su cui i bambini turchi studiano la storia. (vale a dire la storia ufficiale dello Stato ai turchi comincia con abbiamo stuprato le donne e i ragazzini).
 
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Sicuramente anche i Crociati hanno commesso atti del genere, però hanno dovuto farlo di nascosto: era vietato. E punito. C’era la castrazione e il taglio del naso per un crociato che si facesse pescare con le mani su una donna araba. Noi giudichiamo sempre i Crociati con standard attuali: a quei tempi la ferocia era la norma, al punto tale che la castrazione e il taglio del naso viene minacciato ai loro stessi soldati. I crociati lo hanno fatto, ma poi non lo hanno scritto e sicuramente dove è vietato viene fatto parecchio di meno.
 
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Da la realtà dell’orco
La presa di Costantinopoli, invece comincia ufficialmente con: abbiamo messo le mani sulle donne e sui bambini, che avevano il merito di essere belli. Gli altri sono stati passati a filo di spada mentre i difensori agonizzavano sugli spalti su cui i crocefissi si alternavano agli impalati.