di Isacco Tacconi - Fonte: http://www.radiospada.org/
Nell’addentrarci fra le «sub-creature» e le antichità della Terra di Mezzo non possiamo non imbatterci in un colossale paradosso: gli elfi. Devo ammettere che la mia idea originaria era di trattare in un unico saggio Legolas e Gimli insieme, ma mi sono dovuto subito ricredere in quanto sia l’uno che l’altro, più che essere dei personaggi “gravidi di significati”, mi sono parsi dei pretesti e delle occasioni per dire qualcosa sulle loro razze.
Partiamo dal dato assodato che queste creature non sono un’invenzione di John Ronald Reuel Tolkien o, quanto meno, non nominalmente giacché appartengono in generale al patrimonio mitologico e religioso nordico e, in modo particolare, alle culture germanica e celtica. Creature leggendarie con il nome di «elfi» popolavano abbondantemente le tradizioni e i racconti trasmessi oralmente nell’Inghilterra pre-cristiana, anche se in inglese i termini «elf» e «gnome» molto spesso indicano le stesse creature e, di fatto, sono quasi sinonimi. Eppure, se approfondiamo la mitologia norreno-scandinava scopriremo che essa deriva a sua volta dalla più antica e, quasi post-diluviana, mitologia indoeuropea comune a molti popoli antichi del bacino mediterraneo, dalla penisola iberica fino al mar baltico. Gli elfi perciò sono creature presenti, anche se con nomi e forme diversi, in tutte le culture e civiltà del ceppo indoeuropeo. Molto spesso considerati degli spiriti buoni assimilabili alle ninfe o agli angeli, guardiani dei boschi, depositari di un sapere soprannaturale sconosciuto agli uomini. Diversamente gli gnomi, nelle tradizioni leggendarie di un tempo, erano più spesso rappresentati come piccoli uomini barbuti abitanti nelle regioni sotterranee, considerati lavoratori di miniere e custodi di tesori. In questo alcune tradizioni sovrappongono indistintamente nani, elfi e gnomi. In effetti, la tradizione, per così dire, “elfica” dei popoli nord-europei si è trasmessa e arricchita, è d’uopo dirlo, grazie al cristianesimo e principalmente attraverso l’opera di recupero e conservazione dei monaci. Basti citare il celebre poema epico del nord conosciuto come “Edda”, frutto dell’opera filologica e poetica dello scrittore islandese cristiano Snorri Sturluson (1178-1241). Scritto in lingua islandese medievale che formava un unico idioma con il norvegese antico, l’Edda costituì per Tolkien, insieme ad altri manoscritti delle antiche civiltà nordiche, una copiosa fonte d’ispirazione.
Tuttavia, anche se il concetto di «elfo» è mutuato dalle tradizioni mitologiche norrene, certamente gli elfi («eldar») di Tolkien costituiscono delle creature del tutto originali con le quali si è aperto un modo del tutto nuovo di concepirli e rappresentarli.
Ma prima di entrare nel vivo della presente trattazione vorrei, ancora una volta, palesare il mio intento. A scanso di equivoci vorrei precisare che questi brevi saggi tolkieniani non hanno la benché minima pretesa di porsi come autorevoli e infallibili interpretazioni dell’opera di J.R.R. Tolkien né, tantomeno, di intraprendere un’opera rigorosa di studio e comparazione dei suoi testi di tipo “scientifico”. Personalmente trovo le analisi manualistiche di testi spirituali (perché le fiabe sono racconti eminentemente spirituali) profondamente noiose e astruse, nonché affette da una certa vena di razionalismo psicologista. Un po’ come avviene nella pseudo-esegesi biblica contemporanea in cui i testi ispirati della Sacra Scrittura vengono affrontati e letti con le stesse intenzioni con cui un grafologo si accosterebbe a una romantica lettera d’amore inviatagli dalla propria amata. Questo è semplicemente disumano, perché svuota la realtà della sua essenza profondamente spirituale cioè metafisica, riducendo ogni conoscenza a mero fenomeno empirico da possedere, manipolare e archiviare. Assumere un atteggiamento del genere nei confronti dei racconti fiabeschi o delle leggende (come d’altra parte della Sacra Scrittura) è, come dicevo, disumano perché ignora ciò che di eterno ed immutabile c’è in essi, relativizzandone le singole peculiarità in un flusso storicistico ed evoluzionistico contingente e sempre mutevole. Una tale visione è obiettivamente “esanime” cioè senz’anima, è materiale o meglio materialistica ed impedisce di scorgere la verità, alla quale non si può arrivare con l’enciclopedia e il microscopio ma solo con l’umiltà.
Pertanto la mia personale prospettiva è quella di considerare i manoscritti di Tolkien un po’ come la mappa di Thorin nella quale ci sono alcune cose che si leggono ad occhio nudo (le rune visibili), ed alcune altre che si possono scorgere solo «in trasparenza» cioè alla luce della luna, come le rune lunari. Queste lettere lunari “non le si può vedere – disse Elrond – non quando le si guarda direttamente. Si può vederle soltanto quando la luna brilla dietro di esse”[1]. Ricercare ciò che a prima vista non è visibile, infatti, non significa cercare ciò che non esiste inseguendo le proprie vane illusioni, bensì contemplare l’intima consistenza della realtà sotto la luce discreta e delicata della grazia, per scoprire la causa prima della bellezza, della bontà e della verità che essa manifesta velatamente come il motivo di un canto antico che, per qualche recondita ragione, risuona nel nostro cuore come se, in fondo, l’avessimo sempre conosciuto.
Inoltre, non vorrei ripetere nulla di quanto autori ben più autorevoli del sottoscritto hanno affermato su Tolkien e le sue opere ma, ad imitazione dell’Apostolo San Giovanni, vorrei dire, se possibile, qualcosa che non è stato ancora detto. Personalmente amo la Passione di Cristo secondo San Giovanni più di tutti gli altri racconti evangelici, poiché il pathos che attraversa ogni sua singola pagina è la palpitante espressione di quell’agàpe che il giovane discepolo visse così intensamente tanto da meritare di essere amato dal Cristo più degli altri apostoli. Ma il tema della relazione tra conoscenza e amore lo abbiamo già affrontato precedentemente perciò non ci tornerò sopra in questa sede.
Insomma, per dirlo con un’altra metafora, per scorgere quella che definirei la «metafisica tolkieniana» bisogna inforcare le lenti soprannaturali, e intravedere così ciò che dietro la natura delle cose si cela animandone le fibre più intime e vitali. Ogni personaggio tolkieniano è portatore di valori e simboli diversi, ma nessuno di essi è riducibile ad una banale equivalenza del tipo «Gandalf corrisponde a Gesù», o «Saruman è Caifa», o «Galadriel rappresenta la Vergine Maria», no, non è così, e spero di non aver ingannato i lettori dando loro questa falsa e presuntuosa impressione. D’altra parte, lo stesso Tolkien ha più volte tenuto a prendere le distanze da qualsiasi forma di allegoria razionalista. Al contrario un uomo con una visione così penetrante della realtà come il nostro Professore di Oxford disse: «c’è una morale, suppongo, in ogni storia che valga la pena di essere raccontata» e in ogni storia vera «gli attori sono individui: ognuno di loro, naturalmente, contiene l’universale, altrimenti non vivrebbero affatto, ma non si rappresentano mai come universali»[2]. Vale a dire che in un hobbit, come in ognuno di noi, “c’è molto di più di quanto non colpisca la vista”.
Dunque. Da dove cominciare? Ah sì! …gli elfi!
Questi esseri fatati, nell’accezione antico-inglese di fatato cioè «faërie», non sono solo espressione della fantasia di popoli superstiziosi o, come ci ha abituato una visione evoluzionistica della storia del mondo, creazioni di una primitiva ed ingenua “età infantile” dell’umanità. No, gli elfi sono in qualche modo dentro di noi e intorno a noi giacché sono una rappresentazione plastica, ossia uno dei tentativi di dare un volto e un’identità ad uno degli aneliti più profondi e intimi dell’uomo: il desiderio dell’immortalità. Ma, a questo proposito, vorrei lasciare parlare direttamente il nostro Anfitrione di Oxford: “Elfi e uomini sono solamente due diversi aspetti dell’umanità, e rappresentano il problema della morte così come viene vista da persone finite ma consapevoli e di buona volontà. In questo mondo mitologico elfi e uomini sono affini nelle loro forme incarnate, ma nel rapporto dei loro spiriti con il mondo rappresentano esperimenti diversi, ognuno dei quali ha il suo naturale sviluppo e le sue debolezze. Gli elfi rappresentano l’aspetto artistico, estetico e puramente scientifico della natura umana ad un livello più elevato di quanto non si possa in realtà trovare negli uomini. Cioè: hanno un amore infinito nei confronti del mondo fisico, e il desiderio di osservarlo e di capirlo per la propria e l’altrui salvezza — in quanto realtà derivata da Dio così come loro stessi derivano da Lui — e non come materiale che può essere utilizzato per acquistare potere. Essi possiedono anche elevate capacità artistiche o «subcreative». Sono inoltre immortali. Non «per l’eternità», ma all’interno del mondo creato, finché questo dura. Se uccisi, perché la loro forma incarnata viene ferita o distrutta, non sfuggono al tempo, ma rimangono nel mondo, benché disincarnati, oppure rinascono. Tutto questo finisce per diventare un grave fardello man mano che le epoche si allungano, specialmente in un mondo in cui esistono malizia e distruzione”[3].
Ho già accennato qua e là nei precedenti saggi che il tema centrale di tutto il Signore degli Anelli, e direi di tutto il «corpus tolkienianum», è proprio la Morte. In questo sfondo tutt’altro che melanconicamente romanticista ma anzi profondamente realista, Tolkien crea e inserisce i suoi elfi. In effetti, a ben pensarci, la realtà che più ci fa presente il valore e la consistenza della vita è proprio la morte. Costoro sono i primogeniti di Ilùvatar l’unico Dio che fa da sfondo alla sua cosmogonia, e al quale fa dire: “i Quendi [gli elfi n.d.r.] saranno le più leggiadre di tutte le creature terrene, e possederanno e concepiranno e produrranno più bellezza di tutti i miei Figli; e godranno della maggiore beatitudine di questo mondo. Agli Atani [gli uomini n.d.r.] però concedo un dono nuovo“. Ma al di là della loro oggettiva bellezza, della loro superiorità nell’arte e in ogni forma di scienza la loro condizione esistenziale non è per nulla invidiabile. Essi sono, come diceva, condannati ad una immortalità terrena cioè ad essere legati per sempre alla terra che d’altra parte essi amano ma che, a lungo andare, non riescono più a sopportare. Perciò, paradossalmente, questi esseri non rappresentano una condizione “ideale” né una proiezione del desiderio frustrato dell’uomo di non morire mai e di restare per sempre giovane sulla terra. Al contrario, essi sono l’espressione di quell’anelito profondissimo acciocché questa vita prima o poi abbia fine e ci traghetti in uno stato diverso, superiore e più perfetto fatto di requie e stabilità. “Le storie umane sugli elfi sono senza dubbio piene di Evasione dall’Immortalità”. E prosegue: “poche lezioni vengono impartite in esse più chiaramente del fardello di questo tipo di immortalità, o piuttosto di una serie senza fine di vite, da cui il “fuggitivo” vorrebbe scappare. Perché la fiaba è particolarmente adatta a insegnare cose di questo genere, di molto tempo fa e anche di oggi”[4]. Il mostruoso mito del «forever young» destinato alla frustrazione, paradigmaticamente riassunto nel celebre “Ritratto di Dorian Gray”, ha sedotte e inebriate le anime di uomini, donne e ragazzini dal secondo dopo guerra in poi. Esso rappresenta proprio la sovversione di questo intimo desiderio dell’uomo di ricongiungersi al suo Creatore, scegliendo invece di radicarsi per sempre (così credono) su questa terra (di Mezzo). Potremmo dire che l’odierna «somatolatria», come la definì acutamente Romano Amerio, è la formulazione esistenziale e sociale dell’«aversio a Deo et conversio ad creaturas» cioè del peccato, consistente nel volgere le spalle all’eternità per attaccarsi spasmodicamente e in maniera disperata alla mutevolezza e caducità delle creature finite. D’altra parte la corrente gnostica che ricerca l’elisir di lunga vita o vuole risalire, per impadronirsene, all’albero della vita accompagna come un filo rosso, o un fiume sotterraneo, tutta la storia dell’umanità. Tolkien invece, da buon cattolico, aspirava “alle cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio”, pur non disprezzando quanto di buono, vero e bello c’è nella vita presente non aspirava ad altro che “alle cose di lassù, non a quelle della terra”[5].
Gli elfi, invece, sono in un certo senso un peso a se stessi, la loro esistenza è avvolta da una segreta invidia della condizione mortale degli uomini che possono invecchiare e spegnersi per transire, attraverso la morte, ad un altro stato dell’essere: l’eternità. E questo è un sentimento profondamente presente nella vita cristiana ossia la percezione che questa esistenza nella carne sia un peso, un fardello da portare ma che, alla fine, troverà la sua consolazione sulle sponde della Gerusalemme celeste. Scrive sant’Agostino: “quando Dio ti libera da te stesso, ti libera dal male”[6]. E se questa pericope del grande dottore della Chiesa rimanda forse più alla dimensione morale dell’uomo cioè al peccato e all’«uomo vecchio», certamente credo si possa applicare anche alla caducità della vita presente che al contempo è via e ostacolo alla visione di Dio. La vita mortale è cioè sia tempo propizio per meritare ed accrescere, attraverso la carità, il grado della gloria futura ma anche una barriera che ci trattiene dall’accedere alla visione beatifica. Questa vita mortale è in un certo senso caratterizzata da un desiderio bruciante e insopprimibile che potrà essere appagato soltanto dopo che essa si sarà consumata e, terminato il suo corso, approderà alla meta. È questa prospettiva d’eternità che manca agli elfi i quali pur sperimentando questo anelito non ne intravedono il compimento.
Si potrebbe pensare che questa visione «liberante» della morte abbia un so che di neoplatonico, al contrario essa è profondamente cristiana. Infatti, dopo la morte in Croce del Figlio di Dio, dopo il Sacrificio consumato dall’Amore sostanziale ed eterno, dopo che la Vita stessa si è lasciata vincere dalla morte sconfiggendola così in æternum la condanna che pesava sugli uomini si è tramutata in grazia, e l’amaro in dolcezza. Ciò che prima appariva (e lo era realmente) una maledizione che incuteva terrore agli “uomini mortali che la triste morte attende” è divenuta per loro la ianua coeli, porta d’accesso alla vera Vita. Solo la consolante rivelazione di Gesù Cristo agli uomini ha potuto far cantare a San Francesco d’Assisi “tanto è il bene che m’aspetto, c’ogni pena m’è diletto”. Solo una speranza che supera infinitamente le attese della umana natura poteva fargli invocare la morte come una devota «sorella» il cui arrivo è atteso non più con paura ma con incontenibile trepidazione.
A questo punto, senza rinnegare quanto detto finora, vorrei spingermi un poco oltre prendendo le distanze dalla predetta spiegazione simbolica della natura degli elfi per guardare a queste magnifiche creature anche da un’altra angolatura. «Elfi e uomini – spiega Tolkien – sono rappresentati come biologicamente affini nella storia, perché gli elfi nel mio piccolo mondo rappresentano alcuni aspetti degli uomini, e le loro doti e i loro desideri, incarnati. Hanno possibilità e poteri che anche noi desidereremmo avere, e la bellezza e il rischio e il dolore che si accompagnano al possesso di queste cose si leggono nella loro storia. […]»[7]. Non voglio sminuire il valore di questa spiegazione di Tolkien, eppure credo che essa non dia del tutto ragione dell’identità degli elfi e che possano anzi significare anche qualcosa di più di una semplice tendenza o aspirazione dell’animo umano. Infatti portando alle estreme conseguenze questa lettura del loro ruolo e della loro natura, gli elfi apparirebbero figure sostanzialmente effimere e negative poiché poco più che sventurati prigionieri di un mondo che “gli sta stretto” e da cui non possono veramente uscire se non una sorta di “lunga vacanza”: il solo pensiero dell’eterna reincarnazione mortale è terrificante. A questo proposito, per tentare di salvare gli elfi da un fato così insopportabile, mi riallaccio a quanto detto al principio di questa trattazione ossia alla presenza degli elfi in tutte le più antiche culture occidentali.
Spiriti buoni che popolano i boschi, custodi di fonti proibite, depositari di un arcano sapere, compassionevoli verso i deboli ma vendicatori terribili verso gli uomini empi. Questi elfi ricordano molto da vicino il ruolo di quelle creature spirituali, quei puri spiriti invisibili ma reali che portano il nome di “angeli”. Ma chi sono gli angeli? La Scrittura Sacra li descrive come “potenti esecutori dei suoi [di Dio] comandi, pronti alla voce della sua parola. Benedite il Signore, voi tutte, sue schiere, suoi ministri, che fate il suo volere”[8].
La dottrina mirabile di San Tommaso ha il merito di aver definito la distinzione metafisica fondamentale tra «essentia» e «actus essendi» ovvero tra ciò che conferisce ad un ente particolare la sua propria natura specifica (il quid), e ciò che la fa esistere, o meglio «sussistere», realmente (l’atto d’essere). Sappiamo che tra gli enti creati sono più perfetti quelli che più assomigliano a Dio, ossia quelli che posseggono una natura totalmente spirituale cioè incorporea. In questo senso gli elfi rappresentano il divino nel mondo, non solo per la loro natura essenzialmente superiore alla umana ma anche perché essi sono, al pari degli angeli, i primogeniti della creazione. Gli elfi a giudizio dello stesso J.R.R., lo abbiamo visto, sono nel mondo ma in qualche modo non gli appartengono completamente e rimandano costantemente ad un’altra dimensione dell’essere che nel suo immaginario si chiama Valinor cioè “le terre di là dal mare”.
È questo un appiglio ermeneutico che da tempo mi ha persuaso della somiglianza secundum quid tra gli elfi e gli angeli. È pur vero che nella cosmogonia tolkieniana i Valar e gli Ainur sembrerebbero, prima facie, ciò che più si avvicina agli angeli e agli arcangeli della Rivelazione biblico-cristiana. Tuttavia, stando alle parole di Tolkien, ritengo che essendo gli elfi l’incarnazione di quanto di più nobile c’è nell’uomo, cioè l’anima spirituale, ed essendo ad ogni modo degli esseri distinti dagli uomini, essi siano per certi aspetti, e solo da un certo punto di vista, simili agli angeli.
Inoltre la pietas della fede cattolica ci ha insegnato che ci sono angeli preposti alla custodia di luoghi, popoli e persone specifiche. Anzitutto ognuno di noi è assegnato alla custodia di un singolo angelo guardiano. Ed è qui che entra in scena il nostro Legolas. Per chi fosse interessato alle genealogie elfiche ci sono pile di libri consultabili ma, per quanto mi riguarda, tenterò di guardare a questo protagonista con un occhio da “inesperto”.
Gli elfi tolkieniani, dicevo, sono avvicinabili, a mio avviso, agli angeli, anche se il paragone non è assolutamente sovrapponibile giacché i puri spiriti della Rivelazione biblico-cristiana sono creature al contempo bellissime e luminose quanto terribili e a volte spaventose per la loro potenza. Purtroppo siamo stati a lungo abituati ad immaginare questi emissari celesti o come ridicoli bambini paffutelli o con sembianze eccessivamente femminee, morbidamente in carne. «Ricorda il tuo angelo custode. Non una signora grassoccia con ali di cigno! Ma – almeno così penso e credo – in quanto anime dotate di libero arbitrio siamo fatti in modo da affrontare (o essere in grado di affrontare) Dio.
Ma Dio è anche (si fa per dire) dietro di noi, sostenendoci, nutrendoci (dato che siamo creature sue). Quel luminoso punto di potere dove il cordone della vita, il cordone ombelicale dello spirito termina, là è il nostro angelo, che guarda in due direzioni: a Dio dietro di noi, senza che noi possiamo vederlo, e a noi. Ma naturalmente non stancarti di contemplare Dio, nel tuo libero arbitrio e nella tua forza (che entrambi ti arrivano “da dietro”, come dicevo). Se non riesci a raggiungere la pace interiore, e a pochi è dato raggiungerla (men che mai a me) nelle tribolazioni, non dimenticare che l’aspirazione a raggiungerla non è inutile, ma un atto concreto. Mi dispiace di doverti parlare così e in modo così incerto. Ma non posso fare niente di più per te, carissimo. […][9]. Trovo queste parole che un padre rivolge al proprio figlio ormai uomo, estremamente toccanti poiché mostrano la fragilità e l’umiltà di un uomo segnato, in tutta la vita, dalla sofferenza e dalla morte e che proprio per la sua provata esperienza si trova a dover confessare, con onestà e franchezza, la propria impotenza. Eppure sa additare l’aiuto, il soccorso e il sostegno, potremmo dire “il vincastro che dà sicurezza” quando nella vita di ogni uomo arriva il momento di attraversare la valle oscura di Mordor. Questo vincastro, questo compagno fedele è il nostro angelo custode.
Legolas appare ai nostri occhi una figura semidivina, eterea e nettamente superiore alle esigenze degli uomini, dei nani e degli hobbit. Nella lunga narrazione in cui si concretizza il Signore degli Anelli questo tiratore silvano proferisce poche e sagge parole. Certo la simpatica competizione tra lui e Gimli che li vede intenti in una gara nell’abbattimento dei nemici quasi fosse un tirassegno assai divertente, sembrerebbe poco consona ad una figura angelica. Eppure questi puri spiriti sono realmente dei guerrieri veloci e terribili contro i nemici di Dio e degli uomini, e che, potremmo dire, gareggiano gli uni gli altri per dare gloria a Dio. E non c’è gloria più grande che disperdere ed abbattere i nemici della Croce dando la vita per Cristo. Tra l’altro questa che potremmo definire “santa competizione” diviene, mano a mano che il rotolo del racconto si va svolgendo, il sostrato comune della singolare amicizia tra un elfo e un nano che durerà ben oltre la guerra dell’Anello: dimostrazione che la guerra, quando è santa, porta frutti di giustizia, di pace e di carità. Valga questo argomento, insieme alla passione che lo scrittore ha versato nel raccontare gli episodi dei combattimenti e degli scontri tra gli eserciti degli uomini dell’Ovest e le orde dell’Oscuro signore, una testimonianza dello spirito militante eminentemente cattolico di J.R.R. Tolkien. Bisogna persuadersi, infatti, che l’autore del Signore degli Anelli era tutt’altro che pacifista ma, onorando quello che è un autentico codice cavalleresco, riconosceva chiaramente la necessità di dover combattere per coloro che si amano e difendere il buono che c’è in questo mondo anche a costo della guerra, anche a costo di uccidere.
Gli angeli, perciò, combattono, e così i cristiani al fianco dei loro “elfi custodi”. Difatti l’angelo a cui il Signore ci ha affidati, è quel consigliere prudente e discreto che mentre ci avventuriamo nei sentieri nevosi del monte Caradhras ci avverte del pericolo che ci conduce verso lo strapiombo. Legolas guarda avanti e più lontano degli altri membri della Compagnia, è lui che possiede quella lungimiranza e quella sensibilità spirituale per distinguere il male che minaccia da lontano i suoi compagni di cammino. È l’angelo custode che ci avverte che, nella tormenta delle preoccupazioni della nostra vita, un’«empia voce», confusa e quasi indistinguibile, ci sta dirottando dal retto sentiero per smarrirci. Voci di guerra nell’aria, voci contrastanti e seducenti, clamori nel fitto del bosco, presenze oscure che incombono sulle nostre teste come orribili e immobili gargolle pronte a carpire le nostre anime e “nell’oscurità incatenarle”.
Il Male è all’opera in questo mondo da quando il peccato di quel primo “Isildur” ha condannato tutti gli uomini, elfi, nani ed hobbit a subirne l’influsso e le vessazioni. Ma ognuno di noi ha il suo Legolas, un potente e letale arciere che colpisce al cuore i nostri nemici. Quante volte le frecce infallibili del nostro “Guardiano” ci hanno difeso dalla morte (dell’anima), allontanandoci le tentazioni? Quante volte i suoi interventi invisibili hanno preservato i nostri piedi dalla caduta? Chissà quante volte il nostro angelo ci ha difeso e difende dai pericoli attuali in cui noi, per inavvertenza od avventura, cadiamo come topi in trappola? Perciò, quanta riconoscenza ed amore dovremmo mostrare noi per questo compagno fedele con il quale, come insegna San Tommaso d’Aquino, condivideremo eternamente, se ne saremo degni, la beatitudine del Paradiso? Solo in Cielo sapremo quanto è stato il bene e la carità che questi nostri sorveglianti ci hanno procurato mentre eravamo viatori in questa vita, fragili portatori del nostro fardello. Essi, poi, non sono solo una guardia armata e degli ottimi consiglieri ma sono anche coloro che provvedono al nostro nutrimento spirituale. Non a caso il lembas è il pan di via elfico similmente al Santo Viatico che la Chiesa loda e adora ammirandolo con queste parole “Ecce panis angelorum!”. Essi perciò ci accompagnano alla Santa Comunione, ci insegnano con quale atteggiamento di profonda adorazione dobbiamo accostarci ad essa e, nelle angustie della vita presente, si preoccupano di provvedercene una scorta sufficiente per il viaggio.
Secondo alcune interpretazioni il primo riferimento agli Angeli nella Sacra Scrittura è subito nel I° capitolo del libro della Genesi nel passo in cui Dio dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. Quel “facciamo” è certamente rivolto propriamente alle Tre Persone Divine, ma in maniera indiretta sembra coinvolgere anche le altre creature già create prima dell’uomo, cioè gli angeli. Personalmente mi immagino l’atto della creazione dell’uomo, vista dalla prospettiva angelica, come una scena ricca di tenerezza, bellissima, animata dallo stupore, nella quale Dio si volge verso i suoi angeli come un Padre ai suoi figliuoli coinvolgendoli con quello straordinario “facciamo”. Non perché gli angeli prendano parte all’atto creativo, come un bambino piccolo non realizza veramente il bel disegno che il padre sta preparando per lui, ma perché essi, con la contemplazione della Divina Sapienza prendono parte a tutto il bene che il loro Padre e Creatore produce dal nulla. Assorti, curiosi e trepidanti come tanti bambini eccitati, gli angeli cercano di vedere cosa il Padre stia preparando e creando in maniera tanto mirabile e sapiente. Mi immagino i “volti” degli angeli radiosi e sorridenti, pieni di meraviglia come i bambini quando davanti ai loro occhi i genitori chinati su di loro svelano per la prima volta il loro nuovo fratellino scoprendone il visino dal panno che lo avvolgeva. E noi battezzati siamo veramente i fratelli adottivi degli angeli, chiamati a condividerne la gloria e la luminosa compagnia. “Eppure l’hai fatto [l’uomo] poco meno degli angeli”[10], cioè realmente inferiore a loro, come gli uomini rispetto agli elfi, ciononostante «Dio è il Signore, degli angeli, e degli uomini – e degli elfi. La Leggenda e la Storia si sono incontrate e fuse. Ma nel regno di Dio la presenza di ciò che è più grande non schiaccia ciò che è più piccolo. L’Uomo redento è ancora uomo. Il Racconto, la fantasia, continuano ancora, e dovrebbero continuare. L’Evangelium non ha abrogato le leggende; le ha santificate, specialmente nel “lieto fine”. Il cristiano deve ancora operare, con la mente come con il corpo, deve soffrire, sperare, e morire; ma ora può percepire che tutte le sue predisposizioni e facoltà hanno uno scopo, che può essere redento. Così grande è stata la liberalità con cui è stato trattato che ora egli può, forse, a ragion veduta supporre che nella Fantasia può effettivamente assistere al germogliare e al molteplice arricchimento della creazione»[11].
Cari amici, oggi più che mai sono persuaso che noi hobbit abbiamo ancora una parte, seppur minima, da recitare in questa storia, ma con l’angelo custode al nostro fianco attraverseremo valli oscure e scale tortuose, paludi mortifere e altopiani scoscesi e poi in su, verso il Monte della Morte, verso il luogo del cranio di Adamo, dove la Vita è appesa al Legno della Croce. Lassù, dove circondato da schiere oranti di spiriti angelici il Figlio dell’Uomo giace esanime, gloriosamente crocifisso. Benedìcite Dominum omnes Angeli eius: poténtes virtùte, qui fàcitis verbum eius, ad audiendam vocem sermònum eius (Ps 102,20).