lunedì 30 marzo 2015

[GLORIE DEL CARDINALATO] S.E.R. Cardinale Francesco Sforza di Santafiora

francesco_sforza
Dei conti di Santa Fiora, nacque a Parma nel 1562.
Fu educato alla vita e alla disciplina militare e a 18 anni, terminati gli studi, si aggregò al cugino Alessandro Farnese per domare la ribellione protestante nelle Fiandre. Partecipò in tre anni a moltissimi combattimenti e il re Filippo II lo nominò ancora giovanissimo comandante generale delle truppe italiane. Sposato giovanissimo con Virginia de’ Medici, figlia del Granduca di Toscana, rimaneva quasi subito vedovo.  Con una certa sorpresa il Santa Fiora, entrato da pochissimo nella “famiglia pontificia” per il matrimonio della sorella con il figlio naturale di Papa Gregorio XIII Boncompagni, veniva creato, il 12 dicembre 1583, cardinale diacono del titolo di San Giorgio al Velabro.
Nominato a soli 21 anni sui campi di battaglia, l’eminentissimo Sforza raggiungeva subito Roma, dove iniziava immediatamente gli studi di teologia, canonistica, storia ecclesiastica con lo stesso impegno con cui si era dedicato alle discipline militari.
Gregorio XIII lo aggregò a varie congregazioni della curia, Sisto V gli affidò il rafforzamento della flotta pontificia, Gregorio XIV lo mandò legato a latere in Romagna per la lotta contro il banditismo. In quell’occasione il cardinale riuscì in breve tempo a distruggere ed estirpare numerose bande armate, uccidendone e disperdendone i componenti. Papa Clemente VIII si servì spesso di lui per incarichi simili e lo inviò in sua vece a battezzare il futuro Cosimo II, granduca di Toscana. Partecipò, con notevole autorevolezza a nove conclavi, incoronando Papa Leone XI e Paolo V. Nello spirito della riforma tridentina ascese al sacerdozio nel 1614 e all’episcopato nel 1618.
Seppe sempre unire alla preparazione militare e politica molta pietà e fervore religioso: mutò molte volte il titolo cardinalizio e conclusse la sua vita dopo 41 anni cardinalato, l’11 settembre 1624, “pieno di meriti e onori”. Pur avendo avuto una prima formazione mondana, fece onore alla Sacra porpora.
A cura di Piergiorgio Seveso - http://radiospada.org/

TERZO MOMENTO DI PREGHIERA DELL’UNIONE PREGHIERA E CARITÀ


domenica 29 marzo 2015

I SOFISMI DI ROUSSEAU E LA DEMOCRAZIA (Estratto dall'opera di mons. Delassus "Il Problema dell'ora presente" Tomo II°)



L'articolo III della Dichiarazione dei diritti dell'uomo dice: "Il principio d'ogni autorità esiste
essenzialmente nella nazione".
Questa dichiarazione è contraria alla ragione nonché alla fede.
Sempre e dappertutto la ragione umana ha pensato e detto che l'autorità appartiene alla causa, il
potere su ciò che è prodotto a chi l'ha prodotto. In conseguenza, il principio di ogni autorità risiede
essenzialmente in Colui che è la causa prima, e le cause seconde hanno, sui loro effetti, un'autorità
derivata dalla sorgente dell'essere. L'autorità suprema o la sovranità assoluta è in Dio nostro primo
Autore, Colui, dal quale teniamo tutto ciò che siamo e tutto ciò che abbiamo. A lui spetta di
governare la nostra vita, di reggere la nostra persona per condurla alla perfezione che egli aveva in
vista nel crearci, nel redimerci e nell'inviarci il suo Spirito santificatore.
Al disotto di questo Sovrano Signore, e partecipanti sotto la sua dipendenza, alla sua sovranità si
trovano coloro ch'Egli ha chiamato ad essere ministri e strumenti della sua bontà creatrice ed
educatrice; il padre sovrano della famiglia, il Papa sovrano della Chiesa; e, nella nazione, quello o
quelli che hanno diritto sovra coloro che l'hanno fatta, che l'hanno difesa e guidata al
conseguimento de' suoi destini.
 Montalembert
Qui non dobbiamo occuparci della sovranità paterna né della sovranità pontificia, ma solamente
della sovranità civile. Dire che il suo principio è essenzialmente nel popolo e che appartiene al
popolo; che egli la conserva anche allora che la delega; che risiede in lui senza limiti, questa è la
democrazia, quale è attualmente professata fra noi, quale è presumibilmente esercitata.
Questa democrazia è la negazione e la distruzione dell'autorità. Il suo principio è l'orgoglio nella sua
più superba presunzione. Il signor di Montalembert lo disse assai bene, a proposito della
Costituente: "La Rivoluzione, sotto il nome di Democrazia, non è che lo scoppio universale
dell'orgoglio".
Ripugna all'orgoglio di riconoscere un padrone. Egli si dice libero, si dice sovrano; ed il sentimento
della sua sovranità lo spinge a scuoterne tutti i gioghi, il giogo civile, come il giogo paterno ed il
giogo ecclesiastico. E siccome egli vede che ogni autorità discende da Dio, si dichiara emanata da
Dio, insorge contro Dio stesso. "Dio è il male" ha detto il democratico Proudhon. Questa bestemmia
è ripetuta continuamente, sotto mille forme diverse, nei giornali democratici, nelle riunioni popolari
ed anche nel Parlamento uscito dalla sovranità del popolo.
In qual guisa la democrazia è giunta a questo grado di empietà e di irragionevolezza? Eccolo.
L'orgoglio umano, malgrado le sue pretensioni alla sovranità, non può fare sparire il male. Lo
incontra dappertutto, ne soffre in tutti i momenti. Non può negare la sua esistenza, ma ciò ch'egli
non vuole, si è di vederne il principio in se stesso. Non vuol punto riconoscere che il male esce dalla
sua natura corrotta per espandersi in tutte le cose; egli lo attribuisce alle cose stesse e
particolarmente alle istituzioni sociali che i secoli hanno create. Perciò egli vuole distruggerle,
sostituire loro un regime di libertà e di eguaglianza, un regime democratico senza precedenti nella
storia dell'umanità.
E siccome la società si oppone, siccome si attiene a Dio ed alla sua autorità per non sprofondare
nell'abisso che questa libertà e questa eguaglianza le scavano, l'orgoglio umano se la piglia con Dio,
dice essere in Lui la sorgente d'ogni male, esser Lui il male e per conseguenza doversi abolire, o se
non lo si può, scancellarne almeno il pensiero dalla mente degli uomini. Non è ciò che tenta la
democrazia nell'ora presente con tutti i mezzi che il potere le concede?
Quest'orgoglio viene di lontano. Il primo soffio si fece sentire a Roma nel secolo XV. Esso uscì,
abbiamo detto, dal petto degli umanisti per diffondersi poi su tutta l'Europa. Essi furono i primi, in
seno al cristianesimo, a glorificare l'uomo a scapito del Creatore. Il soffio divenne procella colla
Riforma; colla Rivoluzione si è fatto ciclone che tutto rovescia. Domani non si terrà pago di
rovesciare, ma distruggerà e porterà via le stesse rovine.
Le sue stragi si propagano di nazione in nazione. Se i cristiani non s'oppongono alle sue invasioni,
se da per tutto si trovano dei cattolici che lo favoriscono, sotto pretesto di cristianizzarlo, l'orgoglio
democratico non tarderà più a stabilire effettivamente il suo regno nel mondo.
E l'orgoglio, padrone del mondo, chiama senza fallo sul nostro globo le folgori che in cielo hanno
colpito l'orgoglio di Lucifero.
Perciò, Le Play aveva grande ragione quando diceva: "Bisogna assolutamente assalire di fronte,
senza reticenza, la teoria democratica".
Papa Leone XIII
Leone XIII l'ha fatto meglio di ogni altro de' suoi predecessori. Pio VII nella sua Lettera apostolica
a mons. di Boulogne; Gregorio XVI nell'Enciclica Mirari vos; Pio IX nella Enciclica Quanta cura,
hanno condannato successivamente i falsi dogmi della Rivoluzione. Nessun Papa ha preso di mira
così direttamente come Leone XIII il dogma democratico per eccellenza: la sovranità del popolo.
Nell'Enciclica Immortale Dei egli dice:
"Il potere pubblico non può venire che da Dio; Dio solo è sovrano signore di tutte le cose; tutte,
quali che esse siano, devono necessariamente esser sottomesse ed ubbidire a Lui, di guisa che,
chiunque ha il diritto di comandare, non tiene questo diritto che da Dio, capo supremo di tutti: Ogni
potere viene da Dio (Rom. XIII)"
Nell'Enciclica Diuturnum:
"S'ingannano quei filosofi che fanno uscire la civile società da un libero contratto ed attribuiscono
all'autorità la stessa origine".
In altra parte di questa stessa Enciclica: "È un errore il pretendere che tutto venga dal popolo; che
per conseguenza l'autorità non appartenga in proprio a quelli che l'esercitano, ma a titolo di mandato
popolare, e sotto riserva che la volontà del popolo può sempre ritirare ai propri mandatari il potere
che ha loro delegato".
Più lungi: "Quelli che amministrano le cose pubbliche hanno diritto di esigere l'obbedienza in tali
condizioni che il rifiuto di sottomissione è un peccato. Ora non havvi uomo che abbia in sé o da sé
ciò che gli è necessario per legare con un vincolo di coscienza il libero volere de' suoi simili; Dio
solo come Creatore e Legislatore universale possiede siffatto potere; quelli che lo esercitano hanno
bisogno di riceverlo da Lui e di esercitarlo in suo nome. "Non vi è che un solo Legislatore ed un sol
Giudice che possa condannare od assolvere" (Giac. IV, 12)".
Abbiamo inteso Le Play attribuire alla teoria democratica i mali presenti della società. Leone XIII
non parla altrimenti.
"Facendo derivare il potere pubblico dalla volontà del popolo, si commette in primo luogo un errore
di principio, ed inoltre si dà all'autorità un fondamento fragile e senza consistenza. Siffatte opinioni
sono come uno stimolo perpetuo alle passioni popolari che vanno crescendo ogni giorno in audacia
e preparano la rovina pubblica. Queste teorie intorno al potere hanno già cagionato grandi mali ed
è a temere che questi mali in avvenire giungano fino ai peggiori estremi".
Karl Ludwig von Haller
Haller nella sua bell'opera: Restauration de la science politique ne dà la ragione: "Non havvi potere
più terribile di quello che può commettere i più esecrandi delitti colla volontà di tutti o colorirli
colla volontà di tutti. Le forze di una corporazione (specialmente quella dei mandatari della
moltitudine) impiegate senza regola e senza freno e rivolte contro il cuore stesso della società,
diventano più formidabili di tutte le altre. I diritti naturali ed acquisiti sono allora calpestati con
maggiore impudenza che non da tiranni individuali, perché le passioni non sono mai così violente
come fra eguali, e perché ciascuno si cela fra la turba dei complici e per conseguenza si sottrae al
timore stesso ed all'onta della responsabilità morale".(1) Non è il quadro esatto di ciò che noi
vediamo attualmente? Tocqueville dice altresì: "Io non conosco paesi in cui le rivoluzioni siano così
pericolose come nei paesi democratici perché, indipendentemente dai mali accidentali e passeggieri,
che inevitabilmente producono, corrono sempre rischio di crearne di permanenti e per così dire
eterni".(2)
Si conosce ciò che il regime democratico ha prodotto in Francia un secolo fa. Il nuovo esperimento
pel quale passiamo, ci adduce mali ancora maggiori, e mali che saranno permanenti, eterni, come
dice Tocqueville, se non rigettiamo questa utopia.
Anche il sig. di Montalembert nel suo scritto: Les interêts catholiques au XIXe siècle, pronunciava
questa sentenza fino dal 1858: "Riconosco volentieri che la democrazia francese, questa grande
dissoluta, che non ha fatto nulla di bene, nulla ha rispettato, nulla risparmiato, non merita guari di
essere tenuta in niun conto, e si è in diritto di trattarla come i pazzi all'ospedale".
Mettere la democrazia all'ospedale non è affare per tutti; io credo anzi che nell'ora presente niuno
sulla terra abbia forza per riuscirvi. Ma quello che tutti possiamo fare si è di raddrizzare le idee ed
ottenere perciò che la democrazia muoia un giorno di sua buona morte.
È ciò che domandava già Le Play nel 1865: "In una società che rovina da tutte le parti, mi pare che
dapprima si debbano raddrizzare le idee. È necessario migliorare il fondo delle cose alla luce dei
principii".
Nel 1867: "La linea di condotta da seguirsi è di lavorare fino a tanto che si abbia un credo dottrinale
ben determinato ... Temo che la salvezza non possa venire che da terribili catastrofi ... Che fare in
questo disordine? Quello che gli Apostoli hanno fatto in mezzo alla corruzione romana: consacrarsi
a propagare il vero ed il buono ... Credo che noi siamo più malati ancora del mondo pagano, almeno
sotto certi rispetti, e dodici apostoli non sarebbero troppi".
Egli li cercava. Già nel 1861, annunciando al sig. de Ribbe che l'Imperatore gli avea dato la
direzione della sezione francese all'Esposizione universale di Londra, egli esprimeva la sua gioia,
non per l'onore che gliene veniva, ma perché questo ufficio lo metteva a contatto con molti uomini
di tutti i paesi e gli permetteva di esercitare il suo apostolato. A questo fine egli creò le "Unioni" e
la sua Rivista. Ed a' suoi discepoli diceva: "Tocqueville, malgrado la sua onestà, ha tutto falsificato,
ha fatto all'Europa ed alla Francia in particolare, un male incalcolabile. Bisogna assolutamente
assalire di fronte, senza riguardo, la tesi democratica". "Non si può mai insistere troppo su questo
punto. Bisogna parlar alto e fermo, mostrar l'abisso aperto, gridar all'erta; ma bisogna nello stesso
tempo conservar una fede inconcussa nel ritorno al bene, nell'energia vitale della Francia".(3)
Questo ritorno tarda molto. Quanti, anche fra i più fedelmente attaccati di cuore alla Francia
tradizionale, rimangono persuasi di questo errore: la democrazia è un progresso sul regime
gerarchico d'una volta!
È vero tutto il contrario. "Questa parola magica di democrazia - disse assai bene Paolo Bourget -
non rappresenta che principii di regresso, la più completa dimenticanza delle leggi dappertutto
inscritte nella natura; è perfettamente falso che il merito individuale possa arrivare ad tinto sviluppo
utile se non è appoggiato su elementi familiari. È perfettamente falso che le maggioranze creino il
diritto nazionale, poiché un popolo non è composto di soli viventi, ma è composto de' suoi morti e
di quelli che verranno, di guisa che i viventi non sono che usufruttuari, la cui amministrazione, per
conseguenza, è limitata. È perfettamente falso che il 1789 abbia segnato per la Francia un'èra di
rigenerazione, e per lo contrario, se il nostro paese ha presentato dei segni di regresso di fronte alle
nazioni concorrenti, è d'allora in poi.
"Queste falsità sono tuttavia sì coraggiosamente ripetute, sono state con tanta compiacenza svolte
da brillanti scrittori, con tanto ardore e con tanta insolenza proclamate, che è necessario un grande
sforzo per rendersi persuasi della loro menzogna".(4)

Note:

(1) Restauration de la Science politique, t. I, cap. IX.
(2) De la Démocratie, t. II, cap. VII.
(3) Le Play, d'après sa Correspondance. Passim.
(4) Lettera di Paolo Bourget al conte Aymer de la Chevalerie, 10 giugno 1904.

venerdì 27 marzo 2015

ALTRI FALSI DOGMI (Estratto dall'opera di mons. Delassus "Il Problema dell'ora presente" Tomo II°)




Pierre Guillaume Frédéric Le Play
Le Play parla di altri falsi dogmi, ai quali egli attribuisce, sebbene in seconda linea, i flagelli
scatenati nel mondo dalla Rivoluzione francese e l'avvilimento attuale della nostra patria.
Quali son dessi? In qual modo derivano dalla negazione del peccato originale, e come hanno potuto
avere una influenza così funesta sulla società?
Questi falsi dogmi sono la libertà, l'uguaglianza, la sovranità del popolo, la illegittimità della
proprietà.
Come derivano essi dall'affermazione della bontà nativa dell'uomo? È facile il vederlo. Se l'uomo è
buono, se niente lo vizia, se è originariamente perfetto, egli deve essere libero. Se la natura umana è
quale deve essere, ha il diritto di potere obbedire alla sua legge come tutti gli altri esseri, di seguire
tutti i suoi istinti, e di spiegare tutte le sue energie. Contrariarla, imporle degli ostacoli è un delitto.
L'autorità che si è costituita per porre dei limiti alla libertà è illegittima e malvagia; i suoi codici, i
suoi giudici, i suoi carnefici non servono che ad impedire ciò che deve essere considerato come il
bene, che, presso noi come presso gli altri esseri, deriva dall'obbedienza alle leggi della natura
propria di ciascuno.
Se gli uomini sono tutti buoni, devono essere socialmente eguali: l'ineguaglianza delle condizioni è
la suprema ingiustizia, fonte e principio di tutte le altre.
Se sono buoni, è inutile il governarli; il potere è una superfetazione tanto malvagia quanto
illegittima. Il popolo può e deve governarsi da se medesimo, egli è sovrano.
Infine, se gli uomini sono socialmente eguali, hanno tutti i medesimi titoli a godere i beni di questo
mondo; ed ogni proprietà è un furto fatto alla comunità.
Queste conseguenze del principio posto da G. G. Rousseau furono subito comprese; e, senza ritardo,
si trovarono certi uomini che le fecero passare dall'ordine logico nell'ordine reale.
"Nelle classi medie ed inferiori - dice Mallet du Pan - Rousseau ebbe cento volte più lettori di
Voltaire. Ho udito Marat nel 1788, leggere e commentare il Contratto Sociale nelle pubbliche
passeggiate cogli applausi d'un uditorio entusiasta. È Rousseau che ha inoculato nei Francesi la
dottrina della sovranità del popolo e delle sue ultime conseguenze. Appena potrei citare un solo
rivoluzionario che non si sia lasciato trasportare da queste teorie anarchiche e non desiderasse
ardentemente di tradurle in pratica. Questo Contratto Sociale, che discioglie la società, fu il Corano
degli oratori del 1789, dei Giacobini del 1790, dei repubblicani del 1791 e dei forsennati più
crudeli".(1)
Robespierre sapeva quasi a memoria il Contratto Sociale che non l'abbandonava mai.(2)
La Bastiglia venne demolita per far capire che non si voleva più repressione. Il re venne ucciso per
disfarsi dell'autorità. E siccome l'autorità. come tutte le cose necessarie, non cessa di rinascere sotto
nuove forme, quando le forme antiche sono state distrutte, la inafferrabile libertà è continuamente
seguita da nuove insurrezioni.
La gerarchia è l'opposto dell'eguaglianza, come la dignità reale è l'opposto della sovranità del
popolo. Esse furono abbattute ambedue nello stesso tempo. Non vi son più classi, non più famiglie
costituenti le diverse basi dell'edificio sociale; la società non è meglio costituita che gli individui,
mucchio di polvere esposta al soffio di tutti i venti.
Resta la proprietà, tanto ingiusta quanto la gerarchia, e di una ingiustizia che offende di più, perché
dà agli uni, ad esclusione degli altri, il godimento dei beni che devono appartenere a tutti, essendo i
doni della natura appartenenti all'umanità. Perciò le si è fatto subire più d'un assalto e son prese le
disposizioni per liquidarla in breve.
Le Play non si è dunque per nulla ingannato. Egli ha visto chiaro; ha detto vero quando ha fatto
derivare dall'errore predicato da Gian Giacomo i falsi dogmi della libertà, dell'uguaglianza, della
sovranità del popolo, della illegittimità della proprietà; egli ha parimenti visto bene, e detto
parimenti il vero quando affermò che da questi falsi dogmi sono usciti, e la Rivoluzione, ed i
flagelli ch'essa ha scatenato sul mondo, e l'avvilimento attuale della nostra patria.
Ma bisogna procedere più innanzi. Occorre dimostrare che questi falsi dogmi giungono fino a
rendere impossibile la società umana, e se non prestiamo ascolto alla voce di Roma, la quale ci dice
che l'Immacolata è, nel genere umano, una eccezione unica, se il fatto della decadenza umana non è
di nuovo altamente proclamato, se le istituzioni sociali continuano a porsi fuori di questo
fondamento, noi precipiteremo in una irremediabile rovina.
La società umana, quale esiste dal principio del mondo, non solo qua e là, ma sempre e da per tutto,
in tutti i tempi, ed in tutti i luoghi, ci presenta le medesime istituzioni: l'autorità e la penalità, la
proprietà e la gerarchia.
L'autorità ha assunto ed assume diverse forme, ma si trova nella sua essenza presso le nazioni più
incivilite, come presso le più barbare. Inoltre dappertutto l'autorità ha istituito la penalità con codici
per determinarne i diversi gradi, i tribunali per infliggerla, la forza pubblica per applicarla.
In nessuna società si vedono i cittadini posti nello stesso grado. Dappertutto sono ordinati gli uni al
disopra degli altri; dappertutto vi sono superiori ed inferiori; e mille gradi conducono
insensibilmente le condizioni più umili alle più elevate.
Dappertutto altresì, la prima cosa che fa saltare agli occhi questa ineguaglianza, è la proprietà.
Ove queste cose punto non esistono, è la selvatichezza; ove si trovano in istato rudimentale, è la
barbarie; e la loro maggiore o minore perfezione segna i diversi gradi di civiltà.
Se così è sotto tutti i climi, e se fu così in tutte le epoche del genere umano, se sempre e dovunque si
riscontra la proprietà, la gerarchia e l'autorità, è mestieri riconoscere in ciò una causa generale e
necessaria che s'è imposta dovunque, che ha agito dappertutto, producendo dovunque i medesimi
effetti, e costituendo nella stessa guisa le diverse società.
Quale fu questa causa? Che cosa è che fece sentire dappertutto la necessità dell'autorità e della
penalità? Che cos'è che ha istituito dovunque la proprietà e la gerarchia? D'onde derivano queste
cose?
Per aver la risposta a questa dimanda, bisogna vedere qual ufficio adempiono queste cose, per qual
fine vi si fece ricorso, o perché e come esse si sono imposte.
Che fa l'autorità nel suo legittimo esercizio? Essa restringe la propagazione del male, favorisce
l'espansione del bene. È in ragione di questo doppio servigio di cui sono obbligati riconoscere
l'assoluta necessità, che gli uomini consentono di piegar la testa al giogo dell'autorità. È contro il
male che l'autorità ha compilato i suoi codici, istituito i suoi tribunali, armato la sua polizia; com'è
in vista del bene da sostenere, sviluppare e propagare che si è alleata alla religione, ha accettato o
dimandato i suoi soccorsi ed ha protetto la sua azione. Senza il male, l'autorità non avrebbe ragione
di essere; se tutti gli uomini fossero naturalmente buoni, non avrebbero mestieri di essere governati;
la società sarebbe fondata, non sopra l'autorità, ma sopra la libertà, le tribù selvaggie dell'Africa e
dell'America avrebbero offerto lo spettacolo della grandezza umana portata al suo più alto punto, e
l'Europa co' suoi governi e con tutte le sue forze restrittive avrebbe condotto l'umanità all'infimo
grado di abiezione. È vero tutto il contrario. I popoli non si formano, non si costituiscono, non si
conservano, non si sviluppano e non si elevano che sotto l'egida dell'autorità. Tutta la storia è là per
attestarlo.

Come l'autorità, così l'eguaglianza e la proprietà si trovano là dove gli uomini sono costituiti in
società; non solo l'ineguaglianza che deriva dalla disuguale ripartizione che la natura fa de' suoi
doni fisici ed intellettuali, ma eziandio l'ineguaglianza sociale, che consiste in ciò che,
indipendentemente da questi doni, gli uomini sono costituiti gerarchicamente, gli uni negli alti posti
della società, gli altri nei posti inferiori. Se questa ineguaglianza si constata dovunque gli uomini
sono riuniti in società, è mestieri ch'essa sia, al pari dell'autorità il risultato necessario d'un fatto
inevitabile. Quale è questo fatto? È ancora la presenza del male in seno all'uomo, e per conseguenza
in seno alla società. L'uomo che trionfa del male, in se stesso si eleva moralmente sopra coloro che
vi si abbandonano. E se per l'educazione, egli comunica la sua forza morale a' suoi figli, se questi
figli trasmettono a loro volta le buone abitudini e le tradizioni che hanno ricevute, le famiglie, in cui
queste tradizioni sono osservate, emergono insensibilmente sopra le altre. Le schiatte che così
seguono il bene, non progrediscono tutte ad un medesimo modo, né raggiungono nel medesimo
tempo i diversi gradi della perfezione. Questi gradi diversi costituiscono la gerarchia sociale.
Questa superiorità morale non tarda a produrne molte altre.
Ed in primo luogo l'ineguale possesso dei beni di questo mondo. È necessario di dire che la
proprietà si associa alla moralità, cioè all'energia maggiore spiegata da questo che non da quello per
vincere il male e praticare il bene? Come non vederlo? La vita dell'uomo vuol essere mantenuta con
alimenti quotidiani; se questi mancano, egli se ne muore. Questi alimenti la terra li produce, ma non
li dà se non mediante il lavoro. Dio e la ragione sono d'accordo per dire che il frutto del lavoro
appartiene a colui che colla sua fatica l'ha fatto nascere. Di qui la proprietà del pane necessario al
sostegno della vita. L'uomo che lavora più del necessario al suo stretto mantenimento e che sa porre
un freno a' suoi appetiti, non perde il diritto di possedere quello che ha prodotto; egli l'ha fatto suo
col proprio lavoro, lo fa doppiamente suo colla virtù che spiega per non darsi in balìa delle sue
cupidigie. L'accumulazione dei prodotti così conservati, forma il capitale o la proprietà fissa, e la
quantità più o meno grande di questo capitale che sta nelle mani di ciascuno, stabilisce fra i cittadini
una prima ineguaglianza, non fisica né intellettuale, ma sociale.
L'indipendenza delle necessità della vita che creano i beni precedentemente accumulati, permette a
quelli che li possedono di occuparsi dei loro fratelli, di consacrarsi alla conservazione ed allo
sviluppo della prosperità generale. Se lo fanno, essi entrano per ciò stesso in una gerarchia d'ordine
superiore a quella basata sulla proprietà, la gerarchia dei migliori. E siccome è naturale lasciar la
direzione della società a quelli che hanno tracciato la via del bene e che vi chiamano i loro fratelli
collo spettacolo che offrono, nella propria persona, della dignità che conferisce a quelli che lo
praticano, i migliori sono divenuti l'aristocrazia.
L'ineguaglianza sociale, la gerarchia sociale provengono dunque dalla diversità dei meriti. Esse
segnano la grandezza e la perseveranza degli sforzi che sono stati fatti non solamente dall'individuo,
ma dalla successione delle generazioni d'una stessa famiglia, per lottare contro le tendenze originali,
per liberarsi dal male e per sublimarsi nel bene.
Esiste dunque il male nel cuor dell'uomo, e la caduta originale spiega e giustifica la proprietà e la
gerarchia, come spiega e giustifica l'autorità. La negazione della caduta rende nello stesso tempo
illegittimi l'impiego dell'autorità, la gerarchia fra gli uomini, ed ogni proprietà acquisita fino al
giorno d'oggi. E perciò coloro che traggono le ultime conseguenze dal falso dogma di G. G.
Rousseau, i socialisti, vogliono abolire la proprietà, proclamare l'eguaglianza o l'assenza della
gerarchia, la libertà o l'abolizione d'ogni autorità: in una parola, distruggere la società. Il socialismo
deriva dalla dottrina dell'immacolata concezione dell'uomo.
Questo non è punto sfuggito a Proudhon. "Cosa singolare! - dice egli - il socialismo moderno risale
all'anatema fulminato dall'autore dell'Emile contro la società. Rousseau non ha fatto che dichiarare
in una maniera sommaria e definitiva quello che i socialisti ridicono in dettaglio ed in ciascun
momento, del progresso: cioè che l'ordine sociale è imperfetto e che qualche cosa vi manca
sempre".
Più lungi:
"Il socialismo aiutato dall'estrema democrazia, divinizza l'uomo, negando il dogma della caduta, e,
per conseguenza, butta giù dal trono Iddio, ormai inutile alla perfezione della sua creatura ...
"Noi siamo posti fra due negazioni, due affermazioni contradittorie: l'una che, colla voce
dell'antichità tutta quanta, mettendo fuori di causa la società e Dio, riferisce all'uomo solo il
principio del male; l'altra che, protestando a nome dell'uomo libero, intelligente e progressivo,
rigetta sull'infermità sociale, e, per necessaria conseguenza, sul Genio creatore ed ispiratore della
società, tutte le perturbazioni dell'universo".(3)
Poiché il socialismo deriva dalla negazione del peccato originale, niente di più radicale è stato
proclamato contro di lui, quanto la definizione del dogma dell'Immacolata Concezione di Maria,
privilegio che a Lei solamente s'appartiene. Niente di più potente può essere opposto al grande
errore ed alla grande minaccia del giorno, quanto la dottrina della caduta originale con tutto ciò
ch'essa reclama: la penalità, necessaria per l'uomo che resta nel male; l'ineguaglianza, frutto dei
diversi gradi onde le anime ritornano al bene; la proprietà, conservazione del capitale negato al
godimento; le aristocrazie, zone secondo le quali una popolazione s'eleva successivamente nelle vie
del risparmio, della giustizia, dell'onore, della carità e della santità; ed infine, l'autorità che protegge
le fasi di questa vegetazione d'un popolo e de' suoi diritti acquisiti in seno ad una stessa unità
nazionale.

Note:

(1) Mercure britannique, t. II, p. 350.
(2) La lettura di questo corano della Rivoluzione non è cessata. Il P. Constant afferma che in un
soggiorno ch'ei fece nel 1890 a Romans poté convincersi che gli operai leggevano assiduamente il
Contratto Sociale. "Vi è da dubitare - egli dice - ch'essi comprendano tutto ciò che leggono. Ma non
è lì la questione. Il fatto del Magistero rivoluzionario di Rousseau e della sua continuità fino ai
nostri giorni risulta da questo particolare".
(3) Proudhon, Système des Contradictions économiques, t. I, pp. 344-348.

Lo sposalizio del mare «Desponsamus te, mare, in signum veri perpetuique dominii» "Ti sposiamo, o mare, in segno di vero e perpetuo dominio"




 
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Fonte: http://www.traditio.it/

giovedì 26 marzo 2015

[Audio 25-3-15] Cina: K. Chan ci parla di Ostpolitik vaticana negli anni '80 - '90


CINA-KMAP
Continua il programma del radiospadista Kevin Chan, della FSSPX di Hong Kong.
Oggi ci parla di Ostpolitik vaticana negli anni ’80 e ’90.

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Pena di morte ...o morte della pena?



di Alfredo De Matteo (fonte: http://radiospada.org/)

Di tanto in tanto riecheggia in ambito cattolico la tesi erronea secondo cui la pena di morte è inaccettabile da un punto di vista morale, dunque mai giustificabile.
E’ tuttavia noto come il Magistero perenne e infallibile della Chiesa abbia da sempre sostenuto il contrario, ossia la liceità in linea di principio della pena capitale.
Per giustificare tale evidente contraddizione il cattolico-al-passo-coi- tempi ricorre grossomodo sempre ai consueti argomenti: la presunta smentita della tesi pro pena di morte sulla base di quanto riportato nel nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, nello specifico al n. 2267; la presunta impossibilità di pentimento del reo nel caso di una punizione che lo privi della stessa vita. Tali pseudo argomenti di rottura colla Tradizione vivente della Chiesa vengono inquadrati nell’ottica di una linea di sviluppo del Magistero che tiene conto di condizioni storiche e di contesti giuridici mutati, secondo quell’ermeneutica della riforma nella continuità da applicare, secondo alcuni, a tutto l’insegnamento della Chiesa. Addirittura, si arriva ad affermare che nello sviluppo storico della sua dottrina la Chiesa ha riflettuto sul fatto che la giustizia umana è imperfetta, come se nei secoli precedenti la Chiesa non l’avesse fatto …
In merito alla prima obiezione, il Catechismo al n. 2267 esprime in realtà esattamente il contrario di quanto la vulgata progressista sostiene, ossia ribadisce chiaramente la liceità della pena capitale:
2267 L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani.Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana.
Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo « sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti ». 

Il paragrafo va letto, a nostro giudizio, suddividendolo in tre distinti livelli esplicativi: nel primo si afferma il principio, ossia si chiarisce che il ricorso alla pena di morte da parte di uno Stato è di per se lecito; nel secondo si elencano le condizioni necessarie e sufficienti affinché tale principio possa essere legittimamente applicato (inevitabilmente generiche e soggette alla prudente valutazione di chi detiene il potere); nel terzo viene inserita una valutazione strettamente personale di Giovanni Paolo II espressa nell’enciclica Evangelium Vitae, senz’altro rispettabilissima ma non vincolante per la coscienza (e comunque non in contraddizione con il principio espresso).
In effetti, per stabilire la liceità o meno del ricorso alla pena capitale è sufficiente la perentoria affermazione del principio contenuta nel primo livello. Soprattutto nel secondo ma anche nel terzo ci si muove unicamente nell’ambito delle circostanze e del contesto in cui la pena di morte può essere legittimamente applicata. In altri termini, nei livelli esplicativi successivi al primo il Catechismo intende muoversi nel campo delle prudenti  valutazioni e dell’opinabile.
Per capire meglio la logica contenuta nel Catechismo al n. 2267 è quanto mai utile cambiare segno alle affermazioni in esso contenute, senza che con ciò se ne modifichi di uno iota il significato; ovvero, sarebbe possibile riscrivere il paragrafo nel modo seguente: se i mezzi incruenti non sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità può legittimamente applicare la pena capitale; se non dispone di possibilità adeguate per reprimere efficacemente il crimine, lo Stato può legittimamente ricorrere alla soppressione del reo.
Ciò significa, senza alcuna possibilità di smentita, che la pena di morte è di per se lecita; infatti, ammesso e non concesso che il contesto attuale non ne legittimi il ricorso, resta la validità universale del principio espresso. Difatti, il principio è immutabile mentre il contesto tende inevitabilmente a variare; pertanto, ciò che è illegittimo oggi potrebbe diventare legittimo domani e ciò che è illegittimo in un paese può invece essere legittimo in un altro.
In merito alla seconda obiezione, non sembra corrispondere al vero l’affermazione secondo cui ad un condannato a morte verrebbe negata la possibilità di pentimento; anzi, è proprio la radicalità della pena che può suscitare in lui il desiderio di emendarsi. Uno degli esempi più belli e indicativi in tal senso è il dialogo contenuto nel Vangelo di Luca tra uno dei malfattori appesi al legno della croce e Gesù:
Dal Vangelo secondo Luca. 23, 39-43
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!». Ma l’altro lo rimproverava: «Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male». E aggiunse: « Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: « In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».
In questo brano evangelico si nota il diverso atteggiamento dei due malfattori: l’uno rifiuta la pena, e con essa la salvezza di Cristo; l’altro, all’inverso, riconosce i propri peccati e accetta la pena, e con essa la salvezza di Cristo.
Tuttavia, l’errore più grossolano è “sorvolare” sul vero scopo della pena, che non  è la correzione del reo. Proprio il Catechismo al n. 2266 afferma:

2266 Corrisponde ad un’esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto. La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole.

Pare dunque evidente come sia necessario leggere il n. 2267 alla luce del n. 2266, in quanto quest’ultimo specifica bene lo scopo della pena, di qualsiasi pena comminata dalla pubblica autorità: primo, in ordine di importanza, il ripristino dello squilibrio sociale provocato dalla colpa (più grave è il delitto commesso maggiore è lo squilibrio e dunque la pena da comminare al reo); secondo, la difesa dell’ordine pubblico; terzo, e ultimo, la correzione del colpevole.

Il "lavaggio del cervello a tre colori" nella Trieste occupata.




In una città multietnica come Trieste , dove c'era ogni razza di gente da tutto il mondo, gli occupanti unitaristi , fin dai primi mesi del 1919 , cominciarono ad insegnare le loro classiche menzogne. Raccontavano che il "popolo italiano" è il più omogeneo dell'Europa, che ci sono meno differenze tra un italiano del nord ed uno del "meridione", invece che tra un Bretone ed un Guascone, o tra un Bavarese ed un Prussiano. Ma nello stesso quaderno v'è scritto che gli italiani del nord sono biondi con la carnagione chiara ed occhi azzurri e che più si va al sud, più la gente diventa nera di capelli, con gli occhi e la carnagine scura.
Insegnavano questo a ragazzi che già conoscevano gli immigrati provenienti dalle Due Sicilie occupate , come conoscevano tutti i popoli slavi e tutti i popoli germanici; e lo erano essi stessi per parte di padri, madri e nonni.
E volete sapere cosa poteva succedere a chi sgarrava? Lo aveva scritto in un manifesto il "generale Petitti di Roreto che con voce stentata dall'emozione disse - prendo possesso di questa terra italiana-"... scriveva il grande generale ballista perché non aveva preso possesso di un bel niente come non lo avevano fatto le sue truppe (c'erano quelle inglesi, americane e francesi):
"...chiunque offenderà con parole od atti i simboli o le persone che tali interessi (occupazione della "Venezia Giulia") rappresentano, sarà punito con la reclusione fino a 5 anni e con la multa fino a 5 mila lire (€ 7.739,18).. qualora il fatto non costituisca più grave reato.
Molti padri dei ragazzi che ricevevano il lavaggio del cervello, erano stati internati, imprigionati, mandati nei campi di detenzione italiani per tornare appena nel 1920. Altri erano in carcere nel Castello di San Giusto, specie se erano stati presi con la montura da volontario. Si erano già internati i primi sacerdoti sloveni, si licenziavano in massa i ferrovieri sloveni, i maestri germanofoni, si erano chiuse le scuole tedesche e si taglieggiavano gli ex funzionari asburgici (tutti) con salari ridotti nonostante l'inflazione e con il precariato.. per costringerli ad emigrare. Entro il 1920 sarebbero stati espulsi 40 mila triestini, sarebbero arrivati 60 mila regnicoli e decine di migliaia di militari e funzionari italiani.
E poi si offendono se venivano chiamati "cifarielli", "taliani de legno" e lasciamo perdere gli altri vocaboli che potrebbero essere offensivi; se noi eredi osiamo aprire bocca ci dicono: "Se non ti piace l'Italia, i confini sono aperti: puoi emigrare".

Fonte: Vota Franz Josef 

mercoledì 25 marzo 2015

Radio Spada risponde a Forza Nuova sulle polemiche per il libro relativo a Pio XI

Riportiamo dal sito di Radio Spada questa interessante ed esaustiva risposta agli "irriducibili del ventennio". (Redazione A.L.T.A.) 



patti

Qui il link alla lettera inviataci dal dirigente di Forza NuovaDi seguito la RISPOSTA di A. Giacobazzi, collaboratore di RS e curatore del volume in questione (cliccare qui per vederne la recensione apparsa su ‘Il Giornale’).

Cronache dal I secolo (dell’Era Fascista)

di ANDREA Giacobazzi

Excusatio non petita, accusatio manifesta verrebbe da dire a chi per contestare un post pubblicitario del nostro volume () e per sottolineare l’opera politica cattolica in CAMPO antagonista ammette candidamente che quello della destra radicale è un ambiente “dove per decenni ha imperversato il cosiddetto neo-paganesimo (il quale è TUTTO ed il contrario di tutto, in sostanza è relativismo)“. Ma se a pochi anni dalla fine del fascismo questo ambiente era così infettato dal peggior relativismo, NON sorge QUALCHE dubbio sull’eziologia? “Dai frutti li riconoscerete” si diceva in Terra Santa un paio di millenni a. M. (avanti Mussolini).
Ora, senza permettermi di negare i meriti cattolici descritti nelle prime righe della nota a noi giunta, cerco di dare qualche risposta agli interrogativi POSTI.
Chiede “Marcus”:
La Chiesa individua nella massoneria un nemico pericolosissimo, la stessa cosa l’ha fatta il fascismo mettendola fuori-legge nel 1925. Che senso ha dileggiare i fascisti che ieri hanno ricordato la fondazione dei Fasci di combattimento, sottolineando che nel 1919 in p.zza San Sepolcro a Milano c’era anche qualcosa di massonico?
Vorrei rispondere, ma non posso. Quando qualcuno che porta gloriosamente la Tiara in testa ha già risposto e lo ha fatto da un’Enciclica (non come privato), credo che dovrò lasciargli la PAROLA. Anno 1931, dice Pio XI:
Non possiamo invece Noi, Chiesa, Religione, fedeli cattolici (e non soltanto noi) essere grati a chi dopo aver messo fuori socialismo e massoneria, nemici nostri (e non nostri soltanto) dichiarati, li ha così largamente riammessi, come tutti vedono e deplorano, e fatti tanto più forti e pericolosi e nocivi quanto più dissimulati e insieme FAVORITI dalla nuova divisa”.
Non SOLO. Nella stessa Enciclica (Non abbiamo bisogno) Pio XI rincara la dose, arrivando a parlare apertamente di anticlericalismo:
L’anticlericalismo ha avuto in Italia l’importanza e la forza che gli conferirono la massoneria e il liberalismo che lo generavano. Ai nostri giorni poi il concorde entusiasmo che unì e trasportò come non mai tutto il Paese ai giorni delle Convenzioni Laterane non gli avrebbe lasciato MODO di riaffermarsi, se non lo si fosse evocato ed incoraggiato all’indomani delle Convenzioni stesse. Negli ultimi avvenimenti, poi, disposizioni ed ordini lo hanno fatto entrare in azione e lo hanno fatto cessare, come tutti hanno potuto vedere e constatare”.
QUESTI passaggi nel volume curato da Pietro Ferrari e dal sottoscritto sono riportati due volte ciascuno. Difficile non leggerli anche per chi ha l’abitudine di saltare le pagine.
Le righe appena trascritte rispondono ampiamente e millimetricamente al nostro “Marcus” anche sul tema del “capolavoro di Concordato Stato-Chiesa”. Concordato su cui a pagina 12 del nostro libro si può LEGGERE “i meriti di Mussolini in RELAZIONE ai Patti Lateranensi sono noti (e coraggiosamente ricordati nell’Enciclopedia Cattolica a guerra finita)“. Ma andiamo avanti: 
Prendiamo un altro esempio, i Patti Lateranensi. Di fronte ad un tale capolavoro di concordato Stato-Chiesa – che andava a sanare una ferita profondissima – che senso ha CONTINUARE a menarla con la diatriba sorta sulle giuste rivendicazioni espresse da Pio XI nella Non abbiamo bisogno? A me non risulta che la Chiesa abbia formulato una condanna esplicita del fascismo, mentre si sa che ne ha condannato la possibile deriva statolatrica. E quando ci troviamo di fronte alle leggi sociali messe in atto dal Regime, cosa vogliamo dire: che erano contrarie alla dottrina sociale della Chiesa?
Qui mi sorge un dubbio. Dove nel volume si parla di “condanna esplicita del fascismo”? Si indichi la pagina PERCHÉ il reperimento è difficoltoso. Abbiamo parlato – anche nel titolo – di “opposizione magisteriale”. Opposizione fu. E forte. Magisteriale certamente, trattandosi di una Enciclica. Non “la meniamo” con le diatribe: “la citiamo” nella speranza che qualcuno la legga. Speranza forse vana.
Quanto alla “POSSIBILE deriva statolatrica”, Pio XI è molto MENOpossibilista del nostro “Marcus”. Ecco l’Enciclica:
Or eccoci in presenza di tutto un insieme di autentiche affermazioni e di fatti non meno autentici, che mettono fuori di ogni dubbio il proposito — già in tanta parte eseguito — di monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all’età adulta, a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di una ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana non meno in pieno contrasto coi diritti naturali della famiglia che coi diritti soprannaturali della Chiesa. 
La frase è di una chiarezza cristallina, anche questa citata quasi integralmente per due volte.
Arrivano poi le immancabili “LEGGI sociali”. Chi si fosse preso la briga di non fermarsi al post pubblicitario e di leggere prima di criticare avrebbe scoperto con meraviglia che a pagina 6  – introducendo la Non abbiamo bisogno – il sottoscritto parla de “il fascismo i cui meriti e le cui realizzazioni sono da difendere con coraggio”.
CONTINUA “Marcus”:
E dalla lotta aperta a liberalismo e social-comunismo – con la condanna esplicita dei miti della Rivoluzione Francese – cosa vogliamo dire: che non erano perfettamente in linea con il magistero ecclesiastico?
Alla Quadragesimo Anno, al tema “sociale” e a quello delle corporazioni è dedicato circa un quarto del totale delle PAGINE. Alla condanna del comunismo un altro quarto. Metà del volume è su questi temi. Anche qui, basterebbe non fermarsi al post e assumersi la fatica di sfogliare – almeno di sfogliare – il libro.
Prosegue il nostro “Marcus”:
Quando si afferma che la Chiesa ha condannato il fascismo – cosa non vera – si vanifica tutto il lavoro che nell’ambiente si è fatto e si fa per affermare il cattolicesimo. Ma ci rendiamo CONTOdelle grandissime difficoltà che si incontrano nel proporre il cristianesimo ad un ambiente che vede lo spettacolo offerto – soprattutto sul piano mediatico (e questo è un aspetto oggi importantissimo) – dalla attuale gerarchia cattolica?
FN è un movimento politico pieno di limiti, ma di una cosa occorre dargli atto: è riuscito a fare del cattolicesimo, il punto di RIFERIMENTO imprescindibile della sua visione e della sua AZIONE politica.
Anche qui abbiamo serie difficoltà a rinvenire nel libro o nel post della pagina un (anche indiretto) riferimento a qualsiasi movimento politico contemporaneo. Resto in attesa di numero di pagina o dello screen shot.
Sul tema GENERALE si potrebbe aggiungere molto: dall’uso forte della parola “persecuzione” che Pio XI fece nella sua Enciclica fino – per cambiare ambito – al peso del gentilismo nel fascismo, con tutto ciò che questo implica. Ci fermiamo qui, non vorremmo mai che QUALCHE Papa (anche Pio XII parlò molto chiaramente su questa materia) passasse per “partigiano”.