di Alfredo De Matteo (fonte: http://radiospada.org/)
Di tanto in tanto riecheggia in ambito cattolico la tesi erronea secondo cui la pena di morte è inaccettabile da un punto di vista morale, dunque mai giustificabile.
E’ tuttavia noto come il Magistero perenne e infallibile della Chiesa abbia da sempre sostenuto il contrario, ossia la liceità in linea di principio della pena capitale.
Per giustificare tale evidente contraddizione il cattolico-al-passo-coi- tempi ricorre grossomodo sempre ai consueti argomenti: la presunta smentita della tesi pro pena di morte sulla base di quanto riportato nel nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, nello specifico al n. 2267; la presunta impossibilità di pentimento del reo nel caso di una punizione che lo privi della stessa vita. Tali pseudo argomenti di rottura colla Tradizione vivente della Chiesa vengono inquadrati nell’ottica di una linea di sviluppo del Magistero che tiene conto di condizioni storiche e di contesti giuridici mutati, secondo quell’ermeneutica della riforma nella continuità da applicare, secondo alcuni, a tutto l’insegnamento della Chiesa. Addirittura, si arriva ad affermare che nello sviluppo storico della sua dottrina la Chiesa ha riflettuto sul fatto che la giustizia umana è imperfetta, come se nei secoli precedenti la Chiesa non l’avesse fatto …
In merito alla prima obiezione, il Catechismo al n. 2267 esprime in realtà esattamente il contrario di quanto la vulgata progressista sostiene, ossia ribadisce chiaramente la liceità della pena capitale:
2267 L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani.Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana.
Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo « sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti ».
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Il paragrafo va letto, a nostro giudizio, suddividendolo in tre distinti livelli esplicativi: nel primo si afferma il principio, ossia si chiarisce che il ricorso alla pena di morte da parte di uno Stato è di per se lecito; nel secondo si elencano le condizioni necessarie e sufficienti affinché tale principio possa essere legittimamente applicato (inevitabilmente generiche e soggette alla prudente valutazione di chi detiene il potere); nel terzo viene inserita una valutazione strettamente personale di Giovanni Paolo II espressa nell’enciclica Evangelium Vitae, senz’altro rispettabilissima ma non vincolante per la coscienza (e comunque non in contraddizione con il principio espresso).
In effetti, per stabilire la liceità o meno del ricorso alla pena capitale è sufficiente la perentoria affermazione del principio contenuta nel primo livello. Soprattutto nel secondo ma anche nel terzo ci si muove unicamente nell’ambito delle circostanze e del contesto in cui la pena di morte può essere legittimamente applicata. In altri termini, nei livelli esplicativi successivi al primo il Catechismo intende muoversi nel campo delle prudenti valutazioni e dell’opinabile.
Per capire meglio la logica contenuta nel Catechismo al n. 2267 è quanto mai utile cambiare segno alle affermazioni in esso contenute, senza che con ciò se ne modifichi di uno iota il significato; ovvero, sarebbe possibile riscrivere il paragrafo nel modo seguente: se i mezzi incruenti non sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità può legittimamente applicare la pena capitale; se non dispone di possibilità adeguate per reprimere efficacemente il crimine, lo Stato può legittimamente ricorrere alla soppressione del reo.
Ciò significa, senza alcuna possibilità di smentita, che la pena di morte è di per se lecita; infatti, ammesso e non concesso che il contesto attuale non ne legittimi il ricorso, resta la validità universale del principio espresso. Difatti, il principio è immutabile mentre il contesto tende inevitabilmente a variare; pertanto, ciò che è illegittimo oggi potrebbe diventare legittimo domani e ciò che è illegittimo in un paese può invece essere legittimo in un altro.
In merito alla seconda obiezione, non sembra corrispondere al vero l’affermazione secondo cui ad un condannato a morte verrebbe negata la possibilità di pentimento; anzi, è proprio la radicalità della pena che può suscitare in lui il desiderio di emendarsi. Uno degli esempi più belli e indicativi in tal senso è il dialogo contenuto nel Vangelo di Luca tra uno dei malfattori appesi al legno della croce e Gesù:
Dal Vangelo secondo Luca. 23, 39-43
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!». Ma l’altro lo rimproverava: «Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male». E aggiunse: « Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: « In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».
In questo brano evangelico si nota il diverso atteggiamento dei due malfattori: l’uno rifiuta la pena, e con essa la salvezza di Cristo; l’altro, all’inverso, riconosce i propri peccati e accetta la pena, e con essa la salvezza di Cristo.
Tuttavia, l’errore più grossolano è “sorvolare” sul vero scopo della pena, che non è la correzione del reo. Proprio il Catechismo al n. 2266 afferma:
2266 Corrisponde ad un’esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto. La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole. |
Pare dunque evidente come sia necessario leggere il n. 2267 alla luce del n. 2266, in quanto quest’ultimo specifica bene lo scopo della pena, di qualsiasi pena comminata dalla pubblica autorità: primo, in ordine di importanza, il ripristino dello squilibrio sociale provocato dalla colpa (più grave è il delitto commesso maggiore è lo squilibrio e dunque la pena da comminare al reo); secondo, la difesa dell’ordine pubblico; terzo, e ultimo, la correzione del colpevole.