giovedì 12 marzo 2015

INDIVIDUALISMO PAGANO E INDIVIDUALISMO CRISTIANO

 
 
 
 
La Civiltà Cattolica anno LXXXIII, vol. I (quad. 1961, 26 febbraio 1932), Roma 1932 pag. 409-423.

INDIVIDUALISMO PAGANO E INDIVIDUALISMO CRISTIANO

Chi volesse scegliere fra i manuali di storia della filosofia, pubblicati per le scuole medie superiori, si troverebbe in grave impiccio, perchè dappertutto si ripetono, con maggiore o minore fedeltà, e con monotonia esasperante, le teorie che la critica razionalista ha imbastite intorno al Cristianesimo, e pretende di magnificare come l'ultimo e il più perfetto distillato della scienza moderna.
Il razionalismo è antico quanto la storia; ma oggi si è trovato un termine meno ingrato sotto il quale camuffarlo; non si parla di razionalismo, di soggettivismo, naturale suo fondamento, ma di individualismo. Il termine è ambiguo quanto mai sicchè sarà meglio che noi fin dal principio usciamo dalla ambiguità del vocabolo determinandone il senso, e così resterà anche chiarito quello che andremo notando, in seguito, sul razionalismo contemporaneo.
Individualismo può significare autonomia assoluta dell'uomo, il quale, libero da ogni legge, agisce e pensa per impulso di un principio interno, escludente ogni imposizione esterna. È questo l'isolamento dell'individuo, che se viene applicato alla questione religiosa, della quale noi particolarmente trattiamo, assume il significato di vero e proprio soggettivismo. In questione religiosa avrà, in tal senso, una tendenza individualistica colui il quale, rigettata ogni tradizione, ogni insegnamento esterno autoritativo, pone come regola del suo modo di pensare il sentimento, la natura, l'esperienza interna; soggettivismo dunque sia morale come speculativo.
Individualismo potrà significare in secondo luogo, con senso ben differente, un pieno e armonioso perfezionamento dell'individuo, in quanto che, guidato egli da principi radunatori di tutte le sue energie fisiche e morali, viene spinto ad una forte affermazione della personalità, come forza attiva, come potente sintesi di armonia intellettuale e morale. In questo caso il termine individualismo comporta ben altre ideologie: nel primo senso, esso esclude ogni regola esterna, ogni tradizione, ogni determinazione imponentesi dal di fuori, unica fonte di religione è l'Io nella più spregiudicata emancipazione; nel secondo senso richiede solamente il rigoglioso svolgersi di tutte le sane forze individuali, per la formazione di una forte e distinta personalità; non esclude dunque, per sè, una legge esterna, un insegnamento di autorità, purchè non impediscano il progresso e il perfezionamento dell'individuo.
Naturalmente il critico razionalista non intende la parola individualismo nel secondo senso; il suo atteggiamento dunque riguardo al problema religioso sarà soggettivistico, e individualismo presso di lui sarà sinonimo di soggettivismo. Ciò premesso, sforziamoci di determinare quali sono i principî dai quali il critico moderno è guidato nel giudicare del fatto religioso, e per essere più chiari accenneremo prima, a grandi linee, alla genesi del pensiero moderno, per poi stabilire le sue ultime posizioni.
Un poeta avvezzo al trivialismo blasfemo cantava: gettò la tonaca Martin Lutero, rompesti i vincoli uman pensiero [Sono versi di Giosuè Carducci nell'inno A Satana N.d.R.]. Abbiamo in sintesi il perno su cui si aggirava il movimento protestantico, scotimento di ogni giogo che impedisse la piena libertà di pensiero, e rinnegamento di ogni autorità di governo e di insegnamento dottrinale. Lutero pose come principio che depositaria della dottrina rivelata non era una Chiesa docente, ma la scrittura interpretata secondo l'interna ispirazione dello Spirito Santo, comunicantesi a ciascun cristiano. Si iniziò così il libero esame, e si posero le fondamenta di un radicale soggettivismo religioso. Tutte le teorie moderne sulla religione sono rampollate da questo ceppo viziato. L'azione dello Spirito Santo, che ispirerebbe ad ognuno la propria fede, e lo renderebbe giudice insindacabile di essa, a mano a mano che il disgregamento si andava dilatando e approfondendo, si cambiò in sentimento soggettivo, in mozione interna del tutto naturale, in certo istinto vaporoso e indefinito. L'anarchia intellettuale era inevitabile conseguenza; sradicato l'uomo dal passato con una recisa negazione, separato dalla Chiesa maestra autentica, concentrato tutto intorno al suo io libero, ne doveva nascere anche quel libertinaggio razionale, di cui ci porge esempio l'epoca decorrente dal secolo XVI ai nostri giorni.
Da una parte il libero esame frantumava l'unità religiosa in mille diverse sette, ciascuna delle quali rivendica il suo posto al sole; dall'altra la speculazione, rompendo tutte le dighe, straripava in svariate teorie sulla religione, teorie che avevano la vita di pochi anni, se non di pochi mesi, travolte da altre nuove sopravvenute. Non staremo qui a fare l'enumerazione di quanto si è sognato dalla ragione umana abbandonata a se stessa; la corsa al nuovo, al peregrino ha lanciato troppi razzi scientifici, perchè noi possiamo tenervi dietro. Piuttosto entriamo direttamente a parlare del movimento del nostro secolo e cogliamone i motivi direttivi principali, dai quali è guidato il critico moderno nel giudicare della religione.
Il P. De Grandmaison osserva che per andare alle origini di questo movimento bisogna risalire a Kant. «Può sembrare paradossale, egli scrive, di mettere una tendenza sentimentalista sotto il patronato del razionalista autore delle tre critiche. Figlio legittimo del XVIII secolo, e nemico dichiarato di tutto ciò che sapesse di fanatismo, Kant non poteva gustare l'interpretazione sentimentale della religione. Nondimeno il suo stesso razionalismo, mescolato a residui di educazione pietista da lui ricevuta, è diventata la filosofia del protestantesimo» [1]. Come il libero esame aveva derivata la fede dal puro sentimento interno di fiducia, e dalla ispirazione interna personale, fattori arazionali, nella stessa maniera Kant relega la religione nel mondo arazionale, la fa derivare da un postulato della ragione pratica. Non è una speculazione razionale quella che conduce all'affermazione dell'esistenza di Dio, ma un'esigenza della volontà. Questa costituisce la vera, l'unica religione naturale, alla quale ogni forma di religione positiva, concretata in formule dogmatiche, dovrà lasciare il posto, come espressione provvisoria. Religione antitradizionale, antidommatica quella di Kant, nella quale bastava innestare al luogo della volontà il sentimento, forza interna, misteriosa, che riempie di vibrazioni il nostro essere, per trovarsi in piena teoria modernista dei protestanti liberali e del razionalismo in genere.
Lo Schleiermacher operò questa sostituzione, e fece consistere la religione nel sentimento di dipendenza al Tutto, all'Universo, e la fede nella certezza acquisita di una tale dipendenza. Anche per lui la religione sta riposta in un fondo arazionale e si riduce a un certo cristianesimo senza dogmi, ad una vita religiosa lasciata in balia di un'impressione soggettiva, mutevole, il sentimento. Per quanto diverse possano essere le spiegazioni che il razionalismo moderno dà del Cristianesimo, in fondo ad ogni sistema si annida questa concezione filosofica, si nasconde questa ideologia, guida di tutti gli apprezzamenti.
Il critico pone come postulato fondamentale, indiscutibile l'impossibilità della rivelazione; Dio non può rivelarsi, e ciò o perchè esagera la trascendenza di Dio stesso, dichiarandolo inattingibile, o perchè limitato da anguste concezioni monistiche, restringe la sua speculazione al mondo sensibile, e in esso ricerca il divino.
Se non può esservi rivelazione, a maggior ragione non vi potrà essere tradizione dottrinaria, e autorità che imponga delle verità da credere. Il razionalismo è essenzialmente antidogmatico, antitradizionale. Con tali negazioni radicali la religione è svaporata, ma non volendo disfarsene addirittura, il razionalista la ha relegata in un subcosciente oscuro, in un moto del cuore, in una esperienza immediata e misteriosa della quale la ragione non sa dire nulla, e con la quale non ha nulla da vedere. La ragione sovrappone al moto del sentimento delle formule, una dottrina, che non è religione, ha un valore relativo, e rappresenta lo sforzo dell'intelletto nel voler concretare in forme razionali, sensibili il dato originario dell'esperienza. Le forme esterne variano col variare dei tempi, col mutare delle concezioni; nascono e muoiono travolte dal progresso della scienza.
L'uomo è fatto centro di tutta la religione, nel suo interno si trova la fonte unica da cui essa sgorga. Eccettuato questo commuoversi dello spirito dinanzi all'assoluto, il resto è messo in balia della più sfrenata speculazione razionale. Come il presupposto di un tale atteggiamento è la negazione e il disprezzo di ogni tradizione, così conseguenza ne è l'ecclettismo religioso. Se la religione consiste nel fondo arazionale dell'esperienza, il razionalista non farà più distinzione fra religione e religione: per lui tutte sono forme sensibili, passeggere, superabili da altre forme; il persistente, l'universale sta in fondo all'anima, nella vita nascosta del sentimento, detta esperienza del divino, e quella costituisce la vera religione naturale universale.
Su questo fondamento comune si potrà tentare un accordo fra tutte le religioni per ridurre il molteplice all'unità; ad esso vuol condurre precisamente il tentativo odierno di unione pancristiana. Il protestantesimo aveva già, nei tempi andati, sperimentato il bisogno di opporre un argine al disgregamento causato dal libero esame, ed aveva tentato l'unione nelle formule di concordia, cercando di stringere gli animi discordi attorno a un quid minimum, che si dissero articoli fondamentali, mentre abbandonava il resto alla libertà di pensiero. Intendimento per se stesso non coerente con i principî, poichè questo minimum poteva da ognuno essere ridotto al nulla. Allora si lasciava ancora in vita qualche dogma, ora si è spazzato diligentemente il campo. In tutto il processo, dall'inizio sino al risultato interamente negativo dei contemporanei, prevale sempre lo stesso errore instaurato dal protestantesimo, il soggettivismo.
Le caratteristiche dunque dell'atteggiamento razionalistico di fronte alla religione sono: negazione di ogni tradizione, di ogni dottrina stabilita da una autorità esterna all'uomo, relegamento della religione in un sentimento comune alla natura umana, sincretismo religioso con equivalenza di tutte le religioni sul dato fondamentale di esperienza, le diverse dottrine interpretazioni diverse dello stesso sentimento, e quindi tendenza di vedere in esse i simboli d'una comune religione prettamente naturale.
In conseguenza di questi principî, accettati dal critico a occhi serrati, senza un solo istante di dubbio sul loro valore, si afferma dal razionalismo che la religione cristiana nulla altro potè essere fin dal principio se non una esperienza. Gesù Cristo non avrebbe quindi predicata una verità rivelata, una dottrina vincolatrice della ragione, ma sarebbe stato semplicemente il primo soggetto di quella esperienza naturale svoltasi poi col nome di Cristianesimo. Questo a sua volta non avrebbe avuto, secondo la originaria esperienza di Cristo, un carattere rivelato, nè una tradizione rigida da custodire, nè quella intransigenza che di poi mostrò verso gli altri culti. Essenzialmente essendo una esperienza, non poteva nemmeno averle tali qualità; esse gli vennero più tardi, quando al contatto del mondo ellenistico, si rivestì di dottrine, si concretò in formule dogmatiche, si organizzò in chiesa. In sostanza si attribuisce al Cristianesimo un fondo soggettivistico, come primo suo nucleo.
Ma è proprio vero quanto così sicuramente si afferma? o forse la storia non ci dice che i fatti si sono svolti in modo del tutto diverso e che piuttosto il Cristianesimo nascente ha dovuto scendere sul campo per combattere le idee che gli si vogliono attribuire come nucleo originario? Uno sguardo all'elemento ellenistico in mezzo a cui il Cristianesimo cresceva e si avanzava, e alla opposizione irriducibile delle due correnti di pensiero, ci darà la risposta, senza necessità di ulteriori commenti.

Il mondo ellenistico, e il mondo romano, quando irruppe in esso la luce del Cristianesimo, respiravano lo stesso individualismo soggettivistico dei nostri critici. Era il termine, questo, di un lungo, lento, inesorabile insorgere dello spirito contro la religione nazionale. Religione dello stato era diventata la religione di Omero, questi aveva subordinato gli dei secondo la forma politica allora esistente, mettendo a capo dell'Olimpo Zeus, sotto il cui dominio si snodano e digradano le divinità inferiori. La sua costruzione corrispondeva ad una esigenza estetica, ma la religione da lui presentata non era tale da appagare l'animo umano, nei suoi bisogni più fondamentali. La ragione e la morale avrebbero presto trovato a ridire su una tale religione. La folla degli dei abitanti l'olimpo non appagava, nonostante l'ordinamento gerarchico, l'intelletto che ricerca nel molteplice l'uno, e dalla osservazione dei singoli vuole ascendere ad una visione unitaria dell'universo. Il basso antropomorfismo, che fingeva gli dei soggetti a tutte le passioni, e non interponeva quasi nessuna differenza fra la divinità e l'uomo, non era atto a contentare la filosofia, ricercante un fondamento di moralità. A tali deficienze intrinseche, per se stesse sufficienti a screditare una religione, si unirono altre cause.
La religione dello stato, quantunque per mezzo dell'istruzione si fosse largamente diffusa negli strati sociali, non aveva potuto distruggere tante altre forme di culto popolare, sopravvissute e perduranti fuori la legge. D'altra parte era impossibile che esercitasse un dominio esclusivo negli animi, perchè non possedeva una tradizione fissa, delle verità stabili e definite, regnava anche nelle cose di maggiore importanza l'indipendenza e l'arbitrio; Omero ed Esiodo differiscono persino nelle genealogie degli dei.
Nè esisteva un sacerdozio costituito al quale incombesse l'incarico di insegnare; il sacerdote era insieme magistrato, ufficiale dello Stato, e suo ufficio era offrire il sacrificio pubblico, non insegnare. Lo Stato curava solamente che il cittadino adempisse gli obblighi esterni della religione, e non vincolava le sue credenze interne, nè poteva farlo mancando una dottrina religiosa da trasmettere. Il legame stretto fra Religione e Stato, aveva per effetto che ogni movimento politico tendente a liberare l'individuo dal suo giogo ultrapotente, si ripercotesse sulle istituzioni religiose, talmente che lo sconvolgimento politico, qualunque natura avesse, determinava mutamenti di atteggiamento in riguardo alla religione. Questo complesso di cause spinse gradatamente il mondo ellenico alla perfetta indipendenza; filosofia e ragioni politiche andranno emancipando l'individuo, e ne faranno la fonte da cui dimana ogni legge civile, morale, religiosa.
Quando Alessandro nella battaglia di Arbela 321 a. C fiaccava la potenza dell'impero persiano, e completava la conquista dell'oriente, lo spirito greco aveva già rotti i legami con le vecchie tradizioni patrie sia religiose come civili. La filosofia ricercante sotto l'agitarsi del molteplice, e oltre il divenire degli esseri, oggetto dell'osservazione immediata, un principio unico permanente, aveva combattuta una lunga guerra alla religione omerica, e si era del tutto distaccata dalla sua tradizione. Nelle concezioni unitarie dell'universo, non poteva trovare giustificazione la falange degli dei dell'Olimpo; il principio unico, forza immanente unitrice, o intelligenza trascendente ordinatrice si potrà chiamare ancora Zeus, ma il Zeus di Omero è morto per la filosofia. I filosofi preattici, i sofisti, i grandi pensatori del periodo aureo hanno tutti contribuito al lento dissolvimento della tradizione. Comune a tutti è il disdegno per le antiche credenze: Pitagora intravede una oscura nozione dell'essere supremo, Anassagora intuisce una mente ordinatrice, ed entrambi disprezzano i culti locali. I sofisti muovono da principî scettici e sono ancora più sovvertitori: Protagora dichiara di non potere dire nulla degli dei, Gorgia si chiude nella più sprezzante negazione, Crizia ne attribuisce l'invenzione allo Stato.
Socrate insorge contro lo scetticismo dei sofisti, ma il suo pensiero non è meno avverso agli antichi ordinamenti religiosi, al culto della polis, e gli Ateniesi lo accusano di empietà, e lo costringono a bere la cicuta. Il problema morale gravita col suo peso sullo spirito umano, che ne ricerca una spiegazione, e questa la trova sempre fuori della religione antropomorfica, istoriata di leggende immorali. Già Ippia, distinguendo fra natura e legge, aveva dichiarata regola permanente e unica la natura, e insieme aveva abbassata la legge religiosa e civile all'ordine relativo. Con ciò si toglieva alle leggi il loro contenuto divino. Socrate spinto dalla necessità di trovare delle nozioni comuni e dei principi stabili, che non mutassero col mutare degli individui, si ripiegò anche egli sulla natura umana. Nella sua concezione non è più la religione a segnare il punto di appoggio alla morale, ma la natura nei suoi bisogni, e nelle sue leggi universali. Esigenza logica ed esigenza morale lavorano così al discredito della religione della polis.
La vita esterna rimane ancora tutta regolata dalle leggi religiose, determinanti il culto, ma esse avevano perduto l'anima; non erano più forme vive alle quali lo spirito aderisse sinceramente, per interna convinzione, ma peso morto di una tradizione già fatiscente. Lo sguardo aveva valicati i limiti angusti della polis e aveva spaziato in orizzonti più vasti, un grande concetto di unità universale sorgeva dalle rovine della polis, e una visione più ampia di religione si affermava sopra i detriti della vecchia religione dello stato.
Il pensiero greco si trovava già in cammino per questa via, quando la conquista di Alessandro accelerò il ritmo della avanzata. Un immenso impero veniva fondato, dove confluivano in unità politica popoli diversi per lingua, tradizioni e culti. Improvvisamente la cultura greca si affacciava nel mistico oriente, e conosceva altre leggi e altre divinità. All'urto di questa folata di vita diversa, la religione greca non poteva resistere, perchè priva di tradizione, e di un sacerdozio attivo e influente; così mentre si allargava in visuale, perdeva in profondità. Le tradizioni patrie erano cadute sotto i colpi della riflessione filosofica, ora, col dilagare del popolo greco nell'oriente, con l'abbassamento della Grecia alla dignità di una provincia del grande impero, si spengono gli ultimi residui.
L'impero oltre l'unità politica richiedeva l'unità spirituale, e questa era impossibile finchè i popoli avessero obbedito a diverse religioni. Alessandro, e dopo lui i Seleucidi e i Lagidi lavorarono per l'unione spirituale dei popoli soggetti, e ciò non fu una delle ultime cause dell'instaurazione del culto imperiale. Un grande, indefinibile lavorio di fusione, di compenetrazione, di sovrapposizione di culti, idee, filosofie contrassegna questo periodo. Sorgono nuove concezioni. Cadono le barriere che avevano isolato il popolo greco dagli altri popoli; non vi è più distinzione fra greco e barbaro, fra servo e padrone, ma tutti affratella una sola famiglia universale, tutti sono cittadini del cosmos, cosmopoliti. Universalismo vuoto e freddo, che stende le sue conseguenze al problema religioso, e conduce al sincretismo.
I limiti fra l'umano e il divino scompaiono nella deificazione dell'uomo vivente, e le differenze fra le varie divinità si attenuano tanto, che svaniscono le proprietà individuali, e si confondono tutte in un essere impersonale a cui convengono attributi diversi. Questa concezione ha come naturale effetto la tolleranza di tutte le divinità, la giustificazione di tutti i culti.
Interprete delle nuove correnti di pensiero determinatesi nel mondo ellenistico si fece il sistema degli Stoici, che si può chiamare lo sforzo della riflessione per ridurre in sistema gli antichi e i nuovi elementi.
Lo stoico concepì il mondo in maniera strettamente monistica, riannodandosi ad Eraclito, ne desunse l'idea del logos, e ne fece l'anima dell'universo, da cui tutto procede, in cui tutto ritorna. Il logos è anima dell'immenso organismo vivente, il mondo, e insieme sua legge immanente. Gli esseri tutti ne rinserrano in sè una parte, l'uomo ne è la più perfetta emanazione. Una stessa legge lega e dirige le cose e gli dei, il logos, e si manifesta con l'impulso della natura, che trascina inesorabilmente nell'evoluzione ciclica di emanazione e di riassorbimento nell'anima universale che tutto penetra.
Dal monismo rigido degli stoici derivano alcuni punti di dottrina di alto interesse per la nostra questione religiosa. Lo stoicismo ha suggellata con la filosofia la divinizzazione dell'uomo, ne ha fatto il centro del mondo, poichè in lui vive e si agita quella stessa divinità che è anima dell'universo.
Inoltre ha consacrato con la divinità l'impulso della natura umana, ed ha portato nell'interno dell'uomo ogni principio di legge e di religione. Il mondo non ha legge esterna; sua legge immanente è il logos; l'uomo, parte dell'universo, non ha nemmeno lui, altra legge fuori di quell'anima divina che egli rinserra nel suo interno. La sua natura ne è espressione, egli deve seguirla senza opporre resistenza. La ragione guidata dalla spinta naturale diviene infallibile, come il logos donde essa emana, poichè ogni suo impulso, ogni suo desiderio, ogni suo movimento è impulso, desiderio, movimento del logos unico. La religione, coerentemente al sistema, si è ridotta al sentimento di dipendenza verso il logos universale, ad una sottomissione passiva al dettame della natura, al principio divino inabitante in ciascun individuo.
Universalismo politico, e sincretismo religioso trovano il loro appoggio nella dottrina degli stoici. Lo stoico non vuol distruggere la religione popolare, e quantunque dalle esigenze del sistema fosse condotto ad una rigida unità; senza portare danno all'una e all'altra, egli piega il sistema verso la mitologia, e con interpretazioni allegoriche si sforza di spiegare la varietà degli dei, l'indecenza delle favole mitologiche e le diverse religioni. La divinità è una: il logos, la natura stessa del mondo, le altre sono espressioni multiple, mutevoli della unica essenza divina immanente. I nomi diversi indicano la stessa cosa; tutte le volte che vorrai, dice Seneca, ti è lecito nominare diversamente questo autore del tutto.
Come il politeismo è giustificato da una tale esegesi allegorica, così ne esce anche accreditato il sincretismo religioso. Lo stoico non ha una tradizione da difendere, non ha verità che si mostrino intransigenti; una tradizione non vi era prima dello stoicismo, e se vi fosse stata, ora sarebbe naufragata nel mare sconfinato dell'universo divinizzato, dove non vi sono antinomie, opposizioni, contradizioni irriducibili. Culti, riti, religioni, divinità emergono dalla natura, come forme di attività di una potenza universale che non può errare. Ne consegue che tutte sono buone, che l'uomo può attenersi a quella che più gli piace. Il punto di arrivo dell'evoluzione del pensiero in riguardo alla religione segna le seguenti posizioni: mancanza e rigetto di una tradizione religiosa fissa e di una dottrina stabile; abbandono della religione in balia dell'impulso naturale; sincretismo religioso con equivalenza ideale di tutte le religioni; interpretazione simbolica della mitologia, e delle dottrine per riportarle tutte all'unità.
La somiglianza fra questo modo di prospettarsi il problema religioso, e quello dei critici razionalisti moderni non può sfuggire; basta confrontare per vedere. Certamente il razionalista non abbraccia tutto quello che circolava nelle dottrine ellenistiche, ma nella questione fondamentale, nella essenza del suo atteggiamento, nei principi con i quali si regola, si trova nelle stesse disposizioni di spirito, che si possono compendiare in tre parole: antidogmatismo, naturalismo, sincretismo.
Sarebbe dunque molto più esatto affermare, se si vuole ascoltare la voce della storia, che il critico moderno ha indietreggiato di venti secoli, e, rivestendo le forme di pensiero allora in voga, si è abbandonato all'anarchia razionale propria del mondo ellenistico e si è rituffato nella notte densa in cui brancolava il pagano, prima che Gesù annunziasse il Vangelo della vita.
I termini, come si vede, sono del tutto invertiti, e la storia dà ai critici una aperta ritorsione di argomento; non il Cristianesimo ha assorbite le dottrine dall'ellenismo, ma il razionalismo ne ha fatto proprie le idee.

Invece in questa notte il Cristianesimo fece brillare la fiaccola di una verità divina, con la quale rischiarò le tenebre dello spirito, smarrito nel fluttuare di dottrine e religioni diverse; verità fondamentalmente opposta al pensiero ellenizzante. Per rilevare l'uomo dalla sfiducia in cui era caduto, dopo il lungo e infruttuoso errare dietro la ragione nella ricerca di Dio, bisognava fargli risplendere delle verità non soggette al dente corroditore della critica razionale soggettiva. Tanto fece il Cristianesimo, annunziando che la sua dottrina non era il frutto di una libera speculazione filosofica, non una nuova sintesi costruita dalla ragione, ma parola di Dio stesso. «In molti modi Dio ha parlato ai padri nostri; negli ultimi giorni ha parlato per mezzo del Figliolo» [2]. Gesù Cristo figlio di Dio è apparso, ha aperto la bocca divina e ha istruiti gli uomini: gli apostoli non sono che gli araldi della buona novella da Lui annunziata. Essi attuano il comando ricevuto: «andate e insegnate a tutte le genti», e non una qualsiasi verità ma «servare omnia quaecumque mandavi vobis» [Matth. XXVIII, 19-20: «... di osservare tutto quello, che io vi ho comandato». N.d.R.]. L'oggetto della loro predicazione è strettamente determinato, devono trasmettere fedelmente quanto Gesù Cristo ha loro insegnato e rivelato, non altro. Il vangelo dunque, di cui sono stati costituiti gli annunziatori, è essenzialmente tradizionale, di tradizione non puramente umana, ma di una dottrina la cui fonte sta fuori dell'uomo, in Dio. «Ego enim accepi a Domino quod et tradidi vobis» [I Cor XI, 23: «Imperocchè io ho appreso dal Signore quello, che ho anche insegnato a voi» N.d.R.] [3] scrive Paolo ai Corinti; «neque enim ab homine accepi illud, neque didici, sed per revelationem Iesu Christi» [Gal. I, 12: «imperocchè non lo ho ricevuto (il Vangelo), nè lo ho imparato da uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo» N.d.R.] [4] ripete ai Galati.
L'origine trascendente della dottrina cristiana distruggeva il soggettivo pullulare di dottrine religiose, e insieme vincolava l'uomo alla fede, richiedendo la piena soggezione dell'intelligenza e l'adesione perfetta alla verità rivelata. I discepoli non hanno l'incombenza di speculare, di innovare, ma quella di trasmettere incontaminato il deposito delle fede: «bonum depositum custodi» [II Tim. I, 14: «Custodisci il buon deposito» N.d.R.] [5], esorta Paolo Timoteo, e tramanda a uomini fedeli quanto hai udito da me, affinchè essi lo trasmettano ad altri. Il deposito della rivelazione è un tesoro sacro che il cristiano deve custodire, senza nulla aggiungere e nulla sottrarre «custodies quae accepisti neque addens neque demens» [6]. Nessuna novità è ammissibile, nessuna dottrina può essere accettata che non sia contenuta nella parola tradizionale scritta od orale; negli errori, criterio infallibile per riconoscerli e rifugio di salvezza è la fede ricevuta fin dall'inizio: «Perciò abbandonando la vanità di molti e le false dottrine, ritorniamo alla dottrina trasmessa a noi fin dall'inizio» [7], ammoniva Policarpo i Filippesi.
La natura divina della verità cristiana portava come conseguenza necessaria la più assoluta intransigenza verso le altre religioni. Il Cristianesimo strettamente monoteistico ammetteva un Dio unico, trascendente, creatore di tutto l'universo, ed affermava che il culto si deve a Lui solo. Questo Dio di misericordia, superando la infinita distanza che lo separa dalla creatura, si era fatto pure uomo, ed aveva parlato; nella sua parola dunque si conteneva in modo esclusivo la verità.
Erano idee profondamente innovatrici; le religioni pagane non avevano conosciuta questa recisa affermazione di intransigenza, non si erano mai arrogato l'esclusivo possesso della verità, si erano piuttosto adattate alle condizioni politiche e culturali dei popoli, attuando spesso ardite trasformazioni, e piegandosi sempre ad accomodamenti e a mutue cessioni. Nè la religione popolare, nè la filosofia avevano mai avuta coscienza di un dominio esclusivo della verità; il popolo era rimasto attaccato alla idolatria, e i pensatori avevano dovuto giustificarla, piegando il rigore dei sistemi verso gli usi popolari, e il sincretismo pratico dello stato pagano.
Lo spirito della nuova religione abborriva dall'una e dall'altro. L'idolatria è un peccato che richiama dal cielo le più dure sanzioni; Iddio ha abbandonati nel più misero decadimento quanti, avendolo conosciuto, non lo hanno glorificato come meritava, ma, cedendo ai vaneggiamenti del cuore, hanno sostituito al vero Dio le creature sensibili [8]. Il sincretismo ripugna al dominio che solo l'unico Signore ha sulla sua creatura, e al dovere di assoluta dipendenza che ne consegue. Dio richiede per sè tutto l'uomo, nella vita pubblica e nella vita privata, nella vita interna e nella vita esterna, nell'ordine ideale e nell'ordine pratico, perchè in tutto gli appartiene. L'individuo è così sottoposto a una legge il cui autore è Dio; non è più dunque abbandonato alle sue forze soggettive; la fonte della religione non si trova dentro di sè, perchè gli viene imposta da quella relazione essenziale di dipendenza del suo essere dall'atto creatore e conservatore di Dio. La natura dell'uomo è così fondamento del culto dovuto all'Essere supremo, ma non come principio soggettivo e indipendente, non come natura divinizzata, ma come creatura essenzialmente dipendente. L'orgogliosa elevazione dell'uomo alla uguaglianza divina riesce ora un assurdo; un abisso infinito separa il Creatore dalla creatura; ma nello stesso tempo l'individuo viene a pigliare nell'armonico disegno dell'universo il suo giusto posto, inferiore a Dio di cui non porta che un pallido riflesso, e insieme capace di tendere a Lui, di conoscerlo, di amarlo, di assomigliarsi alle sue fattezze, di possederlo un giorno in una visione eterna.
La fede in un sicuro avvenire, nell'immortalità dell'anima destinata alla beatitudine, nella sicurezza di potere arrivare al godimento eterno, fu la molla di propulsione per un lavoro di intensa perfezione interna, e di elevazione spirituale. Il vero individualismo cristiano ha trovato qui l'impulso alle sue vittorie. Tutte le forze del cristiano furono raccolte intorno a questo fine nobile. Liberato dalle fluttuazioni speculative che snervano l'anima nel dubbio, e illuminato da principî immortali, l'uomo sentì rinascere le speranze; sicuro che una forza superiore lo sorreggeva nella lotta contro il male, egli fece violenza a se stesso e vinse il mondo. Nobili figure sorsero a provare col fatto l'efficacia costruttiva della nuova fede, e stupirono il paganesimo con gli esempi di una santità, indice di immensa forza morale. La fede soggiogava la ragione, infrenava la volontà, ma insieme infondeva all'animo un santo fervore, una gioia di cui il paganesimo non aveva esempio. Era la gioia di avere trovata la verità, di possederla finalmente intera, di camminare alla gran luce della rivelazione.
Concludiamo questi, necessariamente rapidi tocchi, con il paragone che il P. Lebreton istituisce fra le disposizioni spirituali di Marco Aurelio, e quelle dell'apologista S. Giustino; sono due personificazioni istruttive del paganesimo morente e del Cristianesimo nascente.
«Non vi può essere contrasto più impressionante, che quello dei Pensieri di Marco Aurelio, con le Apologie e i Dialoghi di S. Giustino. La fiacchezza di questa anima di imperatore, naturalmente così elevata e così religiosa fa stranamente spiccare l'allegrezza e il fervore dell'apologista. D'entrambe le parti la forma letteraria è mediocre, ma veramente la letteratura qui importa poco, quello che colpisce soprattutto è lo spettacolo di queste due anime, di cui una infiacchisce nella notte e l'altra avanza nella luce» [9].
Frutto questo di due individualismi opposti. Il paganesimo elevava l'individuo fino alla divinità e l'individuo si accasciava schiacciato dal suo stesso peso. Il Cristianesimo lo rinserrava dentro le leggi divine, e come creatura lo sottoponeva al dominio di Dio, e l'individuo, rigenerato da questa stessa soggezione, si elevava in alto verso la perfezione.
Una riflessione scaturisce spontanea da quanto si è detto. Il critico razionalista crede il suo atteggiamento nel problema religioso frutto di una sana evoluzione della ragione, finalmente liberata da ogni ceppo, e conquista del progresso della scienza. Ma la realtà è diversa: esso piuttosto è il termine di una involuzione che è ripiegamento verso il paganesimo, è la perdita di ogni fermezza di fede, naufragata nel mare delle impressioni soggettive.
Si può dunque essere facili profeti, dietro l'ammaestramento della storia, affermando che il movimento razionalista non condurrà ad altro se non all'estinzione dello spirito religioso, alla indifferenza, allo scetticismo, al turbamento delle coscienze, e che i tentativi di unione rimarranno un sogno impotente ad attuarsi in realtà. La salvezza dal naufragio si troverà esclusivamente nel ritorno alla rivelazione, e nell'adesione incondizionata all'insegnamento tradizionale e divino della Chiesa cattolica, depositaria della parola rivelata. Hanno mai pensato a ciò coloro che si fanno propagatori delle dottrine razionaliste fra la nostra gioventù?

NOTE:

[1] Huby. Christus, Paris 1912, p. 973.
[2] Hebr. 1. 1.
[3] 1 Cor. 11, 23; 15. 3.
[4] Gal. 1, 12.
[5] 2 Tim. 1, 14.
[6] Didache ed. Funk 1, 14.
[7] S. Policarpus, Epist. ad Philipp. Funk 1, 304.
[8] Rom 1, 21 ss.
[9] Lebreton. Les Origines du Dogme de la Trinité. Paris, 1919, pag. 73.