mercoledì 29 febbraio 2012

220° anniversario della nascita di Gioachino Rossini: Un compositore legittimista

Gioachino Rossini nel 1812 all'età di 20 anni



Gioachino Rossini, o Gioacchino, all'anagrafe Giovacchino Antonio Rossini[1] (Pesaro, 29 febbraio 1792Parigi, 13 novembre 1868), è stato un grandissimo  compositore ma anche un sostenitore del legittimismo , filo-Austriaco, sostenitore del sistema Federale/Confederale .
La sua attività ha spaziato attraverso vari generi musicali, ma è ricordato soprattutto come uno dei grandi operisti della storia, autore di spartiti famosissimi e celebrati come Il barbiere di Siviglia e Guillaume Tell.



La prima parte della sua vita fu come uno dei suoi celeberrimi, travolgenti crescendo (compose la prima opera all'età di quattordici anni); poi - come per iniziare una seconda esistenza - vennero il precoce ed improvviso abbandono del teatro, la depressione e il ritiro nella pace della campagna parigina di Passy, con molte pagine di musica ancora da scrivere.
Nato tre mesi dopo la morte di Wolfgang Amadeus Mozart, il Cigno di Pesaro - come fu definito [2] - impresse al melodramma uno stile destinato a far epoca e del quale chiunque, dopo di lui, avrebbe dovuto tener conto; musicò decine di opere liriche senza limite di genere, dalle farse alle commedie, dalle tragedie alle opere serie e semiserie.
La sua famiglia era di semplici origini: il padre Giuseppe - detto Vivazza (morto il 20 aprile 1839) - fervente sostenitore della Rivoluzione francese(tutto l'opposto del figlio), era originario di Lugo (Ravenna) e suonava per professione nella banda cittadina e nelle orchestre locali che appoggiavano le truppe francesi d'occupazione; la madre, Anna Guidarini, era nata ad Urbino ed era una cantante di discreta bravura. A causa  delle sovversive idee politiche del padre, la famiglia Rossini fu costretta a frequenti trasferimenti da una città all'altra tra Emilia e Romagna.


Così il giovane Rossini trascorre gli anni della giovinezza o presso la nonna o in viaggio fra Ravenna, Ferrara e Bologna dove il padre era riparato nel tentativo di sfuggire alla cattura dopo il restauro del governo pontificio. Ed è proprio a Bologna(dove sarà decisiva la separazione dal padre e dalle idee che cercava di imprimerli), dopo aver appreso qualche rudimento dai fratelli Malerbi a Lugo, che si avvicina alla musica ed in particolare allo studio del canto (fu contralto e cantore all'Accademia filarmonica) e della spinetta presso Giuseppe Prinetti, suo primo maestro.
È il 1800 e Rossini ha otto anni; a quattordici (1806), si iscrive al Liceo musicale bolognese, studia intensamente composizione appassionandosi alle pagine di Haydn e di Mozart (è in questo periodo che si guadagna l'appellativo di tedeschino), mostrando grande ammirazione per le opere di Cimarosa e scrive la sua prima opera (Demetrio e Polibio, che sarà rappresentata però soltanto nel 1812).
Conosce Isabella Colbran, cantante lirica, maggiore di età, che sposerà a Castenaso il 16 marzo 1822 e da cui si separerà intorno al 1830.
A neanche vent'anni tre sue opere sono già state rappresentate e il numero, un anno dopo, salirà a dieci. L'esordio ufficiale sulle scene era avvenuto nel 1810 al Teatro San Moisè di Venezia con La cambiale di matrimonio.


Nel ventennio successivo Rossini compose una quarantina di opere, arrivando anche a presentarne al pubblico 4 o 5 in uno stesso anno; in occasione delle prime rappresentazioni dei suoi lavori, il pubblico italiano gli riserverà accoglienze controverse. Si passò infatti da straordinari successi (La pietra del paragone, La gazza ladra, Zelmira, Semiramide) ad accoglienze freddine e perfino a clamorosi insuccessi, tra i quali è divenuto storico quello del Barbiere di Siviglia, in occasione della cui "prima" al Teatro Argentina di Roma, nel 1816, vi furono addirittura dei tafferugli, causati con ogni probabilità dai detrattori del Maestro pesarese; l'opera ebbe infatti un grande successo pochi giorni più tardi. Sempre del 1816 è poi l'opera Otello (da cui sarà ricavata poi parte della musica del Duetto buffo di due gatti, brano per soprano erroneamente attribuito a Rossini).
Semiramide (1823) è stata l'ultima opera di Rossini a debuttare in Italia. Dopo la sua rappresentazione il compositore si trasferì a Parigi, dove le sue opere furono accolte quasi sempre in modo trionfale. Guglielmo Tell - rappresentato a Parigi il 3 agosto 1829 con il titolo francese di Guillaume Tell - sarà il suo ultimo melodramma.


Sei movimenti del suo Stabat Mater furono scritti nel 1832 e il resto fu completato nel 1839, anno della morte del padre. Il successo di quest'opera regge il confronto con quelli ottenuti nel campo dell'opera lirica; ma è la ridotta produzione nel periodo che va dal 1832 alla sua morte, avvenuta nel 1868, a rendere la biografia di Rossini simile alla narrazione di due vite diverse: la vita del trionfo veloce ed immediato, e la lunga vita appartata e oziosa, nella quale i biografi hanno immortalato il compositore. Negli ultimi anni egli compose infatti solo pochissimi lavori, tra cui la memorabile Petite messe solennelle.
Molti storici della musica si sono interrogati sulle cause del suo precoce ritiro dalle scene teatrali. Probabilmente, all'origine di questa inaspettata scelta v'è l'incompatibilità tra Rossini e l'estetica romantica. All'esaltazione della forza trascinante del sentimento e l'identificazione coi personaggi, il pesarese contrappone, difatti, un settecentesco distacco razionale. Sono stati comunque rilevati i numerosi elementi romantici presenti all'interno del suo Guglielmo Tell, l'utilizzo di elementi folcloristici (come l'inserimento nell'organico orchestrale dei richiami svizzeri per le vacche, o ranz des vaches), e la grande importanza affidata al coro. Quasi che Rossini, prima di uscire di scena, si fosse premurato di dimostrare che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto dominare anche il trionfante nuovo stile romantico.
Rossini, uomo dalle mille sfaccettature, è stato descritto dai numerosi biografi in molte maniere: ipocondriaco, umorale e collerico oppure preda di profonde crisi depressive, ma pure gioviale bon vivant amante della buona tavola e delle belle donne; spesso è stato ritenuto afflitto da pigrizia, ma la sua produzione musicale, alla fine, si rivelerà incomparabile (sebbene arricchita da numerosi centoni, brani musicati precedentemente e riutilizzati per nuove opere che il compositore prestava a se stesso in una sorta di auto-plagio). Il 15 marzo 1847 Rossini ottenne dalla Repubblica di San Marino il titolo di nobile e venne altresì proposto, il 10 dicembre 1857, per l’ascrizione al patriziato della città di Lugo.
Rossini smise di comporre per il teatro lirico all'età di trentasette anni, dopo il Guglielmo Tell, ritirandosi dalla mondanità a vita privata. Nonostante ciò continuò fino all'ultimo a comporre musica, per sé, per Olympe Pélissier (sposata in seconde nozze nel 1846, dopo la morte della Colbran, avvenuta l'anno prima) e per gli amici.


Tra le ultime opere composte occorre ricordare la versione definitiva dello Stabat mater (1841) ed innumerevoli brani di musica da camera, sonate e composizioni per pianoforte solo o con voce solista, come nel caso delle Soirées musicales (pubblicate nel 1835). Nella produzione dell'ultimo Rossini ci sarà inoltre spazio anche per quelli che egli stesso definì autoironicamente i suoi «Péchés de vieillesse», semplici senili debolezze. L'ultima sua composizione di rilievo fu la Petite messe solennelle (1863) per dodici cantori di tre sessi, uomini, donne e castrati, due pianoforti ed armonium, che Rossini si risolse ad orchestrare poco prima di morire nel timore che altrimenti poi lo avrebbe fatto qualchedun altro. Di questa versione, tuttavia, finché visse, non consentì mai l'esecuzione neppure in privato, mentre la versione originale era stata rappresentata nel 1864 presso la villa di una nobildonna parigina, alla presenza di un limitatissimo numero di amici e conoscenti, tra cui i più grandi musicisti allora operanti nella capitale francese.


L'autore di opere come Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola, Semiramide, Tancredi, La gazza ladra e Le Comte Ory (solo per citarne alcune) si spense per una forma tumorale nella sua villa di Passy, presso Parigi. I francesi - ma non solo - si stavano preparando a festeggiare il suo settantasettesimo compleanno. Le sue spoglie furono tumulate nel cimitero parigino del Père Lachaise e traslate in Toscana solo nel 1887, nove anni dopo la morte della Pélissier, su una presunta iniziativa del governo italiano(  vi sono forti dubbi sul motivo reale di questo gesto). Riposano definitivamente nel "tempio dell'Itale glorie" (Foscolo, Dei sepolcri), la Basilica di Santa Croce, a Firenze. Il suo monumento funebre, creato da Giuseppe Cassioli, fu inagurato nel 1900.
A parte alcuni legati a titolo individuale in favore della moglie e di alcuni parenti[5], Rossini nominò erede universale delle sue ingenti fortune il Comune di Pesaro[6]. L'eredità fu utilizzata per l'istituzione di un Liceo Musicale cittadino. Quando, nel 1940, il liceo fu statalizzato, diventando il Conservatorio Statale di Musica Gioachino Rossini, l'Ente Morale a cui erano state conferite proprietà e gestione dell'asse ereditario rossiniano, fu trasformato nella Fondazione Gioachino Rossini. Finalità della Fondazione, che è tuttora in piena attività, sono: il sostegno dell’attività del Conservatorio, lo studio e la diffusione nel mondo della figura, della memoria e delle opere del pesarese. La Fondazione ha collaborato, fin dagli inizi, con il Rossini Opera Festival[7], ed ha concorso, in misura significativa, a predisporre gli strumenti culturali (le "edizioni critiche" delle opere rossiniane) che sono stati alla base della Rossini-renaissance dell'ultimo trentennio del Novecento.




Oltre al suo grande talento nel comporre musica di altissima qualità, Gioachino Rossini si contradistinse per le sue idee politiche fortemente legittimiste e tradizionaliste, infatti egli non nascondeva il suo appoggio verso i progetti Confederalisti/Federalisti di Vincenzo Gioberti e di Cesare Balbo, ma essendo anche sostenitore e ammiratore dell'amministrazione impeccabile di cui godevano gli Stati soggetti ad amministrazione Imperiale Austriaca, egli manifestava vivamente le sue tendenze filo-Austriache, appoggiando la creazione di un Italia  Confederale/Federale , ma con presidenza insignita all'Imperatore d'Austria.I  progetti rivoluzionari e settari di creare un unico Stato Italiano  li etichettava giustamente come ridicoli affermando che "l'unità d'Italia è un'autentica scemenza", come darli dargli torto dopo tutto?. Quando il folle progetto unitario venne compiuto, piuttosto che vivere in un Italia unita e con Casa Savoia-Carignano al potere, preferì trasferirsi all'estero, in Francia, dove trascorse il resto della sua vita morendo a Parigi nel 1868. Oggi le sue spoglie mortali riposano nella Basilica di Santa Croce a Firenze.
Egli rappresenta un artista di gran lunga superiore al fin troppo acclamato Giuseppe Verdi, senza contare poi che a differenza del traditore Parmanse aveva sani principi e ideali.

A sinistra si puo vedere la cappella del cimitero del Père Lachaise a Parigi, dove le spoglie di Rossini riposarono fino al 1887, mentre a destra viene mostrata la tomba definitiva di Rossini nella Basilica di Santa Croce a Firenze
(Monumento funebre di Giuseppe Cassioli)




Fonti:

Wikipedia

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Il Principe dei Reazionari

martedì 28 febbraio 2012

Linea di successione al trono del Regno delle Due Sicilie

Bandiera Regno delle Due Sicilie





La linea di successione al trono del Regno  delle Due Sicilie segue il criterio della legge salica.
Il Regno delle Due Sicilie è stato invaso , occupato militarmente e  unificato forzatamente al Regno di Sardegna con un plebiscito farsa  nell'Ottobre del 1860. Attualmente il titolo di pretendente al trono è conteso dal 7 gennaio 1960, data della morte di Ferdinando Pio di Borbone-Due Sicilie, ultimo capo della casa universalmente riconosciuto. Gli attuali contendenti sono Carlo di Borbone, duca di Castro, nato nel 1963, e Carlo Maria di Borbone, duca di Calabria, nato nel 1938.

S.A.R. Carlo I° di Borbone-Due Sicilie


Linea di successione al duca di Castro

  Pretendente al trono delle Due Sicilie : S.A.R. Principe Carlo, Duca di Castro (nato nel 1963)
Ferdinando II delle Due SiciliePrincipe Alfonso, Conte di CasertaPrincipe Gabriele di Borbone-Due Sicilie


  • S.A.R. Principe Antoine di Borbone-Due Sicilie (n. 1929), figlio del Principe Gabriele di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe François di Borbonr-Due Sicilie (n. 1960), figlio del Principe Antoine di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe Mario Alberto di Borbone-Due Sicilie (n. 1995), figlio del Principe François di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe Antoine di Borbone-Due Sicilie (n. 2003), figlio del Principe François di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe Gennaro of Bourbon-Two Sicilies (n. 1966), figlio del Principe Antoine di Borbone-Due Sicilie )

  • S.A.R. Principe Casimiro di Borbone-Due Sicilie (b. 1938), figlio del Principe Gabriele di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe Luís di Borbone-Due Sicilie (n. 1970), figlio del Principe Casimiro di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe Alessandro di Borbone-Due Sicilie (n. 1974), figlio del Principe Casimiro di Borbone-Due Sicilie



  • S.A.R. Carlo II° di Borbone-Due Sicilie



    Linea di successione al duca di Calabria 

    Pretendente al trono delle Due Sicilie: S.A.R. Infante Carlos, Duca di Calabria (nato nel 1938)
    Ferdinando II delle Due SiciliePrincipe Alfonso, Conte di CasertaPrincipe Carlos di Borbone-Due SicilieInfante Alfonso, Duca di Calabria


  • S.A.R. Principe Pedro, Duca di Noto (n. 1968), figlio dell'Infante Carlos, Duca di Calabria

  • Principe Jaime de Borbón Dos Sicilias (n. 1993) figlio di don Pedro

  • Principe Juan de Borbón Dos Sicilias (n. 2003) figlio di don Pedro

  • Principe Pablo de Borbón Dos Sicilias (n. 2004) figlio di don Pedro

  • Principe Pedro de Borbon Dos Sicilias (n. 2007) figlio di don PedroFerdinando II delle Due SiciliePrincipe Alfonso, Conte di CasertaPrincipe Ranieri, Duca di CastroPrincipe Ferdinando, Duca di Castro

  • S.A.R. Principe Carlo, Duca di Castro (n. 1963), figlio del Principe Ferdinando, Duca di Castro
    Ferdinando II delle Due SiciliePrincipe Alfonso, Conte di CasertaPrincipe Gabriele di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe Antoine di Borbone-Due Sicilie (n. 1929), figlio del Principe Gabriele di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe François di Borbone-Due Sicilie (n. 1960), figlio del Principe Antoine di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe Mario Alberto di Borbone-Due Sicilie (n. 1995), figlio del Principe François di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe Antoine di Borbone-Due Sicilie (n. 2003), figlio del Principe François di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe Gennaro of Bourbon-Two Sicilies (n. 1966), figlio del Principe Antoine di Borbone-Due Sicilie )

  • S.A.R. Principe Casimiro di Borbone-Due Sicilie (b. 1938), figlio del Principe Gabriele di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe Luís di Borbone-Due Sicilie (n. 1970), figlio del Principe Casimiro di Borbone-Due Sicilie

  • S.A.R. Principe Alessandro di Borbone-Due Sicilie (n. 1974), figlio del Principe Casimiro di Borbone-Due Sicilie



  • Fonti:

    Wikipedia
                
    Youtube

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    Il Principe dei Reazionari    

    Linea di successione al trono dello Stato Pontificio


    Bandiera Stato Pontificio

    Territori dello Stato Pontificio



    Lo Stato Pontificio, detto anche Stato della Chiesa o Stato Ecclesiastico, è il nome dell'entità statuale costituita dall'insieme dei territori su cui la Santa Sede  ha la legittimità  di esercitare il proprio potere temporale dall'anno 752 .
    Lo Stato Pontificio venne totalmente invaso e occupato dall'esercito unitarista  nel 1870. Incominciò ad essere annesso illegittimamente da prima al Regno di Sardegna(Marzo-Novembre 1860), poi all'illegittimo Regno d'Italia quando, occupò  i suoi ultimi lembi di territorio indipendenti, Roma e gran parte dell'odierna regione Lazio dopo il 20 Settembre 1870.



    Nello Stato Pontificio non vi è una Casata e quindi una discendenza che in modo legittimo di generazione in generazione eredita e governa lo stato, ma il Re dello Stato Pontificio è il Pontefice che viene eletto e una volta eletto esercita il legittimo potere temporale da vero e proprio Sovrano per tutta la vita. Dopo il 1870 i Pontefici furono privati del proprio diritto legittimo ad esercitare il potere temporale , essendo, le loro terre, occupate da un governo illegittimo e usurpatore. Oggi il Pontefice è Sovrano di un piccolo pezzo di terra (Citta del Vaticano), ma i suoi diritti sono estesi ai territori compresi nei confini medesimi dello Stato Pontificio risalenti all'Aprile del 1859.

    A sinistra Papa Benedetto XVI° , e a destra il suo Stemma



    L'attuale Pontefice è Papa Benedetto XVI, nato Joseph Aloisius Ratzinger (in latino: Benedictus XVI; Marktl, 16 aprile 1927), è dal 19 aprile 2005 il vescovo di Roma e il 265º papa della Chiesa cattolica. In quanto tale, è sommo pontefice della Chiesa universale, legittimo sovrano dello Stato Pontificio , primate d'Italia, oltre agli altri titoli propri del romano pontefice.


    Inno dello Stato Pontificio



    Fonti:

    Wikipedia

    Youtube

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    Il Principe dei Reazionari

    Linea di successione al trono del Granducato di Toscana

    Bandiera Granducato di Toscana

    Territori del Granducato di Toscana




    La linea di successione al trono del Granducato di Toscana segue il criterio della legge salica.
    Il Granducato di Toscana venne occupato nel 1859, e nel 1860  un plebiscito farsa ne sancì l'illegittima unione al Regno di Sardegna. L'attuale pretendente al trono è il granduca Sigismondo d'Asburgo-Lorena di Toscana, con il nome di Leopoldo IV°d'Asburgo-Lorena Granduca di Toscana, nato nel 1966.

    S.A.I.R Leopoldo IV°d'Asburgo-Lorena Granduca di Toscana




    Sigismondo Ottone Maria Giuseppe Goffredo Enrico Erik Leopoldo Ferdinando di Asburgo-Lorena di Toscana (Losanna, 21 aprile 1966) arciduca d'Austria, principe reale di Ungheria e di Boemia e dal 1993, in seguito alla rinuncia del padre l'arciduca Leopoldo Francesco d'Asburgo-Toscana, capo della I. e R. Casa Granducale di Toscana e granduca titolare di Toscana.

    Ingegnere informatico, vive e lavora in Svizzera. È il primogenito dell'arciduca Leopoldo (1942) e della prima moglie, Laetitia di Belzunce d'Arenberg (1941). Nel 1999 sposa Elyssa Juliet Edmonstone (1973), figlia di Sir Archibald Bruce Charles, 7° Baronetto Edmonstone, e di Juliet Elizabeth Deakin.
    Nel 1994 ha assunto il Gran Magistero degli Ordini dinastici della Sua Casa: Sacro Militare Ordine di Santo Stefano Papa e Martire, Ordine di San Giuseppe, Ordine del merito civile. È Balì gran croce d'onore e devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta.
    Dal matrimonio sono nati tre figli:
    • il principe ereditario di Toscana arciduca Leopoldo Amedeo Pietro Ferdinando Arcibaldo (Glasgow, 9 maggio 2001);
    • l'arciduchessa Tatyana Maria Theresia Laetitia Juliet, principessa di Toscana (Livingston, Scozia, 3 marzo 2003);
    • l'arciduca Massimiliano Stefano Sigismund William Bruce Erik Leopold, principe di Toscana (Livingston, Scozia, 27 maggio 2004).

    Insegna Granducato di Toscana





    L'attuale linea di successione a Sigismondo è:
    1. Arciduca Amedeo, gran principe di Toscana, nato nel 2001.
    2. Arciduca Massimiliano, principe di Toscana, nato nel 2004.
    3. Arciduca Guntram, principe di Toscana, nato nel 1967.
    4. Arciduca Radbot, principe di Toscana, nato nel 1938.
    5. Arciduca Giorgio, principe di Toscana, nato nel 1952.
    6. Arciduca Domenico, principe di Toscana, nato nel 1937.
    7. Arciduca Leopoldo, principe di Toscana, nato nel 1956.
    8. Arciduca Alessandro Salvatore, principe di Toscana, nato nel 1959.
    9. Arciduca Constantino, principe di Toscana, nato nel 2002.
    10. Arciduca Paolo Salvatore, principe di Toscana, nato nel 2003.
    11. Arciduca Andrea Salvatore, principe di Toscana, nato nel 1936.
    12. Arciduca Taddeo Salvatore, principe di Toscana, nato nel 2002.
    13. Arciduca Casimiro Salvatore, principe di Toscana, nato nel 2003.
    14. Arciduca Marco, principe di Toscana, nato nel 1946.
    15. Arciduca Giovanni, principe di Toscana, nato nel 1947.
    16. Arciduca Michele, principe di Toscana, nato nel 1949.
    17. Arciduca Francesco Salvatore, principe di Toscana, nato nel 1927.
    18. Arciduca Carlo Salvatore, principe di Toscana, nato nel 1936.
    19. Arciduca Mattia, principe di Toscana, nato nel 1971.
    20. Arciduca Giovanni, principe di Toscana, nato nel 1974.
    21. Arciduca Bernardo, principe di Toscana, nato nel 1977.
    22. Arciduca Benedetto, principe di Toscana, nato nel 1983.


         Inno del Granducato di Toscana


    Fonti:

    Wikipedia

    http://www.granducato.org/genealogia-ita.html

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    Il Principe dei Reazionari

    lunedì 27 febbraio 2012

    La Monarchia sacra Parte Prima :I RITI DI CONSACRAZIONE DELLA MONARCHIA CRISTIANA:Ancora sul rito d’Incoronazione imperiale a Costantinopoli

    Dal 23 novembre 602, tuttavia, quando il Patriarca Ciriaco incoronò l’Imperatore Foca (602- 610) nella Chiesa di San Giovanni dell’Hebdomon, il nuovo sovrano, salvo il caso in cui era incoronato dal predecessore ancora in vita, secondo l’antica consuetudine, riceveva le insegne del potere imperiale in chiesa. “Il suo successore Eraclio (610- 641) fu incoronato da Sergio a San Filippo del Palazzo il 7 ottobre 610 ed Eraclio II (613) a Santo Stefano di Dafne da Eraclio I il 4 luglio 638. Costante II (641- 668), nel 641, fu il primo incoronato all’ambone di Santa Sofia, e da allora s’impose quell’usanza, salvo il caso degli imperatori incoronati come colleghi”.
    Gli Euchologia, risalenti alla fine del secolo VIII (anno 795 circa) riportano le formule in uso al momento dell’Incoronazione. Il sovrano, indossate le vesti imperiali, eccetto la corona, la clamide e la fibbia, si pone all’ambone, davanti al quale si colloca il Patriarca, che pronuncia quest’Orazione:
    Domine Deus noster, Rex regum et                     
    Dominus dominantium, qui per
    Samuelem prophetam, servum tuum
    David elegisti, et super populum tuum
    Israel in regem unxisti : ipse tunc
    nostram indignorum deprecationem
    exaudi, et respice de sancto habitaculo
    tuo, et fidelem servum tuum, quem super
    gentem sanctam tuam, Unigeniti Filii tui
    sanguine acquisitam, regem tibi
    constituere placuit, exultationis oleo
    ungere dignare; indue illum virtute ex
    alto; coronam de lapide pretioso capiti
    eius impone, longitudinem dierum tribue
    illi, sceptrum salutis pone in eius dextra
    manu, in justitiae throno colloca illum,
    Sancti Tui Spiritus armatura illum
    circumvalla, brachium eius conforta,
    omnes illi barbaras gentes subiice,
    timorem tuum et pietatem erga subditos
    cordi eius insere, in inculpata fide
    conserva illum, sanctae tuae catholicae
    Ecclesiae dogmatum sedulum custodem

    illum ostende: ut in iustitiam populum
    tuum iudicet et pauperes tuos in iudicio,
    salvet etiam filios pauperum et caelesti
    regni tandem haeres fiat. Quia tua est
    potentia et tuum est regnum et virtus.


    Signore Dio nostro, Re dei Re e Signore
    dei signori, che per mezzo del Profeta Samuele
    scegliesti il tuo servo Davide e lo ungesti
    Re sopra il tuo popolo Israele, esaudiscici
    e riguarda dalla tua santa dimora la
    nostra indegna preghiera; e degnati ungere
    coll’olio dell’esultazione questo fedele tuo
    servo, che ti piacque costituire Re sopra il
    tuo santo popolo, redento col sangue del
    Tuo Figlio Unigenito; rivestilo dall’alto di
    virtù; imponi sul suo capo la corona di pietre
    preziose; concedigli una lunga serie di
    giorni; lo scettro di salute poni nella sua
    destra; collocalo sul trono di giustizia; circondalo
    coll’armatura del Tuo Santo Spirito;
    dà forza al suo braccio; sottomettigli tutte
    le barbare genti; insinua nel suo cuore il
    tuo timore e la pietà verso i sudditi; conservalo
    nella fede innocente; mostralo solerte
    custode dei dogmi della tua Santa Chiesa
    Cattolica; così da giudicare il tuo popolo
    con giustizia e col giudizio i tuoi poveri; e
    salvi i figli dei poveri ed abbia infine in

     eredità il regno celeste. Poiché Tu sei la potenza,
    e tuo è il regno e il valore.


    Detto questo, il prelato prende la clamide e la fibbia, e le consegna ai vestiarii perché ne rivestano il sovrano. Pronunciata una seconda orazione, il Patriarca trae la corona dall’altare e con tutte e due le mani la pone sul capo del sovrano, dicendo: “Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.
    La corte imperiale di Costantinopoli – come si è visto - sentì il bisogno di armonizzare in senso cristiano i riti pagani d’intronizzazione del nuovo sovrano, ma il precedente biblico dell’Unzione trovò posto assai tardi in tale contesto. L’allusione all’Unzione nella preghiera sopra citata non aveva, infatti, che un valore metaforico. La consacrazione dell’Imperatore Romano coll’Olio santo, cerimonia
    così caratteristica della liturgia occidentale, è attestata con certezza in Oriente soltanto alla fine del secolo XII, molto tempo dopo che la Chiesa latina l’aveva introdotta.
    La Cristianità orientale si mostrò, infatti, assai refrattaria ad accogliere quel precedente biblico, non certamente per una concezione ‘laica’ del potere politico, come vedemmo, ma, sia perché in generale l’olio santo non era affatto impiegato nelle cerimonie d’ordinazione e consacrazione dei sacerdoti e dei vescovi secondo il rito orientale, sia perché “la monarchia bizantina, sacra di suo dalle sue origini romane, appoggiata sulla sopravvivenza del culto imperiale, non sentì così per tempo il bisogno,
    come i regni occidentali, di santificarsi per mezzo di un rito imitato dalla Bibbia”.

    Le clausole accordate al Congresso di Vienna(7° e ultima parte).









    Scritto da:

    Il Principe dei Reazionari

    Le clausole accordate al Congresso di Vienna(Parte 6°)


















    Scritto da:

    Il Principe dei Reazionari

    MEMORIE PER LA STORIA DEL GIACOBINISMO SCRITTE DALL' ABATE BARRUEL TRADUZIONE DAL FRANCESE. TOMO I. 1802 (Parte 9°).CAPITOLO VII.QUARTO MEZZO DEI CONGIURATI.LA COLONIA DI VOLTAIRE.

    Proprio nel periodo di tempo in cui i congiurati erano occupati ad ottenere l'abolizione dei Gesuiti e delle altre congregazioni, Voltaire meditava un progetto che doveva procurare all'empietà altri apostoli e propagandisti; pare che abbia avuto le prime idee di questo nuovo mezzo per ottenere l'estirpazione
    del cristianesimo negli anni 1760 e 1761. “Sarebbe possibile, scriveva allora a d'Alembert, che cinque o sei uomini di merito che se la intendessero non ce la potessero fare, dopo l'esempio che abbiamo
    avuto di dodici facchini che c'è l'hanno fatta?” (Lett.70 anno 1760.)
    Lo scopo di questa riunione è spiegato e sviluppato in un'altra lettera, nella quale egli scrive: “Che i veri filosofi facciano una confraternita come quella dei frammassoni, che si uniscano, si sostengano e siano fedeli a questa confraternita, ed allora mi farò bruciare per loro.
    Questa accademia segreta varrà più di quella di Atene e di tutte quelle di Parigi. Ma ciascun pensa solo a sé e si scorda che il primo dei doveri è quello di distruggere l'infame.” (Lett. 85 a d'Alemb. anno 1761.)
    I congiurati non avevano dimenticato questo dovere fondamentale, ma incontravano degli ostacoli; in Francia la religione aveva ancora dei difensori zelanti e Parigi non sembrava ancora un asilo sicuro per
    questo tipo di società, e così pareva che Voltaire fosse per qualche tempo obbligato a rinunziarvi. Ma egli riprese il suo progetto alcuni anni dopo, e per metterlo in esecuzione si rivolse a Federico II
    proponendogli, l'editore della loro corrispondenza dice proprio così, “di stabilire a Clèves una piccola colonia di filosofi francesi che là potessero dire la verità liberamente senza temere né ministri, né preti, né parlamenti.” Federico gli rispose con tutto lo zelo che il nuovo fondatore avrebbe potuto attendersi da parte del sofista coronato: “Vedo, gli dice, che vi sta a cuore la fondazione della piccola colonia di cui mi avete parlato.... Credo che il mezzo più semplice sarebbe che queste persone (cioè i vostri associati) andassero a Clèves per rendersi conto di ciò che sarebbe loro opportuno e di ciò che io sono in grado disporre in loro favore.” (Lett. 24 ott. 1765.)


    Kleve (fr. Clèves) intorno al 1746; questa città del Nord-Reno-Westfalia faceva allora parte del regno di Prussia.


    E' spiacevole che molte delle lettere di Voltaire su questo argomento siano state soppresse dalla sua corrispondenza; ma le risposte di Federico bastano a mostrarci Voltaire che persevera nel suo progetto, che torna alla carica ed insiste con indubitabile ardore; infatti il re gli risponde: “Voi mi parlate di una colonia di filosofi che si propongono di stabilirsi a Clèves. Io non mi oppongo, posso accordar loro tutto ciò che domandano vicino al bosco che il soggiorno dei loro compatrioti ha quasi interamente distrutto. Ma a condizione che rispettino coloro che devono essere rispettati e che stampando mantengano la decenza nei loro scritti.” (Lett.146. anno 1766.)
    Quando tratteremo della cospirazione antimonarchica vedremo ciò che Federico intende con l'espressione “coloro che devono essere rispettati.” La decenza da osservare doveva essere invece un mezzo ulteriore per ottenere la nuova colonia senza sconvolgere gli animi con degli scandali che potevano nuocere agli stessi congiurati e che avrebbero costretto l'autorità a reprimere la loro baldanza o la loro impudenza.
    Mentre chiedeva a Federico gli aiuti e la protezione che necessitavano ai nuovi apostoli dell'empietà per far guerra alla religione in tutta sicurezza, Voltaire era occupato a reclutare uomini degni di un tale apostolato, e per mettersi alla loro testa era disposto a sacrificare tutte le delizie di Ferney. “Il vostro amico persiste sempre nella sua idea, scriveva a Damilaville, è vero, come avete detto, che bisognerà staccarlo da molte cose che costituiscono la sua consolazione e che sono motivo di rincrescimento; ma è meglio abbandonarle per la filosofia piuttosto che per la morte. Ciò che lo sorprende è che molte persone non abbiano già preso insieme questa decisione. Perché un certo barone filosofo non vorrebbe venire a lavorare per fondare questa colonia? Perché tanti altri non vorrebbero cogliere al volo un'occasione così bella?” Da questa stessa lettera ci si accorge che Federico non era il solo principe che favoriva il progetto, perché Voltaire aggiunge: “Il vostro amico ha appena ricevuto in casa sua due principi sovrani che la pensano proprio come voi. Uno di essi offrirebbe una città, se quella che riguarda la grande opera non fosse adatta.” (Lett. 6 agosto 1766.)
    Proprio quando Voltaire scriveva questa lettera, il langravio di Assia-Cassel era appena stato a tributare il suo omaggio all'idolo di Ferney; a causa della data del viaggio e della sintonia di sentimenti
    che univano i due è assai verosimile che costui fosse proprio il principe che si era incaricato di concedere una città alla colonia anticristiana se Clèves non fosse stata adatta. (V. lett. del landgravio 9
    sett. 1766. )
    Tuttavia gli apostoli del nuovo messia, nonostante il loro zelo per la grande opera, non si mostravano altrettanto disposti ai medesimi sacrifici; d'Alembert, che a Parigi aveva il primo posto tra i filosofi,
    sentiva che vicino a Voltaire sarebbe stato solo una divinità subalterna. Damilaville, loro comune amico descritto dallo stesso Voltaire come un nemico di Dio, era necessario a Parigi per mantenere
    segreta la corrispondenza. Diderot, il cosiddetto barone filosofo e gli altri adepti godevano in Francia di agi che le città germaniche non potevano offrire; una simile pigrizia sconcertava Voltaire che, per
    tentare di riaccendere l'ardore dei congiurati e per pizzicarli nell'onore, scrisse: “Sei o settecentomila ugonotti hanno abbandonato la loro patria per le scempiaggini di Giovanni Calvino, e non si troveranno dodici saggi che facciano un minimo di sacrificio alla ragione universale che è oltraggiata?” (Lett. a Damil. 18 agosto dello stesso anno.)
    Per convincerli che mancava solo il loro assenso per compiere la grande opera, scrisse anche: “Tutto ciò che vi posso dire oggi da fonte sicura è che tutto è pronto per impiantare la manifattura. Più d'un
    principe se ne disputerebbe l'onore, e dalle rive del Reno sino all'Oby Tomplat (cioè il Platone Diderot) troverebbe sicurezza, incoraggiamento ed onore.”
    Temendo che questa speranza non bastasse a fare in modo che i congiurati si decidessero, Voltaire rammentò loro lo scopo principale della congiura, e per insinuare nei loro cuori l'odio che lo infiammava contro Gesù Cristo, aggiunse, gridò e ripeté loro: distruggete dunque l'infame, distruggete l'infame, distruggete l'infame. (Lett. allo stesso 25 agosto dello stesso anno.)
    Sollecitazioni ed istanze, per quanto così vive e pressanti, di fronte
    alle attrattive di Parigi non ebbero alcun effetto. Quella stessa ragione, che diceva a Voltaire di sacrificare persino le delizie di Ferney per andare nel profondo della Germania a dedicare i propri scritti ed i propri giorni a distruggere il cristianesimo, suggeriva agli adepti che bisognava saper unire allo zelo tutti i piaceri che il mondo e soprattutto Parigi offriva loro; e così fu necessario rinunziare alla speranza di far espatriare gli apostoli. Per comprendere quanto Voltaire fosse deluso da questo fallimento bisogna leggere ciò che ne scrisse tre o quattro anni dopo: “Confesso, scriveva a Federico, che ero così arrabbiato e pieno di vergogna per lo scarso successo della trasmigrazione di Clèves, che da quel momento non ho più osato presentare alcuna delle mie idee a vostra maestà. A pensare che un
    pazzo ed imbecille come Sant'Ignazio ha trovato una dozzina di proseliti che l'hanno seguito, mentre io non ho potuto trovare tre filosofi, sono stato tentato di credere che la ragione non è buona a
    nulla. (Novembre 1769.) Non potrò mai consolarmi di non aver potuto eseguire questo progetto. Era là il luogo dove volevo terminare la mia vecchiaia.” (12 ott. 1770.)


    Brano della lettera di Voltaire datata novembre 1769 al re di Prussia. (Oeuvres
    completes de Voltaire, tomo 65, Kehl 1784). La frase sottolineata, citata dall'abbé Barruel, non ha bisogno di commento.


    Vedremo nel seguito di queste Memorie che al momento in cui Voltaire si lamentava così amaramente
    della freddezza dei congiurati, costoro non meritavano affatto questi rimproveri.
    D'Alembert soprattutto aveva ben altri progetti da perseguire; invece di far espatriare i suoi adepti e di rischiare di perdere la propria dittatura egli, pur rimanendo a Parigi, si compiaceva di distribuir loro gli onori accademici che si era accaparrato e di cui disponeva; a suo tempo vedremo che d'Alembert, insieme con gli eletti dei suoi adepti, avrebbe supplito abbondantemente al fallito progetto della colonia di Clèves, e che anche il solo modo con cui aveva trasformato l'accademia di Francia in una vera e propria colonia di congiurati sarebbe stato sufficiente a consolare Voltaire.

    domenica 26 febbraio 2012

    Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):(Parte 20°):Le menzogne continuano a confondere il Re e Garibaldi avanza indisturbato.

    Don Liborio Romano.


    Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.

    Re Francesco, vedendo prossima la totale catastrofe della dinastia e del regno, volea sguainare la spada e mettersi alla testa dei soldati per salvare l'una e l'altro, e fare di se un sacrifizio alla patria già pericolante. I traditori che lo circondavano usarono tutte le arti per rimuoverlo da sì patriottica ed eroica risoluzione: essi gli faceano osservare, l'esercito niente valere, i tre battaglioni esteri essere pronti a ribellarsi, e correre sopra Napoli e saccheggiarla insanguinandola: promuovere la guerra civile continuare le ostilità contro Garibaldi, atto eroico il cedere.
    D. Liborio per cattivarsi la fiducia del Sovrano, si mostrava avverso all'unità italiana; e facea leggere al Re alcune lettere di Dragonetti, il quale gli raccomandava l'autonomia del Regno. Egli, avvocato, patrocinava la due cause avverse; scrivendo pure bozze di proclami nell'interesse della dinastia. Quando però vide Garibaldi sul continente, e senza ostacoli marciar sopra Napoli, cercò di distogliere il Sovrano da qualunque difesa. Per la qual cosa il 20 agosto gli presentò un indirizzo firmato dal Ministero ove si dicea: L'opinione pubblica essere avversa alla dinastia, i Ministri non poterla cambiare in favore, essendo tale la diffidenza tra popolo e principe che nessuna potenza umana avrebbe potuto distruggerla o mitigarla. Non potersi contare sull'esercito perché indisciplinato e in dissoluzione. La marina regia, rotto ogni freno di subordinazione, aspettare il momento per dichiararsi avversa al trono, e ligia alla causa nazionale italiana. Alle interne difficoltà aggiungersi quelle esterne. Sorgere innanzi un'Italia riunita nemica de' Borboni, e guidata da un vessillo italiano sorretto dalla più antica dinastia della penisola italiana. Il Piemonte ispirare fiducia e simpatia alle due grandi potenze, Francia ed Inghilterra, che, per ragioni diverse e diversi fini gli stendeano le braccia protettrici, e Garibaldi essere semplice strumento di questa politica innipossente.
    L'indirizzo conchiudea: «Unico consiglio è che V.M. si allontani, e lasci Reggente un Ministro onorato (come D. Liborio), e capace di universale confidenza, ma capo di esso, non porrà un Principe reale: ei non avrebbe la fiducia pubblica, né garentirebbe gli interessi della Monarchia. Vi porrà un uomo che sia generalmente conosciuto virtuoso, e che meriti la vostra e l'universale fiducia. (Ma a far che?) E la Maestà vostra allontanandosi volgerà al popolo parole leali e magnanime, testimoni del suo cuore paterno, e della nobile decisione di risparmiare gli orrori della guerra civile: invocherà il giudizio dell'Europa, aspetterà dal tempo e da Dio il trionfo del dritto. Questo consiglio diamo con franchezza e buona coscienza (coscienza di D. Liborio!) ed è il solo che possiamo dare.
    Siamo certi che lo accoglierà: ed ove per isventura il respingesse, noi sentendo non aver meritato la fiducia del nostro Re, dovremmo rinunziare all'alto ministero che ci fu affidato.

    Questo indirizzo è degno di chi lo scrisse, cioè di d. Liborio, uno de' cinque uomini fatali alla dinastia e al Regno di Napoli. Questo indirizzo si giudica da sè stesso, ove al Re si consiglia viltà sotto lo specioso pretesto di risparmiare gli orrori della guerra civile, che fomentava lo stesso ministero, per consegnare il Regno a stranieri
    parlanti tutte le lingue d'Europa, che famelici si avanzavano dalle Calabrie, potenti solamente nella corruzione.
    Era poi una sfacciata calunnia il dire al Re, non potersi contare sopra l'esercito perché indisciplinato; Capua, il Garigliano, e Gaeta dimostrarono splendidamente il contrario: e così il resto dell'indirizzo ov'è pervertito il senso de' vocaboli, chiamandosi magnanimità la dabbenaggine, eroismo la viltà, ed infine virtù il vizio.
    Il Re non rispose a quel subdolo ed insultante indirizzo di un ministero fedifrago. Egli però avrebbe dovuto rispondere con mettere sotto processo que' ministri, i quali tradivano la Monarchia, calunniavano il popolo e l'esercito, e disonoravano l'alta loro missione.
    Per il modo di contenersi del Re, D. Liborio e compagni invece di ritirarsi dal ministero, come aveano promesso nell'indirizzo istesso, rimasero in carica per meglio congiurare contro il sovrano e la patria!
    Intanto Cavour da Torino fremea d'impazienza e di rabbia perché Napoli non insorgesse a rivoluzione. Egli avrebbe desiderato che Francesco II fosse stato costretto a lasciar Napoli per ragione di una rivolta popolare, anzi che partirsene per un atto generoso, risparmiando alla Capitale gli orrori della guerra civile. Ecco cosa sono cotesti sedicenti redentori di popoli, venuti in fama di grandi politici: vada pure a soqquadro l'Universo purchè la loro trista volontà sia fatta!
    Cavour scriveva a Villamarina, ministro sardo accreditato presso Francesco II, ed al Comitato rivoluzionario, detto dell'ordine,
    rimproverandoli che non aveano saputo creare un simulacro di sommossa popolare.
    Il Comitato se ne scusava allegando la mancanza delle armi; e Cavour ne affidava l'incarico ad una casa inglese con l'obbligo di sbarcarle a Napoli. Però a Napoli non mancavano le armi per un tentativo di rivoluzione, mancavano gli uomini. Quel Ministro piemontese, benchè fosse certo della caduta del Regno di Napoli, nondimeno per mistificare l'Europa, non aveva scrupolo di sacrificare tutto e tutti, ed insanguinare una delle principali Metropoli d'Europa. Sono questi gli uomini che celebra la rivoluzione!
    Cavour, fisso nella barbara idea di arrecare la rivoluzione nel Regno e nella Capitala prima che partisse Re Francesco, mandò 3000 fucili sul Piroscafo la Dora
    comandato dal marchese del Carretto. Nisco era stato pure mandato a Napoli da Cavour per agevolare lo sbarco di que' fucili in tre diversi punti; cioè in Mondragone, in Salerno e in Calabria. Nisco adempì il suo incarico, ma i fucili sbarcati a Mondragone furono sequestrati: di tutte queste turpi manovre gli attori erano Villamarina e Persano, e quest'ultimo se ne dà pure vanto nel suo diario.
    D. Liborio, presentato al Re l'indirizzo riportato di sopra, e vedendo che questi non rispondeva temette di essere arrestato insieme coi colleghi. Egli si giudicava da sè stesso, come fanno i reprobi! Reputando assai difficile suscitare in Napoli almeno un simulacro di rivoluzione per sollecitare la partenza del Re, affrettò l'arrivo di Garibaldi.
    Trovavasi allora nel porto di Napoli a bordo del battello a vapore Emma  il romanziere
    Dumas mandato da Garibaldi per ispargere proclami, menzogne, e calunnie contro i Borbonici; D. Liborio la notte del 23 agosto si recò presso quel vendifrottole del Dumas, e lo pregò di scrivere al Dittatore perché costui affrettasse la sua marcia sopra Napoli; ed egli intanto qual ministro liberale del Regno delle due Sicilie avrebbe dichiarato (questa è proprio buffa), Francesco II traditore della patria! ed andrebbe ad incontrare Garibaldi riconoscendolo Dittatore delle Due Sicilie, ed antesignano dell'annessione del Regno al Piemonte.
    Il previdente ma niente leale D. Liborio conchiudeva, che in caso contrario sarebbe stato costretto lasciare le pratiche incompiute, e salvarsi sopra un legno inglese. Oh!... recedat a nobis et fiat Pontifex -
    (del diavolo). D. Liborio e Dumas mandarono due messi a Garibaldi uno de' quali oggi fa il borbonico!.., con l'incarico di recarsi in Calabria e sollecitare la marcia del Dittatore. In quello stesso tempo il de Martino ministro degli esteri, mandò pure in Calabria un'altra persona antica conoscenza di Garibaldi, con la missione di offrire a costui dieci milioni di lire, il passaggio libero sul Napoletano per recarsi a Roma, ed ivi far guerra al Papa, e così lasciar libero il Regno di Napoli.
    Questa politica del de Martino è la più sciocca e la più malvagia di quante allora se ne immaginarono: intanto il messo da lui mandato non giunse a parlare con Garibaldi, perché fu arrestato in Basilicata per ordine del comitato diretto da D. Liborio; ed essendo stato costui ben servito da' generali Gallotti, Briganti, Caldarelli, Ghio, e Colonnello Ruiz, respirò più libero sentendo prossimo l'arrivo del Dittatore a Napoli.
    Il Re ebbe notizia della visita notturna di D. Liborio fatta al Dumas, e stava per farlo arrestare. Quello il seppe, e con quella audacia e sfrontatezza che nessuno poteagli negare, si presentò a Francesco II, e confermò la sua visita fatta al Dumas, con lo scopo, dicea, di far desistere Garibaldi dalla sua impresa mediante offerta di danaro: D. Liborio si attribuiva in parte la malvagia politica alla Cavour, messa in pratica dal de Martino.
    Tutte queste indegnità ed infamie furono poi pubblicate dagli stessi rivoluzionari e traditori; da alcuni per farsene un vanto, e da altri per accusare o vituperare i complici.
    In quanto poi al romanziere Dumas, il quale si mostrava tanto tenero dell'unità italiana, ecco quello che scrisse l'ammiraglio Persano nel suo Diario parte II, pag. 66, edizione di Torino 1870:
    Restituisco la visita all'insigne scrittore A. Dumas, a bordo del suo bastimento di piacere. Si entra tosto in discorso sulle cose nostre. Mi dice di una sottoscrizione per guadagnare un reggimento alla causa dell'indipendenza italiana. Mi presenta l'incarico di ritirare l'ammontare di ciascuna sottoscrizione; ed egli senza più depone una forte somma del suo, che mi è parso salire alcune migliaia di franchi -Colto all'improvviso, m'impegno a soscrivere anch'io. Restituitomi al mio bordo parlo con alcuni dei rifugiati politici, a cui avevo dato asilo, di tale mia promissione; e da essi mi vien detto, che quel danaro passerebbe probabilissimamente in mani tutt'altro che
    amiche. Bell'affare avrei fatto davvero, se avessi corse le poste senza assumere informazione! -
    Risolvo quindi di non dare un quattrino, e di lasciare che si dica di me quel che si voglia; chè si possono fare minchionerie col proprio danaro, ma non mai con quello d'altrui.»
    In mezzo a queste ignominie, cattivi negozii, e tradimenti, ove si facea sentire alto Italia una,
    anche Luciano Murat figlio secondogenito di Gioacchino, dopo 45 anni di silenzio, volle alzare la sua voce e reclamare i suoi diritti
    sul Trono di Napoli. Con una lettera diretta a persona innominata, cioè ad un Caro Duca,
    promettea tutte le delizie, e il ben di Dio al travagliato popolo delle due Sicilie. «Forte, egli dicea, dell'assenso dell'imperial Cugino Napoleone III, io porterei l'alleanza francese, sola e certa sicurtà d'indipendenza.» Bravo sig. Pretendente..! Gl'Italiani non ignorano in qual senso intendano i Napoleonidi l'alleanza dell'Italia con la Francia; se alla vostra strombazzata indipendenza
    aveste tolta la prima sillaba, almeno sareste stato ammirato per la vostra franchezza. Quella sfinge di Napoleone facea stampare nel Moniteur
    del 1° Settembre: «Il Governo francese approvare
    la lettera (di Murat); ma non in quello di potere Murat andare a Napoli con l'assenso,
    e il braccio della Francia; questo l'Imperatore non volere, e respingere ufficialmente la proposizione. «Mi pare che approvare
    e poi non dare l'assenso
    fanno a calci! Napoleone III si facea distinguere per questi delfici responsi - ibis et redibis, NON, morieris in bello -
    ecco come rispondeva quel grand'uomo quando voleva corbellare o rovinare una persona ed un regno!
    Nessuno comprese la lettera di Murat, e la sibillina nota del Moniteur.
    In quel tempo apparve un'altra lettera, la quale arrecò maraviglia e sbalordimento. Il Conte di Siracusa zio del Re Francesco II, diede l'ultimo colpo alla Monarchia fondata dal suo illustre antenato Carlo III di Borbone, disonorando il nome che indegnamente portava. Il Real Conte udito lo sbarco di Garibaldi sul continente e le prime vittorie di costui, invitò a lauto pranzo gli ufficiali della flotta sarda, ove, inebbriato di vino e di plausi, fece brindisi a Garibaldi e ad altri corifei dell'unità italiana.
    Il 24 Agosto Leopoldo di Borbone, figlio terzogenito di Francesco I di Napoli, e fratello di Ferdinando II, scrisse al Re suo nipote dicendogli, avergli altra volta consigliato che scongiurasse il pericolo, e non essere stato udito; ora fatto grande il sentimento dell'unità, non più possibile la lega col Piemonte; le stragi  di Sicilia destare orrore; la casa Borbone segno di universale riprovazione; la guerra sul continente strascinare la monarchia a rovina; le inique arti de' Consiglieri perversi aver da lunga mano preparata alla discendenza di Carlo III la rovina. - Ed è quest'ultima la sola verità detta in quella famosa lettera. - Il Conte conchiuse: «Sire, salvate, che ancora ne siete in tempo, salvate la nostra casa dalla maledizione di tutta Italia! seguite il nobile esempio della nostra Regale Congiunta di Parma, che, allo irrompere della guerra civile, (cioè allo irrompere della guerra franco-sarda), sciolse i sudditi dall'obbedienza, e li fece arbitri de' loro destini.» (Menzogna degna di chi la scrisse.)
    Questa lettera tutta intiera è trascritta nella 2a parte del Diario di Persano pag. 58.
    Il Real Conte scrisse quella lettera per ordine di Cavour, costui il 15 agosto telegrafò a Persano, e gli disse: «Veda di far
    scrivere dal Conte di Siracusa una lettera al Re suo nipote nel senso di quello che mi scrive Nisco. Sarebbe cosa utile.»
    Il Real Conte non si fece pregare da Persano, anzi si dichiarò pronto a tutto. Egli scrisse quella lettera dopo di un abboccamento con D. Liborio Romano. Difatti quella lettera del 24 Agosto, e l'indirizzo di D. Liborio al Re del 20 dello stesso mese, sono figli dello stesso malvagio pensiero. Persano intanto osa scrivere nel suo Diario:«Checchè si pensi, questo scritto altamente onora il Principe Patriota.»
    Principe Patriota, Leopoldo di Borbone! Che sempre avea pensato come rovinare la patria ed abbattere il trono; protestava amore all'unità italiana nello scopo di farsi egli stesso tiranno di Napoli col titolo di Reggente o Vicerè di Cavour, e cogliere il momento per proclamarsi re indipendente. Il patriottismo di questi cadetti di Casa Borbone si sà ove vada a finire; ne troviamo qualche esempio in quelli di Francia e di Spagna.
    Quella lettera amareggiò l'ottimo cuore di Re Francesco, il quale in un momento di malinconia, esclamò: «Se non fossi Re responsabile della Corona al mio popolo e alla mia famiglia, già da gran tempo ne avrei gettato lungi il fardello.»
    Il Conte di Siracusa, Persano, Villamarina, D. Liborio, ed Alessandro Nunziante tutti travagliavano e congiuravano alacremente a creare ostacoli al Re per farlo partire subito da Napoli.
    Il real Conte si serviva del suo credito, svelava il debole della Corte di Napoli. Persano in qualità di ammiraglio Sardo mandava armi coi piroscafi piemontesi sul littorale delle Calabrie, e del Salernitano, aiutato dal napoletano Nisco, e da parecchi uffiziali della flotta napoletana. Villamarina con l'alta carica di ministro Sardo accreditato
    presso Francesco II, intrigava diplomaticamente con arti settarie. D. Liborio capo di fatto del ministero liberale, dava braccio forte a tutti, avendo la polizia settaria nelle sue mani, e i camorristi
    a sua disposizione. In fine il Nunziante tenuto a Napoli da Cavour per far succedere un pronunziamento militare, e direttamente ne' battaglioni cacciatori a favore del Piemonte, faceva l'arte di Satana. Egli albergava in un quartino matto del Palazzo Le Fevre
    alla riviera di Chiaia, in compagnia del sig. Filioli, ed andava spesso a bordo alle navi Sarde per confabulare con Persano, ma timoroso sempre di essere arrestato, e più di tutto di essere riconosciuto da' soldati, i quali certamente gli avrebbero fatto subito la festa. Ad onta delle sue arti di settario e traditore nulla ottenne, e per legittimarsi con Cavour, disse che il ministro Pianelli avea tramutato tutti i capi di battaglioni ed uffiziali di sua fiducia. Disse pure che avrebbe potuto ottenere delle defezioni parziali ne' battaglioni cacciatori, ma che neppure avea speranza di buon successo; tanto più che scorgea poca fiducia nel Comitato d' ordine.
    La vera ragione di tutti gl'insuccessi del Nunziante era che tutti lo abborrivano: pessimo assolutista, e più che schifoso settario! Alessandro Nunziante non tenendosi più per sicuro nel quartino matto del palazzo Le Fevre,  andò ad alloggiare in quello ove abitava Ciccarelli, mandò una persona di
    sua fiducia al Persano avvertendolo che era minacciato dalla polizia, ma forse più di tutto da' soldati che volea far disertare, dapoichè D. Liborio non avrebbe mai arrestato il suo più fedele complice. Persano si trovava in teatro quando gli giunse il messo di Nunziante; chiamò alcuni uffiziali suoi dipendenti, e che giudicava bravi, e li mandò a S. Lucia per disporre la fuga di Nunziante sulle navi Sarde. Egli poi si recò al palazzo Ciccarelli, ove trovò Nunziante contraffatto mercè di una finta barba e di occhiali verdi! Lo fece montare in carrozza, lo condusse a S. Lucia avendolo fatto passare davanti il palazzo reale; e da S. Lucia, lo trasportò a bordo con una lancia sarda.
    Bravo, sig. Alessandro Nunziante, fa proprio piacere che vi siete vestito in maschera nel mese di agosto con la vostra statura ed andamento! Oh! voi tanto rispettato e temuto sotto l'egida de' Borboni, vostri benefattori, appena vi siete ribellato a costoro, per traversare una strada di Napoli e mettervi in salvo sopra navi straniere, fu necessario vestirvi da Pagliaccio, e farvi scortare da coloro che insidiavano i vostri concittadini, un vostro fratello di sangue, ed i vostri nipoti che allora combatteano onoratamente! Diteci di grazia, quando passaste abbigliato con quella ridevole toletta sotto il palazzo reale, che era allora tutto sfolgorante di lumi, come dice Persano, non ricordaste «La gloria che passò «? Mi auguro però che in questo punto, muto penserete «all'ultima - ora dell'uomo fatale». Non temete: Colui che volea perdonare Iscariota, può anche perdonar voi. Approfittatene, giacchè non vi resta che la sola misericordia di Dio.
    Il Conte di Siracusa si credea vicino ad afferrar la Reggenza del Regno, o simile titolo; e promettea a' suoi amici il suo prossimo innalzamento. Però il real Conte e Cavour giuocavano all'onore per vincersi e ribellarsi a vicenda: la vinse costui perché più furbo, e perché avea più mezzi; ma tutti e due fecero grandissimo sciupo in quel giuoco..!
    Quando Cavour giudicò inutile l'appoggio del Conte di Siracusa, lo fece partire per Torino, mercè alcuni consigli che gli fece suggerire da D. Liborio ministro liberale. Ecco una lettera del real Conte diretta a Persano in cui si rivelano tante iniquità.
    Lunedì 27 agosto 1860 Caro Persano,
    Sono in questo momento con D. Liborio Romano, il quale mi sembra deciso di servir bene la causa italiana con Vittorio Emanuele. Il Mazzinismo prende piede in grandi proporzioni, e non vi è tempo da perdere. Romano mi consiglia  a partire al momento per andare a Torino ad esporre al Re e al Cavour la posizione del paese. Io son pronto a farlo. Non vi è sagrifizio che io non incontrerei per salvare l'Italia, e questa povera Napoli dall'anarchia. - Se voi l'approvate,
    io potrei partire con vostro piroscafo avviso, quest'oggi stesso per Genova. Se volete parlare con D. Liborio sarà da me al tocco.
    Il vostro amico Firmato Leopoldo Conte di Siracusa.
    Il disinganno di questo Conte fu terribile, e la sua fine miseranda. Egli partì per Genova sulla nave la Costituzione
    della marina reale Sarda la sera del 31 agosto, e fu accompagnato a bordo da Persano e Villamarina. Giunto a Torino ebbe fredda accoglienza da chi aspettava ringraziamenti, plausi e potere. Sconfortato per quella accoglienza, andossene a Parigi, ove fu fischiato appena conosciuto, e nel teatro gli gridarono: «Le Bourbon, qu'il aille défendre Gaete»
    -il Borbone vada a difendere Gaeta. - Ritornò in Italia con un solo cameriere e si fermò in Pisa, ove morì il 4 dicembre dello stesso anno, abbandonato da tutti. Il cameriere giunto nel porto di Napoli fu arrestato, e gli sequestrarono le carte del Conte. Da quelle carte furono sottratte due lettere scritte da un altro personaggio: il rimanente fu restituito.
    Francesco II, quando intese la morte dello zio, trovavasi in Gaeta bombardato: pure ordinò il lutto di Corte.
    Il cadavere del real Conte di Siracusa Leopoldo di Borbone rimase nel Camposanto di Pisa come l'ultimo de' miseri mortali. Nel giugno del 1863 la vedova nata Principessa Carignano, ottenne a stento di trasportare a Napoli il cadavere dello sposo.
    Chi potrebbe descrivere lo stato di Napoli in que' tristissimi giorni dell'agonia del regno de' Borboni?
    Non vi era più freno alcuno: le passioni irrompevano e metteano spavento. Tutti faceano a gara per distruggere e vilipendere la monarchia, e tutto quello che era napoletano. Quelli che erano stati gli umili servitori de' Borboni in tempo di prosperità, e che aveano strisciato per le loro anticamere, per far dimenticare il passato, e per non perdere quella importanza che immeritatamente aveano acquistata, si mostravano i più fieri nemici della dinastia e del Regno.
    I comitato rivoluzionarii agivano apertamente e prima che Francesco II partisse, erano il vero governo riconosciuto. La stampa era divenuta intollerabile eziandio a rivoluzionari ai quali rimaneva ancora un poco di pudore. Esaltava le vittorie di Garibaldi, l'appellava novello Messia: al contrario chiamava i soldati coi nomi i più odiosi, calunniava e minacciava la real famiglia e il Re, chiamando costui Caino..A Lo stato della sventurata Napoli faceami ribrezzo; ovunque io mi rivolgessi altro non mirava che spettacolo di dolore, e non udiva che oscene bestemmie e disprezzi per le cose e le persone più degne di rispetto. Io non potea capire come mai una Città così beneficata da' Borboni, anche a scapito della Sicilia, fosse divenuta in poco tempo più provocante e nemica di quell'Isola a' proprii benefattori. Napoli mi fece dimenticare i baccanali di Sicilia. Non potea capire come la prima Città d'Italia, forse la quarta d'Europa, Capitale di un Regno di circa dieci milioni di abitanti,
    ricca, onorata e protetta, con una delle più ricche e splendide Corti del mondo, volesse diventar donna di provincia, rinunziando alla propria indipendenza ed autonomia secolare, e rendersi vassalla di un piccolo paese a piè dell'Alpi,  non ricco, né bene governato.
    Mi si potrebbe rispondere, che i Napoletani (cioè i rivoluzionarii) sacrificavano tutto per l'amore dell'unità italiana. Benissimo rispondo: ma perché tanta viltà, tante fellonie, tanta degradazione, non poteano contenersi come si contennero i Toscani in simile circostanza? E dico questo non volendo tener conto che doveansi contentare dell'unione italica che si trattava allora tra il Re di Napoli e quello del Piemonte; di quella unione riconosciuta in Zurigo come la più conveniente a' veri interessi d'Italia. Però, l'unione italiana sarebbe stata utile al popolo italiano, e non si volle effettuare perché non era utile alla setta de' petrolieri.
    Io andavo a zonzo per la Città mentre mi erravano in capo que' tristi pensieri, e per confortarmi un poco mi diressi verso il Palazzo Reale. Quel magnifico edifizio opera di tanti splendidi sovrani, mi sembrava mesto, muto e derelitto, quasi un mucchio di informi ruine; e in mezzo a queste mi parea vedere sorgere le gigantesche figure di Ruggiero il Normanno e di Carlo III di Borbone, non più calmi e benigni in volto, ma accigliati e sdegnosi, lanciare una terribile maledizione all'ingrata a sconoscente Città. Ed io trasportato dalla mia fantasia, non so se riverente mi prostrai alla vista di que' grandi, e dissi: salvete potentissimi e benefici monarchi, onore e gloria di queste amene e ricche contrade italiane; deh! non maledite tutti i vostri posteri, e i vostri lontani nepoti: essi non sono tutti colpevoli, ma infelici: maledite que' Giuda che vendono la patria allo stranierio, e que' Caini che ci disonorano, e ci assassinano..!

    (Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).