mercoledì 31 luglio 2013

La Chiesa e la condanna inesorabile della sodomia

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• «Le passioni sono tutte disonorevoli, perché l’anima viene più danneggiata e degradata dai
peccati di quanto il corpo lo venga dalle malattie; ma la peggiore fra tutte le passioni è la
bramosia fra maschi. (…)I peccati contro natura sono più difficili e meno remunerativi, tanto
che non si può nemmeno affermare che essi procurino piacere, perché il vero piacere è solo
quello che si accorda con la natura.» SAN GIOVANNI CRISOSTOMO Homilia IV in Epistula
Pauli ad Romanos.
• «Questo vizio non va affatto considerato come un vizio ordinario, perché supera per gravità
tutti gli altri vizi. Esso infatti uccide il corpo, rovina l’anima, contamina la carne, estingue la
luce dell’intelletto, scaccia lo Spirito Santo dal tempio dell’anima, vi introduce il demonio
istigatore della lussuria, induce nell’errore, svelle in radice la verità dalla mente ingannata,
prepara insidie al viatore, lo getta in un abisso(..)» San Pier Damiani O.S.B., Liber
Gomorrhanus, in Patrologia Latina
• «La passione per delle forme indebite è prossima alla pazzia; questo vizio sconvolge
l’intelletto, spezza l’animo elevato e generoso, trascina dai grandi pensieri agli infimi, rende
pusillanimi, iracondi, ostinati e induriti, servilmente blandi e incapaci di tutto; inoltre, essendo
l’animo agitato da insaziabile bramosia di godere, non segue la ragione ma il furore. (…)» (San
Bernardino da Siena, O.F.M., Predica XXXIX, in: Prediche volgari.
• «I delitti che vanno contro natura, ad esempio quelli compiuti dai sodomiti, devono essere
condannati e puniti ovunque e sempre. Quand’anche tutti gli uomini li commettessero,
verrebbero tutti coinvolti nella stessa condanna divina: Dio infatti non ha creato gli uomini
perché commettessero un tale abuso di loro stessi. Quando, mossi da una perversa passione, si
profana la natura stessa che Dio ha creato, è la stessa unione che deve esistere fra Dio e noi a
venire violata» (Sant’Agostino, Confessioni, c. III, p. 8).
• «nei peccati contro natura in cui viene violato l’ordine naturale, viene offeso Dio stesso in
qualità di ordinatore della natura» (San Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II-II, q. 154,
a. 12).
• «Non solo essi hanno quell’immondezza e fragilità, alla quale siete inclinati per la vostra
fragile natura (benché la ragione, quando lo vuole il libero arbitrio, faccia star quieta questa
ribellione), ma quei miseri non raffrenano quella fragilità: anzi fanno peggio, commettendo il
maledetto peccato contro natura. Quali ciechi e stolti, essendo offuscato il lume del loro
intelletto, non conoscono il fetore e la miseria in cui sono; poiché non solo essa fa schifo a Me,
che sono somma ed eterna purità (a cui è tanto abominevole, che per questo solo peccato
cinque città sprofondarono per mio divino giudizio, non volendo più oltre sopportarle la mia
giustizia), ma dispiace anche ai demoni, che di quei miseri si sono fatti signori. Non è che ai
demoni dispiaccia il male, quasi che a loro piaccia un qualche bene, ma perché la loro natura è
angelica, e perciò schiva di vedere o di stare a veder commettere quell’enorme peccato» (S.
Caterina da Siena, op. cit., cap. 124).
• “Come dice la Sacra Scrittura, i sodomiti erano pessima gente e fin troppo peccatori. San
Pietro e san Paolo condannano questo nefasto e turpe peccato. Difatti la Scrittura denuncia
l’enormità di una tale sconcezza con queste parole: ‘Lo scandalo dei sodomiti e dei gomorrani
si è moltiplicato e il loro peccato si è troppo aggravato’. Pertanto gli angeli dissero al giusto
Loth, che aborriva massimamente le turpitudini dei sodomiti: ‘Abbandoniamo questa città, etc.
’ (…) La Sacra Scrittura non tace le cause che spinsero i sodomiti a questo gravissimo peccato
e che possono spingere anche altri. Leggiamo infatti nel libro di Ezechiele: ‘Questa fu
l’iniquità di Sodoma: la superbia, la sazietà di cibo ed abbondanza di beni, e l’ozio loro e delle
loro figlie; non aiutarono il povero e il bisognoso, ma insuperbirono e fecero ciò che è
abominevole al mio cospetto; per questo Io la distrussi’ (Ez. 16, 49-50). Di questa turpitudine
mai abbastanza esecrata sono schiavi coloro che non si vergognano di violare la legge divina e
naturale” (San Pietro Canisio, Summa Doctrina Christianae, III a/b, p. 455)
Dottore della Chiesa
• “Avendo noi rivolto il nostro animo a rimuovere tutto quanto può offendere in qualche modo la
divina maestà, abbiamo stabilito di punire innanzitutto e senza indugi quelle cose che, sia con
l’autorità delle Sacre Scritture che con gravissimi esempi, risultano essere spiacenti a Dio più
di ogni altro e che lo spingono all’ira: ossia la trascuratezza del culto divino, la rovinosa
simonia, il crimine della bestemmia e l’esecrabile vizio libidinoso contro natura; colpe per le
quali i popoli e le nazioni vengono flagellati da Dio, a giusta condanna, con sciagure, guerre,
fame e pestilenze. (…)Sappiano i magistrati che, se anche dopo questa nostra Costituzione
saranno negligenti nel punire questi delitti, ne saranno colpevoli al cospetto del giudizio
divino, e incorreranno anche nella nostra indignazione. (…)Se qualcuno compirà quel nefando
crimine contro natura, per colpa del quale l’ira divina piombò su figli dell’iniquità, verrà
consegnato per punizione al braccio secolare, e se chierico, verrà sottoposto ad analoga pena
dopo essere stato privato di ogni grado” (San Pio V, Costituzione Cum primum, del 1° aprile
1566, in Bullarium Romanum, t. IV, c. II, pp. 284-286)
• «E il serpente disse: <<Manderò il mio soffio affinché la successione dei figli degli uomini si
spenga, e allora gli uomini bruceranno di passione per gli altri uomini, commettendo atti
vergognosi>> ”.“E il serpente, provandoci godimento, gridò: <<Questa è la suprema offesa
contro Colui che ha dato all’uomo il corpo. Che la sua forma scompaia perché ha evitato il
rapporto naturale con le donne>>.”….“È quindi il diavolo che li convince a diventare infedeli e
seduttori, che li induce a odiare e a uccidere, diventando banditi e ladri, perché il peccato di
omosessualità porta alle più vergognose violenze e a tutti i vizi. Quando tutti questi peccati si
saranno manifestati, allora la vigenza della legge di Dio sarà spezzata e la Chiesa sarà
perseguitata come una vedova»
“Liber Divinorum Operum” di Santa Ildegarda di Bingen
• ” Il peccato contro natura si commette effondendo il seme in qualsiasi modo, fuorché
nell’organo della concezione, vale a dire nell’organo della donna. Tutti coloro che si
macchiano di questi peccati sono strada calpestata dai demoni e scomparto di rifiuti. E perciò
la semente della parola di Dio in essi va perduta, e ciò che è stato seminato viene rapito dal
diavolo.” Sant’Antonio da Padova,I Sermoni parte prima.
• «Il senso della sessualità è condurre l’uomo e la donna l’uno all’altra e con ciò assicurare
all’umanità progenie, bambini, futuro(…)Tutto il resto è contro il senso più profondo della
sessualità. Ed a questo dobbiamo restare fedeli, anche se al nostro tempo non piace. Si tratta
della profonda verità di ciò che la sessualità significa nella struttura dell’essere umano.Se
qualcuno presenta delle tendenze omosessuali profondamente radicate… allora questa è per lui
una grande prova, così come una persona può dovere sopportare altre prove. Ma non per
questo l’omosessualità diviene moralmente giusta, bensì rimane qualcosa che è contro la natura
di quello che Dio ha originariamente voluto». Benedetto XVI,Luce del mondo.
 
a cura di Alessandro Pini 

“Ve l’avevamo detto”: quando sarebbe meglio avere torto.

30marzo
 
di Andrea Giacobazzi
 
Non è bellissmo autocitarsi ma a volte è necessario. Il 30 marzo, dopo l’ennesima iniezione endovenosa di miele liberal-buonista, mi sfogai: “Il popolo per non vedere la cruda realtà pretende di farsi ubriacare di demagogia a tutti i livelli: sociale, politico, ecclesiale. E a tutti i livelli gliela stanno dando a pinte, con ritmo crescente. Fra qualche tempo, però, inizieranno i conati e la demagogia non basterà più. Spero di sbagliarmi”.
Pochi “mi piace”: comprensibile.
In campo politico ormai la situazione è talmente confusa da esser chiara. Tra diarie grilline e congressi democratici, tra processi bersulconiani ed eclissi montiane direi che ogni parola di commento possa esser considerata superflua.
Quanto al campo religioso: in questi giorni persino i più tenaci arrampicatori sugli specchi hanno gettato la spugna, anzi la corda. Resistono alcuni comici tentativi di maquillage, ma – rientrando questi più nell’ambito circense che non in quello ecclesiale – non vanno considerati eccessivamente. L’ennesimo annuncio di imminente primavera della Chiesa si è rivelato un beffardo trucco che preludeva un gelido inverno. Film già visto.
Gaie dichiarazioni, vescovi danzanti, slanci pro-laicità, persecuzioni contro i Francescani dell’Immacolata, copertine di Vanity Fair. Tutto in pochi giorni.
 
E’ l’umiltà, bellezza!
 
Fonte:
 

Ma Francesco da che parte sta?

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di Gaetano Masciullo
 
In questi giorni stanno facendo molto discutere le affermazioni che il Santo Padre Francesco avrebbe rilasciato sull’aereo di ritorno dal Brasile, in occasione della GMG 2013. Da che parte sta il papa? Con i cattolici di sempre, con la Tradizione, o è diventato (magari ha semplicemente manifestato la sua vera natura?) un semplice “vescovo di Roma” lassista, permissivo, progressista, disponibile addirittura ad aprire ai gay, alle nozze omosessuali e a tutti gli abomini che ne conseguono?
Chissà. Certo, a parte poche eccezioni, i media non stanno facendo altro che ripetere da ore che il papa avrebbe dichiarato: “Chi sono io per giudicare un gay?”. Una frase che ad ogni modo dovrebbe far rabbrividire i cattolici: beh, Francesco, lei è il Sommo Pontefice di Santa Romana Chiesa, successore di Pietro, vicario di Cristo in terra, chi più di lei dovrebbe lottare per far valere il diritto naturale contro le manipolazioni e gli attacchi che certuni quotidianamente muovono? Se anche il papa scade nel relativismo, siamo finiti. D’altro canto, i buonisti, i modernisti, gli pseudocattolici, tutta quella masnada di adoratori del proprio ego si sentono ancora più autorizzati a diffondere i propri errori.
In verità, come al solito, i media ci hanno un po’ marciato sopra. Alla domanda: “Perché in Brasile non si è pronunciato su aborto e nozze gay?” il papa prontamente ha risposto: “La Chiesa si è già espressa su questi argomenti, la Chiesa ha già una posizione chiara”. Nulla da aggiungere. L’affermazione del papa sui gay, quella che ha fatto scalpore, vista nel suo complesso, suona diversamente: “Si scrive tanto della lobby gay. Io ancora non ho trovato nessuno che mi dia la carta d’identità, in Vaticano. Dicono che ce ne siano. Ma si deve distinguere il fatto che una persona è gay dal fatto di fare una lobby. Se è lobby tutte non sono buone. Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Il catechismo della Chiesa cattolica dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte. Il problema non è avere queste tendenze, sono fratelli, il problema è fare lobby: di questa tendenza o d’affari, lobby dei politici, lobby dei massoni, tante lobby… questo è il problema più grave. E la ringrazio tanto per aver fatto questa domanda. Grazie tante”.
Il papa dunque non ha aperto agli omosessuali, finiamola con le strumentalizzazioni! Vladimir Luxuria dovrà attendere ancora molto, si spera, per “tornare cattolico/a”. L’unica cosa che si può rimproverare a Francesco è che, in un periodo come questo in cui bisogna essere fermi, precisi, combattivi, lui si limita a pronunciare frasi ambigue, quasi a non voler colpire nessuno, lasciando così il compito della giusta interpretazione delle sue parole a terzi. In un periodo in cui si discute sulla legge contro l’omofobia e in Francia si viene arrestati per una felpa su cui è disegnata una famiglia naturale, il papa non si sbilancia più di tanto. Ma la Chiesa ha già “una posizione chiara” (parole del papa).
Lobby gay? “Dicono che ce ne siano in Vaticano”. Sono passati diversi anni dalla pubblicazione del libro di don Ariel Levi di Gualdo, nel quale tra le altre cose denunciava proprio la presenza di una massiccia lobby gay nella Chiesa. Non è una ipotesi, una voce di corridoio, è ormai una certezza a dire il vero. La conclusione che dà Francesco però è impeccabile, giustissima nella sua formulazione: “Il problema è fare lobby”.  L’omosessuale è in peccato mortale se pratica il suo atto disordinato e contro natura (cfr. Levitico 20,13; 1Corinzi 6,10; CCC 2357-2359), non per il semplice fatto di essere omosessuale, fatto che ovviamente va contro la propria volontà. Ricorda infatti il Catechismo stesso che “le persone omosessuali sono chiamate alla castità”.
Piccola parentesi: trovo molto confortante il fatto che il papa, nell’elencare gli esempi di varie lobby da condannare e pericolose per la società, abbia nominato la “lobby dei massoni”, parola che ormai sembra essere divenuta un tabù, pericolosissima da pronunciare a certi livelli.
E per concludere, inserisco una piccola nota, che dimostra ancora una volta, anche se forse in fin dei conti, la cattolicità di Bergoglio: sull’aereo un giornalista ha chiesto al papa se il titolo “vescovo di Roma” riguarda l’ecumenismo, per arrivare a vedere il papa come il vescovo ortodosso di Costantinopoli, primus inter pares. La risposta del papa è secca e cattolica: assolutamente NO! “Non andiamo più avanti di quello che si dice. Il Papa è vescovo, vescovo di Roma e da lì viene tutto, derivano gli altri titoli: successore di Pietro, Vicario di Cristo… Ma dire, pensare che questo vuol dire essere primo inter pares, no, questo è andare oltre, non è conseguente a questo, è semplicemente il titolo primo del Papa. Sottolineare il primo titolo, certo, può favorire l’ecumenismo”.
Sicuramente un ecumenismo discutibile, che spesso sfocia nelle già condannate eresie del pancristianesimo e dell’irenismo, ma il trono di Pietro non si tocca: il papa resta papa. 
 
Fonte:
 

La Monarchia e le sue degenerazioni (Monarchia Assoluta e liberale) - (Parte 18°).




XIII
Tradizionalismo istituzionale e sue degenerazioni nel contesto d'Italia







Il Comune medievale del settentrione ed il Regno di Sicilia.


L'Italia nel XI secolo.
Il Comune è una forma di governo locale che interessò in età medievale vaste aree dell'Europa occidentale ma che ebbe origine nell'Italia centro-settentrionale attorno all'XI secolo. Nella penisola  Italica , culla della civiltà comunale, il fenomeno andò evolvendosi fin dagli ultimi decenni del XIII secolo e la prima metà del secolo successivo, con la modificazione organica degli equilibri politici interni, con la sperimentazione di nuove esperienze di governo (signoria cittadina). In Italia,  le città erano sottoposte all'autorità suprema del Sacro Romano Imperatore: questo è il punto di partenza per comprendere la dinamica storica che accompagnò lo sviluppo dell'assetto istituzionale di buona parte della penisola italiana.
Le autonomie erano alla base di tali tradizioni amministrative. I Comuni erano sì fedeli all'Imperatore ma quest'ultimo ne doveva riconoscere e rispettare le peculiarità.
Se nell'Italia settentrionale il comune si sviluppò precocemente, ben diversa era la situazione della Sicilia e del Napoletano. Qui, infatti, si affermò nel XII secolo il Regno dei Normanni, i quali costituirono un Regno indipendente tra i più solidi dell'epoca. I Normanni, si erano stanziati nell'Italia Meridionale agli inizi dell'Xl secolo: nel 1059 Papa Niccolò II aveva incoronato Roberto il Guiscardo Duca di Puglia e di Calabria. Nel frattempo, la Sicilia andò sotto il controllo di un fratello di Roberto il Guiscardo, cioè Ruggero d'Altavilla, che nel corso di trent'anni sconfisse gli occupanti emirati arabi dell'isola (1061-1091), assumendo infine il titolo di Gran Conte di Sicilia. Suo figlio Ruggero II di Sicilia (1113-1154) nel 1130 venne incoronato  Re di Sicilia; sotto il suo governo, venne a trovarsi anche il sud della Penisola, poiché lo zio Roberto il Guiscardo, morendo, non aveva lasciato discendenti diretti; si costituiva, così, un potente Stato che comprendeva tutta l'Italia Meridionale. Il Regno dei normanni, divenne allora una delle principali potenze del Mediterraneo. Con Ruggero II si affermò uno stato forte, nel quale grande importanza conservavano le tradizionali  istituzioni feudali, ma dove le tendenze, o capricci,  autonomistiche dell'alta feudalità (i baroni) erano controllate saldamente dalla corona. Dagli arabi, Ruggero prese e migliorò la  struttura amministrativa rendendola  ben organizzata, posta sotto il suo diretto controllo. Il Regno dei normanni, anche per la sua posizione geografica, godette di un lunghissimo periodo di grandissimo splendore; era uno stato potente, con un forte esercito e una forte marina, che ben presto rivaleggiarono con le altre potenze del Mar Mediterraneo, vale a dire gli arabi e i bizantini.








Le Italie del XVI secolo



L'Italia all'alba nel XVI secolo.
Con la Pace di Lodi, firmata nella città lombarda il 9 aprile 1454, finì lo scontro fra la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano che durava dall'inizio del Quattrocento. Tale  trattato diete nel contesto specifico dell''Italia del Nord , e di conseguenza nel resto della penisola,  quarant'anni di pace stabile.
Nei primi decenni del XVI secolo, vi furono gli sconvolgimenti avvenuti in seguito alle così dette "Guerre d'Italia";  ma nonostante ciò le peculiarità amministrative delle varie aree della penisola rimasero effettivamente immutate nonostante vi furono cambi di dinastie alla guida dei diversi Stati.
E' proprio in quelle Italie del XVI secolo che risiede la chiave della Tradizione italica ; è in esse che si consolidarono le peculiarità distintive dei popoli della penisola.
La Corona di Castiglia portò in quel secolo una concezione di governo più salda e giusta . L'ambizione della nobiltà era frenata dalla saggezza del Sovrano il quale mise ordine la dove vigeva da lungo tempo il disordine. Dal Ducato di Milano fino al Regno di Sicilia , gli Aragona di Spagna mantennero salde le Tradizioni di queste terre creando un unità di fede così come fecero in Navarra, Aragona e Valencia. Le autonomie comunali del Nord della penisola , se pur sotto un giusto controllo Reale , mantenevano le loro libertà ; mentre a Napoli i  Sedili napoletani, detti anche Seggi o Piazze, i quali erano  dei parlamenti rappresentativi, nei quali si riunivano i delegati dei vari rioni, gestendo dalla seconda metà del ‘200 ampie attribuzioni amministrative, giuridiche e giudiziarie, furono mantenuti intatti. Segno palese del passaggio dall'instabile monarchia dei secoli precedenti al Regno costituito si ebbe quando il Gran Capitano ebbe la massima cura di convocare il popolo napoletano nella Chiesa di San Domenico il 25 Aprile 1504. Il rappresentante del Re Cattolico preferiva fare ricorso al popolo e lo convocava immediatamente a Cortes , introdotte da Alfonso il Magnanimo come adattamento napoletano alle libere istituzioni catalane. Il Vicerè , il Sacro Consiglio Collaterale , la Corte della Vicaria , la Cancelleria organizzata da Ferdinando il Cattolico nel 1505, i parlamenti con rappresentanza popolare , i seggi della capitale dotati di poteri deliberanti , rappresentarono la coerenza e grandezza di quella politica di ordine e organicità inaugurata dalla Corona di Castiglia.  
I Sovrani spagnoli applicarono sin da subito la prassi dell’accordo coi ceti dirigenti, cioè col patriziato cittadino, e, in secondo luogo, gli interessi di tutti i territori della penisola soggetti alla Corona castigliana avevano una giusta rappresentanza a Madrid attraverso il Consiglio d’Italia. Le garanzie d’autonomia del patriziato milanese s’avvalsero anche di una contingenza particolarmente favorevole: Pio IV Medici (1559-64), primo e unico Papa milanese, con una bolla del 1560 garantì, riservando ai patrizi milanesi alcune cariche che gli spagnoli avrebbero potuto assoggettare, il controllo del Collegio dei Nobili giureconsulti, il cui palazzo s’affaccia ancora su piazza Mercanti. Grazie a ciò il Senato di Milano, supremo tribunale del Ducato, divenne la roccaforte dell’autonomia patrizia insieme al Magistrato Ordinario, organo fiscale. Peraltro l’esser inserita nell’Impero Spagnolo non significò per il Ducato perder la sua dimensione internazionale, anzi , dato che lo Stato di Milano, di concerto col governatore, aveva diritto d’inviare rappresentanti diplomatici a Madrid e alle altre corti europee. Come tornasole della saggezza della politica spagnola di accordo con i notabili e le tradizioni amministrative  locali, si può osservare come anche le riforme del Duca Olivares del 1647 trovarono pacifica accoglienza nella popolazione milanese.
I nuovi ordini religiosi dei gesuiti e dei barnabiti importarono a Milano la fede genuina e semplice della Controriforma, fatta di devozioni ma anche di confraternite e congregazioni, in cui l’intimo perfezionamento religioso non andava a scapito della dimensione sociale del cattolicesimo. Insieme alla religiosità barocca questi ordini portarono ai meneghini una ventata di freschezza culturale assicurata dalle scuole, il collegio di Brera e le scuole arcimbolde di S.Alessandro soprattutto, che avrebbero formato generazioni di nobili milanesi. Sempre ad un ecclesiastico, il cardinal Federigo Borromeo  si deve la nascita della Biblioteca Ambrosiana, istituto che, nei secoli, ha conservato la memoria ed accresciuto la conoscenza della storia meneghina. Manifesto di un’epoca in cui religione, politica e cultura non andavano disgiunte, ma procedevano insieme per lo scopo duplice della salvezza delle anime e la felicità sulla terra. La Milano spagnola era ancora quella in cui il lavoratore, anziché essere lasciato in balia del padrone, trovava accoglienza e riparo nelle corporazioni e nelle botteghe, dove il padrone era una maestro e un padre anziché un oppressore. Alla crisi dell’economia seicentesca Milano seppe rispondere inoltre con la conversione: abbandonò la grande tradizione metallurgica, legata alla produzione di armi e corazze, per investire sulla lana e sulla seta, che permisero anche al contado di lavorare e sviluppare, di conseguenza, l’agricoltura.
Nelle altre aree della Penisola italiana le peculiarità amministrative rimasero in gran parte inalterate e scevre da contaminazioni le quali in quel periodo cominciavano ad intaccare le corti europee. Ma all'inizio del XVIII secolo le cose cambiarono.







La Rivoluzione europeizzante invade l'Italia
Assolutismo e liberalismo.





L'Italia nella seconda metà del XVIII secolo.
Il 1 novembre 1700 moriva il Cattolicissimo Carlo II di Spagna, da tempo malato. Cinque giorni dopo, per disposizione testamentaria del defunto Re, veniva proclamato nuovo Re di Spagna il Duca Filippo d'Angiò, nipote del Re di Francia Luigi XIV, il quale assumeva il nome di Filippo V di Spagna (per approfondimenti vi rimando alla parte 15° di questo lavoro) . A causa di rivendicazioni dinastiche e competitività delle maggiori potenze europee , tra le quali spiccava la protestante Inghilterra che da quasi due secoli cercava tenacemente di demolire la potenza Cattolica d'Europa per eccellenza, il testamento venne contestato e l'Europa vide un periodo di guerra nel quale venne coinvolta anche la Penisola Italiana e i suoi Stati. L'impronta del governo castigliano sparì dagli Stati i quali ebbero il grande privilegio di sperimentarlo.
In Piemonte i Savoia , emulando la Corte di Versailles , centralizzarono il potere Regio soffocando le autonomie locali in specie in Sardegna che tanto aveva ricevuto dal governo precedente. Nel Ducato di Milano le cose andarono in modo leggermente diverso anche se l'istituzione Sovrana in se subiva nel medesimo periodo contaminazioni filosofiche profonde. Nelle Due Sicilie ,  Don Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna  , del quale abbiamo ampiamente parlato in precedenza , nello stesso modo paterno , francesizzò Napoli e Palermo portandovi l'assolutismo alla francese tanto amato dalla dinastia Borbonica. Egli mantenne in realtà le istituzioni Tradizionali ma , comunque, nonostante le cose buone che egli fece, le minò profondamente. Lo stesso accadde in Toscana ed  a Parma mentre a Modena la cosa andò in maniera leggermente differente.
Dopo la tempesta rivoluzionaria portata da Napoleone in Italia e il proliferare delle logge massoniche , le istituzioni tradizionali vennero sempre meno. Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia , divenuto Ferdinando I delle Due Sicilie, salvò si la Sicilia dall'usurpazione britannica ma commise il grosso errore di abolire i secolari sedili napoletani già nel 1800 dal ritorno del suo primo esilio in Sicilia. Questa venne considerata come una nefasta rivoluzione per il Regno ed il suo assetto.
Contribuirono di certo le armate del Bonaparte ad infrancesare la penisola italiana e il Murat ad infrancesare Napoli più di quanto non l'avesse fatto Carlo III di Spagna.
In questo vortice di assolutismi radicati la rivoluzione avanzava silente. Le Rivoluzioni settarie minarono i governi legittimi , già contaminati da idee perniciose scaturite dal veleno del secolo XVIII , portando la sovversione. Con la nefasta unità d'Italia , "sotto lo scettro costituzionale di Casa Savoia", determinò il crollo totale della Tradizione delle Italie almeno in campo pratico. Quella monarchia fasulla del Savoia , tenuta in piedi dalle potenze liberali e dalla setta che nell'ombra dirigeva il tutto, ridusse la figura della monarchia in Italia alla mera apparenza; allontano dalla maggior parte del popolo l'amore che fu un connubio per secoli: Dio e Re!.
Quando il dispotismo liberal-costituzionale del Savoia finì, dopo guerre , fame e miseria, in Italia non vera traccia rilevante di Tradizione viva così come per esempio si poteva trovare in Spagna. Erano rimaste solo poche persone a conservare e tramandare le vere libertà che tanto avevano dato a quelle terre. E dopo novant'anni di dispotismo sabaudo e più di sessant'anni  di Repubblica ogni tradizione sembra scomparsa dalle Italie il quale governo era primato di saggezza in quelle Italie del XVI secolo.






Continua...

Fonte:


Wikipedia


http://sagradahispania.blogspot.com/

www.ilportaledelsud.it

La Monarchia Tradizionale di Francisco Elias De Tejada


Scritto da:

Il Presidente e fondatore dell'A.L.T.A. Amedeo Bellizzi.

martedì 30 luglio 2013

P. Reginaldo Garrigou - Lagrange O. P.: L'attualità del Tomismo.

 

 

 

P. Reginaldo Garrigou - Lagrange O. P.

Professore di Dogmatica alla Facolta di Teologia dell'Angelico di Roma
Da: Essenza ed attualità del Tomismo, Roma 1946, pag. 13-39.

L'attualità del Tomismo e i bisogni del nostro tempo

Diverse recenti pubblicazioni più o meno errate sulla natura e il metodo della teologia ci offrono l'occasione di richiamare il valore che la Chiesa riconosce alla dottrina di San Tommaso, e di mostrare come essa risponda ai bisogni più urgenti dell'ora presente, nel disordine che turba tante intelligenze,

I. — Recenti deviazioni

Tale disordine si manifestò già all'epoca in cui prese a pullulare il modernismo, di cui i 65 errori condannati dal Decreto «Lamentabili» e dall'Enciclica «Pascendi» erano quasi tutti, se non tutti, delle eresie, e talune di esse eresie fondamentali sulla natura stessa della rivelazione e della fede ridotta a pura esperienza religiosa.
Era l'indizio, non d'una crisi della fede, ma d'una assai grave malattia delle intelligenze, la quale le conduceva, sulle tracce del protestantesimo liberale e attraverso i1 relativismo, allo scetticismo assoluto.
Per apportare rimedio a questo male, in gran parte dì ordine filosofico, Pio X richiamò — come già aveva fatto Leone XIII — la necessità dì fare ritorno alla dottrina di San Tommaso, e disse anche nell'Enciclica «Pascendi»: — Magistros autem monemus, ut rite hoc teneant Aquinatem vel parum deserere praesertim in re Metaphysica, non sine magno detrimento esse: Parvus error in principio, sic verbis ipsius Aquinatis licet uti, est magnum in fine — Così pure nel Motu proprio Sacrorum Antistitum 1 Sept. 1910 [1]. Malgrado questo richiamo, alcuni spiriti continuarono, coscientemente o inconsciamente, nell'opera di discredito della filosofia e teologia scolastica che non rispondevano più secondo essi alle esigenze della vita, neppure della vita interiore che permettono, ci dicono, di giudicare di ogni cosa. Alcuni sostenevano persino non essere, in fondo, la teologia che una spiritualità, una esperienza religiosa che ha trovato la sua espressione, intellettuale. E spesso si giungeva a scrivere «esperienza religiosa» ove si avrebbe dovuto dire «fede cristiana e cattolica», dimenticando che l'oggetto proprio della esperienza religiosa anche la più autentica è assai ristretto in paragone di quello della fede che essa presuppone. Il giusto quaggiù esperimenta l'affetto filiale che lo Spirito Santo gli ispira a proprio riguardo, ma non ha esperienza della creazione libera ex nihilo, nè della distinzione reale delle Tre Persone divine, nè dell'Unione ipostatica, nè del valore infinito della Redenzione e della Messa, nè della vita eterna dei beati, nè dell'eternità delle pene, e tutto ciò egli lo crede infallibilmente perchè Dio l'ha rivelato, come la Chiesa lo propone. L'esperienza religiosa autentica, che procede dai doni di scienza, di intelletto, di sapienza, di pietà, presuppone la fede, ma non si identifica con essa.
Alcuni sono condotti da tali gravi confusioni a proporre un mutamento nella stessa definizione della verità, e riproducono questo giudizio d'un filosofo contemporaneo: «All'astratta e chimerica adaequatio rei et intellectus si sostituisce la ricerca metodica del diritto: l'adaequatio realis mentis et vitae [2]». La verità non è più la conformità del nostro giudizio col reale extramentale (con la natura e l'esistenza delle cose), ma la conformità del nostro giudizio con la vita umana che si evolve costantemente e le cui esigenze sono conosciute dalla esperienza religiosa.
Resta però a vedersi se questa esperienza religiosa o spiritualità ha un fondamento obbiettivo, e se l'azione o la vita di cui si rivendica il primato (come nella filosofia dell'azione) è la vera vita, l'azione realmente ordinata al vero fine supremo. Come giudicare di quest'ultimo se non per conformità al reale, diceva San Tommaso [3], ritornando così alla tradizionale definizione della verità?
L'azione vera si definisce in rapporto al vero fine ultimo a cui essa dice ordine e non viceversa; altrimenti noi non usciremmo dal soggettivismo, dal relativismo, dal pragmatismo.
Si è in questi ultimi tempi talmente voluto screditare la teologia scolastica che alcuni giunsero a sostenere che essa non può dedurre con certezza, per mezzo di una minore razionale, nessuna conclusione teologica, neppure questa: «Il Cristo (essendo veramente uomo) deve avere una volontà umana soggetta alla sua volontà divina.» Questa conclusione non sarebbe, si dice, più rigorosa di quest'altra: Il Cristo (essendo veramente uomo) deve avere una personalità umana soggetta alla sua personalità divina. Ciò significa dimenticare che la teologia deduce le sue conclusioni al lume dei misteri rivelati, qui del mistero dell'Incarnazione, secondo il quale non vi ha in Gesù Cristo che una persona ed una personalità.
Si è anche giunti a dire che la teologia speculativa oggi non sa nè ciò che essa vuole, nè dove è incamminata. È la conclusione cui devono giungere quanti trascurano i principi stessi della dottrina di San Tommaso, proprio come se un geometra, dimenticando i principî della propria scienza, uscisse a dire: Oggi la geometria non sa nè quello che vuole, nè dove va.
Da qui non vi ha che un passo al disprezzo delle prove teologiche, comunemente accolte, persino di quelle ricavate dalla Santa Scrittura e dalla Tradizione, che presuppongono di già una certa analisi concettuale elementare dei dogmi rivelati (quella stessa che sviluppa in seguito la teologia speculativa per dare l'intelligenza dei dati rivelati prima di dedurre delle conclusioni).
Per taluni, molte di queste prove non conserverebbero il loro valore che ammettendo un aumento interiore ed obbiettivo del deposito rivelato, anche dopo la morte dell'ultimo apostolo. In tal modo si arriva a parlare della relatività e anche della fragilità delle forme dogmatiche, come se esse non fossero che una esperienza religiosa che si evolve incessantemente, come se in queste formule dogmatiche il verbo essere non fosse sempre immutabilmente vero. Nondimeno il Salvatore ha detto: «Ego sum via, veritas et vita» (Io., XIV, 6); «Coelum et terra transibunt verba autem mea non praeteribunt» (Matt. XXIV).
Si è sostenuto, in una recente pubblicazione, a proposito della grazia abituale e della grazia attuale, che le nozioni di cui si servono gli stessi Concilî nelle loro definizioni non sono immutabili e nondimeno si pretende di mantenere che le definizioni conciliari sono immutabilmente vere. Come potrebbe, in queste definizioni conciliari, il verbo essere (anima del giudizio) dare immutabilità a una proposizione di cui i due termini sono continuamente mutevoli? Altrettanto varrebbe dire che un gancio di ferro può tenere immobilmente unite le onde del mare. Come può un giudizio avere un valore immutabile se non vi è immutabilità nella prima apprensione, nelle nozioni stesse che questo giudizio riunisce?
Si dimentica che sotto le nozioni astratte o filosofiche, per esempio di natura, di persona, vi sono le nozioni confuse ed immutabili della ragione naturale e del senso comune, senza le quali le affermazioni di cui si parla non avrebbero alcuna immutabilità.
È ciò che noi abbiamo mostrato nel libro apparso nel 1909: Il senso comune, la filosofia dell'essere e le formule dogmatiche.
Si torna così a sostenere che la verità non si deve più definire in rapporto all'essere, come fa il realismo tradizionale, che è anzi tutto filosofia dell'essere; ma che essa si deve definire in rapporto all'azione come nella filosofia dell'azione parente prossimo di quella del divenire [4].
Resta allora la questione: l'azione di cui parlate è vera essa stessa?
Essa non può esserlo che se tende al vero fine ultimo. Ora come giudicare a sua volta di questo ultimo se non per conformità con il reale (ritornando alla definizione tradizionale della verità), come diceva San Tommaso [5] e come l'ha ripetuto Emilio Boutroux nella sua critica molto appropriata alla filosofia dell'azione? [6]
Nelle recenti deviazioni che abbiamo ricordato, la teologia è praticamente poco a poco sostituita dalla storia unita alla psicologia religiosa o a quella del divenire, i cui principali rappresentanti sono citati come delle autorità quasi come un S. Agostino se non più, giacchè hanno un valore di attualità: «La Teologia che non fosse attuale sarebbe una teologia falsa». E si aggiunge che la teologia di San Tommaso non è più attuale.
Il vero non è mai immutabile, ci dicono; il vero è ciò che corrisponde alle esigenze dell'azione umana evolventesi sempre. M. Blondel ha scritto ancora nel 1935 in L'Être et les êtres p. 415: «Nessuna evidenza intellettuale, neppure quella dei principî assoluti per sè, e che possiedono un valore ontologico, ci si impongono con una certezza spontaneamente e infallibilmente costringente».
È quanto dire che prima della libera scelta che ammette la necessità e il valore ontologico di questi principî, essi non sono che probabili; dopo la scelta, questi principî sono veri per la conformità alle esigenze dell'azione o della vita umana; e cioè ancora che essi hanno una certezza soggettivamente sufficiente, ma obbiettivamente insufficiente, come la prova kantiana della esistenza di Dio. Ove conduce tutto questo? A concludere che le prove tomistiche della esistenza di Dio, per sè sole, non sono che probabili.
È appunto questa confusione ed instabilita degli spiriti che mostra l'imprescindibile necessita, come dissero Leone XIII e Pio X, di far ritorno a San Tommaso
Come l'ha fatto osservare Pio X nell'Enciclica Pascendi, il male del quale soffre il mondo moderno è anzitutto un male dell'intelligenza: l'agnosticismo. Esso, sia sotto forma di positivismo empirista sia sotto quella d'idealismo, mette in dubbio il valore ontologico delle nozioni primordiali nonchè dei primi principî della ragione, il che non permette più di provare con certezza obbiettivamente sufficiente, l'esistenza di Dio distinto dal mondo, e quindi neanche di stabilire il fondamento supremo dell'obbligo morale, o quello della legge naturale. La filosofia moderna ci propone una logica ed una critica soggettive, le quali non permettono di giungere alla verità, cioè di conoscere l'essere extramentale. L'ontologia viene soppressa o ridotta all'enunciato dei primi principî, i quali non sono più leggi immutabili dell'essere, ma solamente leggi dello spirito che evolve, leggi del divenire mentale, volitivo o sentimentale. Arriviamo in tal modo ad una psicologia priva d'anima, la quale non conosce se non i fenomeni, cioè il divenire che è alla base dello stato di conoscenza mutevole. La morale diviene allora una morale priva d'obblighi e di sanzioni, posto che non possiamo conoscere il fondamento supremo del dovere, nè il fine ultimo e vero dell'uomo, secondo un giudizio certo di conformità con la realtà. Invece di codesto giudizio necessario vi sono opzioni libere.
In luogo della filosofia dell'essere abbiamo, sia una filosofia dei fenomeni, sia una filosofia del divenire, sia una filosofia dell'azione e delle esigenze di quest'ultima, ossia un volontarismo secondo il quale «la metafisica ha la sua sostanza nella volontà agente» sostituita all'essere ed alle leggi immutabili di questo. Si rinuncia così alla definizione tradizionale della verità: conformità del giudizio con la realtà extramentale, adaequatio rei et intellectus, alla quale viene sostituita la definizione: veritas est conformitas mentis et vitae, la verità è conformità del pensiero con la vita umana sempre in evoluzione. In tal modo eccoci tornati al modernismo (Denz., 2058, 2026, 2079, 2080).
Quanto al fatto della Rivelazione, esso rimane inconoscibile, perchè i segni della rivelazione non possono venir stabiliti con certezza obbiettivamente sufficiente. V'è chi dubita persin della possibilità del miracolo, visto che il miracolo sembra in contraddizione col principio di causalità, nella forma in cui esso viene formulato oggi dall'agnosticismo e dal fenomenalismo: «qualsiasi fenomeno presuppone un fenomeno antecedente». Il miracolo sarebbe un fenomeno senza antecedente fenomenale; non possiamo ammetterlo se non quale effetto della fede religiosa o della viva emozione che segue talvolta il sentimento religioso. Arriviamo in tal modo ad una religione fondata sul sentimento religioso e sull'evoluzione naturale di questo. Il cristianesimo ed il cattolicesimo sarebbero la forma più alta di codesta evoluzione, però non vi sono più dogmi immutabili, perchè i dogmi vengono espressi da nozioni come quella di natura e di persona, di cui il valore ontologico e trascendente è sempre dubbio.
L'agnosticismo conduce così al naturalismo ossia alla negazione delle realtà soprannaturali [7].
All'origine di tutti quegli errori v'è, sin dai tempi di Hume e di Kant, il seguente: La relazione essenziale dell'intelligenza con l'essere extramentale viene soppressa; perciò l'intelligenza moderna non può più alzarsi con certezza a Dio, Primo Essere; essa ricade su se stessa e dice finalmente che Dio non esiste nell'ordine trascendente, ma che egli diviene in noi. Fu così che l'agnosticismo di Kant condusse al panteismo di Fichte ed all'evoluzionismo assoluto di Hegel; evoluzionismo che si riscontra nelle forme svariatissime dell'idealismo contemporaneo. L'uomo non vive più di Dio, ma solamente di se stesso e si avvia verso la morte, verso l'angoscia e la disperazione delle quali tratta l'esistenzialismo attuale, che è, come ha detto qualcuno, l'esperienza anticipata non del cielo, ma dell'inferno.
Occorre perciò salvare l'intelligenza, sanarla, farle capire che i primi principî della religione naturale o del senso comune hanno un valore ontologico, che sono leggi dell'essere le quali permettono di giungere alla vera certezza sull'esistenza di Dio, fondamento supremo dell'obbligo morale, come pure alla certezza del fatto della rivelazione di Dio, sulla quale poggiano i dogmi immutabili della fede.
Tale difesa del valore ontologico e del valore trascendentale o analitico delle prime nozioni e dei primi principî, la troviamo nel tomismo; non è questa una difesa superficiale, come quella della filosofia del senso comune proposta dagli scozzesi Reid e Dugald Stewart, ma quanto mai profonda, la quale raccoglie i frutti del pensiero di Socrate, di Platone, di Aristotele, dei Padri della Chiesa e soprattutto di Sant'Agostino. Abbiamo là un patrimonio intellettuale di un valore incommensurabile, il quale restituisce all'intelligenza umana la coscienza di quello ch'essa è difatto, le fa capire nuovamente la sua vera natura, e le permette perciò di ritrovare la via che conduce a Dio, prima causa e ultimo fine, nonchè di dirigere la volontà verso tale fine supremo.
Il tomismo corrisponde ai bisogni profondi del mondo moderno, perchè restituisce l'amore della verità per se stessa. Ora senza tale amore della verità per se stessa non è possibile ottenere la vera carità infusa, ossia l'amore soprannaturale di Dio per se stesso, nè giungere alla contemplazione infusa di Dio ricercato per se stesso, ossia alla contemplazione che procede dalla fede viva arricchita dei doni dello Spirito Santo, d'intelligenza e di sapienza sopratutto.
Come fece osservare giustamente Jacques Maritain nel suo bel libro Le Docteur Angelique, 1929, Annexe I: S. Thomas Apôtre des temps modernes, p. 212: «S. Tommaso, e questo è un beneficio immediato a lui dovuto, riconduce l'intelligenza al suo oggetto, l'orienta verso il suo fine, le restituisce la sua natura. Come potrebbe essa non dargli ascolto? È come se dicessimo all'occhio ch'esso è fatto per vedere, alle ali, ch'esse sono fatte per volare... Nello stesso tempo le viene restituita la semplicità dello sguardo; gli ostacoli artificiali non la fanno più esitare quanto all'evidenza naturale dei primi principî, e tale evidenza ripristina la continuità fra la filosofia e il senso comune». È appunto quello che abbiamo dimostrato nel libro nostro su Il Senso comune, la filosofia dell'essere e le formule dogmatiche.
Per il suo realismo, la necessità e l'universalità dei suoi principî, il tomismo ha pure una grande capacità assimilatrice. Esso è in grado di assimilare tutto ciò che è nuovo e vero nelle scoperte delle scienze diverse e quindi la base sperimentale può continuamente venir estesa; a modo dell'organismo umano, il quale conserva la propria struttura sostanziale, v'è nel tomismo un processo d'assimilazione perpetuo. Torneremo ancora su quest'argomento alla fine del capitolo seguente.

II. — L'eccellenza del Tomismo

Secondo le testimonianze di parecchi Papi, la dottrina di San Tommaso è la sintesi filosofica e teologica più perfetta e la più sicura espressione della verità tanto nell'ordine della natura che in quello della grazia.
Richiamiamo alla memoria le parole di Leone XIII nell'Enciclica Aeterni Patris: «Jam vero inter scholasticos Doctores, omnium princeps et magister, longe eminet S. Thomas Aquinas, qui, uti Cajetanus animadvertit, veteres doctores quia summe veneratus est, ideo intellectum omnium quodammodo sortitus est (In II. q. 148, a. 4 in finem). Illorum doctrinas, velut dispersa cujusdam corporis membra in unum S. Thomas collegit et coagmentavit, miro ordine digessit et magnis incrementis ita adauxit, ut catholicae Ecclesiae singulare praesidium et decus jure meritoque habeatur... Nulla est philosophiae pars, quam non acute simul et solide pertractarit... Illud etiam accedit, quod philosophicas conclusiones Angelicus Doctor speculatus est in rerum rationibus et principiis, quae quam latissime patent et infinitarum fere veritatum semina suo velut gremio concludunt, a posterioribus magistris opportuno tempore uberrimo cum fructu aperienda... Praeterea rationem, ut par est, a fide apprime distinguens, utramque tamen amice consocians, utriusque tum jura conservavit, tum dignitati consuluit, ita quidem ut ratio ad humanum fastigium Thomae pennis evecta, jam fere nequeat sublimius assurgere; neque fides a ratione fere possit plura aut validiora adiumenta praestolari, quam quae iam est per Thomam consecuta.». [8] Leone XIII cita pure le seguenti parole di Innocenzo VI:

«Hujus (Thomae) doctrina prae coeteris, excepta canonica, habet proprietatem verborum, modum dicendorum, veritatem sententiarum, ita ut nunquam qui eam tenuerint, inveniantur a veritatis tramite deviasse, et qui eam impugnaverit, semper fuerit de veritate suspectus» [9] (Serm. de S. Thoma).
S. Roberto Bellarmino dice egualmente di S. Tommaso nella introduzione al suo trattato della Santa Trinità: «Tanto si quidem ordine, tanta facilitate, tanta brevitate nobis omnia proponit, ut ego affirmare audeam, si quis diligenter has D. Thomae paucas quaestiones incumbat nihil ei difficile vel in Scripturis, vel in Conciliis vel in Patribus de Trinitate futurum; et plus omnino profecturum aliquem si duobus mensibus dat operam S. Thomae quam si per multos menses in Scripturis et Patribus legendis versetur» [10]. Il Papa Giovanni XXII ha detto pure: «Ipse (S. Thomas) plus illuminavit Ecclesiam quam omnes alii Doctores; in cuius libris plus proficit homo uno anno quam in aliorum doctrina toto tempore vitae suae. [11]».
La ragione intrinseca fondamentale della eccellenza del tomismo, sotto il punto di vista filosofico, è facile ad afferrarsi. Tale eccellenza proviene da ciò che essa e anzitutto una metafisica, che considera ogni cosa non in rapporto al movimento, al fieri, nè in rapporto all'io umano o all'azione umana, bensì in rapporto all'essere (natura ed esistenza delle cose), cioè in rapporto al primo intelligibile, oggetto proprio della metafisica. Per questo il tomismo differisce notevolmente dalle dottrine che sono innanzi tutto una fisica o una filosofia naturale, oppure una psicologia, oppure una etica o un dogmatismo morale, e che non risalgono sufficientemente alle nozioni prime ed ai principî primi dell'essere in quanto essere o del reale [12].
L'eccellenza del tomismo, sotto il punto di vista filosofico, proviene in secondo luogo da ciò che esso risolve tutti i grandi problemi mediante la divisione dell'essere in potenza e atto, ammettendo il primato dell'atto.
Questa divisione s'impone, secondo il tomismo, per conciliare il primo principio della ragione e dell'essere (il principio d'identità o di non contraddizione) col divenire e la molteplicità degli esseri affermati dall'esperienza.
Secondo il principio d'identità «l'essere è l'essere e il non-essere è il non-essere», ciò che equivale a dire «l'essere non è il non-essere»: è questo l'enunciato, il più semplice del principio di non contraddizione. D'altra parte ciò che diventa non è ancora ciò che sarà, ma può esserlo; bisogna dunque distinguere in esso la potenza e l'atto: nella germinazione della pianta vi è 1'attuazione progressiva d'una potenza reale, d'una capacità di perfezione che riceverà la forma specifica, la struttura essenziale della quercia o del faggio. Nello stesso modo la molteplicità delle querce non si spiega che distinguendo in ciascuna la forma specifica della quercia e la materia capace di riceverla, la quale è essa pure una reale capacità di perfezione. Da questi primi principî derivano i caratteri essenziali del tomismo dal punto di vista filosofico: dottrina realista, intellettualista, teocentrica.
È una dottrina realista giacchè ammette il primato dell'essere sulla conoscenza, concepita come essenzialmente relativa all'essere; la nostra conoscenza intellettuale parte infatti dall'idea dell'essere presupposta da tutte le altre, e si compie nel giudizio, l'anima del quale è il verbo essere. Questo realismo non diminuisce in niente la vitalità e l'immanenza dell'atto del conoscere, ma afferma il suo valore in rapporto all'essere extramentale.
Il tomismo è inoltre una dottrina intellettualista giacchè ammette la superiorità dell'intelligenza (facoltà dell'essere) sulla volontà che essa dirige. Questa dottrina, che vale per l'intelligenza divina come per l'intelligenza umana, si oppone fortemente all'arbitrario «stat pro ratione voluntas». Ma essa salvaguarda veramente il libero arbitrio rispetto ad ogni bene che non sia il bene universale nella sua pienezza. Essa garantisce pure perfettamente la superiorità della carità, affermando che quaggiù l'amore di Dio, in quanto conduce a Lui, è più perfetto della conoscenza di Dio che attira per così dire Dio a noi, imponendogli in certo modo il limite delle nostre idee ristrette e finite.
Infine il tomismo è una dottrina teocentrica che afferma il primato di Dio, Atto puro, su tutto il creato, perchè l'atto è più perfetto della potenza. C'è di più in ciò che è, che in ciò che diviene. Dio è dunque, non il divenire universale, ma l'Essere stesso eternamente sussistente, infinitamente più perfetto nella sua pienezza di tutto ciò che partecipa alle sue perfezioni. Ne segue che nulla esiste e nulla persevera nell'esistenza se non per Dio creatore e conservatore e che nessuna creatura può agire senza il suo concorso, neppure la creatura libera. Nessuna creatura può infatti passare dalla potenza all'atto che sotto l'infuenza d'una causa superiore in atto e, in ultima analisi, sotto l'influenza dell'Agente Supremo che solo è la sua attività, Atto puro, che solo è l'Essere stesso, il Bene stesso e la suprema libertà di cui la nostra non è che una partecipazione, nobile certamente, ma sempre limitata.
Questi tre caratteri: realismo, intellettualismo, teocentrismo sono l'essenza stessa del tomismo.




Da essi derivano gli altri caratteri: la sua unità organica, l'universalità, l'elevazione, la profondità dei suoi principî, la proprietà dei termini, la manifesta armonia e il perfetto equilibrio delle parti.
La sua unità non è artificiale o fittizia come quella di un sistema eclettico, privo di principi direttivi e che raccatta bene o male elementi a destra e sinistra; essa non è forzata o imperiosa, come farebbe un sistema troppo stretto, fondato sopra una idea-madre incapace di spiegare, senza violentarli, i diversi aspetti del reale. È una unità organica, simile a quella d'un vivente, una unità fondata sulla natura stessa delle cose, non solamente sulla coordinazione degli agenti creati e di Dio, ma sulla subordinazione di tutte le cause alla Causa suprema.
La necessità, l'universalità, l'elevazione e la profondità dei principî del tomismo provengono da ciò che nell'ordine naturale essi sono fondati su una nozione di tutte la prima, la più universale, quella dell'essere che ha per proprietà l'uno, il vero, il bene e il bello. Sono poi fondati sulla primissima divisione dell'essere in potenza ed atto, con l'affermazione della priorità dell'atto sulla potenza. Tutti i problemi filosofici si illuminano alla luce di questi principî che soli permettono di spiegare il divenire, le sue forme svariate e la molteplicità degli esseri in dipendenza dalla Causa prima.
Nell'ordine teologico, la necessità, l'universalità, l'elevazione e la profondità dei principî del tomismo provengono da ciò che essi sono fondati sulla natura stessa di Dio, sulla Sua Deità nella quale si identificano senza distruggersi le perfezioni assolute: l'Essere stesso eternamente sussistente, la suprema Sapienza e la sovrana Bontà. Tutti i trattati teologici di San Tommaso, quello di Dio, Uno e Trino, quello della creazione e del governo divino, quello della Incarnazione redentrice, quello dei Sacramenti, quello del fine ultimo degli atti umani, quello delle virtù e dei doni, quello della grazia, si illuminano alla luce di questi principî superiori, mentre si farebbe violenza al loro oggetto volendolo spiegare con principî meno elevati, e meno universali, come lo sarebbe una definizione discutibile della libertà umana, o principî d'una filosofia dell'azione (umana), capace di fondare tutt'al più un dogmatismo morale, in cui la verità si definisce non più in funzione dell'essere, ma in funzione della nostra azione umana la cui rettitudine profonda resterebbe sempre un problema.




La proprietà dei termini è sempre stata ritenuta dai Sommi Pontefici come una caratteristica del tomismo. Si legge nell'Ufficiatura di San Tommaso: «Stylus brevis, grata facundia: celsa, clara, firma sententia». Questa proprietà dei termini proviene dal fatto che i concetti e i giudizi che essi esprimono furono considerati alla luce obbiettiva dell'essere e dei principî, allo scopo di conoscere la natura delle cose e le loro proprietà e non solamente, come in ogni pragmatismo, allo scopo di dirigere l'attività umana verso un dato fine che si suppone buono. Per questo il tomismo esclude, quando gli è possibile, la metafora, sorgente di confusione e d'inesattezza; esso non vi ricorre che quando mancano i termini propri, e allora esso dice espressamente che parla in modo metaforico. Il filosofo che, all'opposto, comincia con l'esprimersi in metafore, quando potrebbe e dovrebbe conservare la proprietà dei termini, si condanna ad un eterno «press'a poco», in modo che non è più dato distinguere nelle sue prove e nelle sue asserzioni, quelle che sono solamente probabili da quelle che sono veramente certe.




L'armonia delle parti nella dottrina di San Tommaso si afferma non meno. Essa deriva da una virtù che egli possedeva in grado squisito: il senso cioè della misura, dell'equilibrio, che giammai gli permetteva di porre in maggior luce un elemento a svantaggio di un altro.
Sotto questo rapporto egli è il massimo classico della teologia, assai contrario a tutte le esagerazioni romantiche che drammatizzano a capriccio i grandi problemi e giungono a tali antinomie fra la tesi e l'antitesi da rendere impossibile il raggiungere la sintesi superiore che concilierebbe veramente e immutabilmente i diversi aspetti del reale. In tal modo alle grandi verità si sostituiscono i grandi problemi giammai risolti e che già si considerano come insolubili. Nella dottrina di San Tommaso vi ha un'armonia manifesta fra il senso e l'intelligenza, fra la conoscenza tradizionale e lo sforzo personale per approfondire la tradizione, fra l'intelligenza e la libertà, fra la ragione e la fede, e da qui deriva l'equilibrio delle altre parti subordinate.
I sensi forniscono alla intelligenza la materia della sua considerazione, ma essa stessa giudica del loro valore alla luce dei principî e delle nozioni prime astratte delle cose sensibili. La tradizione dirige il nostro sforzo, ma questo, assimilandosi il contenuto dell'apporto tradizionale, giudica sempre meglio del suo valore intrinseco. L'intelligenza dirige la libertà, ma il consentimento libero, accettando il giudizio pratico, fa che questo sia l'ultimo e termini la deliberazione. La ragione ci dimostra essere ragionevole credere, a cagione dei segni che accompagnano la rivelazione divina, e questa conferma a sua volta le viste superiori della ragione su Dio, su l'anima spirituale e la vita futura. Come diceva Leone XIII nell'Enciclica Aeterni Patris: Qua propter qui philosophiae studium cum obsequio Fidei christianae coniungunt ii optime philosophantur; quando quidem divinarum veritatum splendor, animo exceptus, ipsam juvat intelligentiam; cui non modo nihil de dignitate detrahit, sed nobilitatis, acuminis, firmitatis plurimum addit» [13].
La filosofia aristotelica non riceve così il suo pieno sviluppo nelle grandi questioni sull'anima spirituale ed immortale, sulla libertà, su Dio e la libertà dell'atto creatore se non con San Tommaso, mercè il cui profondo pensiero la fìlosofia giunge all'età adulta. Occorrevano il clima cristiano e la luce della divina rivelazione, stella rectrix, che mostrava dall'alto la mèta da raggiungere, la vetta alla quale con le sole sue forze la ragione doveva pervenire. Colui che ci addita il termine dell'ascesa ci è sì d'aiuto, ma dobbiamo noi stessi camminare con le forze nostre per giungervi.
Tali sono le ragioni dell'eccellenza del tomismo. Esso, come filosofia, è sovrattutto una metafisica che considera ogni cosa non in rapporto al divenire, nè in rapporto all'io umano o alla nostra azione, ma in rapporto all'essere e all'essere distinto in potenza ed atto, affermando la superiorità dell'atto. Da tale punto di vista superiore esso giudica di tutti i problemi filosofici. Ne risulta perciò una dottrina realista, intellettualista e teocentrica. Questo appartiene alla sua stessa essenza. Altri suoi caratteri ne derivano: l'ammirabile unità, l'universalità, l'elevatezza, la profondità dei suoi principî, la proprietà del termini per chiarire le più difficili questioni, l'armonia manifesta delle sue parti e in particolare dei tre ordini: quello della conoscenza sensibile, quello della conoscenza intellettuale naturale, quello della conoscenza soprannaturale che, molto al di sopra della filosofia e della conoscenza naturale degli angeli più elevati, raggiunge la vita di Dio e i misteri della SS. Trinità, dell'Incarnazione redentrice e della beatitudine eterna.


Questi caratteri del tomismo diminuiscono e anche spariscono nell'eclettismo quale si trova nelle opere di Suarez e dei suoi discepoli. Suarez volle trovare una via di mezzo fra San Tommaso e Scoto, ma oscilla spesso fra l'uno e l'altro ed inclina a volte verso il nominalismo, senza rendersi conto della deviazione dì quest'ultimo. Ciò si vedrà più avanti per la posizione presa da Suarez riguardo alle principali tesi della metafisica tomista di cui noi richiameremo il fondamento e la connessione.
Questo eclettismo diminuisce le forze della ragione speculativa ed inclina praticamente verso un certo fideismo poco cosciente in cui ogni vita intellettuale, seria e profonda, sparisce.
Da qui il poco vigilante interesse, la scarsa reazione che provocano le tesi antitomistiche più arrischiate e sovversive.

III. — Obbiezioni

Si opporrà senza dubbio che i principî della dottrina di San Tommaso sono troppo astratti e non appaiono assolutamente certi.
A ciò bisogna rispondere che questi principî, per essere assolutamente universali e applicabili a ogni essere, sia materiale che immateriale, devono far astrazione da ogni materia ed appartenere al terzo grado d'astrazione.
Il primo grado, quello della fisica, astrae soltanto dalla materia individuale: ad esempio, dall'acqua di questo fiume e dall'acqua di quel torrente per considerare la natura dell'acqua e le sue proprietà.
Il secondo grado di astrazione, quello delle matematiche, astrae da tutte le qualità sensibili per considerare la quantità, sia discreta (i numeri) sia continua (l'estensione, le sue figure e le sue dimensioni).
Il terzo grado d'astrazione, in metafisica, astrae da ogni materia ed è in tal modo che ci permette di conoscere le leggi più universali dell'essere e dell'agire, che si applicano a tutti gli esseri così materiali che immateriali.
Obbiettasi pure che non tutti i principî di San Tommaso appaiono sicuri. A questo i tomisti rispondono che tali principî richiedono uno studio approfondito per vedere il loro collegamento ai primissimi principî della ragione naturale e del reale; ai principî d'identità o di contraddizione, di ragion d'essere, di causalità efficiente, di finalità. Mostreremo in seguito che la distinzione di potenza ed atto si impone assolutamente per conciliare il principio d'identita o di contraddizione (prima legge del pensiero e del reale) affermato da Parmenide, col divenire e la molteplicità affermati da Eraclito, alle origini della storia della filosofia greca.
Lo sforzo metafisico necessario per apprezzare la necessità dei principî formulati da San Tommaso è così utilissimo per difendere le verità del senso comune. Di più: è necessario perchè il senso comune non può filosoficamente difendersi da sè contro le false filosofie, non può difendere il valore reale delle nozioni prime confuse di cui si serve. Il lavoro filosofico che è passato a poco a poco dalle nozioni prime confuse alle nozioni prime distinte è indispensabile perchè tale difesa acquisti un valore filosofico. È quello che non ha saputo comprendere Tommaso Reid coi suoi discepoli. E sarebbe cadere in uno strano inganno il confondere il suo punto di vista con quello di Tommaso d'Aquino. Vi ha fra questi due Tommasi una distanza smisurata.
Voler mantenere le affermazioni immutabili della dottrina cristiana sostenendo che le nozioni che le compongono sono continuamente mutevoli, significa non scorgere che sotto le nozioni distinte o filosofiche, per esempio di natura e di persona, vi sono le nozioni confuse ed immutabili della ragione naturale e del senso comune, senza le quali quelle affermazioni non avrebbero alcuna immutabilità. Ma queste nozioni confuse del senso comune bisogna difenderle filosoficamente. È ciò che facevano Aristotile e San Tommaso passando metodicamente dalle definizioni nominali alle definizioni reali, secondo un doppio processo ascendente e discendente come essi spiegano negli Analitici posteriori l. II. Lez. 6 ad 20.



Si obbietterà infine che l'obbedienza alla Santa Sede non potrebbe domandare l'adesione al tomismo senza diminuire la libertà dello spirito e della ricerca intellettuale.
Non si tratta di aderire al tomismo come alle verità di fede definite dalla Chiesa, ma di riconoscere il grande valore filosofico e teologico che i Pontefici gli hanno sempre riconosciuto, sino al punto di chiedere che la filosofia e la teologia siano insegnate «ad Angelici Doctoris rationem, doctrinam et principia, eaque sancte teneant» (can. 1366),
Lungi dal diminuire la vera libertà della ricerca intellettuale, la si aumenta, la si rende più perfetta, procurandole tanto maggiore slancio in quanto essa ha un più fermo punto d'appoggio, e liberandola dall'errore secondo la parola del Maestro: «Cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos» (Joan. VIII, 32), in luogo di abbandonarsi ad una fluttuazione perpetua.




Infine che cosa occorre per studiare con frutto il tomismo? qual metodo seguire?
1) Bisogna considerarlo nella sua totalità organica e non in modo frammentario. Non lo si comprende che alla luce dei suoi stessi principî che esigono di essere approfonditi. Altrimenti non lo si conosce che esteriormente, come si conoscerebbe una città per aver attraversato i suoi quartieri periferici, senza aver visitato la sua piazza centrale dalla quale irraggiano in ogni direzione tutte le sue vie.
2) Occorre uno schietto e profondo amore per la verità in se stessa, considerata oggettivamente, al disopra di ogni pragmatismo soggettivo anche religioso e al disopra di ogni moda intellettuale, passeggera come ogni moda. La verità non è ciò che noi vogliamo, o la conformità di certi giudizi coi nostri desideri più o meno retti. La verità non è neppure ciò che piace a questa o a quella generazione, e che verra sdegnata dalla generazione successiva. Trenta o quarant'anni or sono bisognava essere bergsoniani per godere nel mondo intellettuale di qualche considerazione: oggi il bergsonismo è già passato di moda. La verità non è cio che piace, ma ciò che è, ed essa si trova anzitutto nelle leggi fondamentali del reale che sono altresì quelle del pensiero, dell'intelligenza naturale e di ogni pensiero degno di questo nome.
3) Per studiare il tomismo con frutto occorre una vera docilità verso San Tommaso: non stimarsi superiore a lui, così come fanno, in modo più o meno cosciente, certi storici della filosofia che considerano la sua dottrina come una delle tante e che lo giudicano dall'alto, senza mai rendersi conto che una delle più grandi grazie elargite da Dio alla sua Chiesa è stata quella di farle dono d'un S. Agostino e di un S. Tommaso. Storici per altro che non superano intellettualmente un certo relativismo nè mai raggiungono la fermezza dottrinale. Per esempio essi riconoscono nella dottrina di potenza e di atto soltanto una mirabile ipotesi o un postulato liberamente accettato dallo spirito, senza rendersi conto che le prove della esistenza di Dio, fondate su questa dottrina, perderebbero in tal modo ogni valere dimostrativo e non supererebbero il probabilismo speculativo.
Per conoscere anche più e meglio la dottrina di San Tommaso bisogna amarla: allora si scorge presto ciò che potrebbe diminuirla ed alterarla, così come, quando si ama il Vangelo e la Chiesa si intuisce subito ciò che ad essi si oppone. È colui che ama che possiede queste intuizioni, dicono i Santi.
4) Infine occorrono umiltà e preghiera nella ricerca della verità. La verità infatti è sotto diversi punti di vista una e molteplice, semplice e complessa, manifesta e misteriosa. Non si può raggiungerla nella sua profondità ed elevazione che seguendo i grandi genii che Dio ci ha dato come fari e come guide. Altrimenti noi rassomigliamo a colui che si propone l'ascensione di un'alta montagna senza guida esperta, esponendosi quindi al pericolo dì cadere in qualche precipizio. È ciò che avvenne più volte: in filosofia a Descartes, Malebranche, e più ancora a Spinoza, Hume, Kant, Fichte, Hegel e tanti altri, in teologia ai Pelagiani e in senso oppesto a Lutero, Calvino e Giansenio.
Nella ricerca del vero è indispensabile unire l'umiltà alla preghiera. Allora lo studio del tomismo è fruttuoso e ci si rende conto sempre più della profondità ed altezza che ha il pensiero dì San Tommaso: lo si scopre sotto la sua semplicità, che fa pensare a quella di Dio.
Noi commentiamo la sua Somma Teologica articolo per articolo da circa quarantacinque anni, e abbiamo l'impressione di non conoscere bene la struttura interna di un grande trattato, come quello della SS. Trinità, che quando noi lo commentiamo per la terza o la quarta volta. La Somma Teologica di San Tommaso è come una grande foresta che non si giunge a conoscere se non dopo averla percorsa sovente in tutti i sensi e le direzioni, come una catena di montagne, la cui configurazione dipende da quella di qualche grande cima sovrastante dì cui bisogna aver fatto più volte l'ascensione. Chiedete ai geografi che conoscono bene le Alpi o i Pirenei come a questo sono pervenuti. Non è sufficiente aver studiato la Somma Teologica come può fare uno storico per conoscerla bene. Bisogna aver avanzato in tale studio molto più oltre, bisogna essersela assimilata; diciamo più esattamente: essa è un tale nutrimento superiore che non ci assimiliamo, ma dal quale noi siamo assimilati.
Per questo appunto lo studio dei migliori commentatori, come Gajetano e Giovanni di San Tommaso, riesce utile, come guide che si consultano per una ascensione difficile.
Così con la docilità e l'umiltà unite alla preghiera una buona intelligenza può arrivare ad una conoscenza molto fruttuosa di questa dottrina di cui scoprirà sempre meglio il valore.
Per mezzo di essa si giungerà a quella conoscenza saporosa e feconda di cui parla il Concilio Vaticano, quando dice (Denz. 1796): «Ratio fide illustrata, cum sedulo, pie et sobrie quaerit, aliquam Deo dante mysteriorum intelligentiam eamque fructuosissimam assequitur, tum ex eorum, quae naturaliter cognoscit, analogia, tum e mysteriorum ipsorum nexu inter se et cum fine hominis ultimo».
Questa intelligenza dei misteri — torniamo a ripeterlo — è data dalla conformità dell'intelletto con la stessa realtà divina e non solo con le esigenze soggettive dell'azione umana. In questa nuova dichiarazione della Chiesa è sempre sottintesa la definizione tradizionale della verità che è la conformità dell'intelletto con la realtà stessa extramentale. È ben questa la nozione della verità che il tomismo difende costantemente, come apparirà chiaro dalle sue principali tesi metafisiche che ora considereremo.
Come noi abbiamo mostrato altrove [14], il tomismo ha così una grande potenza d'assimilazione (non diciamo d'adattamento). Esso accetta tutto ciò che c'è di positivo e di dimostrato nelle altre concezioni, ma rigetta ciò che esse negano indebitamente. È così come una sintesi superiore al di sopra dei sistemi opposti fra loro: al di sopra dell'evoluzionismo di Eraclito e dell'immobilismo di Parmenide, con la sua dottrina dell'essere diviso in potenza ed atto. È anche al di sopra del meccanismo e del dinamismo con la sua dottrina della materia e della forma; al di sopra del materialismo o sensualismo e dell'idealismo platonico, con la sua dottrina dell'anima forma del corpo; al di sopra del determinismo psicologico e del libertismo poichè ammette che l'elezione libera è sì sempre diretta dall'ultimo giudizio pratico, ma essa stessa accettandolo fa che sia l'ultimo. Esso è anche al di sopra del panteismo che assorbe Dio nel mondo e di quello che assorbe il mondo in Dio; per la stessa ragione è, con la sua dottrina della mozione divina, al di sopra dell'occasionalismo che sopprime le cause seconde e del molinismo che sottrae la causa seconda alla premozione divina.
Anche dal punto di vista sociale, il tomismo si tiene al di sopra del Comunismo di stato, che assorbe l'individuo nello Stato, e dell'individualismo che misconosce le esigenze del bene comune, oggetto della giustizia sociale. Per S. Tommaso l'individuo (ut pars societatis) è subordinato alla specie e alla società, ma la società è subordinata alla persona che deve tendere verso Dio.
Il tomismo ammette così che c'è più nel reale che in tutti i sistemi. Perchè? Perchè la realtà, soprattutto la realtà divina, è incomparabilmente più ricca di tutte le nostre concezioni filosofiche. «Ci sono più cose in cielo e sulla terra che in tutta la nostra filosofia» dice un personaggio di Shakespeare. Leibniz diceva: «I sistemi filosofici sono veri in ciò che essi affermano e falsi in ciò che essi negano». Ma Leibniz diceva così come eclettico. Il tomismo non è un eclettismo, giacchè ha i suoi principî direttivi, necessari ed universali, soprattutto quello della divisione dell'essere in potenza e atto e del primato dell'atto; ciò che l'obbliga a risalire sempre all'Atto puro principio e fine di tutte le cose.

— «Ammoniamo poi quelli che insegnano di ben persuadersi che il discostarsi dall'Aquinate, specialmente in cose metafisiche, non avviene senza grave danno.» (Encicl. Pascendi)«Un piccolo errore nei principî, per dirla con lo stesso Aquinate, diviene un grande errore nelle sue ultime conseguenze.» (Motu Proprio Sacrorum Antistitum).

Per la traduzione dei brani in latino vedansi le note.

«E la ragione in vero, illustrata dalla fede, quando diligentemente,  piamente e sobriamente cerca, ottiene coll'aiuto di Dio una qualche intelligenza dei misteri, anche fruttuosissima, sia per l'analogia con quelle cose che naturalmente conosce, sia per il nesso degli stessi misteri tra sè, e coll'ultimo fine dell'uomo» [Conc. Vaticano, Cost. dogm. Dei Filius].


NOTE:

[1] Cf. Enchiridion clericorum, 1938, n. 805, 891
[2] Maurizio Blondel, Punto di partenza della ricerca filosofica (Annales de Philosophie Crétienne, 1906, a, I, p. 235).
[3] Cf. I-II, q. 19, a. 3, ad. 2m: «In his quae sunt ad finem (i mezzi) rectitudo rationis consistit in conformitate ad appetitum finis debiti. Sed tamen et ipse appetitus finis debiti praesupponit rectam apprehensionem de fine, quae est per rationem (secundum conformitatem ad rem)».
[4] Si ritorna così a un relativismo più meno pragmatista, di cui il Santo Ufficio il 1° dicembre 1924 condannò le proposizioni seguenti:
«1°. Conceptus seu ideae abstractae per se nullo modo possunt constituere imaginem (seu repraesentationem) rectam atque, fidelem etsi partialem tantum. 2°. Neque ratiocinia ex eis confecta per se nos ducere possunt in veram cognitionem ejusdem realitatis. 3°. Nulla propositio abstracta potest haberi ut immutabiliter vera. 4°. In assecutione veritatis actus intellectus in se sumptus, omni virtute specialiter apprehensiva destituitur, neque est instrumentum proprium et unicum huius assecutionis, sed valet tantum modo in complexu totius actionis humanae, cujus pars et momentum est, cuique soli competit veritatem assequi et possidere. 5°. Qua propter veritas non invenitur in ullo actu particulari intellectus, in quo haberetur «conformitas cum objecto», ut aiunt scholastici, sed veritas est semper in fieri, consistitque in adaequatione progressiva intellectus et vitae, scil. in motu quodam perpetuo, quo intellectus evolvere et explicare nititur id quod parit experientia vel exigit actio; ea tamen lege ut in toto progressu nihil unquam ratum et fixum habeatur. 6°. Argumenta logica, tum de existentia Dei, tum  de credibilitate Religionis christianae, per se sola, nullo pollent valore, ut aiunt, objectivo, scil. per se nihil probant pro ordine reali. 7°. Non possumus adipisci ullam veritatem proprii nominis quin admittamus existentiam Dei, immo et Revelationem. 8°. Valor quem habere possunt hujusmodi argumenta, non provenit ex eorum evidentia, seu vi dialectica, sed ex exigentiis «subjectivis» vitae vel actionis, quae ut recte evolvantur sibique cohaereant, his veritatibus indigent». Seguono altre quattro proposizioni  condannate che riguardano l'apologetica e il valore della fede. L'elenco di queste proposizioni lo trovi nel Monitore Ecclesiastico 1925, p. 194. Come si può evitare questa proposizione modernista (Denz. 2058): «Veritas non est immutabilis plusquam ipse homo, quippe quae cum ipso, in ipso, et per ipsum evolvitur»?
[5] I. II. q. 19, a 3, ad 2m., loc. cit. |
[6] Science et religion, 1908, pag. 296: «È dunque dell'azione speciale della volontà che si intende parlare? Ma la volontà esige un fine...  Ciò che si cerca attraverso queste ingegnose teorie è l'azione come autosufficiente indipendentemente da tutti i concetti per i quali noi possiamo tentare di esplicarla e di giustificarla, l'azione pura, l'azione in sè... Ciò non significa forse si voglia o non si voglia, il ritorno a un programma indeterminato?... E non ci si caccia in una via senza uscita, allorquando si cerca nella pratica, lontano dalla teoria, l'essenza e il solo principio verace della vita religiosa?».
[7] Abbiamo esposto in modo particolareggiato i principî e le conseguenze dell'agnosticismo e dell'evoluzionismo in un'altra opera nostra De Revelatione, 4a edizione, 1945, Roma, Ferrari, t. I, p. 218-248; 259-299; t. II, p. 2-92; 115-124. Oggidì taluni non esitano d'insegnare  persino dottrine quanto mai fantasiose e falsissime a proposito del peccato originale. 1° L'ipotesi dell'evoluzione materiale del mondo viene estesa all'ordine spirituale e soprannaturale. Il mondo soprannaturale sarebbe in evoluzione verso il pieno arrivo di Cristo, cioè fino al secondo suo avvento. 2° Il peccato, in quanto colpisce l'anima, sarebbe qualcosa di spirituale e quindi non esisterebbe nel tempo, perciò poco importa a Dio se esso venne commesso al principio oppure nel corso dell'esistenza dell'umanita. 3° Le coscienze umane si compenetrerebbero in qualche modo e tutte comparteciperebbero alla natura umana, la quale avrebbe un'esistenza sua indipendente. Per questo il peccato personale di una qualsiasi anima colpisce la natura umana intera. 4° Quindi il peccato originale non sarebbe più di quello di Adamo, ma di qualsiasi uomo, un peccato che ricadrebbe sulla natura intera. V'e chi vorrebbe cambiare in tal modo non solamente il modo d'esposizione della teologia, ma pure la stessa natura di codesta, e persino quella del dogma,
Taluni insegnano più o meno esplicitamente che il mondo materiale evolverebbe m modo naturale verso lo spirito, e che parimenti il mondo spirituale evolverebbe in modo naturale o quasi naturale verso l'ordine soprannaturale, come se Baius averse avuto ragione. Il mondo sarebbe  in tal modo in evoluzione naturale verso la pienezza di Cristo; esso sarebbe in progresso continuo e quindi non avrebbe potuto essere all'inizio in stato perfetto di giustizia originale seguito da una caduta ossia dal peccato originale; tale evoluzionismo, che ricorda quello di Hegel, muta la sostanza stessa del dogma.
La medesima tendenza induce taluni a formulare, a proposito della Eucarestia, affermazioni come la seguente: «Il vero problema della presenza reale non è stato posto finora». Dire che Cristo e presente nell'Eucarestia ad modum substantiae è dare una spiegazione che passa accanto al vero problema; nella sua chiarezza ingannatrice essa sopprime il mistero religioso per accontentarsi di un semplice prodigio. Occorre sostituire nel caso al metodo scolastico di riflettere quello cartesiano e spinozista. Benchè Cristo sia Dio per davvero, non si può dire che con lui ci sia stata una presenza di Dio nella Giudea.  Dio non era presente in Palestina più che altrove. Vi fu pero un segno efficace della presenza di Dio. Parimenti l'Eucarestia è il segno efficace di una presenza spirituale. Non vi è transustanziazione nel senso fisico e filosofico, ma solamente nel senso religioso. Il pane e il vino sono divenuti i segni della presenza spirituale di Cristo.
Ora affermare questo equivale a tornare al modernismo e anche all'eresia dell'impanazione o a quella della consustanziazione.
Savonarola quando era tentato d'orgoglio si paragonava con S. Tommaso e si considerava un nano di fronte a quel gigante. Al contrario i modernisti, di cui sopra, si credono superior a S. Tommaso. Speriamo che cambino parere nel momento della morte!
[8] «Tra i Dottori Scolastici, però, eccelle di gran lunga sopra tutti San Tommaso d'Aquino, di tutti principe e maestro. Egli (come osserva il Cardinale Gaetano) appunto perchè tenne in somma venerazione gli antichi sacri dottori, ereditò in qualche modo l'intelletto di tutti. (In II. 2, q. CXLVIII, a. 1, in fine). Le loro dottrine, quasi membra disperse di un certo corpo o sistema, San Tommaso seppe raccogliere e collegare, disporre in ordine mirabile, e accrescere di aggiunte importantissime; tanto che con perfetta giustizia viene considerato singolare presidio e onore della Chiesa Cattolica ..... Non v'è parte della filosofia, ch'egli non abbia trattato a fondo, con pari acume e solidita ..... A questo si aggiunge che l'Angelico Dottore speculò le sue conclusioni filosofiche nella luce delle ragioni e dei principî supremi; i quali essendo di universalità onnicomprensiva contengono in certo modo nel loro seno i germi d'infinite verità. Compito dei maestri successivi sarà appunto far germogliare questi semi, a tempo opportuno e con ottimo frutto ... Inoltre, dopo avere prima di tutto convenientemente distinto la ragione dalla fede, seppe però armonicamente congiungerle, conservando i diritti e salvaguardando la dignità di ciascuna. E così avvenne che la ragione, sulle ali di San Tommaso, raggiunge il culmine delle umane possibilità, tanto, che quasi appare impossibile farla salire piu in alto; mentre d'altra parte la fede ben difficilmente può ripromettersi dalla ragione aiuti più numerosi ed efficaci di quelli ottenuti per opera di San Tommaso».|
[9] «La dottrina di costui (Tommaso) vince tutte le altre (eccettuata la Canonica) per la proprietà delle parole, il buon merito nell'esporre, la verità delle sentenze; cosicchè non e mai accaduto a coloro che l'hanno professata, di errare fuor dal cammino della verità; mentre invece chi l'ha combattuta è sempre stato sospettato di errore (Serm. su San Tommaso).
[10] «Veramente ci propone ogni cosa con tanto ordine, con tanta immediatezza, con tanta brevità, che oso affermare che se alcuno diligentemente studiera le poche questioni di S. Tommaso, niente più gli riuscira difficile intorno alla Trinità sia nelle Scritture, sia nei Concilii, sia nei Papi; e se alcuno attenderà a S. Tommaso per due soli mesi ne porterà piu frutto che se per parecchi si fosse immerso nella lettura delle Scritture e dei Padri».
[11] «Egli (S. Tommaso) illustrò la Chiesa più di tutti gli altri Dottori; dai suoi libri in un solo anno lo studioso trae più vantaggio che per tutto il tempo di sua vita dalla dottrina di altri».
Allocutio hab. in Concistorio an. 1818, in Vita S. Thomae A. 81 apud Bolland. Acta Sanct. die 7 mart. cf. de hac re Enchiridion clericorum (Documenta Ecclesiae sacrorum alumnis istituendis) an. 1938, p. 624.
[12] Se l'intelligenza umana non conoscesse l'essere intelligibile e la sua opposizione al non-essere, se essa non conoscesse almeno confusamente il principio di contraddizione come legge dell'essere (l'essere non è il non essere), non potrebbe affermare con certezza cogito, ergo sum giacchè sarebbe come dire contemporaneamente: io penso e non penso, oppure: io so e non so. Non si potrebbe neanche dire impersonalmente: «pensa», come si dice: «piove», giacchè il pensiero impersonale sembrerebbe non essere veramente  «pensiero» e doversi perdere nell'incosciente.
[13] «Per la qual cosa coloro che lo studio della filosofia uniscono all'ossequio della Fede cristiana, ottimamente filosofano; invero, accolto nell'animo lo splendore delle divine verità, questo soccorre la steess intelligenza; alla quale non solo nulla toglie della sua dignità, ma molto aggiunge di nobiltà, acutezza, vigore».
[14] La synthèse thomiste, Desclée de Brouwer, Bruges, 1946, p. 558-573.