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sabato 24 settembre 2016

24 settembre 1863-2016: 153° anniversario dello scioglimento della Brigata Estense a Cartigliano (Vicenza).




Un significativo esempio di coraggio e fedeltà dei popoli delle terre estensi nei confronti della persona del Duca Francesco V di Modena, della loro bandiera e della loro Patria.

Come descrivesse quei momenti un soldato di brigata nelle sue memorie:

"Fu vinto d'improvviso il ritegno della militare disciplina ed i soldati, rotte le file, si affollarono intorno alla carrozza della regal Duchessa ed appresso al cavallo dell'amato Sovrano, gridando Evviva ed Addio!"

FIDELITATI ET CONSTANTIAE IN ADVERSIS - MDCCCLXIII

MEDAGLIA PER LA DISCIOLTA BRIGATA ESTENSE (DETTA ANCHE MEDAGLIA DELL'EMIGRAZIONE)



Fonte immagini: Regno Lombardo Veneto / Königreich Lombardo Venetien

martedì 7 giugno 2016

“È una storia dolorosa quella che mi accingo a raccontare…”: la Brigata Estense e la rivoluzione italiana

Luca2
 
 
Quando nel 1875 il principe Umberto di Savoia venne a trovarsi a Vienna per partecipare ai funerali dell’Imperatore Ferdinando, Francesco V, ormai al termine del suo cammino terreno, non volle avere con lui alcun rapporto, nemmeno protocollare, e si comportò semplicemente come se Umberto non ci fosse.
Erano stati proprio i Savoia a privarlo di quel Ducato di Modena che il Congresso di Vienna, nel 1814, aveva assegnato alla sua famiglia, gli Asburgo-Este, un ramo cadetto della casa imperiale. Vittorio Emanuele II, facendosi beffe di ogni diritto, glielo aveva strappato con l’inganno, una truffa sancita in seconda battuta da un plebiscito farsa.
Nel freddo della capitale imperiale a Francesco non rimaneva più nulla, solo l’amata consorte, Andelgonda di Baviera, sposata a Monaco nel 1842, e un cumolo di ricordi così ingombrante da togliere il sonno, più dolore che piacere. A rincuorarlo non vi era nemmeno l’onore guadagnato sul campo di battaglia. Anche Papa Pio IX e Francesco II di Borbone erano stati sconfitti, ma loro almeno avevano combattuto, avevano tentato di opporsi all’invasore sabaudo. Il Duca aveva solo un manipolo di uomini a disposizione, quanto bastava  per mantenere l’ordine all’interno dei confini dello stato, ma nulla più. Nel 1859, dopo le prime rivolte e l’arrivo delle truppe franco-piemontesi dalla Toscana, Francesco V dovette arrendersi. I rinforzi giunsero da Vienna in quantità sufficiente a ritardare l’occupazione, ma non a fermarla.
Il Duca, notoriamente un uomo accorto e lungimirante, fu tra i primi a cogliere la portata rivoluzionario del Risorgimento. Fedelmente ancorato ai valori del cattolicesimo e della cultura politica ancien régime, Francesco V capì che i Savoia si erano prestati, come docili burattini, a fare il gioco dei massoni, dei liberali e degli anticlericali, le stesse forze che, qualche decennio dopo, avrebbero scalzato dal trono anche loro.
Fu così che l’11 giugno 1859 la corte lasciò per sempre le terre del Ducato in direzione dell’Austria. La Brigata Estense – poco più di 3000 uomini – fu l’unico fra gli eserciti italiani a seguire il sovrano in esilio e lo fece esclusivamente per incondizionato amore verso il Principe e per rispetto dei giuramenti prestati, offrendo un esempio straordinario che meravigliò anche i più accesi antiduschisti. Scriveva Teodoro Bayard De Volo, Ministro residente a Vienna:« Una truppa la quale segue il proprio sovrano non il giorno del trionfo ma in quello della sventura, senza esitare un istante, pronta a qualsiasi evento, non protesta essa forse, con tutta l’energia di una fede antica, contro alla vituperevole cedevolezza dei tempi nuovi?».
In esilio con il Duca, brillante saggio della storica cattolica Elena Bianchini Braglia, racconta la dolorosa vicenda di questi uomini, soldati che rinunciarono a tutto, alla casa, agli affetti e, sovente, a una vita di dignitoso ritiro, pur di continuare la guerra contro il nemico, una guerra ideale, un conflitto di testimonianza, ma non per questo meno significativo.
Forse fu proprio la loro riottosità allo scioglimento ad animare diverse insurrezioni filoducali che si verificarono a Modena e dintorni durante i primi anni dell’occupazione piemontese.  Le speranze, però, crollarono presto. Le rivolte furono domate facilmente e la proclamazione della nascita del Regno d’Italia, avvenuta nel 1861, spense anche gli spiriti più infuocati.
Il generale Agostino Saccozzi e i suoi uomini furono stanziati in Veneto e lì rimasero fino alla soppressione ufficiale del corpo, avvenuta il 24 settembre 1863 a Cartigliano Veneto.
Domenico Panizzi, uno dei soldati della Brigata, alla morte di Francesco V volle dedicare alla Duchessa una commovente narrazione del momento dello scioglimento dell’esercito estense. Le prime parole dello scritto narrano con amarezza di un’epoca gloriosa ormai passata, sostituita dalla nuova barbarie rivoluzionaria: «È una storia dolorosa quella che mi accingo a raccontare…»
Luca Fumagalli
Il libro: Elena Bianchini Braglia, In esilio con il Duca. La storia esemplare della Brigata Estense, Rimini, Il Cerchio, 2007, pp. 153, Euro16.

mercoledì 29 aprile 2015

Insurrezioni legittimiste nel Ducato di Modena dopo l'Armistizio di Villafranca





Carta Topografica del Ducato di Modena.
E’ noto che il principio dell'occupazione del Ducato di Modena fu cronologicamente segnata, nell’aprile del 1859, dalla ritirata dei presidi estensi di Massa e Carrara, ove, subito dopo la partenza dei soldati, rispettivamente un avvocato Giusti e tal Brizzolari assunsero illegittimamente il governo in nome del re di Sardegna.

Nonostante il preteso (e inesistente) “grande gaudio delle popolazioni che vedevano al fine sorgere un’era di benessere e libertà” lo spirito pubblico di buona parte degli abitanti dell’Oltrappennino doveva preoccupare non poco la rivoluzionaria dirigenza. “(…) giunsi stanco in Massa” narra Francesco Selmi il 24 maggio 1859. “Ho trovato il paese morto e zeppo di duchisti, in ispecie nella campagna (…) So che ivano ripetendo fra di loro: Vedremo come andrà a finire! – E speravano nel ritorno di Casoni. La sveltezza del delegato della Questura e la fermezza di Giusti (...) sventarono due moti reazionari, manipolati da famiglie Duchiste, d'intelligenza coi contadini. Ora (...) con la ritirata di casoni, colle altre notizie, etc non ardiscono più; nondimeno, la scorsa domenica e non più tardi, alcuni ubriachi del contado, gridarono W. Fr. V, e strapparono alcuni proclami del Commissario, all'estremo limite della città (...)"


E ancora il Selmi ebbe ad esprimersi con lo sciacallo Giuseppe La Farina in questi termini: " La città di Massa conta buon numero di Duchisti, moltissimi il contado circostante (...) In alcune ville, specialmente all'intorno di Massa, in Fosdinovo, in Tentola ed in altri paesucoli, può dirsi che si sopporta per timore la dominazione piemontese, e che ivi le disposizioni sarebbero a pigliare anche le armi contro di noi per poco che udissero un rovescio da parte nostra, o credessero ad un aiuto del Duca" 


A chi poi volesse rivolgere l'attenzione ai mesi successivi, e ad altre aree geografiche del Ducato, ugualmente si appalesano profonde realtà conflittuali, che contrappongono, spesso in scontri violenti, gli sgherri della rivoluzione e i partigiani sostenitori dell'ordine legittimo . Con riferimento all'agosto 1859 Ferdinando Manzotti ricorda ad esempio disordini nelle campagne del Correggese e una vasta sollevazione popolare nella zona compresa fra S. Pellegrino, Piandelagotti, Fontanaluccia e Civago " con atterramenti di bandiere tricolori e disarmo dei civici". 


E' giusto però rammentare un altro episodio, certamente di minore importanza degli ultimi citati, ma ugualmente estremamente significativo. Con lettera 5/8/1859 il Podestà di San Polo d'Enza riferiva all'Intendente Generale di Reggio sull'increscioso comportamento tenuto dagli ultimi giorni di luglio in avanti dagli abitanti della Villa di Paderna, compresa appunto nel circondario del Comune di San Polo. Quella " popolazione dominata e agitata da parecchi facinorosi si era posta in atteggiamento ostile quasi rivoluzionario in faccia all'attuale ordine di cose" 


E continua " taluno di quei villici armato si appostava  sulla strada, e ai carrettieri o viandanti faceva gridare " Viva Francesco V - Morte a Vittorio Emanuele ! - Viva l'Esercito Tedesco." Inoltre, la bandiera tricolore, inalberata in Paderna non senza opposizione,era ben presto fatta levare e scomparire. Per risolvere  questo stato di cose, il Podestà di S. Polo si rivolgeva all'Intendente per avere soccorso di truppa regolare, ritenendo " impossibile di rimetter l'ordine colla Guardia Nazionale".  


Del resto lo stesso Farini, sin dal 6/7/1859, scrivendo al Cavour, aveva mostrato una certa preoccupazione per la situazione " di alcune Provincie" ove denunciava essere numerosi " i Duchisti e Sanfedisti" che possono "essere pericolosi"Minori pensieri doveva dare al medico romagnolo la Capitale, se nella lettera ora menzionata dice" non essere ivi a temere i partigiani del deposto Sovrano, per quanto numerosi essi potessero essere."  Attraverso frequenti arresti ed epurazioni, Modena fu infatti mantenuta, a quanto consta, in complesso tranquilla, anche se essa pure fu teatro dell'attività di emissari estensi, che godevano di una forte complicità e collaborazione  da parte di non pochi modenesi.


Non si riuscirebbe diversamente a spiegare, ad esempio, come tal Zaccaria, e la vicenda è piuttosto curiosa, " provigionario delle truppe Estensi" potesse recarsi " sovente a Modena, comprarvi del vino per le sudd.te truppe" passare "il Po colle sue provviste defraudando il dazio" e andare "a riferire quanto accade in Modena al Generale Saccozzi, Comandante delle truppe dell'ex Duca". Non è naturalmente casuale che molti degli episodi che abbiamo ricordato si collochino cronologicamente poco tempo dopo i preliminari di pace di Villafranca (11/7/1859): nel periodo si era fatta particolarmente intensa, infatti, la speranza in un sollecito ritorno di Francesco V, cui gli accordi stessi volevano restituito il Ducato. 


Inoltre, giacchè "supponevasi che i preliminari di pace stabiliti in Villafranca, avrebbero dietro breve volger di tempo ottenuto sanzione e conferma mercè un formale trattato"  verso la fine del  luglio 1859 l'Esercito Estense era stato avvicinato alle frontiere del Ducato, venendo dislocato al margine settentrionale delle Valli grandi Veronesi. Anche la concreta possibilità di un prossimo intervento della piccola, ma solida ed efficente forza armata ducale era venuta quindi ad incoraggiare il fermento controrivoluzionario esistente, e in particolare in quelle terre più immediatamente a portata di un'incursione delle milizie estensi. 



Quivi, quando un provvedimento dittatorio del 3/8/1859 ordinò l'iscrizione di tutti i cittadini dai 18 ai 30 anni nei ruoli della Guardia Nazionale mobilizzata, al fervore dei sostenitori del Duca si affiancò il malumore degli indifferenti, riottosi di fronte ad una leva in massa, a creare una miscela esplosiva, che puntualmente deflagrò.

In S.Antonio Sozzigalli, Cortile, S. Martino Secchia e Rovereto la pubblicazione del testo normativo sopra ricordato era avvenuta la domenica 7/8/1859 tramite i parroci di quei paesi, che vi avevano provveduto nel corso delle funzioni pomeridiane. 

Il timore di una leva obbligatoria di massa fu particolarmente avvertito dai popolani di Cortile, che presero a manifestare rumorosamente malumore ancora prima che il loro sacerdote finisse di leggere. Terminate le sacre funzioni, una quarantina di persone, ben decise ad ottenere spiegazioni sul nuovo provvedimento, si recarono presso l'abitazione di Luigi Rossi, agente comunale di Cortile non chè di S.Martino e S.Antonio Sozzigalli. Il Rossi però  disse di  non conoscere affatto la nuova legge. 


L'agente promise tuttavia che l'indomani si sarebbe recato a Carpi a chiedere chiarimenti e che avrebbe poi riferito nel primo pomeriggio, dichiarandosi altresi' disponibile ad indirizzare una supplica ed una rimostranza alle autorità superiori, qualora gliene fosse stata nell'occasione avanzata richiesta.

E' pressochè certo che il Rossi nella serata del 7 invitò i presenti ad avvisare della convocazione chi potesse avervi interesse. 



Fangareschi Antonio, uomo " piuttosto favoreggiatore del cessato Governo, e Duchista" che avverti' un due terzi della Villa di S. Martino a trasferirsi nel pomeriggio dell' 8 Agosto alla casa dell'Agente Comunale Rossi",  precisò che  a non presentarsi v'era una penale, che occorreva radunarsi alla chiesa per suonare la campana a stormo, e che "bisognava fossero d'accordo (...)nel rifiutarsi di fare i soldati".

Ancora, molti dei contadini di Cortile che furono avvisati da tal Evangelista Malagoli della medesima villa riferiscono che egli faceva opera di persuasione perchè ci si opponesse vigorosamente alla nuova legge, ecc. Osserva del resto lo stesso giudice che istrui' il processo contro i protagonisti dell'insorgenza che sul punto concernente la convocazione dei paesani "  evvi un oscurità ed un bujo che non si è riuscito punto a svelare, ne tampoco a delucidare".


Sta comunque di fatto che nelle prime ore del pomeriggio di lunedì 8 agosto 1859 sul sagrato della chiesa di Cortile si radunava una turba di contadini delle tre ville sottoposte alla giurisdizione dell' Agente Comunale Rossi: e non amni vuote, chè molti degli intervenuti erano armati, quando non di fucili, di bastoni e di attrezzi rurali come vanghe e picconi.


" Andai a Cortile circa dopo le 2 pomeridiane e trovai il prete in smania che gridava" narra uno degli arrestati, certo Levizzani Giuseppe " perchè  avevano suonata la campana e perchè volevano tagliar la bandiera dal campanile". Infatti, oltre a levare le grida di " Viva Francesco V, abbasso la Guardia Nazionale, non vogliamo fare i soldati" la folla aveva subito circondato il campanile, dato qualche tocco di campana e manifestato l'intenzione di suonare a stormo e di levare la bandiera tricolore che sventolava in cima alla torre campanaria. Anzi, a questo scopo Pratissoli Massimiliano, conosciuto come " Cinet" e uomo  " piuttosto favoreggiatore del cessato governo"  e Barbieri Ludovico, detto "Raschin", avevano intrapreso la scalata del campanile. 

Tuttavia, pur essendo  uno dei più tenaci partigiani del legittimo governo, il parroco, don Ottavio Coccapani, per timore di rappresaglie si oppose con preghiere e lagnanze alle intenzioni dei tumultuanti, cosicchè questi alla fine rinunciarono ai loro progetti, compreso il Barbieri, il quale già stava accingendosi a recidere la funicella che teneva assicurata la bandiera al campanile. 

Abbandonato allora il sagrato della Parrocchiale, che non era del resto che un luogo di raduno, la folla si diresse all'appuntamento con l'Agente Rossi, rinnovando per via le grida in favore di Francesco V.  " Andammo poscia dall'Agente Comunale stepitando, e gridando tutti che non volevamo farci soldati" narra il già nominato Levizzani Giuseppe. Alla casa del Rossi si erano già recati altri paesani; e con la comitiva giunta dalla chiesa ed altra gente sopravvenuta in seguito, la folla ingrossò progressivamente fino a raggiungere il numero di alcune centinaia di persone, non meno di una trentina delle quali armate di fucili.

Alle grida specificatamente ostili alla Guardia Nazionale e al nuovo provvedimento ad essa inerente " abbasso la Guardia Nzionale (...) non vogliamo fare i soldati, è una legge ingiusta, una leva troppo grossa, bisogna cercare almeno di salvare gli unici, e gli ammogliati" venivano  quelle  specificatamente contrarie al governo rivoluzionario " abbasso il governo attuale, viva la bandiera austriaca, non vogliamo stare sotto la disciplina di Vittorio Emanuele" e non mancò la comparsa della coccarda Estense e Austriaca. 


Boccolari Giacinto detto "Gambarel" favoreggiatore del legittimo Governo prese a reclamare le armi della Guardia Nazionale in deposito presso l'Agente Comunale, cento voci fecero subito eco alla richiesta: cosicchè, dopo quasi nulla resistenza, il Rossi rilasciò  quindici fucili muniti di relativa baionetta ed alcune munizioni. Le armi furono prese in consegna da Luppi Elia, soprannominato "Liloun di Lov", ex sergente dei Militi  di Riserva ducali, che le distribui' a coloro che ne erano sprovvisti.


Nei pressi della casa non era mancato nel frattempo qualche episodio di intimidazione ai danni dei filo-unitaristi. Certo G.B. Reggiani di Fossoli, che ostentava un nastro coi colori Asburgici ed una placca con le cifre "F.V.", spianò il fucile contro un tale che se ne stava affacciato ad una finestra di casa Rossi con una coccarda tricolore, " minacciandolo d'una fucilata e dicendo che non poteva vedere quella coccarda" Ancora, tal  Pulica Giovanni  riferisce " avendo io detto che facevano male a far chiasso, mi si rispose sei un civico anche tu? Ti daremo la paga !". 


Del resto il tumulto veniva sempre più assumendo il carattere di vera e propria insorgenza. Si cercò di ottenere altre armi, ed a tale scopo, rinnovate le invettive contro la Guardia Nazionale e le acclamazioni a Francesco V, al grido di "Viva la nostra unione" la turba si recò "in marcia quasi militare" verso S. Martino Secchia per impadronirsi dei fucili che colà si trovavano. V' erano infatti a S. Martino altri venti fucili completi di baionetta, in parte depositati presso la casa di Giuseppe Costa Giani ed in parte invece affidati a certi Ferdinando Bertesi e Zeffirino Cabrini, che li avevano dati in custodia a un Lugli Giuliano. 


Spianate contro la casa del Costa le armi già in loro possesso  i tumultuanti, da cui si gridava "merda la Civica vogliamo vincere l'Italia comandiamo noi" ed inoltre "che sarebbero iti a reclutar uomini; che sarebbonsi riparati nei prati di Cortileper ivi difendersi, ed opporsi ai soldati, che volevano fare le vendette di Francesco V".ecc., si fecero consegnare otto pacchi di munizioni e quindici fucili, i quali vennero distribuiti a chi mancava di qualsiasi arma. Da Lugli Giuliano si trovarono poi altri cinque fucili, che portavano il numero degli insorgenti muniti di arma da fuoco a sessantacinque circa.



Minor successo ebbe invece il tentativo di asportare i cinque fucili della Guardia Nazionale di S.Antonio Sozzigalli, condotto durante la notte tra l'8 e il 9 da Ippolito Guaitoli alla testa di una dozzina di individui. Al Guaitoli che reclamava la consegna delle armi, Vincenzo Sabatini, depositario locale Delegato alla Guardia Nazionale, oppose un netto rifiuto che non si riusci' a vincere.

Con molta probabilità il piccolo gruppo del Guaitoli era una delle pattuglie che nella medesima sera gli insorgenti avevano inviato in perlustrazione per le campagne. Infatti, sin da quando erano stati presi i fucili da casa Rossi, Luppi Elia aveva manifestato l'opportunità di attivare pattuglie notturne per far resistenza ai soldati che potessero venire da Carpi"ed in effetti il suggerimento venne accolto.

Scioltasi la folla al termine del lungo pomeriggio di tumulti, la maggioranza degli armati si organizzò cosi' in drappelli. Uno di questi venne guidato dallo stesso Luppi Elia; un altro, pare, da Barbieri Ludovico; di un terzo, sotto Giacinto Boccolari, sappiamo che si formò dopo l'Ave Maria e perlustrò sino alle due antimeridiane.

Ma queste precauzioni non valsero a salvare l'insorgenza di Cortile, S.Martino e S.Antonio: chè verso le quattro e trenta del 9, un battaglione del 2° Reggimento Cacciatori del Magra sotto diretto comando del Col. Ceccarini, ed un piccolo reparto di Guardi Nazionali di carpi e S. Marino, poco più di cinquanta uomini, agli ordini di Giuseppe Rocca occupavano inaspettatamente Cortile provenendo da Carpi. Da nord altre due compagnie di cacciatori, stanziate a Novi e a Mirandola, appoggiavano la operazione.

Perquisite abitazioni alla ricerca di fucili, ed arrestate diverse persone tra minacce e violenze , nel pomeriggio del 9 il Ceccarini rispedi' a Carpi il Rocca con l'incarico di scortare colà le armi rinvenute, don Ottavio Coccapani, il viceparroco don Lugli, Luigi Rossi e alcuni altri prigionieri.

Anche a Rovereto nella giornata dell' 8  v'era stata non poca agitazione. Infatti, non diversamente da quanto accaduto in Cortile, il pomeriggio di quel giorno aveva visto circa  un centinaio di persone, in parte armate e capitanate dall'ex sergente dei Militi di Riserva Gaetano Mari, tumultuare davanti alla abitazione del locale Agente Comunale, Gaetano Papotti.

Per quanto la serata non trascorresse tranquilla, si sparse la voce che " il Duca Francesco V poteva tardar poco ad arrivare essendo subito di là da Pò con (...) ottanta o novanta mila uomini". La mattina successiva verso le ore sei  rapidamente si formò sul sagrato della Chiesa un assembramento, nel quale si distinguevano non meno di una decina di persone armate di fucili e parecchie altre di attrezzi  da contadini.

Le grida in cui questa folla andava prorompendo mostrano come anche il tumulto di Rovereto avesse ormai assunto carattere di insorgenza: si urlava di voler "transitare il Pò, ed opporre resistenza a chi sosteneva le Leggi del presente Governo, e di voler andare ad unirsi alla Truppa del Duca, anche per ricondurlo": a tal fine si reclamava che venisse suonata la campana a stormo, ondeanche altri si congiungessero ai roveretani.

Alla realizzazione di quest'ultimo disegno ostò però tanto il fatto che la porta del campanile era sprangata e tale, come si sperimentò, da non poter essere scardinata neppure con la forza, quanto l'ostinazione dell'Arciprete nel non volerne consegnare la chiave. Ciò attirò al Losi l'accusa di essere un Civico, e di andare d'accordo coi Civici; la qual ultima cosa almeno, sia detto tra parentesi, non doveva essere del tutto errata, essendo sufficiente a tal fine che l'Arciprete fosse uno di quei sacerdoti che applicavano le direttive ricevute dal Vescovo di Carpi.

Dalla situazione si usci' peraltro al sopraggiungere da Cortile di alcuni armati, che, recando la notizia dell'arrivo della truppa e di arresti ed incitando alla fuga, determinarono il rapido discioglimento dell'assembramento. Ed in effetti nel tardo pomeriggio entrava in Rovereto una compagnia (la 2/a) della Brigata Modena, che, preso contatto col comandante della locale Guardi Nazionale e con la collaborazione di quest'ultima, organizzò pattuglie e picchetti, procedendo altresi' a numerosi arresti e violenze.

Nella mattinata, tuttavia, non pochi paesani, anzichè sbandarsi alle notizie recate da Cortile, avevano raggiunto, in parte armati, la vicina località di Caleffo per impadronirsi delle armi della Guardia Nazionale colà custodite da certo Angelo  Gavioli: ma per quanto fossero stati puntati i fucili contro quast'ultimo, gli insorgenti non conseguirono il loro intento, e solo poterono asportare poche cartucce. Questo successo segnò la fine dell'insorgenza in Rovereto, perchè quasi tutti i tumultuanti si disanimarono o vennero dalla truppa dispersi.

Durante la marcia su caleffo, però, Tommaso Grappi  avverso all'attuale illegittimo governo aveva prospettato l'idea di raggiungere effettivamente il Duca oltre confine. Quasi certamente tale idea non nasceva in quel momento: il Grappi aveva fama di arruolatore ( ed in effetti era rientrato da poco dal Mantovano), e pare che sin dall'ultima domenica di luglio avesse tenuto discorsi in Rovereto sull'opportunità di "unirsi in compagnia per andare al di là del Pò giacchè era meglio fal là i soldati piuttosto che qui", discorsi fruttuosi poi rinnovati anche nei giorni successivi.

Sta di fatto comunque che il già ricordato Gaetano Mari ed alcuni altri si unirono al Grappi, mettendosi effettivamente in marcia verso il Pò. La piccola colonna, cui non mancava qualche fucile, ingrossò strada facendo fino a raggiungere la consistenza di una quarantina di uomini, perchè il Mari e il Grappi incitavano ad unirsi a loro quelli in cui si imbattevano, prospettando apertamente la possibilità di servire Francesco V. Per quanto i componenti del drappello osservassero la precauzione di marciare dispersi, essi furono ugualmente intercettati nei pressi di Pegognaga dalla Guardia Nazionale, ed in parte arrestati.

Gli uomini del Grappi e del Mari  non furono però gli unici a cercare di passare il Pò nella giornata del 9: abbiamo notiazia, ad esempio, di quattro roveretani arrestati presso Gonzaga; ed addirittura la Guardia Nazionale di Moglia segnalava un centinaio di contadini armati in marcia verso il fiume per le 10 a.m. del 9/8/59. E, del resto, non è da escludere che alcuni insorgenti siano riusciti effettivamente a raggiungere il confine ed il Regno Lombardo-Veneto.

A seguito degli avvenimenti narrati, le ville teatro delle insorgenze furono poste in stato di assedio, e vi rimasero per circa un mese, durante il quale i militari colà spinti di presidio e la Guardia Nazionale compirono perlustrazioni , continui arresti , perquisizioni e violenze. Al 22 agosto gli arresti stessi erano pressochè completati, e gli incarcerati assommavano al rilevante numero di oltre 120, di cui una quarantina rinchiusi in Mirandola e più di ottanta ( compresi don Coccapani e don Lugli) in Carpi.

La punizione dei rivoltosi veniva dal dittatore Farini in un primo momento affidata alla ai  militari, ed in effetti fu l'Auditore Militare Bagnagatti De Giorgi a condurre i primi, e tutt'altro che civili,  interrogatori , mentre il gen. Ribotti, comandate della brigata Modena, ricevette l'ordine di istituire un Consiglio di Guerra in Mirandola.

Il 24/8/1859 il Bagnagatti trasmetteva però al Ministero della Guerra una relazione da rassegnare al Farini, nella quale anzitutto si esprimevano dubbi sulla sussistenza della giurisdizione militare in ordine ai reati da giudicarsi, ed in secondo luogo si suggeriva che " a scanso dei gravi danni che possono colpire tante, e tante famiglie, la procedura indiziaria dovesse essere incoata soltanto contro i motori, e capi di quasta rivolta". Questa "apprensione" si deve alla paura di nuove insurrezioni se si procedeva a rappresaglia.  
La furbesca tattica del "graziare" per evitare altre (grandi) insorgenze venne recepita integralmente dal dittatore. Con due distinti decreti datati 24/8/1859, infatti, il Farini tatticamente graziava ben centodieci  persone, dichiarandole vittime della"cattiveria di qualche malevolo" ed addossando la colpa dell'accaduto non già "ad uno spirito generale di ribellione", che c'era ed era concreto , ma all'inerzia e mancanza di energia delle autorità. 

Al contempo veniva affidato ai tribunali ordinari il compito di perseguire capi e promotori del moto. Conseguentemente, terminata l'istruttoria formale, era la Sezione d'Accusa per i Delitti Politici presso il Tribunale di 1/a Istanza in Modena ad essere investita, il 30/3/1860, dalle richieste del Procuratore Regio Malagoli. Questi domandava venisse dichiarato " con formale sentenza farsi luogo a collocare in accusa" per resistenza pluriaggravata alla autorità Luppi Elia, Pratissoli Massimiliano, Mari Ribaldi Antonio, Schiavi Antonio, Barbieri Ludovico, Fangareschi Antonio, Lugli Giacinto e Luppi Cesare. Il 27/6/60 le richieste del P.M. venivano integralmente accolte dalla Sezione d'Accusa, e successivamente ai primi del novembre 1860 il Tribunale di 1/a Istanza condannava a tre anni di carcere per resistenza all'autorità e ribellione i primi sette degli imputati sopra elencati; per le stesse imputazioni Barbieri Ludovico veniva condannato al carcere sofferto, mentre il Fangareschi, il Lugli e Luppi Cesare venivano posti in libertà (vigilata). Qualche tempo dopo, peraltro, un provvedimento sovrano condonava ai reclusi la pena ancora da scontare.

Per il governo usurpatore il  moto politico avrebbe potuto nuocere gravemente ai suoi interessi non solo nell'Emilia ma anche in tutta la penisola italiana. L'insorgenza, però,  non ebbe , a quanto riportato dagli unitaristi , alcuna ripercussione politica, al di fuori della testimonianza offerta dalle popolazioni delle ville insorte. Non fu solo però l'immediata e pesante repressione militare a far si' che ciò avvenisse: infatti il governo dittatorio impose una sorta di "silenzio stampa" sugli avvenimenti,  e fu l'azione del Ribotti e del Farini, l'interporsi affinchè non si divulgasse nulla degli avvenimenti ; in tal modo si cercava di impedire il verificarsi di nuove interne difficoltà, impedendo alla diplomazia avversa di farsi forte del dilagante malcontento. Nondimeno qualcosa dovette trapelare, perchè almeno due giornali (liberali), il "Nord" e il "Monitore Toscano", pubblicarono la notizia di disordini avvenuti in Modena ad opera di contadini.

Ma la furbesca cautela riusci' in complesso cosi' bene, che, ad esempio, il legittimista M.A. Paretnti, che pure ricorda nel suo "Diario" persino un tentativo infruttuoso di reazione politica a Fossalta nel ferrarese, non spende una parola per l'insorgenza del basso Secchia.

Quella corposa parte della popolazione della Bassa di sentimenti legittimisti non dovette però certamente essere stata scoraggiata dal sostanziale fallimento dei moti, se dopo di essi il Comando della Guardia Nazionale di Carpi continuava a ricevere denunce del tenore di quella presentata il 3/10/1859 da certo Lugli Messori di Quartirolo a carico di tal Mauro Spelli. Di quest'ultimo veniva infatti asserito che andava " dicendo che i partigiani dell'attuale Governo sono tutti porci e lazzaroni e che se poteva tornare Francesco V voleva andare ad illuminare la casa del detto Messori". Del resto, don Onorio Gozzi, parroco di Rivara (frazione di San Felice) ben sedici anni dopo la partenza del Principe dal Ducato e cinque dopo la presa di Roma, si esprimeva, commentando la morte di Francesco V, nei termini seguenti " 22 nov 1875. Un luttuoso avvenimento abbiamo a deplorare per questo nostro Ducato. E' morto in Vienna ove si trovava Esule da sedici anni. S.A.Reale Francesco Quinto Duca di Modena il giorno 20 corrente alle ore cinque pomeridiane (...). Lo scrivente lamenta una santa perdita (..). 



Fonti:

http://www.battaglioneestense.it/


Di Redazione A.L.T.A 

sabato 19 aprile 2014

Da schiavo lobotomizzato a uomo libero...




“Siamo per lo più brave persone, dedite al lavoro e alla famiglia. Non c’è nulla di più importante. Noi lavoriamo e accudiamo i nostri cari e le istituzioni si occupano di mandare avanti uno stato paterno e protettivo. Crediamo a tutto quello che ci vien detto. Alziamo la voce, di tanto in tanto in un timido rigurgito di giustizia, contro coloro che ci vengono indicati come contrari alla legge e ci sentiamo vivi. Capiamo poco della legge e di politica ma noi abbiamo altro da fare e alle leggi ci pensano i politici che "abbiamo votato" : sennò che ci stanno a fare? Quello che è giusto ce lo devono dire loro. Idem per quello che è sbagliato. (E continuando così, per anni, un senso di ottundimento e di stanchezza prende il sopravvento).
Godiamoci quel poco che ci rimane. E’ già tanto. Il “Grande Fratello” alla sera rappresenta la nostra cultura (l’ha detto la Marcuzzi!). La partita alla domenica il nostro momento di sfogo e un po’ di invidia nel vedere qualche buzzurro che sa a malapena pronunciare il suo nome che sgambetta per qualche milione di euro.
Siamo integerrimi, paghiamo quello che c’è da pagare e quando non possiamo farlo chiediamo finanziamenti ad interessi altissimi per poter essere in regola. Se ci va male ci tolgono la casa. Già la casa … il sogno di tutti gli "italiani". Il mito del tetto sulla testa. Casa e un buon piatto di minestra. Intanto là fuori qualche "testa calda" dichiara di voler cambiare le cose che non vanno bene. Vuol capire, pensare, conoscere ma … cosa?. A noi di vedere non ci importa. Vogliamo una vita tranquilla, senza scossoni, senza impegnarci in prima persona se non quando manifestiamo il nostro “diritto di voto” e, a testa alta, possiamo dire d’avere compiuto il nostro dovere piazzando una "X".
A volte a caso. A volte perché ce l’ha detto chi dice di capirne più di noi. A volte perché siamo ingenuamente convinti che andare a votare sia veramente funzionale e utile, magari perché quel nome ci sembra quello di una persona onesta. Le cose poi non cambiano mai ma è così ovunque, siamo in buona compagnia. La speranza è l’ultima a morire e quando le cose vanno male un'alzata di spalle e occhi al cielo sperando nella manna dal cielo. A volte i problemi non ci fanno dormire la notte e, non sapendo come risolverli, ricorriamo a qualche goccetta che grazie al cielo ci aiuta a staccare i contatti. A dire il vero il giorno dopo ci sentiamo un po’ storditi ma per qualche ora abbiamo chiuso gli occhi, le orecchie, il cuore e  … la mente.
Intanto … là fuori le "teste calde", le stesse di prima, insistono nel rivelare verità nascoste. Alzano al cielo gonfaloni giallo e rossi o bandiere bianco gigliate. Sfilano in corteo e gridano verità. Che disordine! Per fortuna che le forze dell’”ordine” ci proteggono da tanto “caos”. Alla radio dicono peste e corna di questi "esagitati". Bisogna isolarli! Anche alla tv, dove nell'ingenua mente non è concepibile la menzogna, confermano il rischio che corre la società civile a causa di questa masnada di “terroristi”, come quella volta  che volevano addirittura occupare Venezia, e con i carri armati per giunta!
Ci ricordano un evento simile capitato tanti anni fa: un piccolo gruppo di "incoscienti" che è stato punito duramente per avere issato sul campanile di San Marco la stessa bandiera che vediamo oggi sventolata nei cortei. E i giornali ? Hanno appena smesso di parlare, pensa un po’, di un certo plebiscito. Dopo averlo boicottato perché fasullo ne hanno dimostrato la illegittimità e le numerose irregolarità. E ora sono costretti a trattare dell’atto terroristico, per fortuna così puntualmente sventato! In che mondo viviamo! Non si può stare in pace, stravaccati sul divano a guardarci il nostro programma di gossip preferito, che si è disturbati da queste notizie ridicole. A proposito di che plebiscito si trattava? Ho visto qualcosa su internet ma io non faccio caso a certe goliardate anacronistiche. E tu come te la passi?”
“Io sono uno di quelli che sventolano la bandiera della legittimità. Ero come voi ma ho voluto riprendere in mano la dignità che ci hanno tolto tentando di trasformarci in automi senza spina dorsale e senza libertà concrete.
Ho voluto imparare a pensare con la mia testa. Ho voluto conoscere la vera storia che ci è stata nascosta a scuola. E nonostante ciò non sono un terrorista, non sono un razzista, non sono un delinquente ne tanto meno un pazzo. Amo l’Italia come una penisola che racchiude popoli diversi con cultura , storia e tradizioni diverse. Non tollero i così detti "italiani"  e non amo lo stato italiano unitario che ha solo e sempre significato il male per l'Italia e come al solito  non sta dando un grande esempio di giustizia e di rispetto per quello che dovrebbe essere il suo fantomatico popolo. Amo la pace e non sono un guerrafondaio ,  fin che ho potuto ho sperato che si potesse perseguire l'obbiettivo d'indipendenza dei popoli d'Italia , che condividono in milioni questo ideale, in pace. E in teoria lo si potrebbe fare senza l’uso delle armi perché le leggi internazionali scarabocchiate su un foglio lo consentirebbero.
Anch’io sono responsabile per aver lasciato che le cose precipitassero giorno dopo giorno. Anch’io ho preferito sonnecchiare sul divano mentre sentivo in lontananza le grida di protesta di chi aveva aperto gli occhi. Ma ora non più, ora mi sento legittimista quando vedo come le legittime richieste di libertà concrete di un popolo vengono distorte per metterle in cattiva luce agli occhi di chi, come voi, non ha ancora deciso di pensare senza condizionamenti ideologici!
Quando capiterà vi si aprirà davanti un orizzonte impensabile e vi accorgerete di quanto vergognosi siano stati i tentativi di manipolare la verità al fine di pilotare le vostre scelte, le vostre opinioni. Svegliatevi! Andate oltre alle apparenze! Non accettate come oro colato quello che vi vien detto dai soliti ben pensanti , o fatto parzialmente vedere! Quante volte ci capita ormai di incontrare persone costrette  ad assumere farmaci in questo oscuro periodo di intenso stress e di tensione emotiva . Essi si sentono annullati, senza la voglia di reagire nei confronti di qualsiasi cosa li accada, desiderosi solo di chiudere gli occhi e… non pensare . Niente di nuovo, ma credete che sia solo lontanamente giusto?
A non far pensare le persone ci pensa il sistema anche senza l'ausilio di farmaci  e con sistemi subdoli e li sperimentiamo quotidianamente da anni lasciandoci “drogare” dalle false informazioni, da una descrizione della realtà che di reale non ha nulla! Mi sento legittimista come non mai prima d’ora e se mi vogliono far passare per “pazzo” o per “sovversivo” o per razzista mi piacerebbe che le persone come voi non accettassero supinamente questo punto di vista ma rivendicassero il diritto di verificare se è veramente così! Se non vi va di farlo non v’è dubbio che meritate lo stato attuale delle cose. Io sono uno di quelli che non accettano più”.


Presidente e fondatore A.L.T.A.

Amedeo Bellizzi

Biella , 19 aprile 2014.

mercoledì 5 marzo 2014

La Rivoluzione del 1859 nel Ducato di Modena.


NOTA INTRODUTTIVA: Per  narrarvi le vicende che è mia intenzione divulgare con questo scritto , e che è mia premura che voi comprendiate a fondo, comincerò da avvenimenti che precedettero di decine di anni i nefasti accadimenti dai quali il presente testo prende il nome.

 

Francesco IV di Modena e la lotta alla Rivoluzione (1814-1846).


 
 
 

Da sinistra: Ferdinando d'Asburgo-Lorena e Maria Beatrice
Ricciarda d'Este.
Francesco Giuseppe Carlo Ambrogio Stanislao d'Asburgo-Este nacque a Milano il 6 ottobre 1779 dall’Arciduca Ferdinando Carlo Antonio Giuseppe Giovanni Stanislao d'Asburgo-Lorena , Duca di Brisgovia, Governatore del Ducato di Milano e ultimo figlio maschio di Maria Teresa d’Austria , e da Maria Beatrice Ricciarda d'Este, Duchessa di Massa e Principessa di Carrara, signora di Lunigiana, ultima degli Este.
 
 
Il giovane Francesco IV di Modena.
 
 
Francesco trascorse lunghi periodi alla Corte di Vienna , dove fin da bambino aveva assorbito gli ideali che da sempre sostenevano il grande Impero Cristiano: un assoluto legittimismo , una religiosità rigidissima e profonda , l’incondizionata fedeltà all’Imperatore. Furono questi i sacri principi che volle portare alla Corte di Modena . Questi suoi nobili principi erano condivisi anche dalla consorte , Maria Beatrice di Savoia  (nata a Torino il 6 dicembre 1792) , figlia del Re Vittorio Emanuele I di Sardegna e sua nipote in quanto figlia della sorella maggiore Maria Teresa Giovanna d’Asburgo-Este , che sposò nel 1812.






Duca Francesco IV e la Duchessa Maria Beatrice entrano nel Ducato di Modena
Francesco IV di Modena e Maria Beatrice di Savoia al loro arrivo a Modena.
In seguito alla sconfitta di Napoleone Bonaparte e alle disposizioni prese al Congresso di Vienna, il 15 luglio 1814 Francesco , divenuto Francesco IV di Modena , e la di lui consorte Maria Beatrice di Savoia poterono rientrare in possesso dei loro legittimi Stati dove il popolo , fin dal momento in cui misero piede nelle terre del Ducato, gli acclamava a gran voce. Giunti alle porte della capitale , ventiquattro giovani del popolo vollero trasportare la carrozza dei Duchi fino alla Cattedrale, dove all’ingresso principale era ad attendere il Vescovo Tiburzio Cortese , e dove , narra un contemporaneo , “tanto crebbe l’impeto degli affetti , che più volte le acclamazioni del popolo , con dimenticanza perdonabile all’evento , si mescolarono ai canti dell’inno ambrogiano”.  L’acclamazione e l’amore popolare per questo Sovrano e la sua consorte furono da subito grandi , ma il Ducato di Modena venne scosso da li a poco dalle mire espansionistiche e nazionalistiche del “re giacobino” Gioacchino Murat intento a farsi riconoscere “Re d’Italia”. Alla testa del suo esercito , il Murat invase il Ducato Estense . Francesco IV  si recò a pregare tra i suoi sudditi nella Cattedrale di San Geminiano per due volte in quei nefasti giorni .


File:Patria Esercito Re p283.jpg
La fucilazione di Gioacchino Murat (1815).
Presso Carpi però, le mire di Murat trovarono una battuta d’arresto in quanto il suo esercito venne fermato dalle truppe Imperiali austriache che , nel rispetto degli accordi presi al Congresso di Vienna , accorsero per mantenere l’ordine legittimo , e le quali vennero affiancate dal neonato Esercito Estense. Murat  venne sconfitto prima ad Occhiobello, poi, dopo una ritirata attraverso Faenza, Forlì e Pesaro, nella battaglia di Tolentino (2 maggio 1815); il successivo trattato di Casalanza (20 maggio 1815), firmato presso Capua, sancì definitivamente la sua caduta.  Eliminato definitivamente il pericolo francese-giacobino con Murat fucilato e Napoleone esiliato all’Elba, l’ordine legittimo venne nuovamente ristabilito. Per alcuni anni sembrò regnare la pace , ma il cancro rivoluzionario , che aveva messo profonde radici in specie nella classe borghese e in alcuni ambienti della nobiltà, ben presto innescò i focolai sovversivi dei moti liberali.




Francesco IV di Modena.
Tra il 1820 e il 1821 si ebbe la prima ondata rivoluzionaria che percorse la penisola italiana. A Modena rimase celebre la condanna a  morte del sovversivo Don Andreoli, un sacerdote liberale iscritto alla Carboneria;  il Duca Francesco IV , di radicata fede nei principi del legittimismo, insofferente a ipocrisie e compromessi, sapeva che  i principi del Cattolicesimo e del liberalismo erano radicalmente inconciliabili ed egli per questo vide Don Andreoli più colpevole degli altri rivoluzionari.  Molti altri sovversivi implicati nei moti vennero graziati, ma volle esemplarmente condannare il sacerdote , sperando anche di scoraggiare in tal modo eventuali rivolte settarie future. Si sappia però che nessuna voce episcopale del Ducato, fatta eccezione per il solo Vescovo di Reggio monsignor Ficarelli , si levò a difesa del sacerdote carbonaro e che nessun prelato di rilievo prese le sue difese. Era ancora un’epoca dove gli uomini di Chiesa sapevano riconoscere e combattere  i loro nemici.  Francesco IV emanò due editti contro la setta (Carboneria) in quello stesso periodo.

Nel 1830 la Rivoluzione tornò a sovvertire l’ordine legittimo partendo dal Regno di Francia di Carlo X il quale , sempre a causa di un complotto settario che si protraeva da ormai quindici anni, subì l’usurpazione del legittimo Trono da parte dell’infido  cugino Luigi Filippo III Duca d’Orleans. Francesco IV di Modena rifiutò fermamente di riconoscere il governo rivoluzionario francese nonostante le minacce settarie e della stessa Francia Orleanista. Gli avvenimenti francesi ebbero ripercussioni in tutta Europa investendo anche la penisola italiana e il Ducato di Modena, dove il Duca Francesco IV al fianco delle fedeli  truppe Estensi e del grande legittimista Principe di Canosa si trovò a fronteggiare la rivolta settaria capeggiata da Ciro Menotti.  


Ciro Menotti.
Fra la folla osannante che accolse Francesco IV il 15 luglio 1814  c'era anche un ragazzo di sedici anni , già convinto Duchista e poco dopo Tenente della Guardia Urbana Estense . Il suo nome era appunto Ciro Menotti . Ricordava Giuseppe Bayard De Volo, direttore del quotidiano Modenese "Il diritto Cattolico": "Al ristaurarsi della dinastia Estense non esitò egli di aderirvi con entusiasmo , a tal chè fu notato tra quelli che al giungere in Modena del Duca Francesco IV  ne staccarono i cavalli e trassero il cocchio alla Reggia". Ciro in età adulta divenne imprenditore di successo e la brillante posizione economica raggiunta gli consentì l'accesso ai più prestigiosi salotti dell'Aristocrazia e ben presto alla stessa Corte. Continuò ad essere convinto sostenitore della politica Ducale fino al 1821, quando, per questioni di affari , ebbe l'occasione di entrare in contatto con Antonio Lugli , vecchio Giacobino del 96, fanatico rivoluzionario e convinto Repubblicano. Fra i due si instaurò da subito una cordiale amicizia, fatta soprattutto di accese discussioni politiche. I frequenti scambi di opinioni con Antonio Lugli finirono però poi per influenzare il giovane Ciro, che infine si ritrovò liberale convinto e clandestino membro della Carboneria. Ciro Menotti  venne arrestato già in quel  1821 per avere divulgato, fra i soldati Ungheresi di passaggio a Modena diretti a reprimere una rivolta settaria scoppiata nel Regno delle Due Sicilie, il proclama Latino in cui li si invitava ad astenersi dal portare aiuto agli "oppressori". Negli anni successivi ebbe modo di stringere amicizia con l'avvocato Enrico Misley, fantasioso regista della congiura Estense, e cominciò a dedicarsi con sempre maggiore fervore a quelle attività illegali, clandestine e rivoluzionarie che Francesco IV aveva pubblicamente e ripetutamente condannato e per la pratica delle quali aveva con chiarezza indicato , quale unica adeguata pena, la condanna capitale.

La rivolta che costò, in base alle giuste leggi contro la sovversione ,  la vita a Ciro Menotti, era stata organizzata a Modena per il giorno 5 Febbraio 1831. Si pensava di irrompere a Palazzo , approfittando dell'esiguo numero di guardie che normalmente controllavano gli ingressi, costringere il Duca a concessioni, senza risparmiargli la vita qualora si fosse rifiutato , prendere in ostaggio la sua famiglia , quindi allargare l'insurrezione agli altri Stati. Ciro Menotti con una lettera informava Enrico Misley il 28 Gennaio:"...il movimento è immancabile e disposto tutto bene che non temo ormai più dell'esito, nè qui, nè in Romagna, nè in Toscana. Parma ci seguirà il giorno dopo. Io non dormo , non mangio. Sono in continuo moto. Insomma, Lunedì sarà prontò...". Il 3 Febbraio il Duca , venuto a conoscenza del piano grazie al suo fedele segretario Gaetano Gamorra che aveva intercettato una lettera scritta con l'inchiostro simpatico dallo stesso Menotti, fece arrestare il rivoluzionario Nicola Fabrizi, gesto che spinse i cospiratori a decidere di anticipare l'insurrezione a quella stessa notte. Nella sera del 3 Febbraio una cinquantina di rivoltosi si trovarono clandestinamente riuniti nella casa di Ciro Menotti, in Corso Canalgrande. Francesco IV  decise di intervenire guidando personalmente le truppe Estensi nella spedizione che avrebbe sgominato la rivolta.


Maria Beatrice di Savoia
Maria Beatrice di Savoia.


Raggiunse Maria Beatrice nei suoi appartamenti per quello che avrebbe potuto essere un estremo saluto. Poiché il subbuglio era stato avvertito in tutto il Palazzo , Francesco IV trovò negli appartamenti della Duchessa tutti coloro che erano andati a cercarvi rassicurazioni: i figli , le dame di corte, le domestiche. Con volto sereno per quanto concesso dalle circostanze e tono mesto ma speranzoso, ella cercava di portare conforto. Porgendo al consorte una reliquia del Sacro Legno  della Croce gli disse "questa ti salverà". Nel frattempo , in casa Menotti si sentiva bussare alla porta: era il Duca in persona, accompagnato da Cesare Galvani , dal Principe di Canosa, dagli ufficiali Sterpin, Coronini, Stanzani e Guicciardi, e da alcuni soldati. Fu proprio il Duca a gridare dalla strada , dopo avere ordinato ai suoi uomini di cessare il fuoco:" Sono Francesco quarto Sovrano, arrendetevi e potrete sperare. Ma se resistete sarete uccisi dai miei soldati". Seguì una pausa di silenzio che sembrava preludere alla resa, ma poi la porta di casa Menotti si aprì e l'unica risposta che i visitatori poco graditi ricevettero fu una nutrita fucileria , che costò la vita a due soldati, un Dragone e un Pioniere. Francesco IV  ordinò di circondare la casa e di far avanzare un cannone che , con soli due colpi , decise le sorti del tafferugglio. Ciro Menotti cercò di fuggire dal tetto calandosi con una fune , ma venne lievemente  ferito ad una spalla e catturato dal Maresciallo Pioppi. In seguito ai disordini creati e per sicurezza , Francesco IV e la sua famiglia dovettero lasciare il Ducato portando con sé il sovversivo Menotti in catene.
 

Scortato dalle truppe alleate Imperiali , Il 2 Marzo dal castello del Catajo Francesco IV pubblicava un proclama per annunciare che sarebbe rientrato nei suoi Stati "coll'aiuto di Dio in mezzo alle fedeli sue truppe, sostenute da quelle che S.M. l'Imperatore, augusto capo della sua famiglia, aveva mandato in suo soccorso". Dichiarava nulli gli atti del governo usurpatore e faceva appello all'attaccamento e alla fedeltà dei suoi amati sudditi.
Il 9 Marzo 1831 faceva il suo ingresso nella capitale Estense, accolto da universale entusiasmo. Lo accompagnava ancora il Principe di Canosa che, per la fedeltà dimostrata durante i moti e per il notevole contributo dato nello sventarli, fu nominato Consigliere privato del Duca.
Il 23 Aprile il Tenete Stanzani ricondusse a Modena Ciro Menotti che venne chiuso nelle carceri dell'Ergastolo. Quella sera stessa egli tentò il suicidio con una dose di veleno che teneva nascosta nella fodera del berretto , ma fu scoperto dal custode Bosselli e riuscì ad assumere solo una piccola quantità, quindi fu colto da accessi maniaci seguiti da assopimento, fu sottoposto a una visita medica , ma sopravvisse e dovette affrontare il processo. Il 9 Maggio 1831, il Tribunale Statario militare condannava Ciro Menotti alla morte sulla forca, con l'accusa di macchinazioni in unione con i rifugiati del comitato Italiano in Francia. Dal Catajo , il giorno 21 dello stesso mese , il Duca apponeva la sua firma di approvazione della sentenza, che venne eseguita la mattina del 26, mediante impiccagione nella fortezza della Cittadella. Insieme a Ciro Menotti moriva Vincenzo Borelli , il notaio che il 9 Febbraio 1831, dopo la partenza del Duca , ne aveva vergato l'atto di decadenza , nominando un  dittatore , nella persona di Biagio Nardi.

Francesco IV di Modena.

Francesco IV scrisse al presidente del Tribunale Statario Pier Ercole Zerbini una lettera contenente le istruzioni per la confisca dei beni dei condannati, prevista dalla legge, ma condotta dal sovrano con indubbia clemenza: "Considerando che l'uno(Borelli, nda) lasciò una vedova e l'altro(Menotti, nda) una vedova con figlie volendo noi provvedere al mantenimento sufficiente delle vedove ed all'educazione dei figli vogliamo che dalle sostanze confiscate venga prelevato quanto occorra a questo duplice oggetto e , ben lungi dal volere appropriarci di cosa alcuna della  confisca di questi due disgraziati a pro del nostro Erari, vogliamo che, pagate passività , l'avanzo sia impegnato in primo luogo al mantenimento delle vedove e al mantenimento e buona educazione dei figli , destinando tutto il rimanente ai poveri".
 

Dopo i disordini del 1831 , il Ducato di Modena visse un lungo periodo di pace e tranquillità , tanto che, quando Francesco IV vide avvicinarsi il termine del suo cammino terreno , accolse la morte con la pace nel cuore , convinto di lasciare in ereditare al figlio maggiore Francesco un Trono solido e sicuro, un popolo devoto e fedele , un avvenire prospero. In effetti il popolo era sinceramente devoto e fedele al Duca e al governo legittimo. Nei giorni della malattia di Francesco IV nelle anticamere degli appartamenti reali affluivano continuamente persone d’ogni ceto sociale per chiedere sue notizie. Anche nel 1840, quando morì la Duchessa Maria Beatrice di Savoia, grande fu il cordoglio popolare.
Francesco IV spirava il 21 gennaio 1846 , lasciando il Trono Estense al figlio primogenito Francesco Geminiano , divenuto Francesco V di Modena , il quale aveva sposato nel 1842 Adelgonda di Baviera. Mentre in governo di Francesco IV iniziò nel disordine per terminare nell’ordine , il figlio avrebbe avuto sorte ben diversa.

 

Francesco V di Modena: i primi anni di governo e i disordini del 48’ (1846-1849).

 
Francesco V di Modena.

Francesco V di Modena , nato nella capitale Estense il 1° giugno 1819, arrivò a cingere la Corona Ducale all’età di ventisette anni. Egli però non era sorretto , nell’arduo compito di combattere il cancro rivoluzionario, da quella forza di carattere che invece aveva sostenuto suo padre. Egli era mite e di buon cuore , forse troppo per poter governare con successo. Di carattere semplice , onesto e sobrio, egli agiva sempre con giustizia . Egli era come il padre difensore dei principi del legittimismo, di radicata Fede Cattolica, e incondizionatamente fedele all’Imperatore: egli era un membro di una dinastia la quale fu legata all’Impero per secoli oltre ad essere strettamente imparentato con la Casa d’Austria. Francesco V non mancò mai di assolvere ai suoi doveri rimanendo fedele all’Impero d’Austria anche nei periodi più difficili. Gli avversari politici  liberali, i modernisti e i settari in generale lo accusarono di non essere “uomo dei nostri tempi”. Tale considerazione nata come una presunta offesa in realtà non lo fu alla luce della Verità . Molti furono coloro che evidenziarono il senso positivo del non essere “dei nostri tempi”, sottolineando appunto come in tempi di corruzione , di tradimenti , di perdita della fede religiosa, Francesco V di Modena seppe mantenere intatta la coerenza , ebbe il coraggio di non rinunciare mai alle proprie idee, seppe difendere la religione Cattolica e la Monarchia legittima contro ogni convenienza. Mentre l’Europa sprofondava nella così detta “modernità”, Francesco V restava un uomo d’altri tempi, protettore di valori avversi alla setta e politicamente scomodi, difensore dell’ordine legittimo.


Adelgonda di Baviera
Adelgonda di Baviera.
I primi momenti di governo di Francesco V furono caratterizzati da una calma apparente , da una pace che, purtroppo,  sarebbe bruscamente terminata poco tempo dopo. L'anno seguente la sua ascesa al Trono di Modena , alla morte di sua cugina la Duchessa di Parma  Maria Luigia d'Asburgo-Lorena, il 18 dicembre 1847, Francesco V annetté ai domini Estensi , secondo le disposizioni del Trattato di Firenze del 1844,  la Guastalla , acquisendo quindi il titolo di Duca di Guastalla. La situazione economica del Ducato era florida , i commerci con gli altri Stati della Penisola e con l’Impero d’Austria garantivano prosperità e il popolo si dimostrava devoto al giovane Duca e alla Duchessa consorte. Ma nel frattempo, uno dei complotti più vasti della storia stava avendo luogo; il Convegno Massonico di Strasburgo del 1847 avrebbe infatti deciso il divampare dell’incendio rivoluzionario in tutta Europa l’anno successivo.

L’ondata Rivoluzionaria , come da copione , investì l’Europa e la penisola italiana fin dai primi mesi del 1848. In Italia i rivoluzionari portarono con le loro barricate e la loro sovversione l’idea di “indipendenza” e di “unità nazionale”. Su questi temi Francesco V aveva espresso le proprie opinioni in uno scritto giovanile , nel quale auspicava per l’Italia la creazione di una Confederazione di Stati (in linea con quasi tutti gli altri Sovrani d’Italia; tranne il Re di Sardegna). Egli scrisse: “Credo fermamente  e lo crederò fino alla morte che l’idea principale , il fatto cioè di un’unione politica degli Stati d’Italia sotto il protettorato dell’Austria è un’idea giusta , salutare, che ha l’Italia per salvarsi dal naufragio”. Francesco V avvertiva la necessità di fare dell’Italia una Confederazione , capendo anche che sarebbe stato innaturale ed errato un sistema unitario che mettesse sotto lo stesso governo e la stessa legislazione paesi e popoli che da secoli godevano di proprie leggi, costumi e tradizioni. Questa era una semplice valutazione dettata dal buonsenso e da un sincero amore per l’Italia.

Quadro di Pio IX appena eletto al
soglio Pontificio.
A Modena il primo segno di rivolta si ebbe domenica 19 marzo 1848. Alcuni giovani liberali facinorosi si erano riuniti per manifestare sulle mura della città. Portavano , in onore del nuovo Papa Pio IX , vittima dell’equivoco per cui tutti gridavano al “Papa liberale” , una coccarda con i colori del Vaticano , bianca e gialla, simile ad un fiore. La sommossa per questo fu battezzata “Rivoluzione delle Giunchiglie” . Il Duca in seguito decise di posizionare per sicurezza dei cannoni davanti al Palazzo Ducale, diffondendo successivamente un proclama nel quale invitava i suoi sudditi ad evitare disordini , almeno il tempo necessario affinché  egli potesse decidere attentamente il da farsi in una situazione difficile e prendere le necessarie misure di sicurezza.  Il proclama venne ignorato dagli sgherri della Rivoluzione che il mattino dopo si ammembrarono sfilando provocatoriamente con le coccarde bianche e gialle , reclamando una Costituzione liberale. Una delegazione guidata da Giuseppe Malmusi  si recò a Palazzo Ducale per avanzare richieste a Francesco V. Il comandante delle Milizie Estensi , Colonnello Brocchi, e il Conte Giuseppe Forni  suggerirono al Duca di concedere l’istituzione della Guardia Civica , onde placare i rivoltosi. Il Duca , fiducioso, non solo accettò di istituire la Guardia Civica , ma la rifornì anche di fucili.
Incisione del re Francesco I
Francesco V di Modena.

L’istituzione della Guardia Civica fu solennemente proclamata in Piazza Grande a Modena davanti ad una folla di manifestanti liberali che poi si riunì sotto il Palazzo Ducale per inneggiare al Duca per ringraziarlo. Francesco V , preoccupato per quella concessione di cui non era affatto convinto e per le future conseguenze delle sommosse dei sovversivi , ben lungi dall’essere lusingato da quelle acclamazioni, commentava mestamente: “Si grida evviva perché ho concesso ; se non concedevasi si griderebbe morte”. Egli temeva che tale concessione non sarebbe bastata a tenere a bada i rivoluzionari , e il tempo gli avrebbe dato ragione. La Guardia Civica placò solo temporaneamente l’ingordigia dei rivoluzionari: in città le manifestazioni dei sovversivi continuarono , le truppe Estensi faticavano a mantenere l’ordine , l’autorità ducale appariva non più rispettata ne temuta dai facinorosi. Quando un telegramma del Cardinale di Bologna annunciò che una spedizione stava per raggiungere Modena per sostenere i rivoltosi delle giunchiglie e rovesciare con le armi il legittimo governo Austro-Estense, Francesco V decise di lasciare la capitale , per non rischiare quegli spargimenti di sangue che il suo mite temperamento fortemente avversava. Prima della sua partenza venne raggiunto a palazzo da Giuseppe Malmusi che avanzava la richiesta di altri trecento fucili . Dopo averli ottenuti , nel suo colloquio con Francesco V , lo invitò a ricordare di essere nato a Modena. Il Duca rispose tristemente commosso : “Ma io non farò del male a nessuno”, e lo dimostrò con i fatti lasciando spontaneamente il Trono. Prima di uscire dal Palazzo si soffermò a lungo nella cappella a pregare e piangere. La Reggenza presieduta da Rinaldo Scozia nominata dal Duca fu immediatamente costretta dalla Guardia Civica comandata dai rivoluzionari a dimettersi , per lasciare il posto ad un Governo rivoluzionario presieduto dal doppiogiochista Malmusi. Alla fine di giugno arrivò a Modena dal Piemonte il senatore Lodovico Sauli come “Commissario Regio”: il Regno di Sardegna , impegnato nella sua guerra d’espansione, era in combutta con i capi sovversivi di Modena come di Parma. Il 29 maggio il governo sovversivo aveva già proclamato l’unione agli Stati sabaudi delle Provincie cisappenniniche del Ducato. Massa e la parte transappenninica dello Stato Estense vennero invece incorporate al Granducato di Toscana (all’epoca alleato del Piemonte) al quale sarebbero rimaste fino all’aprile del 1849.

Appena Francesco V ebbe lasciato Modena, la mattina del 21 marzo , il Generale Agostino Saccozzi , da due anni comandante dell’Esercito Estense, venne arrestato. Altri come lui , tra militari rimasti e molti duchisti, subirono persecuzioni dal governo sovversivo e diversi furono costretti a prendere la via dell’esilio.

File:Scontro di Volta Mantovana.jpg
Episodio della Battaglia di Custoza (1848).
Dopo alcuni successi delle truppe sardo-piemontesi , dovute più che altro all’iniziale inganno che il governo sabaudo ebbe  su altri sovrani della penisola e sullo strascico delle rivolte settarie, la vittoria dell’Esercito Imperiale nella battaglia di Custoza permise il ritorno a Modena di Francesco V , al quale comunque la città era rimasta fedele anche nella crisi. L’armata Imperiale guidata dal Generale Liechtenstein riaprì le porte al legittimo sovrano. L’arrivo in città delle colonne dell’esercito Imperiale fu accolta dai contadini , riuniti in piazza per il mercato settimanale , da acclamazioni e grida di “morte alla Guardia Civica”, la quale per tutta risposta prese il popolo a colpi di calci di fucile e di baionette disperdendo la folla. Il Duca Francesco V rientrò il 10 agosto . Sul finire di quel nefasto anno l’esercito Estense riconquistò le terre dell’Oltrappennino . Francesco V affiancò l’esercito Imperiale alla liberazione di Livorno il 10 maggio 1849.

Al suo rientro a Modena Francesco V concesse un amnistia a rivoltosi e traditori , invitando solo alcuni promotori ad allontanarsi dalle terre del Ducato. La stessa clemenza Francesco V la ebbe quando, in quello stesso novembre 1849, subì un attentato.
Questa eccessiva clemenza non fece altro che minare il Ducato e l’ordine legittimo…

 

Le trame nell’ombra e il ritorno della  Rivoluzione (1850-1859).


Francesco V di Modena.
Per un breve periodo di tempo sembrò tornare la pace e la tranquillità dopo l’incendio rivoluzionario che scosse il Ducato di Modena nel 1848. Ma la setta continuava a tramare e a progettare il trionfo della Rivoluzione. I tentativi mazziniani del 1854 provocarono tensioni nelle province dell’Oltrappennino Estense. La situazione era preoccupante per il governo legittimo soprattutto a Carrara, mentre Massa  “era da sempre una delle città più Reazionarie del Ducato”. A Carrara però erano numerosi gli affiliati alle sette che , al momento dell’affiliazione giuravano di battersi  “contro la monarchia e la religione, per l’esterminio dei principi , dei preti, dei frati e di tutti quelli che sono pagati dal governo”  e i disordini si palesavano con numerosi episodi di violenza , ferimenti e omicidi. Il 30 ottobre Giulio Gattini di Bedizzano ricevette tredici coltellate  e il 2 novembre fu tentato l’assassinio del parroco di sorgano . Il 13 dicembre 1854 Francesco V ordinò lo stato d’assedio di Carrara. Nella notte fra il 15 ed il 16 dicembre 1854 forti picchetti di Milizia si appostarono sui confini di Carrara , una compagnia di Cacciatori si schierò nella piazza della città dove, alla mattina alle nove , il Tenente Casoni proclamò lo stato d’assedio. Nel 1856 cominciò a farsi audace la propaganda rivoluzionaria , mentre si facevano insistenti le voci su una possibile sollevazione. La follia sovversiva del  Mazzini lo spinse a progettare un moto insurrezionale in Lunigiana e a tale scopo aveva già lasciato Londra e il 28 giugno era giunto in gran segreto a Genova. La rivolta nei suoi piani sarebbe dovuta partire da Carrara , nella notte tra il 25 ed il 26 luglio . Bande sovversive provenienti dal sarzanese dovevano correre in aiuto ai ribelli , mentre i pochi adepti a Massa dovevano controllare che dalla città non partissero aiuti alle forze legittimiste. L’insurrezione fallì sul nascere , ma i gruppi filopiemontesi agli ordini del Cavour continuarono a diffondere allarme di presunte sollevazioni tra la popolazione d’Oltrappennino .

Giunsero anche da Torino gli avvisi di una rivolta programmata per il 24 agosto , tanto che fu dato ordine di sospendere i preparativi per  la tradizionale fiera di San Bartolomeo. Tale avvisaglie si dimostrarono in concreto false in quanto non accadde nulla di concreto, ma il Comandante della piazza Capitano Pullé e il Sottotenente dei Dragoni Chiossi ricevettero lettere che li invitavano a seguire “la causa della revoluzione , desiderata da venticinque milioni di italiani governati da cinque dei più infami tiranni, cioè il monarca di Modena , la puttana di Parma , il bombardatore di Napoli, la tigre toscana e il demonio di Roma”.

Ai soldati venivano rivolti incitamenti a deporre la “sozza livrea”, mentre il Comando Superiore dell’Oltrappennino prendeva nuove misure precauzionali .  Nel dicembre del 1856 Francesco V revocò lo stato d’assedio , ma pochi giorni dopo un milite venne assassinato. Nel 1857 nuovi fatti di sangue funestarono il Carrarese . La sera del 9 Don Francesco Andrei , parroco di Miseglia e cappellano della Milizia , venne ucciso da un colpo di fucile durante le funzioni del giovedì santo. Francesco V fu costretto a rimettere lo stato d’assedio.  Tutti questi accadimenti opera di circoli settari aveva come collegamento le  direttive dell’infido governo di Torino.

Francesco V  l'11 Giugno 1858 scriveva al suo ministro Teodoro Bayard De Volo, "io vedo un temporalone formarsi lentamente. La Francia è di giorno in giorno più insolente e provocatoria, l'Inghilterra la vedo una ben infida alleata per chiunque, ma temo più la Francia che altri...". L'esercito del Ducato di Modena alla metà di Gennaio del 1859, cioè alla vigilia  della guerra franco-piemontese , contava nelle terre dell'Oltrappennino quattro compagnie: la 4° Dragoni, la 3° d'Artiglieria, e la 11° e 12° Cacciatori, per un totale di 584 uomini. Di essi circa duecento presidiavano Massa, altrettanti Carrara, settanta i forti e le batterie del litorale, mentre i restanti prestavano servizio di gendarmeria nelle varie località. Il comando era tenuto dal Maggiore Messori.
Tenente Colonnello Casoni .
Sapendo di non avere a disposizione forze bastanti ad organizzare una difesa efficace in tutto il territorio Estense, il Duca aveva mandato al di là dell'Appennino uomini in numero appena sufficiente a garantire l'ordine pubblico. Le truppe estensi non erano molto numerose e, in tempi particolarmente difficili come quelli che si stavano verificando , forse avrebbero fatto comodo più uomini. Francesco V si era dimostrato sempre attento a contenere gli oneri militari che andavano a gravare sulla popolazione, e le ottime relazioni che vi erano tra il Ducato di Parma,  Granducato di Toscana , e Stato Pontificio escludevano la necessita di dover difendere i confini con tali paesi. Il Ducato di Modena non aveva nulla da temere nemmeno dall'Austria, per cui doveva guardare con preoccupazione solo al confine con il Regno di Sardegna che si dipanava per un non lungo tratto tra Aulla, Fosdinovo e Carrara. Modena era legata a Vienna da un trattato militare perciò, in caso d'aggressione , l'esercito del Duca doveva solamente essere in grado di resistere fino all'arrivo degli aiuti austriaci. Visto l'aggravarsi della situazione politica il 17 Gennaio il  Duca decise di rafforzare la guarnigione dell'Oltrappennino , e mandò in Lunigiana la 1° divisione Cacciatori guidata dal Tenente Colonnello Casoni , al quale fu prescritto di occupare Fivizzano e Fosdinovo.

 

Le truppe del Duca erano continuamente prese di mira dai rivoltosi, i quali cercavano tra l'altro di provocare la diserzione dei soldati.

"Lettere anonime, e allora e dipoi, dal Sardo, quando lusinghiere, quando minacciose, pervenivano a diversi militari per eccitarli alla defezione ed al tradimento", si legge nel giornale della Reale Ducale Brigata Estense.

I disordini più preoccupanti per i soldati estensi in quel burrascoso inizio dell'anno 1859, accaddero a Sarzana, dove correva voce che dovesse arrivare Garibaldi con seimila uomini e quattrocento cavalli. Francesco V non credeva che stesse veramente per scoppiare una guerra in Italia e definiva "ciarlatanesche millanterie" le voci che ritenevano imminente un attacco sardo. Anche Casoni , che pure guardava con maggiore preoccupazione alla situazione in Lunigiana,  giudicava in verità Garibaldi un po' come  "il Messia degli Ebrei, sempre aspettato e non ancora arrivato".

Non mancarono comunque le misure precauzionali, come appunto l'aumento delle truppe di guarnigione o le direttive emanate per i casi di sommossa, anche i soldati a disposizione non erano sufficienti.

L'11 Febbraio a vari Ufficiali e sotto Ufficiali vennero fatti pervenire stampati sediziosi, che essi prontamente consegnarono ai loro superiori, mentre nella notte tra il 13 e il 14 Febbraio i sacerdoti Don Giacomo e Don  Giovanni Chiari ricevettero scritti e libelli con minacce di morte e dovettero fuggire da Carrara.

Il 16 Febbraio invece un centinaio di rivoltosi armati innalzarono una bandiera tricolore sul monte di Fontia, a pochi passi dal confine estense, in modo che la si potesse scorgere bene da Carrara. Uno di loro varcò poi il confine e si recò dalle truppe estensi chiedendo in tono provocatorio se avrebbero avuto il coraggio di togliere quella bandiera. L'uomo fu immediatamente arrestato e condotto a Carrara, mentre i suoi complici sparavano alcuni colpi sull'esercito estense. Saputo quanto stava accadendo, il Comandante da Carrara mandò quarantacinque uomini, che per quella volta bastarono a mettere in fuga i rivoltosi, il 16 Febbraio 1859 a Sarzana , "ove ormai" scriveva il Casoni, "nessuno che non sia conosciuto dagli emigrati del loro colore, può più andarvi senza pericolo di uscirvi la pelle..." . Vari sudditi estensi a Sarzana rimasero vittima di pestaggi.

Francesco V auspicava un rapido intervento dell'Austria e scriveva al Conte Bayard De Volo il 16 Aprile 1859: " Io già credo e spero che il Piemonte se non altro non accetterà il disarmo e che quindi l'Austria si dichiarerà dégagé dalla difensiva e, dopo un'intimazione al Piemonte , se questo è infruttuosa, farà la guerra , cioè grazie a Dio prenderà l'iniziativa e non starà più a disposizione del Conte Cavour. E veramente ciò è una necessità per noi. Debbo dirle francamente che le mie truppe nell'Oltrappennino non resistono ad ogni maniera di seduzione che s'impiega per corromperle... Ella vede che la cancrena fa progressi, io non voglio incancrenire altri battaglioni che finora sembrano sani , poiché da Modena a Reggio non v'è diserzione... Dunque alla lunga è inevitabile uno scandalo se non si viene a battersi, ed io non potrei più compromettermi, massime nell'Oltrappennino colle mie sole truppe..." .

Intanto anche nel Granducato di Toscana la situazione stava degenerando, agenti piemontesi da tempo erano penetrati clandestinamente nello stato lorenese preparando una serie di finte insurrezioni messe in scena con la complicità dei liberali rivoluzionari Toscani diretti dall’agente segreto del Conte Cavour Filippo Curletti; anche diversi Carabinieri appositamente congedati si arruolarono nell'anonimato nelle fila del piccolo esercito Granducale per crearvi disordini .

 

Fra Piemonte e Toscana ,  Massa e Carrara rischiavano di diventare una vera e propria trappola per le truppe estensi che le presidiavano. Fu dato quindi ordine di partire: le truppe stanziate a Massa e Carrara abbandonarono quella località nel pomeriggio del 28 Aprile, dopo avere inchiodato le artiglierie del castello e dei forti del litorale e avere distrutto le munizioni, e il 29 giunsero a Fivizzano, dove si ricongiunsero con gli uomini di Casoni. Lo stesso 28 Aprile arrivarono i Commissari Piemontesi: Giusti a Massa e Brizzolari a Carrara, e assunsero illegittimamente il  governo. Ad appoggiarli era giunto anche un distaccamento di carabinieri Piemontesi. Venne subito istituita la Guardia Civica e in entrambe le città estensi sventolò il tricolore rivoluzionario.

La notizia fu accolta con grande allarme a Modena. Francesco V non sapeva che già un anno prima, nel luglio del 1858 , al Convegno di Plombières, Cavour e Napoleone III  avevano scelto proprio i territori dell'Oltrappennino del Ducato Estense per provocare deliberatamente quegli incidenti che avrebbero dovuto giustificare agli occhi dell'opinione pubblica l'intervento del Piemonte e della Francia in territorio straniero.

Alle dieci e trenta del 30 Aprile 1859, partiva da Modena la sovrana Adelgonda. Si recava a Mantova, e non avrebbe mai più fatto rientro nei suoi stati. " Questa partenza consigliata dalle gravi circostanze politiche del giorno , riuscì dolorosa a quanti conservavano un resto di sentimenti leali , e che avevano cuore e coscienza": la popolazione "rispettosa e dolente" riempiva il cortile del Palazzo Ducale e la piazza per l'estremo saluto." né è certo esagerato il dire che in quel giorno ed a quella partenza la città intera fu in duolo". Francesco V accompagnò l'amatissima consorte per un breve tratto di strada, poi rientrò in città.



Generale Saccozzi.
Il primo Maggio giunse la notizia che anche la Duchessa Reggente  di Parma, Luisa Maria Teresa di Borbone , aveva dovuto lasciare i suoi Stati, per motivi di sicurezza personali, sempre a causa di  insurrezioni architettate da agenti filo-piemontesi infiltrati nelle province Parmensi. Alla Reggenza da lei nominata era stato impedito di esercitare il potere, e il governo era stato presto assunto da un Comitato Nazionale di Parma a nome del Re di Sardegna. Le truppe rimaste fedeli alla Duchessa ristabilirono il legittimo governo Ducale due giorni dopo, ma intanto la notizia produsse grande agitazione nei domini estensi, soprattutto a Reggio , dove si erano riuniti rivoluzionari e liberali a manifestare davanti all'albergo della posta. Il Duca ordinò che venisse inviata a Reggio la 2° divisione del 1° battaglione di linea , forte di trecentoquaranta uomini. Appena entrate in Reggio le truppe sfilarono per la città inneggiando a Francesco V , poi si radunarono  " di moto spontaneo" in Piazza del Duomo dove, dopo aver lanciato "evviva" al Duca di Modena e all'Imperatore d'Austria, passarono "a grida insultanti, e le espressioni più frequenti erano merda e morte, verso il Piemonte, i soldati Piemontesi, il suo Re, all'Italia, alla sua Nazionalità, alla Francia..." . Recita il rapporto compilato sull'accaduto dal Generale Saccozzi: "Gli Ufficiali tentarono di calmare questo bollore, ma non vi riuscirono; la gente fu spaventata e si chiusero le botteghe . Il Maggiore Melotti trovò necessario di far battere la ritirata un quarto d'ora prima  del necessario , onde avesse fine questo baccano , che ebbe a continuare anche lungo le strade e fino a che entrarono in Quartiere".

Avendo il Duca mandato rinforzi a Reggio, Modena si ritrovò sguarnita . Francesco V risolse a chiedere aiuto all'Austria, e il 2 Maggio giunse nella capitale estense un battaglione dell'Imperiale Reale Reggimento Fanti Conte Giulay, accolto dal Duca in persona e dal generale Saccozi: "Colla venuta di un battaglione Austriaco potei mettere un cerotto al mio Stato" scriveva Francesco V.

Il 3 Maggio cominciò a spargersi la voce inquietante che le truppe Piemontesi dalla Toscana volessero entrare in Modena attraverso l'Abetone. Il 7 Maggio il Tenente Colonnello Casoni ricevette una lettera del Generale Sardo Ribotti che lo invitava ad unirsi alle sue truppe , minacciando di costringerlo con la forza a deporre le armi se avesse rifiutato. Ad arte si faceva circolare la voce che le truppe Sarde a Massa e Carrara contassero oltre duemila uomini. I lavori di fortificazione , diretti personalmente dall'Arciduca Ferdinando Massimiliano D'Asburgo-Lorena, si moltiplicarono a Brescello . Erano stati demoliti gli argini e spianato il terreno nei dintorni della piazzaforte , erano state alzate le palizzate e costruite nuove postazioni per l'artiglieria sull'argine del Po.

Francesco V  era comunque ancora fiducioso e cercava anzi di rassicurare il suo Ministro residente a Vienna. Scriveva infatti l'8 Maggio al Conte Bayard De Volo: "Essa si affligge per Massa, ma interroghi qualunque militare e gli chieda se con due compagnie , fra paesi rivoluzionati, vi si può stare, e poi mi dica la loro risposta. Se lasciavo che fossero ivi oppresse e tagliate fuori sacrificavo anche quelle truppe, e Casoni con due sole compagnie non poteva stare a Fivizzano dove è tuttavia ed in buona posizione militare...Rinforzarlo era impossibile avendo da presidiare Modena, Reggio, Brescello. Qui ho ora quattro compagnie mie, sei austriache , e ciò basta, per ora. Sfido a far di più , di difendere più terreno, di agire con più vigore di quello che faccio. Le mie truppe non sono demoralizzate da che v'è la  guerra; lo sarebbero state se v'era il Congressi. Ora sono animatissime e fraternizzano cogli Austriaci. Fuor di Massa Carrara ovunque profonda quiete, perfino in Garfagnana, che confina con la Toscana e nella quale vi sono circa venti Dragoni in tutto". L'ottimismo di Francesco V era destinato ad essere presto deluso. il 10 Maggio il Generale Ulloa, inviato dal governo Piemontese ad assumere il comando dell'esercito in Toscana, aveva diretto  le sue forze tra Perretta e l'Abetone. il 17 Maggio aveva ricevuto l'ordine di partire per Livorno il Principe Gerolamo Napoleone , comandante del V corpo d'armata Francese, con il compito di affrettare lo sgombero dei Ducati. A disposizione del Principe stavano la divisione Uhrich e la brigata di cavalleria  Dalmas e La Pèrouse, per un totale di oltre diecimila uomini , che cominciarono a sbarcare a Livorno il 23 Maggio.

Alla notizia che i Francesi avevano cominciato ad invadere la Toscana , Francesco V , per non lasciare le sue fedeli truppe esposte al nemico, ordinò che lasciassero immediatamente l'Oltrappennino. Il Tenente Colonnello Casoni si ritirò sopra a Bagnolo né  Monti, lasciando come avanguardia una compagnia al Cerreto. Prima di abbandonare i due piccoli forti in Val di Magra, il sottotenente d'artiglieria Corradini fece  inchiodare i pezzi e distruggere le munizioni. Prima di partire da Fivizzano, il Tenente Colonnello Casoni incaricò il Potestà Barbieri di rappresentare il Governo estense e di preoccuparsi soprattutto di curare il mantenimento dell'ordine. Subito dopo il ritiro delle truppe tuttavia le Guardie Nazionali piemontesi si opposero alle autorità nominate dal Duca e imposero in Lunigiana il governo rivoluzionario. Il 22  Maggio le truppe della Garfagnana dovettero ritirarsi sopra Pievepelago e furono mantenuti solo due posti di Dragoni, alla foce delle Radici e a San Pellegrino.

Buona parte degli abitanti dell'Oltappennino non gradì il nuovo stato delle cose. Raccontava Francesco Selmi il 24 Maggio:"Ho trovato il paese morto e zeppo di Duchisti, in specie nella campagna.So che ivano ripetendo fra di loro: Vedremo come andrà a finire! E speravano nel ritorno di Casoni. La sveltezza del Delegato alla Questura  e la fermezza di Giusti sventarono due moti reazionari, manipolati da famiglie Duchiste, d'inteligenza coi contadini.Ora, colla ritirata di Casoni, colle altre notizie, non ardiscono più; nondimeno la scorsa Domenica, e non più tardi, alcuni ubriachi del contado gridarono: Viva Francesco V° e strapparono alcuni proclami del Commisario". Scriveva ancora il Selmi a Giuseppe La  Farina "...la città di Massa conta buon numero di Duchisti; moltissimi nel contado circostante. In alcune ville, specialmente all'intorno di Massa , in Fosdinovo , in Tendola ed in altri paesucoli, può dirsi che si sopporta per timore la dominazione piemontese, e che ivi le disposizioni sarebbero a pigliare anche le armi contro di noi..." .

Il 26 arrivarono i dispacci telegrafici che portavano la notizia che, all'alba di quel giorno, era passato da Brescello il Duca Roberto I di Parma, diretto in Svizzera, accompagnato dal Marchese Malaspina. La Duchessa reggente  Luisa Maria Teresa di Borbone  era ancora a Parma, ma i piemontesi avevano già occupato Pontremoli.

Il 31 Maggio il Ministro estense Conte Forni , scriveva al Ministro residente a Vienna , Conte De Volo: "Quanto a noi ecco cosa sappiamo. In Toscana si concentra il corpo del Principe Napoleone, che unanimemente si dice  diretto per la via dell'Abetone a Modena, per agire poi sopra Piacenza prendendo così di fianco gli Austriaci. A Firenze deve esso Principe Napoleone essere arrivato soltanto ieri, mentre fino dal 23 giunse a Livorno. Il 29 poi alcuni ufficiali Francesi verso il mezzogiorno arrivarono in carrozza all'Abetone, e fra essi vi era un Borghese, che molti pretendono potesse essere lo stesso Principe Napoleone" .

Il 1 Giugno , alla notizia che i Francesi rinforzavano le truppe nemiche sull'Abetone , Francesco V decise di inviare truppe da Modena, passandole in rassegna il giorno successivo con un ordine del giorno che suscitò fra i soldati entusiastiche acclamazioni:




 


Francesco V di Modena.
"Soldati!
"Il nemico minaccia di penetrare nel Nostro Stato dal lato dell’Abetone, ove ha spinto la sua avanguardia.
"Il 1° battaglione del reggimento di linea con una sezione d’artiglieria e un distaccamento di dragoni a cavallo avrà l’onore di affrontarlo pel primo, ov’egli si avanza.
"Soldati! Voi meritate fin d’ora la mia fiducia, ed aspetto che in quest’occasione non smentirete le qualità che fanno il vero soldato, cioè valore unito alla fermezza, ed inconcussa fedeltà al giuramento e alle vostre bandiere. Voi formerete l’estrema avanguardia di un corpo che fra pochi giorni vi sosterrà efficacemente in queste pianure, e che sarebbe, se verrà il caso, testimonio della vostra bravura, della vostra fedeltà e della vostra disciplina. Io voglio che siano i soldati estensi che affrontino pei primi lo straniero invasore del Nostro territorio che è pure Nostra e vostra patria. Esso sarà forse preceduto da masnade rivoluzionarie. Se pur doveste ripiegare in buon ordine dinanzi al primo, permetterò che non si contino i secondi, dei quali vi lascerò fare buona giustizia.
"Modena, 2 giugno 1859.
"Francesco."

 

Guidate dal Colonnello Foghieri le truppe si misero in marcia verso la montagna e giunsero a Pavullo a mezzogiorno del 3 Giugno.




Colonnello Foghieri .
I rinforzi Austriaci , che erano stati richiesti dal Duca per fronteggiare l'invasione piemontese dalla Toscana, giunsero presto, ma in quantità sufficiente solo a ritardare l'occupazione, non a fermarla. Nella mattina del 4 Giugno arrivarono a Modena tre battaglioni Austriaci  comandati dal Generale maggiore Barone di Jblonsky, mentre un altro battaglione si era fermato a Carpi. Compreso il reggimento Conte Giulay, che già si trovava a Modena , si trovavano quindi nello Stato Estense  cinque battaglioni Austriaci.

Il 5 Giugno il battaglione Giulay era sulla strada del Frignano , un altro battaglione Austriaco era diretto a Reggio e il giorno successivo una compagnia avanzava fino a Puianello. Tutto ciò aveva trasmesso alla maggioranza fedele della popolazione "le più lusinghiere speranze" che tuttavia vennero presto disattese dalla tragica notizia della sanguinosa battaglia di Magenta ,  che fece mutare radicalmente la situazione nello Stato estense e non solo.


Le avverse circostanze politiche costrinsero la Duchessa Reggente di Parma Luisa Maria Teresa di Borbone  ad abbandonare di nuovo i suoi Stati. Il 9 Giugno Luisa Maria partì da Parma alla volta di Mantova , lasciando una Commissione di Governo che venne sovvertita dagli agenti filo-piemontesi e nel primo pomeriggio dichiarò in un proclama , senza alcuna legittimità, di assumere il potere in nome di Vittorio Emanuele II .

  

Francesco V venne informato degli avvenimenti di Parma il giorno stesso da un telegramma del Casoni. Il giorno successivo il Duca apprese che, nella notte, le truppe Ducali avevano abbandonato totalmente Parma, per cui il nemico poteva transitare attraverso il Parmense senza essere intercettato: Francesco V comprese così che gli sarebbe stato impossibile rimanere a Modena. Alle cinque del pomeriggio riceveva inoltre dal Quartiere Generale Austriaco l'avviso ufficiale che l'Armata Imperiale si ritirava oltre il Mincio. Le truppe Austriache abbandonavano cioè la città di Modena e lo Stato Estense. Lo sgombero delle Legazioni Pontificie delle Romagne, che erano state oggetto di sovversioni organizzate del tutto simili alle finte insurrezioni prima citate, "era sinonimo della vittoria della rivoluzione in quelle provincie", si legge nel Giornale della Reale Ducale Brigata Estense. Il ritrovarsi privo di supporti militari convinse infatti suo malgrado il Duca a dare ordine di evacuare Modena e Reggio.

"Ogni ulteriore esitazione sarebbe stata inutile e forse fatale", scriveva il Giornale della Reale Ducale Brigata Estense.

Consapevoli di governare un piccolo Stato con un piccolo esercito, da sempre gli Estensi di fronte alla minaccia dell'invasione straniera preferivano ritirarsi dalle loro terre, onde evitare guerre civili o inutili spargimenti di sangue. Il mite Francesco V poi era particolarmente avverso alla guerra e alla violenza, così lasciò spontaneamente il Trono di fronte alla minaccia dell'invasione Piemontese. Qualcuno ritiene  che,  se non lo avesse fatto , con la fedeltà del popolo, sarebbe riuscito a mantenere l’ordine legittimo , o per lo meno cadere in battaglia cercando di difenderlo . E' di questo parere ad esempio Filippo Curletti, l'agente segreto di Cavour che al termine del processo risorgimentale scrisse le sue confessioni, rivelando peraltro vari aspetti oscuri e scandalosi del cosi detto risorgimento. Come rivela il Curletti , Francesco V , lasciando le sue terre , fece suo malgrado il gioco del nemico. Nel mentre che si compivano le rivoluzioni di Firenze e di Parma , Francesco V di Modena , abbandonava i suoi Stati, lasciando così il campo libero ai Zini e ai Carbonieri; meravigliati di un successo così inaspettato. La condotta del Duca in questa occasione è inconcepibile, se non si suppone che egli sia stato ingannato sulla vera situazione delle cose. Come per Firenze e parma, sarebbe bastato un colpo di fucile per mandare a vuoto la cospirazione di Modena.

Nella sera del 10 Giugno, quella che precedeva il momento dell'esilio definitivo, Francesco V si rivolgeva alle sue truppe con un ordine del giorno che le riempì di fervore:

 

File:Francesco V d'austria este Duca Modena old.jpg
Francesco V di Modena.

Ordine del giorno
Soldati!
"La campagna prevista da qualche tempo è incominciata. Il vostro Sovrano è colle fedeli sue truppe per dividere con esse la sorte della medesima, e per difendere i diritti suoi più sacri contro l’indegna violenza d’uno straniero conquistatore, e della rivoluzione di cui si fece capo.


"Soldati! Voi mi avete dato nei mesi scorsi in mezzo a mille tentativi di seduzione prove della più inconcussa fedeltà; alcuni indegni tra voi hanno mancato al loro dovere: voi avete veduto in un paese vicino mancarne altri in maggior numero e divenire spergiuri; ciò non ostante voi siete rimasti fedeli.
"Verrà giorno in cui il mondo vi renderà giustizia esso pure; la vostra coscienza e la parte più onorata della società ve la rendono fin d’ora.
"Soldati! Io confido dunque doppiamente in voi nei presenti giorni, che sono di prova bensì, ma che potranno essere insieme giorni di gloria.
"Cedendo al numero, ci ripiegheremo intanto sul Po, pronti a combattere l’inimico, dove le circostanze l’esigessero, a fianco della fedele e prode I. R. armata austriaca, nostra alleata.
"Accompagnati dai voti di ogni uomo onesto, potremo, a Dio piacendo, in breve riavere il perduto, e voi, dopo sostenute onorate fatiche godere in seno dei vostri della quiete e dell’ordine, al ristabilimento del quale potrete gloriarvi di aver contribuito a costo ancora del vostro sangue.
"Modena, 10 giugno 1859.
"Francesco".
 

 
La Brigata Estense nel 1859: Francesco V di Modena passa in
rassegna le fedeli truppe.

Il giorno successivo , l'11  Giugno 1859 Francesco V all'alba lasciava le terre del Ducato di Modena , quelle terre che gli appartenevano "non tanto per avito legittimo retaggio, quanto assai più perché ne aveva conquistato colla giustizia e coi benefizi l'amore e la gratitudine" . Narrava il funzionario Ducale Raffaele Vaccari: " Il Duca a cavallo vestiva l'uniforme da Generale dè suoi Cacciatori: un  cappello guarnito ad oro, ed un gran pennacchio a piume cadenti, nuda la sciabola, con cera aggrondata , burbera, e sdegnosa, l'occhio scintillante per ira, pallido piuttosto che no, e di atti sprezzanti". Era seguito dalle sue fedelissime truppe, oltre tremila soldati che lasciavano a Modena quato possedevano di più caro e prezioso: i beni e la famiglia.”

La Brigata Estense fu l'unico fra gli eserciti Italiani (fatta eccezione per la breve parentesi dei soldati Parmensi) a seguire il Sovrano in esilio e lo fece esclusivamente per incondizionato amore verso il Principe e per rispetto dei giuramenti prestati, offrendo un esempio straordinario che meravigliò anche i più accesi anti-duchisti. Chi voleva far credere che l'allontanamento dei Sovrani dalle proprie terre avvenisse per volontà popolare, che essi rappresentassero esempio di tirannia da sconfiggere, che i plebisciti organizzati ad arte dai Piemontesi per usurpare i troni agli altri Principi Italiani ritraessero l'effettiva volontà della gente, ebbe nella vicenda delle truppe estensi, la più grande ed esemplare contestazione: "Se ancor si rifletta che a ciò non furono nè violentate nè costrette, ma vi si condussero con generosa e spontaneo entusiasmo; non si può non iscorgere in questa loro abnegazione un plebiscito solenne, assai più splendido e spontaneo di quanti ebbero in seguito a porsi in iscena con menzognero prestigio", scriveva il ministro residente a Vienna Teodoro Bayard De Volo per poi aggiungere: " ... una truppa la quale segue il proprio sovrano non il giorno del trionfo ma in quello della sventura, che rinunzia per lui alle alternative di patria , ed agli affetti di famiglia , che rsiste alle seduzioni dell'usurpatore, che sopporta le ingiustizie dei partiti, che stretta intorno alle sue bandiere tiensi, senza esitare un istante, pronta a qualsiasi evento , non protesta essa forse con  tutta l'energia di una fede antica, contro alla vituperevole cedevolezza dei tempi nuovi?" .

La colonna Estense partita da Modena giunse a Carpi alle dieci del mattino. Riportava Francesco V  nel suo diario: "L'11 Giugno lasciai Modena colle mie truppe. Erano appena le cinque del mattino. Alle quattro e mezzo sortendo dal palazzo per la porta verso il Corso Estense v'era poca gente: facchini o dell'infima plebe. L'attitudine era del tutto passiva e tra il malinconico ed il cupo, l'aspetto era come di gente avente ansietà sulla loro sorte avvenire. In campagna parevano i più non comprendere la gravità del momento ed il passaggio, chi sa per quanto tempo, dal potere legittimo ad un governo rivoluzionario ed estero. Però vi erano eccezioni e vidi dei vecchi contadini al vedermi passare stender le mani al celo e piangere dirottamente, uno fra gli altri in Villa Quartirolo, presso Carpi".

Il 12 Giugno, il giorno di Pentecoste, le truppe estensi assistettero alla messa a Carpi, poi ripresero la marcia e sostarono a Novellara per il pasto. All'una lasciarono Novellara e alle quattro arrivarono a Guastalla, dove rimasero per tutto il giorno successivo.

Una colonna formata da una parte della guarnigione di Reggio l'11 Giugno aveva invece raggiunto Brescello, dove era ad attenderla un  reggimento Austriaco. Francesco V sperava che il Comando Imperiale non avesse intenzione di abbandonare completamente la riva destra del Po e che fosse possibile tentare una resistenza a Brescello. L'armamento della fortezza era stato recentemente rinforzato e Francesco V contava molto sulla possibilità di resistere nella piazzaforte di Brescello , se non altro per dimostrare all'opinione pubblica che non cedeva alle forze nemiche senza combattere. Il giorno 13 le truppe Austriache vennero però ritirate da Brescello e le truppe Estensi vennero avvisate che due giorni dopo sarebbe stato distrutto il ponte di Borgoforte. Francesco V si vide così costretto ad evacuare Brescello .


Soldati dell'Esercito del Ducato di Parma.
Fra Borgoforte e Guastalla la truppa Estense incontrò l'esercito Parmense che si recava a Mantova al seguito della Duchessa Luisa Maria , dove per l'ultima volta sarebbero stati resi gli onori militari alle insegne dei Borbone di Parma.

La Brigata Estense seguì il Duca Francesco V in esilio fuori dalle terre Estensi sino a Mantova.

Avevano inoltre seguito i Duca : il Generale Conte Luigi Forni, Aiutante Generale Maggiordomo Maggiore; la Guardia Nobile d'Onore: il Conte Giacomo Molza, il  Conte Giuseppe Abbati Marescotti , il Conte Ferdinando Galvani , il Marchese Luigi Coccapani Imperiali, il Conte Luigi Alberto Gandini, il Cavallier Carlo Santyan y Velasco , il Conte Scipione Scapinelli , il Nobile Giulio Besini, il Nobile Enrico Borsari. Sulla bandiera della Guardia Nobile d'Onore , il cui nastro era stato intessuto dalle mani della Duchessa Maria Beatrice, campeggiava la scritta: "Onoro e fedeltà".

Anche i Cavalieri della Guardia che scelsero di restare a Modena diedero prova di lealtà e devozione al Duca e quando il governo Sardo costrinse la Guardia Nazionale di Modena al giuramento di fedeltà al Re Vittorio Emanuele II , nessun cavaliere della Guardia Nobile fu visto nelle sue file: " L'Europa accetti nella lunga e ognor durevole esistenza del nobile corpo di cui parlammo , una prova di più per seguire a credere che il Trono degli Estensi a Modena aveva ed avrebbe per base l'amore e la venerazione dei sudditi".

 

Le conseguenze della Rivoluzione nel Ducato di Modena.

Una volta che Francesco V di  Modena partì , Zini e Carbonieri si affrettarono a formare un governo provvisorio e chiamarono come governatore Luigi Carlo Farini, allora medico a Torino. Il Curletti lo seguì come capo della sua polizia politica.

Luigi Carlo Farini con la famiglia.

Il primo ordine che Farini diede al Curletti entrando nel palazzo d’Este, fu di impadronirsi di tutte le chiavi, comprese quelle della cantina. “E’ inutile”  disse il Farini  “di fare un inventario”. All’arrivo della signora Farini, dovette  rimettere tutte le chiavi nelle di lei mani. Tutta l’argenteria, collo stemma ducale, fu dato a fondere. Dove finì  il prodotto?… Io non posso essere totalmente sicuro fino a questo punto, ma ciò che si sa è che non fu versato al tesoro. Una circostanza che ci conferma una simile valutazione , è che a quell’epoca Farini ordinò al Curletti di comunicare ai giornali un articolo, che tutti all’epoca lessero, e nel quale vi era scritto che  il Duca partendo, aveva portata via tutta la sua argenteria, e tutti gli oggetti di qualche valore, e non aveva, per così dire, lasciato che le quattro mura: anche le cantine erano vuote, per quanto ne asseriva codesto articolo comunicato. Esse lo erano anche pressoché, in quel momento, ma da dieci giorni. Farini teneva corte bandita nel palazzo ducale, Borromeo, Riccardi, Visoni, Carbonieri, Mayr, Chiesi e Zini erano i soliti commensali di quei pranzi principeschi. Su questo proposito  accadde un piccolo fatto che rallegrò qualche giorno le conversazioni di Modena, e di cui si perderebbe, veramente, a non conoscere i dettagli.  La tavola del governatore era stata fornita da un tale Ferrari, che teneva (e che tiene tuttora) l’albergo di San Marco a Modena. Suo padre era  Capo dello Stato Maggiore di Francesco V. Al termine di otto giorni la lista del Ferrari ammontava a 7.000 franchi. Farini trovò accordo di pagare questa somma con un brevetto di colonnello che Ferrari accettò. Costui si trovò tutto ad un tratto posto al livello di suo padre che contava  30 anni onorato servizio. Il figlio arrivò così a comandare la piazza di Modena , mentre il padre era in esilio!!: Questa metamorfosi di un cuoco in colonnello non è più sorprendente di quella di un cocchiere in tenente colonnello di stato maggiore, trasformazione di cui noi abbiamo un esempio in Mezzacapo, fratello del generale di questo nome. Egli si è addormentato una sera colla frusta in mano e si è risvegliato la mattina colle spallette di aiutante di campo di suo fratello. Tutta Torino lo conosceva , non già, ben si intende, come tenente colonnello.

  Qualche giorno dopo l’installazione della signora Farini tutta la guardaroba della Duchessa fu data alle sartorie, dopo che essa e sua figlia l’ebbero divisa.  Ciascuna di loro fece ridurre la sua parte alla propria misura. La corpulenza di Farini non gli permise di approfittare della guardaroba del Duca, ma questa non sortì, per così dire, di famiglia. Riccardi, allora segretario, e poi genero di Farini, se ne impadronì. 

Il saccheggio della casa ducale cagionò nel Curletti  qualche sorpresa. Contrastava infatti passabilmente col disinteresse spartano di cui Farini voleva allora dare spettacolo.

Firma del Trattato di Zurigo.
Come il lettore ben saprà , l’11 luglio 1859 , dopo le sanguinose battaglie di Solferino e San Martino , venne firmato da Napoleone III e dall’Imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria l’Armistizio di Villafranca. Esso pose fine alla Seconda Guerra d’espansionismo sabaudo e alle mire che il Cavour aveva su Venezia. L’armistizio di Villafranca, a cui anche l’ignorante e meschino Vittorio Emanuele II di Sardegna pose la firma il 12 luglio, fu ratificato dal Trattato di Zurigo del novembre 1859. Come il lettore ben informato sa , tale trattato non venne rispettato dal governo di Torino il quale ignorò le disposizioni chiaramente esposte all’Art. 18 e 19:


"Art. 18. Sua Maestà l’Imperatore dei Francesi e Sua Maestà l’Imperatore d’Austria si obbligano a favorire con tutti i loro sforzi la creazione di una Confederazione tra gli Stati Italiani, che sarà posta sotto la presidenza onoraria del S. Padre, e lo scopo della quale sarà di mantenere l’indipendenza e l’inviolabilità degli Stati confederati, di assicurare lo svolgimento de’ loro interessi morali e materiali e di garantire la sicurezza interna ed esterna dell’Italia con l’esistenza di un’armata federale.
"La Venezia, che rimane posta sotto la corona di Sua Maestà Imperiale e Reale Apostolica, formerà uno degli Stati di questa Confederazione, e parteciperà agli obblighi come ai diritti risultanti dal patto federale, le cui clausole saranno determinate da un’assemblea composta dei rappresentanti di tutti gli Stati Italiani.
"Art. 19. Le circoscrizioni territoriali degli Stati indipendenti dell’Italia, che non presero parte nell’ultima guerra, non potendo esser cambiate che col concorso delle Potenze che hanno presieduto alla loro formazione e riconosciuta la loro esistenza, i diritti del Gran Duca di Toscana, del Duca di Modena e del Duca di Parma sono espressamente riservati tra le alte parti contraenti.

Il Duca Francesco V , secondo il suddetto trattato , avrebbe dovuto rientrare in possesso dei suoi legittimi Stati ed entrare a far parte della Confederazione Italiana che si era deciso di istituire. Come purtroppo ben si sa , ai sovrani di Modena , Parma , Toscana e Legazioni Pontificie delle Romagne venne impedito di riprendere ciò che legittimamente gli spettava per diritto e per trattato internazionale. Le proteste alle potenze d’Europa non sortirono l’effetto sperato dai sovrani spodestati con l’inganno della Rivoluzione.

 

I plebisciti nel Ducato di Modena.

Con completa inosservanza degli accordi presi alla firma del Trattato di Zurigo, il governo di Torino indisse i plebisciti d’annessione per l’11-12 marzo 1860.


Luigi Carlo Farini.
Nel frattempo Farini si mostrava molto concitato contro i duchisti estensi e principalmente contro i preti e le monache. “Non bisogna avere pietà con quelle canaglie” ripeteva egli sovente, leggendo i rapporti del Curletti. Dietro simili disposizioni del governo l’agente segreto del Cavour aveva  carta bianca per gli arresti e le incarcerazioni. Curletti immagino, con Riccardi, di profittare della loro posizione. Agenti della più infima specie reclutati da loro si introducevano presso le persone conosciute per il  loro attaccamento alla dinastia ducale, presso i preti, nei conventi, ed all’atto di operare gli arresti, facevano comprendere che con qualche opportuno lascito di denaro si sarebbe potuto riconquistare la libertà, od anche evitare l’imprigionamento. Simili argomenti mancarono ben raro di riuscita; vi si sottometteva; ed era ciò che avevano di meglio da fare. Il prodotto di queste estorsioni era rimesso a Riccardi, genero di Farini. Le somme erano più o meno considerevoli, lo si comprende, secondo la fortuna delle persone arrestate. Guastalla e Sanguinetti banchieri, non dovettero versare nelle mani del Curletti meno di 4.000 franchi a testa.

Filippo Curletti.
Nel frattempo si preparava tutto nell’Italia centrale per le elezioni dei parlamenti provinciali, quando giunse a Torino la nota dal gabinetto francese, che domandava il richiamo, prima del voto, dei commissari piemontesi. Il Piemonte non poteva sottrarsi a questa esigenza: vi si sottomise, anche se di mala voglia, per le Romagne, la Toscana ed il Ducato di Parma.  Là il terreno pareva abbastanza preparato data la presenza di agenti in incognito che garantivano il risultato delle elezioni.  Ma non era così per il  Ducato di Modena, di cui soprattutto le campagne, davano molta inquietudine.  I partigiani della dinastia Estense vi erano numerosi ed influenti: in una parola, il Piemonte temeva, lasciando questo paese a sé medesimo, di vederselo sfuggire dalle mani con una Controrivoluzione.  Si decise quindi che Farini restasse, ma per permettere ciò era necessario trovare un pretesto che ingannasse il governo francese o piuttosto l’opinione, perché è difficile credere che il gabinetto francese abbia preso un solo istante sul serio la commedia di Modena. Curletti ebbe un lungo colloquio col governatore per  programmare la commedia che  fu esattamente eseguita. Il giorno finale per la partenza di Farini, il Curletti appartò una parte dei suoi uomini sul piazzale del palazzo; aveva fatto venire per ingrandirne il numero tutti i carabinieri e gli agenti di polizia che si trovavano a Reggio, a Carpi, Mirandola e Pavullo.  Al momento che il governatore apparve, per montare in carrozza, si misero essi a gridare, in conformità della consegna che avevano ricevuto: “viva Farini… egli non partirà, egli è il nostro padre!!!”. Costoro seguirono la carrozza continuando le loro acclamazioni, Curletti si era collocato, col resto dei suoi  agenti fuori dalla porta a Parma. Al momento in cui il governatore arrivò, dietro un suo segnale, gli agenti del Curletti si misero a gridare: “viva il dittatore!!”.

Si gettarono sulla carrozza, ne distaccarono i cavalli e la ricondussero in città alle grida di “viva il dittatore!”. Arrivando al palazzo, dove attendevano i membri principali del governo commissariale, si stese, senza perdita di tempo, in presenza di Farini, un processo verbale che lo nominava cittadino di Modena e dittatore. Le prime firme che si leggono ai piedi del processo verbale sono quelle del Conte Borromeo (segretario generale di Farini), di Carbonieri (ministro dell’interno), di Chiesi (ministro dei culti), di Riccardi (capo di gabinetto e genero di Farini), di Zironi (segretario addetto), di Zini (intendente a Modena), di Mayr (intendente a Ferrara). La sera da Farini si parlò molto della scena truffa della porta a Parma: al momento in cui furono staccati i cavalli Curletti era a due passi dal nuovo dittatore, e lo vide conservare a gran fatica la sua serietà.  Le elezioni che si fecero qualche giorno dopo assomigliarono moltissimo alla scena che ho raccontato pocanzi. Il Curletti e i suoi si eravamo fatti rimettere i registri parrocchiali per stendere le liste degli elettori. E quindi prepararono tutti i biglietti. Per le elezioni dei parlamentari locali, come più tardi per il voto di annessione, un piccolo numero di elettori si presentò a prendervi parte, ma al momento della chiusura delle urne, gli sgherri sovversivi vi gettarono dentro i biglietti, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti; non tutti peraltro, ciò si intende; ne lasciarono da parte qualche centinajo o qualche migliaio, secondo la popolazione del collegio. Bisognava ben salvare le apparenze, almeno in faccia all’estero, perché per l’interno sapevano a quale espediente attenersi. Tutto ciò che sto narrando è della più scrupolosa esattezza.  Anche prima dell’apertura del voto carabinieri ed agenti di polizia travestiti ingombravano le sale dello scrutinio e l’ingresso alle medesime. Era sempre fra di loro che il Curletti e i suoi sceglievano il presidente dell’ufficio e gli scrutatori. Loro non erano quindi “molestati” da questo lato. In certi collegi questa introduzione di massa nell’urna dei biglietti degli agenti (che chiamavano “completare il voto”) si fece con tale sicurezza e con sì poca attenzione, che lo spoglio dello scrutinio diede più votanti che elettori inscritti. Vi si rimediò facilmente con una rettificazione nel processo verbale. Poi biglietti negativi o ostili al Piemonte, necessari al fine di dare al voto un’apparenza di sincerità, ne lasciarono il pensiero agli stessi elettori.  Per ciò che concerne Modena il Curletti ne parla scientemente, perché tutto vi si fece sotto i suoi occhi e la sua direzione. Del resto , come il lettore ben saprà, un metodo perfettamente uguale fu seguito a Parma ed a Firenze.  Il dittatore dal suo canto all’epoca delle elezioni aveva preso tutte le misure per essere sicuro del parlamento: egli obbligò i candidati a sottoscrivere prima due decreti che egli aveva preparato. Il primo pronunciava senza alcuna legittimità la decadenza della Casa d’Este, il secondo prorogava indefinitivamente i poteri del dittatore.

Immagine di propaganda risorgimentalista
sui plebisciti.

Due persone sole  si rifiutarono di sottoscrivere, Amadio Levi banchiere e Paglia professore,  ed esse, come è facile immaginare, non furono nominate.

Come già menzionato per i fatti di Firenze e di Parma riguardo ai plebisciti, il lettore mi perdonerà se ripeto un fatto rilevante  e cioè che  i verbali dei risultati e le schede sparirono subito e già nel 1903 non si trovavano più né presso le preture né presso i municipi  . Vediamoli comunque questi risultati truccati che interessarono Modena:

Parma, Modena e Romagne (11-12 marzo 1860): SÌ 426.006. NO 756. Annessionisti: 99,82 % Contrari: 0,17 %.

La commedia organizzata dal Farini sotto la direzione del Curletti e in linea con il governo di Torino diede i suoi frutti avvelenati.  Il Ducato di Modena venne così fuso al Regno di Sardegna , e Modena divenne una volgare provincia lasciata ad appassire. Vi furono insurrezioni legittimiste nelle campagne e in alcune città in favore della dinastia ducale al grido di “Viva Francesco V!  Morte ai liberali!”; tali isurrezioni furono prontamente soffocate nel sangue dall’esercito “italiano” o prevenute col terrore delle minacce. L’economia del Ducato sprofondò e là dove abbondavano gli impieghi vi si trovava ora disoccupazione e mal contento misto alla nostalgia dei bei tempi passati. Molti giovani attraversavano il Po per arruolarsi nella Brigata Estense che si trovava in esilio con il Duca, piuttosto che militare nell’esercito degli invasori.
In codesta trista maniera si conclude la narrazione dei fatti che interessarono il Ducato di Modena in quei nefasti avvenimenti che ne decretarono l’occupazione e la fine della sua indipendenza.

Presidente e fondatore A.L.T.A. Amedeo Bellizzi.  

Fonte:


Filippo Curletti- LA VERITÀ SUGLI UOMINI E SULLECOSE DEL REGNO D’ITALIA RIVELAZIONI DI J. A. ANTICO AGENTE SECRETO DEL CONTE CAVOUR (a cura di Elena Bianchini Braglia).

Controstoria dell’Unità d’Italia – Fatti e misfatti del Risorgimento (Di Gigi Di Fiore).

In esilio con il Duca
(La storia esemplare della Brigata Estense)Elena Bianchini Braglia.