Carta Topografica del Ducato di Modena. |
Nonostante il preteso (e inesistente) “grande gaudio delle popolazioni che vedevano al fine sorgere un’era di benessere e libertà” lo spirito pubblico di buona parte degli abitanti dell’Oltrappennino doveva preoccupare non poco la rivoluzionaria dirigenza. “(…) giunsi stanco in Massa” narra Francesco Selmi il 24 maggio 1859. “Ho trovato il paese morto e zeppo di duchisti, in ispecie nella campagna (…) So che ivano ripetendo fra di loro: Vedremo come andrà a finire! – E speravano nel ritorno di Casoni. La sveltezza del delegato della Questura e la fermezza di Giusti (...) sventarono due moti reazionari, manipolati da famiglie Duchiste, d'intelligenza coi contadini. Ora (...) con la ritirata di casoni, colle altre notizie, etc non ardiscono più; nondimeno, la scorsa domenica e non più tardi, alcuni ubriachi del contado, gridarono W. Fr. V, e strapparono alcuni proclami del Commissario, all'estremo limite della città (...)"
E ancora il Selmi ebbe ad esprimersi con lo sciacallo Giuseppe La Farina in questi termini: " La città di Massa conta buon numero di Duchisti, moltissimi il contado circostante (...) In alcune ville, specialmente all'intorno di Massa, in Fosdinovo, in Tentola ed in altri paesucoli, può dirsi che si sopporta per timore la dominazione piemontese, e che ivi le disposizioni sarebbero a pigliare anche le armi contro di noi per poco che udissero un rovescio da parte nostra, o credessero ad un aiuto del Duca"
A chi poi volesse rivolgere l'attenzione ai mesi successivi, e ad altre aree geografiche del Ducato, ugualmente si appalesano profonde realtà conflittuali, che contrappongono, spesso in scontri violenti, gli sgherri della rivoluzione e i partigiani sostenitori dell'ordine legittimo . Con riferimento all'agosto 1859 Ferdinando Manzotti ricorda ad esempio disordini nelle campagne del Correggese e una vasta sollevazione popolare nella zona compresa fra S. Pellegrino, Piandelagotti, Fontanaluccia e Civago " con atterramenti di bandiere tricolori e disarmo dei civici".
E' giusto però rammentare un altro episodio, certamente di minore importanza degli ultimi citati, ma ugualmente estremamente significativo. Con lettera 5/8/1859 il Podestà di San Polo d'Enza riferiva all'Intendente Generale di Reggio sull'increscioso comportamento tenuto dagli ultimi giorni di luglio in avanti dagli abitanti della Villa di Paderna, compresa appunto nel circondario del Comune di San Polo. Quella " popolazione dominata e agitata da parecchi facinorosi si era posta in atteggiamento ostile quasi rivoluzionario in faccia all'attuale ordine di cose"
E continua " taluno di quei villici armato si appostava sulla strada, e ai carrettieri o viandanti faceva gridare " Viva Francesco V - Morte a Vittorio Emanuele ! - Viva l'Esercito Tedesco." Inoltre, la bandiera tricolore, inalberata in Paderna non senza opposizione,era ben presto fatta levare e scomparire. Per risolvere questo stato di cose, il Podestà di S. Polo si rivolgeva all'Intendente per avere soccorso di truppa regolare, ritenendo " impossibile di rimetter l'ordine colla Guardia Nazionale".
Del resto lo stesso Farini, sin dal 6/7/1859, scrivendo al Cavour, aveva mostrato una certa preoccupazione per la situazione " di alcune Provincie" ove denunciava essere numerosi " i Duchisti e Sanfedisti" che possono "essere pericolosi". Minori pensieri doveva dare al medico romagnolo la Capitale, se nella lettera ora menzionata dice" non essere ivi a temere i partigiani del deposto Sovrano, per quanto numerosi essi potessero essere." Attraverso frequenti arresti ed epurazioni, Modena fu infatti mantenuta, a quanto consta, in complesso tranquilla, anche se essa pure fu teatro dell'attività di emissari estensi, che godevano di una forte complicità e collaborazione da parte di non pochi modenesi.
Non si riuscirebbe diversamente a spiegare, ad esempio, come tal Zaccaria, e la vicenda è piuttosto curiosa, " provigionario delle truppe Estensi" potesse recarsi " sovente a Modena, comprarvi del vino per le sudd.te truppe" passare "il Po colle sue provviste defraudando il dazio" e andare "a riferire quanto accade in Modena al Generale Saccozzi, Comandante delle truppe dell'ex Duca". Non è naturalmente casuale che molti degli episodi che abbiamo ricordato si collochino cronologicamente poco tempo dopo i preliminari di pace di Villafranca (11/7/1859): nel periodo si era fatta particolarmente intensa, infatti, la speranza in un sollecito ritorno di Francesco V, cui gli accordi stessi volevano restituito il Ducato.
Inoltre, giacchè "supponevasi che i preliminari di pace stabiliti in Villafranca, avrebbero dietro breve volger di tempo ottenuto sanzione e conferma mercè un formale trattato" verso la fine del luglio 1859 l'Esercito Estense era stato avvicinato alle frontiere del Ducato, venendo dislocato al margine settentrionale delle Valli grandi Veronesi. Anche la concreta possibilità di un prossimo intervento della piccola, ma solida ed efficente forza armata ducale era venuta quindi ad incoraggiare il fermento controrivoluzionario esistente, e in particolare in quelle terre più immediatamente a portata di un'incursione delle milizie estensi.
Quivi, quando un provvedimento dittatorio del 3/8/1859 ordinò l'iscrizione di tutti i cittadini dai 18 ai 30 anni nei ruoli della Guardia Nazionale mobilizzata, al fervore dei sostenitori del Duca si affiancò il malumore degli indifferenti, riottosi di fronte ad una leva in massa, a creare una miscela esplosiva, che puntualmente deflagrò.
In S.Antonio Sozzigalli, Cortile, S. Martino Secchia e Rovereto la pubblicazione del testo normativo sopra ricordato era avvenuta la domenica 7/8/1859 tramite i parroci di quei paesi, che vi avevano provveduto nel corso delle funzioni pomeridiane.
Il timore di una leva obbligatoria di massa fu particolarmente avvertito dai popolani di Cortile, che presero a manifestare rumorosamente malumore ancora prima che il loro sacerdote finisse di leggere. Terminate le sacre funzioni, una quarantina di persone, ben decise ad ottenere spiegazioni sul nuovo provvedimento, si recarono presso l'abitazione di Luigi Rossi, agente comunale di Cortile non chè di S.Martino e S.Antonio Sozzigalli. Il Rossi però disse di non conoscere affatto la nuova legge.
E' pressochè certo che il Rossi nella serata del 7 invitò i presenti ad avvisare della convocazione chi potesse avervi interesse.
Fangareschi Antonio, uomo " piuttosto favoreggiatore del cessato Governo, e Duchista" che avverti' un due terzi della Villa di S. Martino a trasferirsi nel pomeriggio dell' 8 Agosto alla casa dell'Agente Comunale Rossi", precisò che a non presentarsi v'era una penale, che occorreva radunarsi alla chiesa per suonare la campana a stormo, e che "bisognava fossero d'accordo (...)nel rifiutarsi di fare i soldati".
Ancora, molti dei contadini di Cortile che furono avvisati da tal Evangelista Malagoli della medesima villa riferiscono che egli faceva opera di persuasione perchè ci si opponesse vigorosamente alla nuova legge, ecc. Osserva del resto lo stesso giudice che istrui' il processo contro i protagonisti dell'insorgenza che sul punto concernente la convocazione dei paesani " evvi un oscurità ed un bujo che non si è riuscito punto a svelare, ne tampoco a delucidare".
Sta comunque di fatto che nelle prime ore del pomeriggio di lunedì 8 agosto 1859 sul sagrato della chiesa di Cortile si radunava una turba di contadini delle tre ville sottoposte alla giurisdizione dell' Agente Comunale Rossi: e non amni vuote, chè molti degli intervenuti erano armati, quando non di fucili, di bastoni e di attrezzi rurali come vanghe e picconi.
" Andai a Cortile circa dopo le 2 pomeridiane e trovai il prete in smania che gridava" narra uno degli arrestati, certo Levizzani Giuseppe " perchè avevano suonata la campana e perchè volevano tagliar la bandiera dal campanile". Infatti, oltre a levare le grida di " Viva Francesco V, abbasso la Guardia Nazionale, non vogliamo fare i soldati" la folla aveva subito circondato il campanile, dato qualche tocco di campana e manifestato l'intenzione di suonare a stormo e di levare la bandiera tricolore che sventolava in cima alla torre campanaria. Anzi, a questo scopo Pratissoli Massimiliano, conosciuto come " Cinet" e uomo " piuttosto favoreggiatore del cessato governo" e Barbieri Ludovico, detto "Raschin", avevano intrapreso la scalata del campanile.
Tuttavia, pur essendo uno dei più tenaci partigiani del legittimo governo, il parroco, don Ottavio Coccapani, per timore di rappresaglie si oppose con preghiere e lagnanze alle intenzioni dei tumultuanti, cosicchè questi alla fine rinunciarono ai loro progetti, compreso il Barbieri, il quale già stava accingendosi a recidere la funicella che teneva assicurata la bandiera al campanile.
Alle grida specificatamente ostili alla Guardia Nazionale e al nuovo provvedimento ad essa inerente " abbasso la Guardia Nzionale (...) non vogliamo fare i soldati, è una legge ingiusta, una leva troppo grossa, bisogna cercare almeno di salvare gli unici, e gli ammogliati" venivano quelle specificatamente contrarie al governo rivoluzionario " abbasso il governo attuale, viva la bandiera austriaca, non vogliamo stare sotto la disciplina di Vittorio Emanuele" e non mancò la comparsa della coccarda Estense e Austriaca.
Boccolari Giacinto detto "Gambarel" favoreggiatore del legittimo Governo prese a reclamare le armi della Guardia Nazionale in deposito presso l'Agente Comunale, cento voci fecero subito eco alla richiesta: cosicchè, dopo quasi nulla resistenza, il Rossi rilasciò quindici fucili muniti di relativa baionetta ed alcune munizioni. Le armi furono prese in consegna da Luppi Elia, soprannominato "Liloun di Lov", ex sergente dei Militi di Riserva ducali, che le distribui' a coloro che ne erano sprovvisti.
Nei pressi della casa non era mancato nel frattempo qualche episodio di intimidazione ai danni dei filo-unitaristi. Certo G.B. Reggiani di Fossoli, che ostentava un nastro coi colori Asburgici ed una placca con le cifre "F.V.", spianò il fucile contro un tale che se ne stava affacciato ad una finestra di casa Rossi con una coccarda tricolore, " minacciandolo d'una fucilata e dicendo che non poteva vedere quella coccarda" Ancora, tal Pulica Giovanni riferisce " avendo io detto che facevano male a far chiasso, mi si rispose sei un civico anche tu? Ti daremo la paga !".
Del resto il tumulto veniva sempre più assumendo il carattere di vera e propria insorgenza. Si cercò di ottenere altre armi, ed a tale scopo, rinnovate le invettive contro la Guardia Nazionale e le acclamazioni a Francesco V, al grido di "Viva la nostra unione" la turba si recò "in marcia quasi militare" verso S. Martino Secchia per impadronirsi dei fucili che colà si trovavano. V' erano infatti a S. Martino altri venti fucili completi di baionetta, in parte depositati presso la casa di Giuseppe Costa Giani ed in parte invece affidati a certi Ferdinando Bertesi e Zeffirino Cabrini, che li avevano dati in custodia a un Lugli Giuliano.
Spianate contro la casa del Costa le armi già in loro possesso i tumultuanti, da cui si gridava "merda la Civica vogliamo vincere l'Italia comandiamo noi" ed inoltre "che sarebbero iti a reclutar uomini; che sarebbonsi riparati nei prati di Cortileper ivi difendersi, ed opporsi ai soldati, che volevano fare le vendette di Francesco V".ecc., si fecero consegnare otto pacchi di munizioni e quindici fucili, i quali vennero distribuiti a chi mancava di qualsiasi arma. Da Lugli Giuliano si trovarono poi altri cinque fucili, che portavano il numero degli insorgenti muniti di arma da fuoco a sessantacinque circa.
Minor successo ebbe invece il tentativo di asportare i cinque fucili della Guardia Nazionale di S.Antonio Sozzigalli, condotto durante la notte tra l'8 e il 9 da Ippolito Guaitoli alla testa di una dozzina di individui. Al Guaitoli che reclamava la consegna delle armi, Vincenzo Sabatini, depositario locale Delegato alla Guardia Nazionale, oppose un netto rifiuto che non si riusci' a vincere.
Con molta probabilità il piccolo gruppo del Guaitoli era una delle pattuglie che nella medesima sera gli insorgenti avevano inviato in perlustrazione per le campagne. Infatti, sin da quando erano stati presi i fucili da casa Rossi, Luppi Elia aveva manifestato l'opportunità di attivare pattuglie notturne " per far resistenza ai soldati che potessero venire da Carpi"ed in effetti il suggerimento venne accolto.
Scioltasi la folla al termine del lungo pomeriggio di tumulti, la maggioranza degli armati si organizzò cosi' in drappelli. Uno di questi venne guidato dallo stesso Luppi Elia; un altro, pare, da Barbieri Ludovico; di un terzo, sotto Giacinto Boccolari, sappiamo che si formò dopo l'Ave Maria e perlustrò sino alle due antimeridiane.
Ma queste precauzioni non valsero a salvare l'insorgenza di Cortile, S.Martino e S.Antonio: chè verso le quattro e trenta del 9, un battaglione del 2° Reggimento Cacciatori del Magra sotto diretto comando del Col. Ceccarini, ed un piccolo reparto di Guardi Nazionali di carpi e S. Marino, poco più di cinquanta uomini, agli ordini di Giuseppe Rocca occupavano inaspettatamente Cortile provenendo da Carpi. Da nord altre due compagnie di cacciatori, stanziate a Novi e a Mirandola, appoggiavano la operazione.
Perquisite abitazioni alla ricerca di fucili, ed arrestate diverse persone tra minacce e violenze , nel pomeriggio del 9 il Ceccarini rispedi' a Carpi il Rocca con l'incarico di scortare colà le armi rinvenute, don Ottavio Coccapani, il viceparroco don Lugli, Luigi Rossi e alcuni altri prigionieri.
Anche a Rovereto nella giornata dell' 8 v'era stata non poca agitazione. Infatti, non diversamente da quanto accaduto in Cortile, il pomeriggio di quel giorno aveva visto circa un centinaio di persone, in parte armate e capitanate dall'ex sergente dei Militi di Riserva Gaetano Mari, tumultuare davanti alla abitazione del locale Agente Comunale, Gaetano Papotti.
Per quanto la serata non trascorresse tranquilla, si sparse la voce che " il Duca Francesco V poteva tardar poco ad arrivare essendo subito di là da Pò con (...) ottanta o novanta mila uomini". La mattina successiva verso le ore sei rapidamente si formò sul sagrato della Chiesa un assembramento, nel quale si distinguevano non meno di una decina di persone armate di fucili e parecchie altre di attrezzi da contadini.
Le grida in cui questa folla andava prorompendo mostrano come anche il tumulto di Rovereto avesse ormai assunto carattere di insorgenza: si urlava di voler "transitare il Pò, ed opporre resistenza a chi sosteneva le Leggi del presente Governo, e di voler andare ad unirsi alla Truppa del Duca, anche per ricondurlo": a tal fine si reclamava che venisse suonata la campana a stormo, ondeanche altri si congiungessero ai roveretani.
Alla realizzazione di quest'ultimo disegno ostò però tanto il fatto che la porta del campanile era sprangata e tale, come si sperimentò, da non poter essere scardinata neppure con la forza, quanto l'ostinazione dell'Arciprete nel non volerne consegnare la chiave. Ciò attirò al Losi l'accusa di essere un Civico, e di andare d'accordo coi Civici; la qual ultima cosa almeno, sia detto tra parentesi, non doveva essere del tutto errata, essendo sufficiente a tal fine che l'Arciprete fosse uno di quei sacerdoti che applicavano le direttive ricevute dal Vescovo di Carpi.
Dalla situazione si usci' peraltro al sopraggiungere da Cortile di alcuni armati, che, recando la notizia dell'arrivo della truppa e di arresti ed incitando alla fuga, determinarono il rapido discioglimento dell'assembramento. Ed in effetti nel tardo pomeriggio entrava in Rovereto una compagnia (la 2/a) della Brigata Modena, che, preso contatto col comandante della locale Guardi Nazionale e con la collaborazione di quest'ultima, organizzò pattuglie e picchetti, procedendo altresi' a numerosi arresti e violenze.
Nella mattinata, tuttavia, non pochi paesani, anzichè sbandarsi alle notizie recate da Cortile, avevano raggiunto, in parte armati, la vicina località di Caleffo per impadronirsi delle armi della Guardia Nazionale colà custodite da certo Angelo Gavioli: ma per quanto fossero stati puntati i fucili contro quast'ultimo, gli insorgenti non conseguirono il loro intento, e solo poterono asportare poche cartucce. Questo successo segnò la fine dell'insorgenza in Rovereto, perchè quasi tutti i tumultuanti si disanimarono o vennero dalla truppa dispersi.
Durante la marcia su caleffo, però, Tommaso Grappi avverso all'attuale illegittimo governo aveva prospettato l'idea di raggiungere effettivamente il Duca oltre confine. Quasi certamente tale idea non nasceva in quel momento: il Grappi aveva fama di arruolatore ( ed in effetti era rientrato da poco dal Mantovano), e pare che sin dall'ultima domenica di luglio avesse tenuto discorsi in Rovereto sull'opportunità di "unirsi in compagnia per andare al di là del Pò giacchè era meglio fal là i soldati piuttosto che qui", discorsi fruttuosi poi rinnovati anche nei giorni successivi.
Sta di fatto comunque che il già ricordato Gaetano Mari ed alcuni altri si unirono al Grappi, mettendosi effettivamente in marcia verso il Pò. La piccola colonna, cui non mancava qualche fucile, ingrossò strada facendo fino a raggiungere la consistenza di una quarantina di uomini, perchè il Mari e il Grappi incitavano ad unirsi a loro quelli in cui si imbattevano, prospettando apertamente la possibilità di servire Francesco V. Per quanto i componenti del drappello osservassero la precauzione di marciare dispersi, essi furono ugualmente intercettati nei pressi di Pegognaga dalla Guardia Nazionale, ed in parte arrestati.
Gli uomini del Grappi e del Mari non furono però gli unici a cercare di passare il Pò nella giornata del 9: abbiamo notiazia, ad esempio, di quattro roveretani arrestati presso Gonzaga; ed addirittura la Guardia Nazionale di Moglia segnalava un centinaio di contadini armati in marcia verso il fiume per le 10 a.m. del 9/8/59. E, del resto, non è da escludere che alcuni insorgenti siano riusciti effettivamente a raggiungere il confine ed il Regno Lombardo-Veneto.
A seguito degli avvenimenti narrati, le ville teatro delle insorgenze furono poste in stato di assedio, e vi rimasero per circa un mese, durante il quale i militari colà spinti di presidio e la Guardia Nazionale compirono perlustrazioni , continui arresti , perquisizioni e violenze. Al 22 agosto gli arresti stessi erano pressochè completati, e gli incarcerati assommavano al rilevante numero di oltre 120, di cui una quarantina rinchiusi in Mirandola e più di ottanta ( compresi don Coccapani e don Lugli) in Carpi.
La punizione dei rivoltosi veniva dal dittatore Farini in un primo momento affidata alla ai militari, ed in effetti fu l'Auditore Militare Bagnagatti De Giorgi a condurre i primi, e tutt'altro che civili, interrogatori , mentre il gen. Ribotti, comandate della brigata Modena, ricevette l'ordine di istituire un Consiglio di Guerra in Mirandola.
Il 24/8/1859 il Bagnagatti trasmetteva però al Ministero della Guerra una relazione da rassegnare al Farini, nella quale anzitutto si esprimevano dubbi sulla sussistenza della giurisdizione militare in ordine ai reati da giudicarsi, ed in secondo luogo si suggeriva che " a scanso dei gravi danni che possono colpire tante, e tante famiglie, la procedura indiziaria dovesse essere incoata soltanto contro i motori, e capi di quasta rivolta". Questa "apprensione" si deve alla paura di nuove insurrezioni se si procedeva a rappresaglia.
La furbesca tattica del "graziare" per evitare altre (grandi) insorgenze venne recepita integralmente dal dittatore. Con due distinti decreti datati 24/8/1859, infatti, il Farini tatticamente graziava ben centodieci persone, dichiarandole vittime della"cattiveria di qualche malevolo" ed addossando la colpa dell'accaduto non già "ad uno spirito generale di ribellione", che c'era ed era concreto , ma all'inerzia e mancanza di energia delle autorità.
Al contempo veniva affidato ai tribunali ordinari il compito di perseguire capi e promotori del moto. Conseguentemente, terminata l'istruttoria formale, era la Sezione d'Accusa per i Delitti Politici presso il Tribunale di 1/a Istanza in Modena ad essere investita, il 30/3/1860, dalle richieste del Procuratore Regio Malagoli. Questi domandava venisse dichiarato " con formale sentenza farsi luogo a collocare in accusa" per resistenza pluriaggravata alla autorità Luppi Elia, Pratissoli Massimiliano, Mari Ribaldi Antonio, Schiavi Antonio, Barbieri Ludovico, Fangareschi Antonio, Lugli Giacinto e Luppi Cesare. Il 27/6/60 le richieste del P.M. venivano integralmente accolte dalla Sezione d'Accusa, e successivamente ai primi del novembre 1860 il Tribunale di 1/a Istanza condannava a tre anni di carcere per resistenza all'autorità e ribellione i primi sette degli imputati sopra elencati; per le stesse imputazioni Barbieri Ludovico veniva condannato al carcere sofferto, mentre il Fangareschi, il Lugli e Luppi Cesare venivano posti in libertà (vigilata). Qualche tempo dopo, peraltro, un provvedimento sovrano condonava ai reclusi la pena ancora da scontare.
Per il governo usurpatore il moto politico avrebbe potuto nuocere gravemente ai suoi interessi non solo nell'Emilia ma anche in tutta la penisola italiana. L'insorgenza, però, non ebbe , a quanto riportato dagli unitaristi , alcuna ripercussione politica, al di fuori della testimonianza offerta dalle popolazioni delle ville insorte. Non fu solo però l'immediata e pesante repressione militare a far si' che ciò avvenisse: infatti il governo dittatorio impose una sorta di "silenzio stampa" sugli avvenimenti, e fu l'azione del Ribotti e del Farini, l'interporsi affinchè non si divulgasse nulla degli avvenimenti ; in tal modo si cercava di impedire il verificarsi di nuove interne difficoltà, impedendo alla diplomazia avversa di farsi forte del dilagante malcontento. Nondimeno qualcosa dovette trapelare, perchè almeno due giornali (liberali), il "Nord" e il "Monitore Toscano", pubblicarono la notizia di disordini avvenuti in Modena ad opera di contadini.
Ma la furbesca cautela riusci' in complesso cosi' bene, che, ad esempio, il legittimista M.A. Paretnti, che pure ricorda nel suo "Diario" persino un tentativo infruttuoso di reazione politica a Fossalta nel ferrarese, non spende una parola per l'insorgenza del basso Secchia.
Quella corposa parte della popolazione della Bassa di sentimenti legittimisti non dovette però certamente essere stata scoraggiata dal sostanziale fallimento dei moti, se dopo di essi il Comando della Guardia Nazionale di Carpi continuava a ricevere denunce del tenore di quella presentata il 3/10/1859 da certo Lugli Messori di Quartirolo a carico di tal Mauro Spelli. Di quest'ultimo veniva infatti asserito che andava " dicendo che i partigiani dell'attuale Governo sono tutti porci e lazzaroni e che se poteva tornare Francesco V voleva andare ad illuminare la casa del detto Messori". Del resto, don Onorio Gozzi, parroco di Rivara (frazione di San Felice) ben sedici anni dopo la partenza del Principe dal Ducato e cinque dopo la presa di Roma, si esprimeva, commentando la morte di Francesco V, nei termini seguenti " 22 nov 1875. Un luttuoso avvenimento abbiamo a deplorare per questo nostro Ducato. E' morto in Vienna ove si trovava Esule da sedici anni. S.A.Reale Francesco Quinto Duca di Modena il giorno 20 corrente alle ore cinque pomeridiane (...). Lo scrivente lamenta una santa perdita (..).
Fonti:
http://www.battaglioneestense.it/
Di Redazione A.L.T.A
Fonti:
http://www.battaglioneestense.it/
Di Redazione A.L.T.A