lunedì 31 marzo 2014

Pensieri geo-politici sull'"onda" indipendentista.


Qualche giorno fa ho espresso , attraverso un comunicato pubblicato in questo blog, la mia posizione riguardo alla situazione Veneta e riguardo al plebiscito per l'indipendenza ivi tenutosi poche settimane orsono (per chi non l'avesse letto ne consiglio la visione: http://associazione-legittimista-italica.blogspot.it/2014/03/riflessioni-oggettive-sulla-questione.html ). Ho sottolineato in quel comunicato che , sperando in una marcia in avanti dei Veneti verso l'indipendenza de facto, anche le altre zone della Penisola avrebbero dovuto prendere esempio dall'iniziativa del plebiscito per l'indipendenza. Ovviamente i più accesi indipendentisti hanno risposto positivamente alla proposta di  un plebiscito per l'indipendenza,  e sulla scia del Veneto anche la Lombardia e il Friuli sembrano dirigersi verso una presa di posizione decisiva. Anche la Sardegna e la Sicilia stanno prendendo tale direzione , senza dimenticare il Trentino/Tirolo e la Valle d'Aosta seguita dal Piemonte e dalla Liguria.
Ora , pensando ai possibili scenari futuri che una presa di coscienza collettiva,  volta alla liberazione dei popoli d'Italia dalle catene della Roma settaria e centralista , non ché del barcollante Stato Italiano, possa generare o realizzato 8 cartine geo-politiche della Penisola (isole comprese) nelle quali ho esposto le possibili evoluzioni geo-politiche che si verificherebbero (e lo si spera) se il Veneto e le altre aree della Penisola decidano di proseguire nella nobile via del vero patriottismo.
Ovviamente, non sono ne un veggente ne un oracolo e quindi le mie sono e rimangono supposizioni oggettivamente logiche su come potrebbe essere. Nell'esporre le cartine non mi dilungherò ne sulla forma di governo ne sull'ordinamento interno. Semplicemente si tratterà di una serie di immagini in sequenza che racconteranno ipotetici scenari futuri.
Senza dilungarci oltre , di seguito vi espongo i miei  "Pensieri geo-politici sull'"onda" indipendentista":


1) Il Veneto diventa Stato Indipendente.

 
 
 
2) La Lombardia dichiara la sua indipendenza in alleanza con il Veneto.
 
 

3) Il Trentino e il Friuli Venezia Giulia dichiarano la loro indipendenza stringendo un accordo con Lombardia e Veneto.



4) Il Piemonte e la Valle d'Aosta dichiarano la propria indipendenza allineandosi e stringendo accordi con Lombardia , Veneto , Trentino e Friuli Venezia Giulia (si viene a formare così una vera e propria lega di alleanze sia per fini difensivi che commerciali).




5) La Liguria dichiara la sua indipendenza entrando nella "lega indipendentista".



6) La Sardegna e la Sicilia dichiarano la propria indipendenza entrando nella "lega indipendentista".


7) Dagli Abruzzi alle Calabrie si dichiara l'indipendenza di uno Stato federale che entra nella "lega indipendentista".


8) In fine , la Toscana dichiara la sua indipendenza entrando anch'essa nella "lega indipendentista".


 
 
 
 
 
Non mi dilungherò oltre sulle possibili evoluzioni (positive) che la geo-politica peninsulare potrebbe raggiungere se il desiderio di libertà concrete non sarà sopraffatto dalla paura , dall'eccessiva prudenza.
Ovviamente, non pretendo che le cose si presenteranno nell'ordine da me riportato, ma sono certo che una ipotetica  "lega indipendentista" sia essenziale per ovvi e risaputi motivi.  
 
 
Presidente e fondatore A.L.T.A.

domenica 30 marzo 2014

LA COLONNA INFAME .

Fonte:
Due Sicilie - Anno IV Numero 4 - Luglio 1999

Un altro episodio di pulizia etnica piemontese ancora tenuto nascosto dalla storia ufficiale



Nel 1860, i lerci invasori nordisti se pensavano che, con la sconfitta dell’Esercito delle Due Sicilie, la conquista del Reame era cosa fatta, fecero male i conti. La tempesta vera era ancora di là da venire, acerba, sanguinosa, crudelissima, tale che il Mack Smith poté affermare: "i morti superarono quelli di tutte le guerre del risorgimento messe assieme", parole quasi con certezza veicolate da un discorso di Francesco Saverio Nitti: "Ed è costata assai piú perdita di uomini e di danaro la repressione del brigantaggio di quel che non sia costata qualcuna delle nostre infelici guerre dopo il 1860" (Basilide del Zio: il brigante Crocco, Polla editore). E le donne, le eroiche donne del Sud, col loro sublime furore e sacrificio alla Mutter Courage, furono ancora piú acerbe delle fucilazioni che i criminali nordisti dispensavano a piene mani. Già i francesi nel 1799 avevano fatto terribile esperienza delle insorgenze nelle nostre antiche provincie. Si erano ritrovati nelle stesse avventure nel 1806, tanto che, solo per domare l’eroica Calabria, dovettero inviare uno sterminatore di professione con poderoso esercito: Manhés, l’incarnazione di Satana.
Nel 1860, lo stesso giorno in cui i fedelissimi dell’esercito delle Due Sicilie riparavano in Gaeta, ricominciava, sul filo della memoria storica, la lotta popolare per la difesa della Patria, del caro Re Francesco II, della terra dei padri e della famiglia, lotta popolare inizialmente alle spalle degli assedianti la fortezza, successivamente per tutto il Regno per un periodo di oltre dieci anni: ancora una volta, come nel 1799, "campi insanguinati, tuonanti cannoni, scintillar di spade, scalpitar di cavalli, squilli di trombe incitatrici, gemiti di moribondi, fremiti feroci, e schiere di combattenti ..." (De Sivo) che si sbranavano tra loro, i nordisti per ridurre la nostra Patria in schiavitú, i nostri per difenderla. Ma, come si sa, alla fine ci sono riusciti i maledetti: "Mazzate sulla schiena e corna in fronte // questo ci ha fatto il piccolo piemonte".
Per dieci lunghi anni i nostri partigiani vissero alla macchia, "all’armi, all’armi, o Napolitani, all’armi … RITORNIAMO GRANDI", in selve foltissime ed inesplorabili, per valloni ed aspri dirupi, tra nebbie e ghiacci, sotto la calura del solleone, pioggie diluviali e tempeste di neve, bruciando gioventú e vita sotto la falce che non perdona, ma gli scrittori prezzolati di regime li hanno infangati col nome di briganti, cosí come già nel passato i giacobini francesi avevano bollato i legittimisti vandeani e nel decennio i calabresi.
Come scrisse nelle sue memorie un capo partigiano sopravvissuto: "I briganti non avevano alcun giornale a propria disposizione; con i loro buoni fucili furono in grado per anni di tenere a distanza le molte migliaia di soldati del "re galantuomo", ma non i suoi scrittori" (S. Scarpino: Indietro Savoia, pag. 103).

Il bruto con l’anima di fango
Nelle righe successive seguiremo passo passo in Abruzzo una torma di assassini comandata da un "bruto con l‘anima di fango" che "spesso alzandosi di desco mezzo ubriaco esclamava: oggi giornata perduta, nessuno ho fucilato" (G. Buttà): il maggiore generale Ferdinando Pinelli, la bestia dell’Apocalisse, uno degli aguzzini di questo Stato Italiano, che mise "a ferro e fuoco l‘Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri" (A. Gramsci).
Il giorno dell’invasione del Regno da nord (12 ottobre 1860), il mostro, con la sua colonna mobile, la brigata Bologna, 40° reggimento di fanteria composto di tre battaglioni con aggiunta di reparti del 39° e di bersaglieri, era pervenuto, inviato dal Ferocissimo E Rapace Tiranno piemontese, in territorio di Terni per reprimere la resistenza che faceva già sentire il suo morso in Umbria e nell’Ascolano, resistenza guidata da ufficiali del Re Francesco II. La funzione della colonna mobile era la stessa che nella seconda guerra mondiale fu assegnata alle SS: la Wehrmacht (cioè l’esercito tedesco) avanzava e le SS (Schuztstaffeln, squadre di sicurezza) provvedevano subito dopo a fare tabula rasa per conquistare alla Germania il mitico Lebensraum (spazio vitale). Le carogne sabaude non solo avevano escogitato i campi di sterminio per i prigionieri di guerra (come a Fenestrelle), ma anche il metodo bestiale per impadronirsi perennemente di un territorio.

Pinelli: la morte bussa alle porte del Reame
La presenza di Pinelli in Abruzzo era stata invocata, nel sabba infernale del 1860, dal commissario savoiardo per l’Umbria con il seguente telegramma al Cavour: "Perugia, 28 ottobre 1860, part. 9.30 p.m. arrivo il 29 alle ore 0.15 a.m.. Trasmetto dispaccio dell‘Aiutante del Colonnello Masi che accenna a moti reazionari nei territori Napolitani. Fu restaurato il Governo Borbonico a Campli, Nereto, Controguerra, Torano e Corropoli; 300 Regi di Civitella appoggiano il movimento con 2 cannoni. Privi di forze, è impossibile di impedire la propagazione del moto. Urge che la colonna di Pinelli ed il battaglione di Masi che si trova a Leonessa, Posta ed Accumoli divisa in corpi per Arquata si diriga ad Ascoli. Una colonna di 50 uomini con Piccolomini tien fermo ad Ancarano, ma priva di soccorso sacrificasi. Con tal modo il plebiscito può riuscir male" (in A. Procacci, Storia militare dell’Abruzzo Borbonico). Arrivò dunque il Pinellone e dai primi di novembre 1860 e fino al maggio 1861 mise in moto una catena di montaggio di fucilazione per reprimere i moti di reazione nel Cicolano, nella Marsica e nella Valle del Velino, tre territori dell’Abruzzo Ultra II con capoluogo L’Aquila.

Primi scontri
Appena entrato in Abruzzo Ultra II (provincia di L’Aquila) il Caròn dimonio ebbe i primi scontri con le bande partigiane. Ne seguí un famigerato demenzial-criminal proclama, che è un termometro del grande e sviscerato "amore" che il nostro Popolo, eccetto i traditori, nutriva per gli invasori:
"Molti abitatori dei villaggi vicini ad Aquila hanno dato mano alle armi, ed hanno taglieggiati e danneggiati in mille modi i cittadini bene affetti al nuovo ordine delle cose. Piú alcune centinaia di essi hanno osato di far fuoco contro le truppe di S. M. il Re Vittorio Emanuele mentre da Aquila si recavano a Pízzoli. Per cui:

IL MAGGIOR GENERALE COMANDANTE LE TRUPPE DELL‘ABRUZZO ULTERIORE II
Ordina: 1° - Chiunque sarà colto con armi da fuoco, coltello, stili od altra arma qualunque da taglio o da punta, e non potrà giustificare di essere autorizzato dalle Autorità costituite sarà fucilato immediatamente. 2° - Chiunque verrà riconosciuto d‘aver con parole o con danaro, o con altri mezzi eccitato i villici ad insorgere sarà fucilato immediatamente. 3° - Egual pena sarà applicata a coloro che con parole, od atti insultassero lo stemma di Savoia - il ritratto del Re - o la bandiera Nazionale Italiana. Abitanti dell‘Abruzzo Ulteriore,
Ascoltate chi vi parla da amico. Deponete le armi, rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardi o tosto sarete distrutti. Quattro facinorosi sono già stati passati per le armi: il loro destino vi serva di esempio, perché io sarà (sic!) inesorabile. Il Maggior Generale Ferdinando Pinelli"
La memoria (non datata, ma inizio 1861) del piemontese G.B. Bottero inviata al conte dracula Cavour (rapporto 323 del 5° vol. di La Liberazione (!!!) del Mezzogiorno) riporta: "Quest‘ordine fu proclamato il 30 ottobre, ma poco dopo il Governatore indiceva lo stato d‘assedio, ed il generale Pinelli dichiarò che dal 4 novembre molti paesi del Distretto di Aquila, altri di Cittaducale e l‘intiero Distretto di Avezzano erano colpiti da quella misura … ed instituiva una Corte Marziale sedente in Aquila … sí che ora la sola energia delle armi diretta dal Generale Pinelli poteva ridonare la pace a quella Provincia".
loveraLa pace che, con soverchio rigore, da quando mondo è mondo, i delinquenti invasori hanno sempre imposto con la forza delle armi. L’equazione "piemontesi = SS" non è invenzione nostra. Sono i loro stessi documenti a fornircene il destro. Il bruto con l’anima di fango diede nel contempo ordine al suo tirapiedi colonnello Quintini, boia speculare di prima classe con relativa medaglia al merito, entrambi da Corte di Norimberga, di partire subito per Cittaducale e Borgocollefegato (oggi Borgorose), per raggiungere Avezzano nel piú breve tempo possibile, dove operavano le bande partigiane dei colonnelli Loverà (foto a fianco) e Lagrange e del Capitano Giorgi.

La scintilla
Lagrange aveva anzi già rioccupato Cittaducale e Antrodoco: questa occupazione era stata la scintilla per l’inizio della resistenza nei tre Abruzzi. I territori su menzionati, già prima dell’arrivo dei nordisti erano però in subbuglio, in piena guerra civile tra la maggioranza della popolazione fedele al Re ed al legittimo Governo delle Due Sicilie ed i liberali traditori, autori di sangue e lagrime per tutta la nostra gente.

La voce del Re
Il 26 novembre 1860 (Gazzetta di Gaeta, n. 22 del 13 dicembre 1860) il Re Francesco II inviò un ordine del giorno alle truppe che avevano trovato riparo nello Stato Pontificio:
    «Soldati! Separato da voi per la forza degli avvenimenti, non lo sono per l‘affetto. La memoria delle fatiche da voi durate in questi ultimi otto mesi, e quella dei fatti d‘armi da voi gloriosamente combattuti, rimarrà sempre viva alla mia mente. Sono obbligato a sciogliere provvisoriamente i Corpi dei quali fate parte. Ho ferma fiducia che in breve sarete ricomposti, forse per pugnare di nuovo, e per accrescere gloria e nome alle Truppe Napoletane. Il vostro valore sarà scolpito sui vostri petti con le medaglie che rammenteranno a tutti i combattimenti, nei quali deste pruove luminose di coraggio e bravura. Voi ritornerete per ora alle vostre case, ove ritroverete i vostri compagni, che valorosamente combattendo nel 1848 e 1849, seppero guadagnarsi le medaglie di fedeltà, assedio, Sicilia, e quella degli Stati Pontifici: unitevi con quelli, e sarete del pari rispettati ed onorati da tutti i buoni e onesti cittadini.
    Sono certo che verrà un giorno, nel quale tutti saprete riprendere quelli armi che avevate fra le mani per la salvezza del Paese, delle famiglie, e delle sostanze vostre.
    Firmato: FRANCESCO»
Il 28 dicembre 1860 il conte di Trapani, zio del Re, con un suo ordine del giorno dispensava dal servizio militare il resto dell’Armata rimasta fuori della fortezza di Gaeta, esortando nel contempo i soldati e gli ufficiali ad accorrere nei tre Abruzzi in aiuto ai civili che già avevano impugnato le armi contro gli invasori e non demordevano anche se i barbari incendiavano i paesi perché fossero "come funebri ceri" ai loro compari caduti in battaglia. Anche agli Abruzzesi il Re faceva sentire la sua voce accorata col seguente proclama:
    «Abruzzesi! Allorquando lo straniero minacciava di distruggere i fondamenti della nostra Patria; allorquando egli non risparmiava nulla per annientare la prosperità del nostro bel regno, e fa di noi suoi schiavi, voi mi avete dato prove della vostra fedeltà. Grazie alla vostra severa e nobile attitudine, voi avete scoraggiato il nemico comune e rallentata la marcia rapida d‘una rivoluzione, la quale si apriva la via colla calunnia, col tradimento e con ogni genere di seduzioni. No; io non l‘ho dimenticato! Leali Abruzzesi, ridiventate quel che foste; che la fedeltà, l‘amore del vostro suolo, l‘avvenire dei vostri figli armino di nuovo le vostre braccia. Noi non possiamo un solo istante lasciarci prendere alle insidiose perfidie di un partito, che vuol tutto rapirci. Non ci assoggettiamo alla sua volontà; rivendichiamo piuttosto la libertà delle nostre leggi, delle nostre costumanze e della nostra religione. I miei voti vi accompagneranno sempre e dapertutto. Il cielo benedirà le vostre azioni. FRANCESCO»

Divagazione
La frase "lo straniero … fa di noi suoi schiavi" è stata rilevata in grassetto, perché la riteniamo della massima importanza, come i fatti posteriori hanno dolorosamente confermato: il Re fu l’unico a capire le vere intenzioni dei nemici e le future conseguenze della nostra disfatta, né i ministri, né i generali felloni (tipo De Sauget), né i liberaloni che si sbracciavano per annegarsi nell’unità in un folle paranoico delirio di suicidio politico ed economico, ad esempio quel Carlo De Cesare (padre di quel tale Raffaele De Cesare autore di La fine di un Regno: guardate l’albero e considerate l’ombra! Dice un proverbio), del nuovo municipio napoletano che cosí scrisse al Vittorione: "Sire, Napoli, città tra le prime in Europa per ampiezza, per copia di abitanti, favoreggiata meravigliosamente da Dio per positura e facili traffichi, depose ancor essa volenterosa (sic!) sull‘altare della patria, le sue antiche memorie …" (B. Costantini, "I Moti d’Abruzzo dal 1798 al 1860", Polla editore) - lo stesso che, come ministro costituzionale delle Finanze, aveva negato a Francesco II i mezzi per pagare le truppe - o come dimostra il telegramma che quel ribaldo di Liborio Romano inviò al Garibaldone per "deporre nelle sue mani i poteri dello Stato e i propri destini", mettendo cosí fine all’indipendenza e alla prosperità delle Due Sicilie, che i nostri Re avevano difeso fino allo spasimo.
«Un popolo che esprime dal suo seno governanti di tale carattere … ministeriale non può andare incontro e non può essere "docile" che alla servitú, anche se il Capo dello Stato ne difende l‘indipendenza» (R. Di Giacomo, Il Mezzogiorno dinanzi al terzo conflitto mondiale, pag. 200, Cappelli editore, 1948). Francesco II, il 6 settembre 1860, proprio mentre era sulla lancia che lo avrebbe portato a Gaeta per l’ultima estrema difesa della Patria, ribadí tale concetto al fido comandante Criscuolo: al popolo duosiciliano «rimarranno solo gli occhi per piangere» (R. de Cesare, La fine di un Regno, pag. 928). E cosí è, come possiamo ancora oggi dolorosamente constatare.
E nella protesta diplomatica presentata alle Potenze straniere lo stesso giorno, due ore prima della partenza: «Noi abbiamo, con tutti i mezzi in poter nostro, combattuto durante cinque mesi per l‘indipendenza de’ nostri Stati» (R. de Cesare, ibidem, pag. 922), fedele all’insegnamento ricevuto dall’augusto genitore Ferdinando II: «Io non so che cosa significhi l‘indipendenza italiana; io conosco solo l‘indipendenza napoletana». Che fosse solamente il Re ad aver capito ciò che stava per compiersi è un concetto storiografico ormai generalmente acquisito, come dimostrano le seguenti parole di Renato Di Giacomo, scritte nel lontano 1948, che riesumiamo per la loro ancora attuale valenza: «il solo che avesse capito ciò che si compiva, cioè l‘assoggettamento delle popolazioni meridionali ad interessi estranei al Mezzogiorno, era stato il Re. Nella perduta indipendenza Egli non ravvisava una causa di abdicazione al trono, pel quale il compito non era finito, e, forse, negli avvenimenti trovava un rafforzamento della sua ragion d‘essere: ma constatava l‘abdicazione cui le sue popolazioni erano costrette e quello che è il supremo bene per ogni individuo: amministrare da sé la propria sorte e non affidare ad altri il proprio destino … Questo il Re Francesco II sapeva per atavico insegnamento, lo sapeva dall‘esempio della lunga politica svolta da suo padre Ferdinando II. Questo lo sentiva anche il ceto basso del popolo per l‘intuito infallibile che posseggono le persone semplici, per la schiettezza dei sentimenti e la diffidenza che sono sempre presenti nell‘animo dei non raziocinanti. Ma proprio questo l’élite di allora non capí. Essa ritenne che la lotta avesse per posta il Re e non l‘indipendenza del popolo, la monarchia borbonica e non l’autonomia amministrativa dello Stato … il destino di una dinastia e non quello proprio … La causa dell’indipendenza, ossia quanto direttamente interessava il popolo e il territorio dello Stato, fu contrabbandata come causa del Re e della dinastia» (R. Di Giacomo, ibidem,, pag. 198 e 200).
«Il problema, nei suoi effetti immediati e in quelli futuri, consisteva al 1860 nella scissione del binomio Dinastia borbonica e Popolo Meridionale. Nella connessione risiedeva l’autonomia, l’indipendenza, la conservazione dell’acquisita prosperità di cui ci parlano ancora oggi lo Sforza ed il Nitti … Risiedeva la condizione per una pretesa di diretto controllo dei Meridionali sullo Stato meridionale e quella di resistenza ai ceti dominanti del Nord … affinché il proponimento -- con le conseguenze che oggi il Meridione può finalmente ed entusiasticamente constatare -- trovasse il suo clima morale favorevole all’esecuzione, necessitava spezzare il binomio, il che era possibile di fare solo agendo sul termine “dinastia”, quindi su di essa un diluvio d‘infamia e di ridicolo di cui la storia incomincia a fare giustizia» (R. Di Giacomo, ibidem, pagg. 194/195).
Con la scissione del binomio spuntò per noi l’alba della nostra disperazione: «Il popolo non ha lavoro, pane, speranza. Nella città di Napoli si assiste giornalmente ad uno spettacolo desolante. Vi giungono carovane di contadini … pallidi, disfatti, con l’aspetto della miseria piú crudele … ad imbarcarsi per emigrare ...» (Pietro Calà Ulloa: Léttres d’un Ministre émigré). Si cominciò a scontare «amarissimamente il proprio errore: l’inconsapevolezza dell’alto livello del suo essere al 1860» (R. Di Giacomo, pag. 185).
Ma in 140 anni di unità «tra i Meridionali che furono al Governo -- imperocché furono “i nostri governanti quasi tutti del Nord” - non sorse neppure un uomo, uno solo, capace di prevenire il decadimento della prosperità e nemmeno di dire che fu il 1860 ad operare la frattura di quella prosperità e ad iniziare il secolo di miseria per il Meridione. Non uno, dunque, e neppure tra gli uomini politici meridionali» (R. Di Giacomo, ibidem, pag. 218). Sono parole su cui meditare e che un giorno forse non lontano si riveleranno salutari per il popolo duosiciliano.

Il Cicolano in armi
Vediamo che cosa era accaduto nel Cicolano già prima dell’arrivo del tristanzuolo Ferdinando Pinelli, nato a Roma da una famiglia di traditori piemontesi di Cuorgné, vendutisi ai francesi in epoca napoleonica, e insignito di medaglia d’oro per i suoi crimini di guerra. Di quel territorio, anche se di frontiera, disponiamo di dati sufficienti per fare un discorso abbastanza coerente. Erano i giorni in cui il nostro esercito fronteggiava il nemico sul Volturno. Nei quattro comuni del Cicolano: Petrella, Fiammignano (oggi Fiamignano), Pescorocchiano, Borgocollefegato (oggi Borgorose), nei giorni 15, 16, 17, 18 del mese di settembre 1860 era stato fatto, da parte dei decurioni e del sindaco Oreste Martelli, un micro-golpe comunale: contro la volontà della quasi totalità dei cittadini avevano deliberato adesione al governo invasore e pochi giorni dopo costituirono la guardia nazionale locale. Ma nel comune di Fiammignano c’era pure chi non la pensava allo stesso modo degli amministratori traditori, in particolare il cav. Luigi Spaventa di Torre di Taglio, un sincero patriota duosiciliano, estraneo agli omonimi famigerati Spaventa di Bomba (Chieti), che spronò la popolazione a ribellarsi ai traditori. Cominciò perciò a manifestarsi la resistenza sia contro gli usurpatori locali, che contro i militi delle costituite guardie nazionali. Anzi a Pescorocchiano la domenica 21 ottobre, giorno del famigerato plebiscito, la popolazione riuscí ad impedirlo, mentre negli altri tre comuni i mafiosi filopiemontesi sottrassero le schede votate a favore di Francesco II e le sostituirono con altre contrarie. Se prima la popolazione ribolliva di sdegno, con gli imbrogli la pentola scoppiò. La domenica successiva (28 ottobre), dalle frazioni intorno a Fiammignano, sei patrioti: Antonio Calabrese, Giuseppe Di Giovanni ed Antonio Di Sabantonio da Radicaro e Giuseppe Antonini, Fiore Sallusti e Antonio Saporetti da Sambuco, procuratisi le piú diverse armi e riunite circa 250 persone, fecero irruzione nel municipio dove distrussero gli stemmi dei savoia, rimisero al loro posto il ritratto di Francesco II e le insegne delle Due Sicilie e, subito dopo, devastarono la casa del sindaco che nel frattempo se l’era svignata. Nella stessa notte, a Radicaro, fu devastata pure la casa di Eugenio Martelli, fratello del sindaco, e quella del capitano della guardia nazionale, Domenico Martelli, cugino dei precedenti. Una famiglia ben affiatata, non c’è che dire.
Cose analoghe succedevano a Pescorocchiano, dove la popolazione, come già a Fiammignano, guidata da Carmine Leonetti ricollocò all’antico posto le immagini e gli stemmi borbonici. Ad Avezzano, centro di tutto il mandamento, nel frattempo il sottintendente Vincenzo Cardone, fedele al governo legittimo, invocava la protezione delle truppe regolari borboniche. Nel contempo, dai quattro comuni del Cicolano furono inviati prigionieri al capitano Giacomo Giorgi i traditori filopiemontesi. Intanto "la banda cominciò a prendere piú vaste proporzioni, tanto che raggiunse il numero di circa duemila individui".

Fiammignano centro della rivolta
A Fiammignano fu posto il quartier generale di quelle masse popolari. I capi erano: il capitano Giuseppe Di Giovanni di Collegiudeo, coadiuvato da Fiore Sallusti e Giacomo Saporetti di Sambuco, Ascenso Napoleone di Torre di Taglio e Aurelio Ricciardi di Castagneto. Luogotenenti: Giuseppe Antonini di Sambuco, Vincenzo Fabi e Carmine Leonetti di Gamagna, Antonio Apolloni di Fiumata, Berardino Viola di Taglieto, Gaetano Rosati di Piagge di Mareri, Vincenzo Manenti di Capradosso, Domenico De Sanctis di Petrella, Giovanni Giacomini e Domenico Rencricca di Baccarecce, Feliciantonio Felli di Leofreni, Giuseppe Sorani e Domenico Ricciardi di Torre di Taglio, Angelo De Sanctis di Poggio S. Giovanni, Giannandrea Rosati di Granara, Bernardino Pietropaoli di Poggiovalle e Giuseppe Luce di S. Anatolia.
I liberali del mandamento di Fiammignano, disperando di poter tenere la situazione sotto controllo "rivolsero reiterate istanze al comandante militare della provincia, il maggior generale Ferdinando Pinelli, che con la Brigata Bologna era giunto all‘Aquila ai primi di novembre, acciocché mandasse … un buon numero di truppe per ristabilirvi l‘ordine e con esso la turbata tranquillità" (Domenico Lugini, Reazione e brigantaggio nel Cicolano, in Memorie Storiche della Regione Equicola ora Cicolano, Rieti, 1907, ristampa Polla editore), il quale SS aveva ricevuto, dallo Stato Maggiore invasore, "l‘incarico di reprimere energicamente quei primi sintomi reazionari, che dovevano essere poi i prodromi della immane e feroce conflagrazione politico-sociale che scoppiò subito dopo la caduta dei Borboni di Napoli … Contro queste bande, le truppe della colonna Pinelli, dislocate nella conca aquilana, ben presto ebbero occasione di trovarsi a contatto, e prime fra tutte quelle del Cicolano e della Marsica affidate al comando del colonnello Quintini" (Guido Cortese, Memorie Storiche del 40° reggimento di fanteria, pag. 78 e segg.)

Biografia di un criminale di guerra
Carlo Pietro Quintini, 1° colonnello del 40° fanteria, nacque a Roma nel 1814 e fu rapito da Satana a Terni nel 1865. Fu dapprima cadetto nelle truppe pontificie, poi, fino al 1848, maggiore. Nel 1849 fu tenente colonnello nella repubblica romana, se la svignò a Genova quando questa fu cancellata dal libro dei sogni. Nel 1859 il governo piemontese, in vista dell’invasione del Regno, conoscendone il passato alla "Jack lo squartatore", lo chiamò sotto le armi e lo fregiò del titolo di colonnello. Nel 1861 "per la parte attiva e brillante presa nella repressione del brigantaggio con le truppe del suo reggimento" fu decorato di medaglia d’oro al valor militare. Nel 1862 "diede prova di molta accortezza e di suprema energia nel reprimere un moto reazionario a Castellammare in Sicilia. Per qualche tempo esercitò il comando della zona militare di Terra di Lavoro". Sul rovescio della medaglia, se fossimo dotati della vista dell’onnipotente Iddio, potremmo leggere gli infiniti nomi dei nostri padri assassinati.

La Brigata Bologna in azione
Il Pinelli, "che scriveva poco, ma in compenso operava molto", esaudí i voti dei traditori. Inviò il 2° battaglione del 40° fanteria comandato dal maggiore Pietro Ferrero (ricordiamoli pure questi assassini, perché la nostra maledizione li accompagni di generazione in generazione) e due compagnie di bersaglieri (in totale circa 2.200 uomini). Comandante in capo della colonna infame il colonnello Quintini. Il Pinelli, invece, lasciato un presidio a L’Aquila, si diresse ad Avezzano lungo la strada per il piano delle Rocche, Ovindoli, Celano. La spedizione punitiva del Quintini avvenne lungo il seguente itinerario: L’Aquila, Antrodoco, Civitaducale (oggi Cittaducale), Capradosso, Fiammignano, Borgocollefegato (oggi Borgorose), indi Magliano de’ Marsi ed infine Avezzano. La marcia nemica non si rivelò essere una scampagnata. Lungo la consolare L’Aquila - Antrodoco, oggi strada statale nr. 17, alle pendici del Monte Nuria, del Monte di Giano e del Monte Calvo, che formano le Gole di Antrodoco, non fu loro consentito di divertirsi giulivi come la vispa Teresa che tra le erbette sorprendeva gentil farfalletta, perché piccoli manipoli di partigiani li attaccavano di sorpresa causando morti e feriti, cosí come già nel 1799 ne ebbe a soffrire il generale francese Lemoine.
Lo stesso accadeva lungo la consolare Antrodoco - Cittaducale, oggi S.S. nr. 4. Notte e giorno la truppaglia nemica veniva pungolata ai fianchi e alle spalle, come di solito succede quando un esercito invasore attraversa un territorio presidiato da patrioti. Dall’ombra di ogni cespuglio, di ogni faggio o leccio, gli insorgenti spuntavano come funghi, spesso guidati da sacerdoti che brandivano crocifissi a mo’ di pugnali. Ma la colonna infame riuscí a passare, pur lasciando rivoli sanguinolenti sul proprio cammino. Poi svoltò verso sud, lungo la provinciale Cittaducale - Fammignano, dove si aprivano spazi atti a piú facili manovre. Quasi a mezza strada verso Fiammignano, al passo di Capradosso, erano appostati circa quattrocento patrioti al comando di Fiore Sallusti, decisi a fermare, se non a distruggere il nemico, ma erano malissimo armati: vecchi archibugi, fucili da caccia, pugnali, coltelli, roncole, bastoni, fionde. Unica vera arma il coraggio. Fu facile perciò agli invasori disperderli e puntare su Fiammignano, dove erano appostati all’incirca altri 300 patrioti.
Il giorno dopo, 17 novembre 1860, il Quintini suddivise la sua orda in tre colonne: a sinistra i bersaglieri, al centro la quinta, la sesta, l’ottava compagnia del 40°, comandate dal maggiore Ferrero, a destra la settima compagnia del 40° (capitano Angelo Perrone) e altri bersaglieri. La colonna di sinistra fu la prima ad arrivare a Fiammignano dove fu accolta dal fuoco dei partigiani che "sotto il comando di Giacomo Saporetti, di Vincenzo Manenti e di Giuseppe Di Giovanni si erano disposti in piccoli drappelli sulle rocciose alture che dominano la chiesa della Madonna di Poggio Poponesco" (Lugini, ibidem).

Strage di Fiammignano
Ma, rimasto fulminato da una palla nemica il Manenti e ferito il Saporetti, i nostri cominciarono a ripiegare verso la parte opposta del paese. Frattanto giungevano di rincalzo in quel momento le altre due colonne che presero immediatamente a dar manforte agli assalitori. I difensori, pur inferiori di numero (notare che ad essi si erano unite persino alcune guardie nazionali del comune pentite del loro tradimento), continuarono ad opporsi validamente, ma verso sera, soverchiati dal numero, furono costretti a disperdersi su per i monti e per i boschi, mentre dall’alto cominciava a discendere leggera la prima neve. I nostri feriti che non avevano potuto fuggire furono finiti all’istante a colpi di baionetta e quanti furono presi nel rastrellamento furono tutti fucilati senza neppure la parvenza di uno straccio di corte marziale: per tale "atto di valore" furono concesse due medaglie d’argento e otto menzioni onorevoli (G. Cortese, ibidem, pag. 81).
Fiammignano

L’ordine nazista regnò a Varsavia, cioè a Fiammignano. Il Lugini, che nella sua cronaca non è per niente tenero con i partigiani, la sua scelta di campo è filopiemontese, in sostanza un altro "intellettuale" venduto al nemico, afferma: "Sebbene il Quintini fosse rimasto tanto breve tempo a Fiamignano e non vi avesse lasciato alcun presidio, pure fu tale e tanto il terrore che invase i reazionari, che per vario tempo non piú osarono di scorrazzare per i villaggi, ma, raccolti in piccole bande, si dispersero per i boschi e per le campagne" continuando la lotta, anche se nel mese di febbraio dell’anno successivo, poco dopo la caduta di Gaeta, fu preso ed ucciso il capo-massa Ascenso Napoleone: "All‘alba del giorno 21 (di febbraio, n.d.r.), alcune guardie nazionali di Borgocollefegato scovarono in una casupola nei pressi di Civitella di Nesce il famoso capo-massa Ascenso Napoleone. Arrestatolo, in quella stessa mattina lo consegnarono ad un drappello di bersaglieri, i quali a loro volta lo condussero a Fiamignano, dove verso le ore tre pomeridiane del medesimo giorno, venne fucilato nel luogo detto il Campo. Ed in esso subirono la stessa pena, all‘una pomeridiana del 22, Carmine Riccioni di anni 35 dei Colli di Pace, e, a qualche ora innanzi notte del 23, Giuseppe Margutti di anni 21 di Brusciano e Basilio Saporetti di anni 29 di S. Maria del Sambuco. Questi due ultimi erano stati arrestati il giorno stesso tra lo strame di un pagliaio nella villa del Corso, da alcuni soldati di una compagnia di fanteria ch‘era giunta a Fiamignano il giorno antecedente ..." (Lugini, ibidem).
Nello stesso tempo il criminale traditore Pasquale De Virgili, nominato dagli invasori gauleiter (governatore) del teramano, cominciò a cicalare di sterminio ed esortava le guardie nazionali di Notaresco contro i partigiani con le seguenti parole: "Io vi affido il nemico che dovete combattere, il vero e solo nemico che rimane all‘Italia, cioè la parte cancrenata dello stesso suo corpo che bisogna tagliar di netto e tosto ..." (B. Costantini). E anche lui si rivelò essere della stessa risma di Pinelli e compari, una razza di scellerati assassini. In quel maledetto 1860 quasi tutta la classe dei proprietari terrieri, da cui provenivano "intellettuali" e borghesi, si era votata ai Savoia retrivi e forcaiuoli che difendevano meglio gli interessi economici di casta. Valga in proposito quanto cita R. Di Giacomo circa una nota di G. Ferrero (Potere, pag. 204): "Ora, rispetto a quanto …rappresentava la prima ferrovia italiana voluta dall’Amministrazione del Governo Borbonico assoluto e già in esercizio a Napoli, ecco che cosa accadeva nella capitale del regno costituzionale sardo: "Nel 1840 il Senato di Torino - una specie di Consiglio di Stato - si era pronunciato contro la creazione di una linea di omnibus nella capitale del regno sardo, proclamando che una vettura, in cui tutte le classi potevano mescolarsi, era contraria ai principi di uno Stato monarchico" ".
La colonna infame del Quintini procedette verso Borgocollefegato e deviazione per Pescorocchiano: dappertutto monumenti di sangue: la libertà piemontese e italiana in nome della dea unità si era disvelata al popolo delle Due Sicilie. Questo Stato italiano che ha potuto essere costituito solo con la strage, col genocidio dei nostri padri ha i plinti delle sue fondamenta immersi in un lago di sangue, sangue meridionale.

La beffa di Fiammignano
Ciò nonostante, partito il Quintini, le bande partigiane il 13 gennaio del 1861, pur con la neve abbondante, decisero di riprendere Fiammignano e per farlo escogitarono uno stratagemma. La sera del 12 "spedirono a Fiamignano un individuo latore di un biglietto, diretto al sindaco con cui gli imponevano di far trovare pronti, per la mattina seguente, i viveri occorrenti per seimila uomini. In assenza del sindaco, quel biglietto fu letto da chi ne faceva le funzioni ed immediatamente comunicato al giudice di quel tempo Nicola Fabrocini e al capitano delle milizie mobili Fiore Paris. Questi due nulla sospettando del tentato tranello, ma solo misurando il pericolo gravissimo che li sovrastava, nella notte stessa del 12 al 13 gennaio con tutte le milizie partirono alla volta dell'Aquila percorrendo la via della montagna di Rascino, nonostante fosse ricoperta di abbondante neve e pessimo imperversasse il tempo". (Lugini, ibidem). Dopo aver stabilito l’ordine nazista-savoiardo a Fiammignano, il Quintini proseguí per Avezzano, centro del distretto, dove il 26 novembre s’incontrò col Pinelli, giunto per la strada che dall’Aquila porta al piano delle Rocche, poi a Ovindoli, a Celano: lí i filibustieri si dettero "con ardore … a riportare la quiete in tutti quegli alpestri comuni della Marsica", cioè a fucilare e ad incendiare paesi e villaggi.

  Pinelli a Civitella
Ad Avezzano altri ordini: Pinelli voli a Civitella del Tronto. Da Ponzano, piccola località a qualche chilometro ad est della Fortezza, rifugio tranquillo per degustare con calma la sua ansia e voluttà di uccidere, il perverso duce scrive al comandante della piazzaforte Ten.Col. Ascione, invitandolo alla resa: "Ponzano, 6 dicembre 1860, Il Gen. Pinelli al Comandante la Piazza di Civitella. Sig. Comandante, lo scopo di questa mia è d‘invitarvi a desistere da una resistenza divenuta ormai inutile; se vi arrendete ora, otterrete patti onorati, se no impiegherò le mie Artiglierie rigate a lunga portata e non vi rimarrà piú altra alternativa che di morire di fame o di essere passati a fil di spada" (S.M.E.: Ufficio Storico: Assedio Civitella: G.63/31 in A. Procacci, Storia Militare dell’Abruzzo Borbonico). Fratellanza nordista!

Quintini a Sora
Quintini a sua volta corra ratto a Sora. Lí infatti la banda partigiana di Luigi ChiavoneAlonzi, detto Chiavone, di sorpresa aveva attaccato la città e messo in fuga le guardie nazionali infliggendo loro gravi perdite. Il "gran capitano" si recò perciò in Terra di Lavoro col rinforzo del 1° battaglione del 2° fanteria, ma la città, 12 dicembre, era stata già evacuata dai guerriglieri. Secondo i metodi non molto fraterni proclamati negli ukàs savoiardi, il novello barbaro ordinò il disarmo generale pena la morte (vae victis!) e mosse contro l’Alonzi, che con circa duemila uomini si trovava nella Selva di S. Elia nella gola fra la montagna di S. Angelo e quella di S. Elia in territorio marsicano. Ma l’Alonzi preferí non impegnarsi in uno scontro con forze piú numerose delle sue, e molto meglio armate, e quindi si sganciò dal nemico riparando nello Stato Pontificio. Il Quintini, dopo aver rastrellato la zona, e sostenuto frequenti e sanguinosi scontri con nuclei partigiani piú piccoli operanti nella Val Roveto, riprese la strada verso nord, percorrendo tutta la valle. Alle fonti di Canistro, pure ed immacolate acque degne di essere usate solo per il teobroma degli dei, il furfante osò contaminarle col suo piede e la sua ombra. Indi riprese la marcia e si ricongiunse al resto della colonna infame in Avezzano.

Scontro di Tagliacozzo
Il maggiore Ferrero era rimasto a Tagliacozzo. Costui, informato che le bande partigiane di Lagrange e Giorgi, penetrate nelle Due Sicilie dallo Stato Pontificio, erano in marcia verso la Marsica, concentrate le truppe alle sue dipendenze (settima e ottava compagnia del 40°), richiamò i distaccamenti di Avezzano e di Celano (terza, quarta e sesta compagnia) e si diresse verso Carsòli (7 gennaio 1861). Ma i partigiani, avvisati del suo approssimarsi, senza conoscere le regole della guerriglia teorizzate da Mao Tse Tung, preferirono ritornare indietro nello Stato Pontificio, piuttosto che impegnarsi a fondo nello scontro. Nella marcia di sganciamento dovettero però alleggerirsi e abbandonare armi e munizioni. Altro scontro del Ferrero con la banda partigiana del colonnello Loverà, forte di 3.000 uomini, una settimana dopo, il 13 gennaio 1861 a Tagliacozzo. Lo scontro fu infausto al liberatore. Alla lotta, in aiuto degli uomini del Loverà, partecipano, armati solo di pietre e falci, anche gli abitanti del paese. Il Ferrero è costretto a fuggire verso Avezzano, dove vi giunge alle tre della notte ansante, trafelato: nella fuga gli furono uccisi 23 uomini e 9 altri furono fatti prigionieri. Il colonnello Loverà costituí il suo quartier generale a Tagliacozzo.

Strage di Scurcola Marsicana
Dopo tale avvenimento, altro ne segue il 22 gennaio a Scurcola Marsicana. L’evento fu cosí tragico per i partigiani che conviene parlarne piú estesamente e riportare direttamente le parole di chi (il già citato Domenico Lugini) quasi cento anni fa ebbe a fare una ricostruzione dell’avvenimento, tutta filopiemontese, però dati i tempi comprensibile, ma è l’unica che ci è pervenuta fra le mani e sulla quale ognuno di noi potrà fare le dovute considerazioni ed estrapolazioni: "Il Quintini … ravvisando che le truppe formanti la sua colonna erano ormai insufficienti ad arrestare le schiere del Loverà, alle quali era dischiuso il piano della Marsica, chiese ed ottenne in rinforzo il 4° battaglione del 6° reggimento fanteria agli ordini del maggiore Antonio Delatila. Disponendo cosí di forze maggiori e nel timore che il Loverà da un giorno all‘altro si sarebbe avanzato contro Avezzano per la via dei Piani Palentini, in difesa di questi collocò a Magliano de‘ Marsi la V e la VI compagnia del 40° reggimento sotto il rispettivo comando dei capitani Giuseppe Rosti e Cesare Cavanna, ed inviò di presidio a Scurcola la XIV compagnia del 6° reggimento sotto il comando del capitano Antonio Foldi. Giuntavi questa il giorno 22 di gennaio, nel pomeriggio vi fu assalita dalle schiere del Loverà, che, sotto il comando di Giacomo Giorgi, improvvisamente piombarono sull‘abitato, prima che la stessa avesse potuto provvedere all‘assetto difensivo del paese. Ma nonostante l‘enorme numero dei nemici, l‘anzidetta compagnia resistette strenuamente e, a furia di assalti e contrassalti, riuscí a sostenere il combattimento per piú di due ore in buone condizioni, favorita specialmente dall‘oscurità della sopravvenuta notte e da una nebbia fittissima che tutto ricopriva. Ma i borbonici, sebbene aspramente contrastati in ogni loro avanzamento, erano già riusciti ad occupare la maggior parte di Scurcola. Avvertito il fragore del combattimento a Magliano de‘ Marsi, si raccolsero prontamente le due compagnie di soldati che colà stanziavano e una cinquantina di guardie nazionali del luogo, per andare a soccorrere la XIV. Mosse per prima a quella volta la VI percorrendo la via del villaggio di Cappelle e con ordine alla V di seguirla a breve distanza … Pervenuti, a qualche ora di notte, non molto lungi da Scurcola, furono accolti da una scarica di piú fucili da alquanti nemici appiattati in un piccolo ontaneto; alla loro pronta risposta con un bel nutrito fuoco, non piú si ascoltarono i colpi degli avversari. Il capitano allora, fatti tacere completamente i suoi, intimò l‘alto "chi va là?", cui fu risposto "Sardegna" che era la loro parola d‘ordine. Credendo egli pertanto che costoro fossero amici e che, solo, per errore di riconoscimento, avessero fatto fuoco contro di essi, avanzò verso il luogo dell‘imboscata, ma non vi rinvenne alcuno. Erano stati i borbonici che avevano risposto in quel modo per far cessare il fuoco ed aver tempo di fuggire, come poi potette bene accertarsene. Giunto presso Scurcola ebbe la grata sorpresa di trovarvi anche la V compagnia che eravi pervenuta in quel momento, percorrendo un‘altra via piú breve, sebbene assai meno praticabile, perché molto fangosa e segnatamente in quei giorni nei quali era caduta una discreta quantità di neve. E poiché dalla parte superiore dell‘abitato e verso il convento dei cappuccini dal titolo S. Antonio, a duecento metri fuori del lato destro di Scurcola, numerosi ancora si ascoltavano i colpi di fucile, i due capitani fecero suonare le trombe all‘attacco, anche per rendere cosí avvertita del sopraggiunto aiuto la XIV compagnia, ed entrati prontamente in azione, il Rosti di sorpresa occupò l‘anzidetto convento di S. Antonio posto sulla via di ritirata dei reazionari, ed il Cavanna con la VI circondò la borgata ed incalzò i nemici col fuoco e con le baionette. Vedutisi questi assaliti con tanto impeto, per la maggior parte, con a capo il Giorgi, si diedero alla fuga e, dalla parte del convento anzidetto e dalla via del monte che sovrasta Scurcola, si diressero alla volta di Tagliacozzo; altri poi gettate le armi, corsero a nascondersi nelle stalle, nei pagliai e nelle abitazioni dei loro piú sicuri aderenti, ed altri si diedero prigionieri implorando salva la vita. Ma per impedire ogni evasione, le truppe cinsero d‘assedio l‘intera Scurcola. Fin dai primi momenti che la XIV compagnia era entrata in combattimento un sotto-ufficiale della stessa corse di soppiatto ad Avezzano e presentatosi al colonnello Quintini, l‘informò del grave pericolo in cui versavano i propri compagni, perché assaliti con straordinario vigore e da un numero eccessivamente superiore di nemici. A tale tristissima notizia, il Quintini spedí un plotone di cavalleria del X battaglione piemonte reale, per assumere informazioni precise e le altre tre compagnie, cioè la XIII, XV e XVI del VI reggimento sotto il comando del maggiore Delatila. Queste vi giunsero poco dopo della mezzanotte, ma non ebbero che a constatare l‘avvenuta fuga dei nemici e a concorrere con gli altri compagni al già diligentissimo assedio. Appena giorno il maggiore anzidetto emanò un bando con cui, sotto pena di morte, si faceva obbligo ad ogni Scurcolano di denunciare quei reazionari, o sospetti essere tali, che si trovavano nascosti nelle loro case, stalle e pagliai. Quel bando ottenne ben presto il desiderato effetto, perché non vi fu neppure uno di quegli sciagurati che non venisse consegnato, ovvero additato all‘autorità militare; ed il numero complessivo di tutti i prigionieri fu di 277, i quali vennero rinchiusi nella Chiesa delle Anime Sante che sorgeva nella parte inferiore dell‘abitato, senza tener conto di circa altri settanta [79 per l‘esattezza, n.d.r.], che furono fucilati nella mattina del 23 dinanzi all‘anzidetta Chiesa".
In tempi ritenuti barbari, ultimi anni del VI sec. a. C., Sun Zu, teorico insuperato di arte militare per acume e profondità di pensiero, nel libro L’Arte della Guerra consigliava al re cinese dello Stato di Wu: "Tratta con buone maniere e magnanimità i prigionieri e abbi cura di loro" (II, 19). Quasi un precetto evangelico per quelle feroci belve savoiarde, per loro Sun Zu era uno sconosciuto carneade, né poteva essere altrimenti per una genía di barbari matricolati della peggior specie. Ma un altro pensiero di Sun Zu prorompe energicamente dalla penna, dato che il suo opposto lo stiamo contemplando tragicamente oggi: "La suprema arte della guerra consiste nel soggiogare il nemico senza combattere" (III, 3). Gli altri 277 dicono che furono condotti ad Aquila dalle "patriottiche guardie nazionali di Scurcola e di Magliano de‘ Marsi" (Storia della Brigata Aosta), come dire che non arrivarono mai a destinazione, come era costume delle guardie nazionali di risolvere sbrigativamente il "problema" prigionieri. Mancia competente a chi riuscirà a fornircene notizie documentate. Inebriato dal successo, reso ubriaco dal sangue versato, il manigoldo comandante della colonna infame, il Pinelli, il 3 febbraio successivo inviò il verbo demenzial-nazista alla frazione di colonna mobile del 40° fanteria che operava nell’Ascolano, messaggio che fece prendere le distanze perfino ai sostenitori degli invasori, Francia ed Inghilterra:
    «Ufficiali, soldati! La vostra marcia fra le rive del Tronto e quelle della Castellana è degna d‘encomio. S.E. il ministro della guerra se ne rallegra con voi. Selve, torrenti, balze nevose, rocce scoscese non valsero a trattenere il vostro slancio; il nemico mirando le vostre penne sulle piú alte vette dei suoi monti, ove si teneva sicuro, le scambiò per quelle dell‘Aquila savoiarda che porta sulle sue ali il genio d‘Italia; le vide, impallidí e si diede alla fuga.
    Ufficiali e soldati! Voi molto operaste, ma nulla è fatto quando qualcosa rimane da fare. Un branco di questa progenie di ladroni ancora si annida fra i monti, correte a snidarli e siate inesorabili come il destino. Contro nemici tali, pietà è delitto, vili e genuflessi quando vi vedono in numero, proditoriamente vi assalgono alle spalle quando vi credono deboli, e massacrano i feriti. Indifferenti ad ogni principio politico, avidi solo di preda e di rapina, or sono i prezzolati scherani del Vicario, non di Cristo, ma di Satana, pronti a vendere ad altri il loro pugnale quando l‘oro, carpito alla stupida credulità dei fedeli, non basterà piú a sbramare le loro voglie. Noi li annienteremo, e schiacceremo il sacerdotale vampiro che con le sozze labbra succhia da secoli il sangue dell‘Italia nostra, purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infettate dall‘immonda sua bava e da quelle ceneri sorgerà piú rigogliosa e forte la libertà».
Una decina di giorni dopo, il 3 marzo 1861, il generale piemontese Della Rocca, raccomandabile signore della guerra, comandante generale per le "Provincie Napoletane" messe a ferro e fuoco, con un ordine del giorno, "vero inno al suo prode comandante Quintini" (Guido Cortese), blaterò sul registro musicale del Pinelli: "Soldati … i distretti di Sora ed Avezzano (sono) pacificati … ecco i felici risultati ottenuti col vostro perseverante valore … Continuate … nella gloriosa via per la quale vi siete messi ...". E nella gloriosa via continuarono i liberatori, per oltre dieci anni, morti infiniti non numerabili come i punti di una retta, finché il nostro popolo, abbandonato da tutti (soprattutto doppo ‘o ntorzafaccia ‘e Cassino (24.2.1865) da parte dello Stato della Chiesa una volta amico), avette ’a acalà ‘e recchie e ridursi, da soggetto attivo sulla scena del mondo, a colonia senza storia, senza dignità, senza radici, in una parola senza identità culturale, dominata da genti barbare a causa della canea infame degli unitaristi di marca risorgimentale e dei politici meridionali senza eccezione tutti di marca servile.

Altre prodezze del 40° fanteria
Qui, stanchi di tanto sangue, ci fermiamo con le descrizioni delle prodezze della colonna infame. Il 40° fanteria dei drautti Pinelli e Quintini lo ritroviamo in Terra di Lavoro, in Molise, in Sicilia in altrettali azioni di sterminio, ad Auletta, Arcocello, Valle dell’Agnone, Piedimonte d’Alife, Monaco di Gioia, Fontana di Campo, Castellammare del Golfo, in centinaia di piccole località, etc. etc.: in totale alle orde centronordiste, per le buone opere compiute in dieci anni, furono elargite 4 medaglie d’oro, 2375 d’argento, 5012 menzioni onorevoli sul cui rovescio stava scritto: sangue meridionale. Secondo Cesare Cesari (Il brigantaggio e l’opera dell’esercito italiano dal 1860 al 1870, pag. 167) le ricompense furono dispensate in numero esiguo (!) per "misura di opportunità politica del momento". In particolare circa il 40° fanteria furono assegnate: 2 medaglie d’oro agli infami polemarchi Pinelli e Quintini, 110 medaglie d’argento e 105 menzioni onorevoli alla truppaglia.

sabato 29 marzo 2014

"State buoni se potete" e l'anticattolicesimo zuccherato

State_buoni_se_potete_Dorelli

"State buoni se potete", diretto da Luigi Magni, è una pellicola generalmente considerata dall’opinione pubblica come “cattolica”. Una di quelle pellicole, per capirci, che potrebbe riempire un pomeriggio di una nidiata di fanciulli in un cinema parrocchiale. Intendiamo per “cattolica” sia quella maggioranza che, dal periodo post-conciliare, non solo si è assuefatta all'accettazione passiva degli attacchi del mondo laicista e secolarizzato, ma che in opere di questo genere coglie una mentalità affine alla propria, sia quella minoranza variegata che conserva una “sensibilità” più tradizionale, con tutti i distinguo del caso.
Della pellicola celebre, oltre che in Italia, anche in Ungheria (per motivi a noi sconosciuti), risalta immediatamente l'atmosfera fanciullesca e zuccherosa, l'ottima interpretazione di Dorelli e dei “comprimari” - specialmente il trio di tutto rispetto Leroy, Montagnani e Adorf, e le musiche degne di nota di Branduardi. La confezione è ottima, ma cosa è in essenza questo film? Riusciamo a identificare in esso alcune gocce di veleno che lo contaminano, isolandole?
Magni ("mangiapreti" e anticlericale dichiarato), con questa operazione, non intraprese certo un discorso diverso da quello del resto della sua produzione cinematografica. Mentre con film come "In nome del Papa Re" e "Nell'anno del Signore" veniva attacca il Cattolicesimo come istituzione (la Chiesa), come qualcosa di tirannico e oppressivo, con film come "Per grazia ricevuta" (Magni co-firma la sceneggiatura) e questo, è stata la fede a essere posta sotto il suo riflettore cinico e deformante.
A differenza del Manfredi di "Per grazia ricevuta", la cui figura è un attacco diretto alle peculiarità del Cattolicesimo (come il senso del peccato, la devozione, i santi ecc…), il San Filippo Neri interpretato da Dorelli è colui che incarna la visione che il regista ha del cristianesimo. È quella "positiva" di un cristianesimo senza dogmi e aperto al sociale, contro quella "negativa", retrograda, burbera, marziale e oscurantista rappresentata da Sant’Ignazio di Loyola. Sono i due spiriti della Controriforma: l'Oratorio di San Filippo Neri contrapposto alla Compagnia di Gesù. Contrapposizione, che nella realtà, non ci fu per nulla.
La critica al "fanatismo" cattolico è ben palese nella canzoncina "Capitan Gesù", le cui parole sono state scritte dal regista stesso:
Capitan Gesù, non sta lassù,sta quaggiù a battagliar col male.Sempre quaggiù a battagliar col male,Gesù, mio generale!”
Chi volesse vedere nel Filippo Neri di Magni una certa attenzione alla moralità e alla purezza, si accomodi pure. Senza però dimenticare che il Santo risponde ad una prostituta che gli chiede “me la darebbe una bottarella?” “magari, sapessi come si fa”. Il cattivo gusto e la trivialità fanno capolino qui e là, come nella scena dove il Santo, con gran disinvoltura, invita i fanciulli maschi a mingere collettivamente davanti ad un pubblico di bambine rammaricate di non poter fare altrettanto, oppure nella scena in cui Leonetta rivela il suo sesso ai bambini, che volevano punire colei credevano fosse un paggetto stirandogli i testicoli. Un San Filippo che dice “mortacci tua” al padre del Principe Ricciardetto, e che contrappone la mortificazione della “ragione” ed Erasmo da Rotterdam agli Esercizi Spirituali e all’Imitazione di Cristo.
Come possono passare inosservate, ad esempio, la derisione delle visioni mistiche di Sant’Ignazio (liquidate come “allucinazioni” provocate dal digiuno dallo stesso San Filippo) e la presa in giro di S. Giovanni della Croce, presentato come uno sconnesso sconvolto? San Carlo Borromeo anticipa il “chi sono io per giudicare”, con un accenno ai “froci” e il protagonista del film addirittura si lascia andare in un “certe colpe dovrebbero essere derubricate come peccati”. Insomma Magni ci vuole presentare San Filippo come un antesignano del modernismo dal volto più umano.
A riassumere il tutto, una scena che stride davvero. Quando Cirifischio, uno dei personaggi principali, diventato bandito, viene condannato a morte, è congedato dal Santo senza una Confessione. San Filippo, poi, risponde all’ex fidanzata suora che gli chiede se Cirifischio si salverà: "Sì, tanto ci salviamo tutti". La morte di Cirifischio è comunque edificante, perché Cirifischio è realmente pentito e quindi affronta il giusto patibolo con l'animo del giusto. La mancanza della Confessione però... Si possono fare facili confronti in merito: si pensi ad esempio che, in Cristiada, i Sacramenti, e soprattutto la Confessione, hanno un ruolo centrale nello svolgimento della storia.
Se Magni voleva fare un film anticlericale come gli altri, gli è riuscito un po' meno bene rispetto a "In nome del papa Re". Se si pensa poi alla boiata di Proietti su san Filippo Neri, questo almeno ha alcune parvenze di cattolicità.

di Willy Bruschi e Stefano Andreozzi (http://radiospada.org/)

Vi presento Don Zauker

Ogni giorno che passa mi rendo conto che non ho visto ancora niente delle strane cose  che girano su questa Terra.
Tipo, non avevo mai incontrato Don Zauker.

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Me l'ha presentato Facebook, invitandomi a cliccare "mi piace" sulla pagina a lui dedicata.
Don Zauker è il protagonista di un  fumetto,vincitore al Napoli Comicon 2007 di ben 3 premi.
Don Zauker è, o almeno dovrebbe essere, un prete...
"Esorcista in un mondo in cui Dio e il Diavolo non esistono (cioè il nostro), Don Zauker è un fumetto sulla totale mancanza di senso critico che caratterizza molte persone, di fronte alla religione e alla Chiesa cattolica in particolare.
Don Zauker è arrogante, manesco, ignorantissimo, egoista, bugiardo; è l’incarnazione dei peggiori vizi dell’uomo e non fa assolutamente niente per nasconderlo." Il bello viene adesso, in questa puntuale e acuta precisazione: "Ma peggiori di lui sono le persone che gli concedono credito, che lo venerano e ne giustificano il comportamento, inchinandosi non davanti alla persona, ma al vestito che porta.
Perché l’abito FA il monaco, questo Don Zauker lo sa.
E se ne approfitta."
Dopo una presentazione del genere sono andata a cercare altre informazioni sul suddetto personaggio. Creato da Emilio Pagani e Daniele Calauri, detti i Paguri, Don Zauker è in giro a quanto sembra dal 2003 e ha una nutrita schiera di agguerriti fan, i DonZaboys di cui fa parte l'esemplare qui sotto.

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Mi sono insomma trovata davanti questo Don bestemmiatore, che infrange sistematicamente il sesto comandamento e vari altri, e che come se non bastasse, dal momento che fa molto Kattivo, ha militato nella gioventù hitleriana. Manco a dirlo, è razzista, omofobo eccetera.
Non mi stupisce che questo fumetto esista, né che si spacci per ironia e satira la blasfemia (perché insomma di questo si tratta). Mi stupisce che ci sia sempre più gente che legge questa roba e che ne condivide l'idea di fondo. C'erano tempi in cui a Roma si raccontavano piccanti aneddoti su Papi e Vescovi,i quali avevano nelle loro stanze un quadro di Tiziano rappresentante la loro amante nuda nelle sembianze di una Venere. Ma il punto è che nessuno prendeva come esempio un singolo uomo per denigrare tutta l'istituzione, né impugnando la vita di un ecclesiastico corrotto arrivava ad affermare l'inesistenza di Dio.  Poi vabbè, è arrivato il buon Lutero, e tanti saluti.
Non è che adesso mi stia allarmando. Non è che penso che Don Zauker sia un'opera demoniaca di proporzioni bibliche che corromperà il mondo. No. Non sapevo neanche della sua esistenza fino ad oggi. È solo uno dei sintomi della malattia del mondo che si aggrava sempre di più. E l'ennesima prova che la gente che non crede non sa neanche che cosa sia la Chiesa, che cosa sia un vero sacerdote. E per giustificare il suo ateismo fa satira di una cosa che se incontrasse per strada non saprebbe neanche riconoscere.
Quindi non mi allarmo. Dico solo che mi mancano i buoni atei di una volta, quelli che sapevano e non credevano, quelli che se ne fregavano e basta e non volevano saperne.
Vi lascio con le mirabili parole del manifesto donzaukeriano, presenti sulla home del sito dedicato a Don Zauker.
31 ottobre 2007
Manifesto di intenti
Voi,
i cristiani, gli ebrei, i musulmani, i buddisti, gli scintoisti, gli avventisti, i panteisti, i testimoni di questo e di quello, i satanisti, i guru, i maghi, le streghe, i santoni, quelli che tagliano la pelle del pistolino ai bambini, quelli che cuciono la passerina alle bambine, quelli che pregano ginocchioni, quelli che pregano a quattro zampe, quelli che pregano su una gamba sola, quelli che non mangiano questo e quello, quelli che si segnano con la destra, quelli che si segnano con la sinistra, quelli che si votano al Diavolo, perché delusi da Dio, quelli che pregano per far piovere, quelli che pregano per vincere al lotto, quelli che pregano perché non sia Aids, quelli che si cibano del loro Dio fatto a rondelle, quelli che non pisciano mai controvento, quelli che fanno l’elemosina per guadagnarsi il cielo, quelli che lapidano il capro espiatorio, quelli che sgozzano le pecore, quelli che credono di sopravvivere nei loro figli, quelli che credono di sopravvivere nelle loro opere, quelli che non vogliono discendere dalla scimmia, quelli che benedicono gli eserciti, quelli che benedicono le battute di caccia, quelli che cominceranno a vivere dopo la morte…
Tutti voi,
che non potete vivere senza un Babbo Natale e senza un Padre castigatore.
Tutti voi,
che non potete sopportare di non essere altro che vermi di terra con un cervello.
Voi, oh, tutti voi
NON ROMPETECI I COGLIONI!
Fate i vostri salamelecchi nella vostra capanna, chiudete bene la porta e soprattutto non corrompete i nostri ragazzi.
Non rompeteci i coglioni, cani!
François Cavanna

Poi dicono che quando parlano di dialogo tra la Chiesa e il mondo, uno si incazza. Ma che vuoi dialogare con costoro?
Bah.

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Che cos'è il legittimismo?( 5° ed ultima Parte).



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Approfondimenti sulla legittimità e sulle  due maggiori potestà legittime (Monarchia  e Chiesa). 

Come detto nella precedente parte di questo lavoro , le guarigioni miracolose , delle quali abbiamo trattato in maniera approfondita, operate dai Re di Francia ed Inghilterra sono prove e conferme della verità della cattolica religione e della legittimità divina del potere. Ogni vero miracolo, lo si è visto, attesta l’origine divina della Rivelazione. Che si tratti di un vero miracolo, poi, non mette conto dilungarsi troppo. Non occorrono lunghe disquisizioni per ritrovare, infatti, anche nel miracolo reale, le note caratteristiche, in quanto fatto sensibile, straordinario e divino.

Benedetto XIV
Papa Benedetto XIV.

Per secoli ognuno poté constatare il potere e la prerogativa medicinale di uomini che non erano medici. Solo il tocco della mano era sufficiente per ottenere la guarigione delle scrofole, malattia esternamente visibile, contagiosa e incurabile. Il modo della guarigione appariva a tutti come non ordinario. Il miracolo regio, tuttavia, è troppo singolare, sia per la sua continuità nel tempo, sia soprattutto per chi ne era protagonista ed attore, per non trarne altre logiche deduzioni. Chi infatti operava tale miracolose guarigioni? Benedetto XIV sottolinea giustamente che tale facoltà non proveniva ai Re di Francia “iure hereditario aut innata virtute” [per diritto ereditario e per innata virtù]. Esclude cioè che la miracolosa operazione sia una sorta di dono familiare. È vero infatti che tutti coloro che esercitarono, almeno in Francia, il tocco guaritore, appartenevano alla medesima famiglia, quella discendente da Ugo Capeto, fondatore della dinastia reale francese.
Enrico IV di Borbone
Enrico IV di Francia.

Tuttavia, soltanto i Re di quella famiglia toccarono i malati. I Borbone, così, discendenti da Roberto, ultimo figlio maschio di San Luigi IX , attesero poco più di tre secoli, prima di toccare le scrofole. Lo fecero soltanto quando salirono al Trono come legittimi Re di Francia con Enrico IV (1594-1610). Il caso è ancora più evidente per la monarchia inglese, ove si successero sul Trono varie dinastie, legate tra loro da vincoli di parentela più o meno stretti: Plantageneti, Tudor, Stuart. In secondo luogo, non tutti i Re di Francia e d’Inghilterra che toccarono gli ammalati erano santi, nel senso tecnico di fedeli Cattolici, che praticarono le virtù cristiane al grado eroico.
Tanquerey insegna infatti, con San Tommaso, che l’utilità morale del miracolo è duplice:
 1) o per comprovare la santità, nel senso sopra indicato, di un fedele, o 2) per dimostrare la verità e l’origine soprannaturale di una dottrina. Il miracolo delle scrofole persegue proprio tale seconda finalità. Lo si ricava considerando l’attore del miracolo. Chi compiva l’opera guaritrice è il Re legittimo. Questi Principi spesso non erano santi, né possedevano un dono familiare ereditario: si deve logicamente dedurre che il potere taumaturgico era strettamente legato alla loro prerogativa di sovrani legittimi. Il miracolo reale si rivela così un miracolo ‘politico’. Non l’appartenenza familiare, né la santità individuale, è causa del miracolo, ma la potestà politica, l’autorità temporale, il fatto di essere Re cristiani legittimi.
Il miracolo reale è quindi la prova dell’origine divina dell’autorità politica. Il potere dei Re è sacro. “Ogni potere proviene da Dio”, insegna, infatti, San Paolo. Dio è la fonte e l’origine di ogni legittima autorità, quella del Capofamiglia, del Sovrano e del Sacerdote.
Il miracolo regio, tuttavia, riguarda espressamente la potestà temporale, l’autorità politica dello Stato legittimo, inteso come società perfetta, avente in sé i mezzi per conseguire il suo fine proprio, che è la felicità temporale, ossia il bene comune. Il potere dello Stato, quando è legittimo, è sacro, derivando da Dio, fonte di ogni autorità. Tale miracolo collima perfettamente con l’insegnamento costante della Chiesa Cattolica e la retta filosofia. L’autorità politica si fonda sul diritto e sulla legge di natura, il cui autore è Dio.



Papa Leone XIII.

«È la legge di natura – insegna Leone XIII, nell’enciclica Diuturnum illud – che spinge gli uomini a vivere in società, o meglio, più esattamente è l’autore della natura, cioè Dio».

L’autorità civile, inoltre, procede da Dio immediatamente. «L’autorità procede da Dio immediatamente. Che gli uomini, infatti, non possano conferire l’autorità alla società si ricava dalle seguenti considerazioni: (1) Gli uomini, quando vivono riuniti assieme secondo la legge di natura, non possono impedire l’autorità. Volenti o nolenti, infatti, occorre che nella moltitudine sia presente un’autorità su- prema. (2) Gli uomini non possono annullare i diritti principali di quell’autorità. Possono invero dividerla, separando, ad esempio, il potere legislativo da quello giudiziario, ed assegnare le diverse prerogative dell’autorità a soggetti diversi. Se vogliono, però, vivere in società, non possono annullarla completamente, abolendo, per es., il potere giudiziario. (3) La suprema autorità possiede alcuni diritti, ammessi come legittimi senza esitazione da tutti i popoli di tutti i tempi, diritti che superano la capacità dei singoli, e che quindi non possono essere da loro conferiti alla società, ma soltanto immediatamente da Dio. Tali sono per esempio il diritto di guerra, quello di comminare pene, di coercizione ed altri simili. Dalla vera dottrina circa l’origine dell’autorità segue che colui che viene insignito del supremo potere in una società, è propriamente un ministro di Dio. Non è in verità ministro del popolo, se non nel senso che egli adempie il suo ufficio a favore del popolo. Nella dignità del superiore quale ministro di Dio si fonda ciò che si dice maestà e inviolabilità dell’autorità»215. È quindi Dio, autore dell’ordine naturale, che conferisce immediatamente e di- rettamente allo Stato l’autorità. Il dettato scritturale, sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, è anche su questo punto assai perspicuo: «Per Me regnano i Re, per Me i Principi comandano» (Prov., XIII, 13); «Il Principe è ministro di Dio» (Rom., XIII, 2); «Chi resiste all’autorità, resiste all’ordine di Dio» (Rom., XIII, 4).


Re Enrico II di Francia che cura gli scrofolosi
 (miniatura del XVI secolo).

Il tocco guaritore dei sovrani, tuttavia, consente ulteriori considerazioni. Dicevamo trattarsi di un miracolo ‘politico’, tendente a confermare l’origine divina dell’autorità temporale (legittimità). Esso pure comprova un altro punto della dottrina sociale cattolica: la monarchia è la miglior forma di governo. Sono infatti dei Re, dei Monarchi, che compiono il rito taumaturgico. La dottrina classica insegna che vi sono tre legittime forme di governo: la monarchia, governo di uno solo; l’aristocrazia, governo dei migliori; e la democrazia, governo di molti (purché non presupponga l’erronea dottrina della cd. sovranità popolare). 
Tali regimi politici, se rispettano la legge di natura e la religione rivelata, sono egualmente legittimi. Presentano, tuttavia, una gradazione di perfezione, dal meno al più perfetto, in ordine al fine che lo stato legittimo persegue, che è il bene comune. La monarchia è il più perfetto, seguito dall’aristocrazia, per finire con la democrazia. San Tommaso d’Aquino nel De Regimine Principum dedica alcuni fondamentali capitoli a dimostrare l’eccellenza della monarchia da un punto di vista filosofico. Tale supremazia della forma monarchica è inoltre attestata, oltre che dalla retta ragione, anche dalla storia della civiltà cristiana e dall’esempio della Sacra Scrittura. La monarchia fu il regime politico quasi esclusivo della civiltà cristiana medioevale. Erano pure presenti le altre forme di governo. Si pensi alla democrazia dei Cantoni Svizzeri, o alla costituzione aristocratica di Stati prestigiosi e potenti come le Repubbliche di Genova e Venezia. Tuttavia il Cristianesimo non ha mai nascosto la sua predilezione per la monarchia.
L’esempio dell’Antico Testamento, ove si narrano particolareggiatamente le vicende dei Regni d’Israele e Giuda, quello del Nuovo, ove lo stesso Cristo si proclama pubblicamente discendente del Re Davide, Re egli stesso, ove continuamente s’accenna al nuovo Regno che il Messia, l’Unto per eccellenza, è venuto a fondare, furono modelli troppo evidenti e importanti per non essere tenuti in considerazione in quelle epoche di fede e di luce. Cristo istituì poi la Chiesa secondo il modello della monarchia, ponendone al vertice, quale sovrano supremo, il Vescovo di Roma.


File:Hinrichtung Ludwig des XVI.png
Il Regicidio di Luigi XVI di Francia (21 gennaio 1793).

Papa Pio VI (1775-1799) nell’Allocuzione al Sacro Collegio del 17 giugno 1793, commentando la drammatica, ma religiosa dipartita del Re Cristianissimo Luigi XVI (1775-1793), vittima della ferocia rivoluzionaria, rovescia completamente la tesi giacobina, che considera la monarchia il governo peggiore, incompatibile per essenza con gli ‘immortali princìpi’, sottolineando invece con forza, quale aggravante dell’empietà rivoluzionaria, l’abolizione della monarchia francese: 




Papa Pio VI .

«La Convenzione … dopo aver abolito la monarchia, la miglior forma di governo, aveva trasferito tutto il pubblico potere al popolo, che non si comporta né secondo ragione, né secondo consiglio, e che non si forma su nessun punto delle idee giuste, apprezza poche cose in base a verità e moltissime ne valuta secondo l’opinione; che è sempre incostante, facile da ingannare, attirato da tutti gli eccessi, ingrato, arrogante, crudele; che gioisce nella carneficina e nell’effusione di sangue umano… ».
La Chiesa, in sintonia con la sua predilezione per tale più perfetto regime politico, istituì appositamente per la monarchia il rito della consacrazione. Solo Re ed Imperatori, durante i felici secoli della civiltà cristiana, erano consacrati col rito dell’Unzione.

Insomma: (1) ragioni filosofiche; (2) esempi storici; (3) il modello della Sacra Scrittura; (4) l’esempio di N. S. Gesù Cristo; (5) la costituzione monarchica della Chiesa Cattolica; (5) il rito della Consacrazione dei Re, tutto predica a favore di tale forma di governo a preferenza delle altre. Non si può infatti dirsi cattolici, se non si è anche monarchici. Il miracolo dei Re conferma in pieno tali conclusioni.

Tornando a parlare del rito taumaturgico dei Re, gli autori che di esso trattano  sottolineano spesso la sua connessione colla cerimonia dell’Unzione . «Confesso che assistere il Re equivale [per un chierico] compiere una cosa santa; perché il re è santo; egli è l’Unto del Signore; non invano ha ricevuto il sacramento dell’unzione», affermava con forza Stefano di Blois riferendosi ad Enrico II d’Inghilterra. «Il Re inoltre non solo è tenuto al culto divino come uomo e come signore, ma anche come Re, perché i Re sono unti con olio consacrato, come  risulta chiaro nel caso dei Re del popolo d’Israele, che venivano unti con olio santo dalle mani dei Profeti. Perciò erano anche detti Unti del Signore, per eccellenza di virtù e di grazia in unione con Dio, delle quali dovevano essere dotati. Per quest’unzione essi ottenevano un certo ossequio e un certo conferimento d’onore», insegna a sua volta San Tommaso. E si potrebbero citare altri esempi. Il Dottore Angelico con l’espressione «per quest’unzione essi ottenevano un certo ossequio e un certo conferimento d’onore», indica con chiarezza che non è l’Unzione che costituisce il sovrano. Il monarca riceve, infatti, la sua autorità direttamente da Dio. Tale potestà preesiste all’unzione. Il potere temporale si fonda sulla legge e l’ordine di natura, il cui autore è Dio. L’ordine soprannaturale, disciplinato in terra dall’autorità ecclesiastica, presuppone l’ordine naturale, lo perfeziona anche, ma non lo costituisce. Dio avrebbe potuto elevare il potere temporale dello Stato dall’ordine naturale a quello soprannaturale, come è avvenuto per il matrimonio, ma non l’ha fatto. Il Sacramento del Matrimonio (ordine soprannaturale) infatti presuppone il contratto (ordine naturale). Nel momento in cui in una monarchia ereditaria il titolare della sovranità muore, subentra il successore che, se, da un lato, riceve mediatamente e accidentalmente il potere per il fatto di appartenere a quella famiglia, dall’altro, in sé e per sé, l’ottiene formalmente, direttamente e immediatamente da Dio, senza doverlo a nessun altri che a Dio.
L’unzione in questo senso profondo conferisce al sovrano solo “un certo ossequio e un certo conferimento d’onore”.


Sant'Ambrogio converte Teodosio il Grande,
tela di Pierre Subleyras, 1745.

In un’aristocrazia, in una democrazia, in una monarchia elettiva avviene la medesima cosa. Così il Papa, eletto dal Conclave, il Collegio che raccoglie l’aristocrazia della Chiesa, i Cardinali, una volta eletto non risponde ad altri che a Dio. Mediatamente e accidentalmente il Pontefice Romano (nella monarchia elettiva che regge la Chiesa cattolica) è designato dal Conclave, avendo tale organo collettivo un effettivo potere di ‘designazione’ del candidato al Papato, ma formalmente, direttamente e immediatamente l’autorità proviene al Papa da Dio. L’autorità del Conclave è limitata alla scelta del candidato al Sommo Pontificato. Prima del diffondersi della consuetudine della consacrazione degli Imperatori e dei Re, v’erano certamente legittimi Re ed Imperatori cristiani, ben consci della propria autorità e dell’origine divina di essa. Teodosio il Grande (379-395) che emanò l’Editto di Tessalonica (380 d.C.) con cui inizia la vicenda dell’Impero Cristiano, non venne mai unto o consacrato. Pure il pio monarca era ben consapevole della sacertà del suo mandato e della origine divina della potestà che esercitava, come attesta la sua politica a favore della religione rivelata. Si comprende come, ben presto, sulla scorta dell’esempio biblico, sia andata diffondendosi la prassi di ungere e consacrare i sovrani con un’apposita cerimonia. Essa va riguardata sotto un duplice aspetto:

 a) da un punto di vista sacramentale;

b) da un punto di vista dottrinale.

Come accennato pocanzi, astrattamente parlando, NS Gesù Cristo avrebbe potuto elevare la potestà politica dall’ordine naturale, ove poggia per volontà di Dio, all’ordine sovrannaturale, istituendo un apposito sacramento che conferisse e stabilisse soprannaturalmente l’autorità temporale, come avvenne per il matrimonio, per cui non vi sono vere nozze tra battezzati senza sacramento, il contratto naturale essendo insufficiente a stabilire e costituire un vero matrimonio.
In questo caso il potere temporale dipenderebbe direttamente dall’istituzione cui Gesù Cristo commise la cura dell’ordine soprannaturale: la Chiesa Cattolica. Se così fosse stato, ne sarebbe derivata alla Chiesa un’autorità diretta non solo, come è ovvio, sulle cose sacre inerenti al fine della sua istituzione (la salus animarum), ma pure su quelle temporali (potestas directa in temporalibus).
La Chiesa tuttavia non dispone di tale potere. Essa non costituisce i sovrani e i capi di governo. Dio, tuttavia, è autore sia dell’ordine e della legge di natura, sia dell’ordine e della legge sovrannaturali. È capo sia della Chiesa sia dello Stato. È istitutore sia del Sacerdotium che dell’Imperium. Tra le supreme potestà, che reggono le sorti dell’umanità, vi è quindi relazione. La Chiesa, infatti, in ordine alla maggior perfezione del suo fine, ha una supremazia sullo Stato, quella che i teologi chiamano Potestas indirecta in temporalibus ratione peccati, potere indiretto sulle realtà terrene in ordine al peccato. I sovrani cattolici, non solo in quanto privati, ma pure come detentori della suprema autorità, necessitano, come ogni altro fedele, della Chiesa per salvarsi. Per questo devono rispettarla, amarla, e sottomettersi alla sua potestà magisteriale, sacramentale e disciplinare. Lo Stato e l’autorità suprema che lo regge, infatti, non sono stati istituiti da Dio per se stessi. Essi hanno come fine diretto la prosperità temporale, ma indirettamente concorrono con la Chiesa allo scopo ultimo dell’uomo redento, che è la salvezza ultramondondana dell’anima immortale. Per questo la relazione e il rapporto tra le due potestà non può essere, né di stretta dipendenza l’una dall’altra, né di reciproca ignoranza od ostilità, ma di casta alleanza. Tale idea è ben espressa dalla mistica cerimonia dell’unzione degli Imperatori e dei Re.

Il rito consacratorio non è dunque necessario stricto iure perché un Principe cattolico eserciti, nel rispetto della legge di natura e della Rivelazione, le sue legittime prerogative sovrane. Il suo potere, la sua persona sono sacre e legittime anche prescindendo dalla benedizione e consacrazione della Chiesa. Vi furono ottimi Re ed Imperatori cattolici, che mai ricevettero tale consacrazione, e questo nulla tolse alla legittimità della loro autorità. Non si può a meno di cogliere, tuttavia, la convenienza per cui ordinariamente un monarca cattolico si sottoponga a tale solenne cerimonia. Essa esprime in maniera assai perspicua, semplice ed armoniosa, un punto capitale della dottrina cattolica: l’alleanza tra il potere dei Principi e l’autorità dei Pontefici sotto il supremo dominio di Dio, istitutore dell’una e dell’altra autorità. Nella cerimonia della Consacrazione ed Incoronazione degli Imperatori e dei Re si coglie l’unità e indivisibilità della società cristiana, pur nella distinzione tra ordine naturale e legge soprannaturale, tra potestà temporale e potere sacerdotale. Il monarca legittimo cui Dio, autore e creatore dell’ordine di natura, conferisce immediatamente la potestà sovrana, riconosce, sottomettendosi alla cerimonia dell’unzione, che tale autorità è anche al servizio dell’ordine soprannaturale e della legge di Grazia. La Chiesa gerarchica, per parte sua, con la sua speciale impetrazione, chiede a Dio, autore della natura e istitutore dell’ordine sovrannaturale, che il Principe ottenga in modo sovraeminente e sovrabbondante le grazie che gli sono indispensabili per l’esercizio della sua prerogativa.
Il rito conferma visibilmente, tramite il conferimento dell’Olio santo, la speciale dedicazione del sovrano cattolico, non solo alla conservazione della legge di natura, ma soprattutto a difesa e salvaguardia della Religione Rivelata. Ne sottolinea la sacertà, la sacralità, il fatto che l’autorità divina di cui è investito, lo pone su di un piano che, se non è certo equiparabile a quello Sacerdotale, non è, tuttavia, neppure semplicemente e meramente profano e laico.
La Chiesa ha, così, tradotto, con una speciale cerimonia, in maniera salutare, che il potere temporale è d’istituzione divina, e che riveste una sua singolare sacralità in ordine alla conservazione della legge di natura e alla salvaguardia dell’ordine soprannaturale (religione rivelata).
Da un punto di vista giuridico, poi, la cerimonia dell’Incoronazione comportava anche l’impegno solenne assunto sotto giuramento dal Sovrano di rispettare i diritti della Chiesa e dei vassalli. Il giuramento prestato in tale fastosa occasione vincolava maggiormente il monarca alla fedeltà ai solenni impegni presi davanti a Dio, al potere sacerdotale ed ai rappresentanti del regno, o dei regni di cui era sovrano, nel caso del Sacro Imperatore, che lo assistevano durante la consacrazione. Così l’Imperatore, prima della cerimonia vera e propria, era condotto dal decano dei Cardinali diaconi nella Chiesetta di S. Maria in Turri, ove, tenendo la mano sul Vangelo sorrettogli da un suddiacono, pronunciava il seguente giuramento: «Io, N. Re dei Romani, per divina disposizione futuro Imperatore, prometto, garantisco, attesto e giuro, dinanzi a Dio e al Beato Pietro, che per il resto sarò difensore e protettore della Santa Chiesa Apostolica Romana, e tuo, N., della medesima Chiesa Sommo Pontefice, e dei tuoi successori, in tutte le vostre necessità ed interessi, custodendo e conservando i vostri possessi, dignità e diritti, in quanto, sostenuto dall’aiuto di Dio, sarò capace, come saprò e potrò, con retta e pura fedeltà. Così mi soccorrano Dio e questi suoi santi Vangeli».

Rovesciando la più volte citata espressione di Stefano di Blois: «Il Re è santo; egli è l’Unto del Signore; non invano ha ricevuto il sacramento dell’unzione», potrebbe dirsi che il Sovrano legittimo è unto proprio perché è sacro. Egli è di già sacro, prima e senza l’unzione. La Consacrazione, però, operata dalla Chiesa, che sola dispone sulla terra del potere di santificare e benedire, dichiara tale sacralità d’origine divina.
Incoronazione di Carlomagno.

La Chiesa, istituendo la cerimonia della Consacrazione, ha tradotto col linguaggio mistico che le è proprio, la dottrina dell’origine divina della prerogativa sovrana. Nella cerimonia solenne e complessa con cui il Sacro Romano Imperatore, il principe titolare della potestà universale in temporalibus, era unto e incoronato a Roma dal Pontefice Romano, Gerarca e Pastore supremo della Chiesa Universale, s’evidenza con chiarezza tale connotazione della potestà sacra temporale.
Accanto infatti ad elementi strettamente connessi all’esercizio della sovranità temporale, come la consegna delle insegne del potere: corona, spada, scettro, pomo d’oro, ve ne sono altri nella cerimonia che sottolineano, alla maniera ecclesiastica, tale tratto distintivo:

(I) l’Imperatore si prosterna a terra e su di lui si cantano le Litanie che s’impiegano nell’ordinazione del Suddiacono;
 (II) poi avviene l’Unzione vera e propria: «Procedono all’altare di San Maurizio, dove il Vescovo di Ostia unge col segno di croce con Olio dei catecumeni il suo braccio destro e le scapole…» . Si noti che dal secolo X il Pontificale Romano ha svilito la prassi dell’unzione imperiale:
 (a) introducendo l’uso dell’Olio dei catecumeni al posto del Sacro Crisma, unguento più pregiato; (b) restringendo l’unzione al braccio e alle scapole, e non, come in antico, sul capo e sulla mano alla maniera episcopale. Solo nei regni più prestigiosi della Cristianità (Francia, Inghilterra e Germania) l’antica prassi rimase in vigore .
 (III) Subito dopo l’unzione il sovrano riceve dal Papa il bacio della pace “sicut unum ex diaconibus”[come uno dei diaconi].
(IV) All’Incoronazione, secondo momento capitale della cerimonia, il Papa pone la corona “supra mitram imperiale”, ossia la corona s’appoggia su una mitria simile a quella dei vescovi . Al riguardo va poi menzionato il fatto che il Sacro Imperatore veste durante la cerimonia paramenti para-sacerdotali come la tunica, la stola, la dalmatica (paramento proprio del Diacono) ed il piviale, il “manto” citato nell’Ordo del Pontificale Romano.
(V) L’azione liturgica, tuttavia, davvero notevole e che vale la pena di commentare è la seguente: durante la Santa Messa pro Imperatore, all’Offertorio, l’Imperatore “more subdiaconi offert [Pontifici] calicem et ampullam” [alla maniera del suddiacono porge al Papa il calice e l’ampolla]. Dopo il conferimento dell’unzione con Olio sacro e la consegna della Corona, si ha qui il momento massimo dell’espressione ecclesiastica delle potestà sacra dell’Imperatore. Egli porge al Pontefice, il quale sta esercitando il potere sacerdotale nella consacrazione delle Sacre Specie, il Calice, il vaso sacro ove sarà raccolto il Vino trasformato in Preziosissimo Sangue di NS Gesù Cristo, e l’ampolla con l’acqua da aggiungere al vino, simbolo della natura umana di Cristo. Un semplice profano non avrebbe mai avuto accesso ai Vasi sacri, con cui si compie il rito principale della religione rivelata, il Santo Sacrificio della Messa. Così il sacro Imperatore partecipa «more subdiaconi», come un suddiacono, alla liturgia sacerdotale per eccellenza del Cattolicesimo. L’Ordo della consacrazione specifica:  «stat ibi [ad altare]» fino alla Comunione. L’Imperatore rimane presso l’Altare, ove il Pontefice offre a Dio il S. Sacrificio della Messa, nel Presbiterio, il luogo sacro per eccellenza dell’edificio di culto, fino alla conclusione del rito. In questa rubrica v’è l’intenzione di sottolineare la sacertà del sovrano, che «alla maniera del suddiacono», come un chierico ordinato, rimane accanto al Pontefice Romano, presso l’Altare, il fulcro dell’azione sacrificale, fino al compimento del rito sacro. (VI) Infine il sovrano riceve la Santa Comunione, sotto le due specie, ossia be- vendo al Calice, con il bacio della pace, come un sacerdote . «La  consacrazione [unzione]non era il solo atto che mettesse in luce il carattere quasi-sacerdotale dei re. Quando, verso la fine del secolo XIII, ci si abituò a riservare rigorosamente ai preti la comunione sotto le due specie, accentuando così energicamente la distinzione tra il clero e i laici, la nuova regola non venne applicata a tutti i sovrani. Nella sua consacrazione, l’imperatore continuò a comunicare sia col pane sia col vino».

Sarebbe da chiedersi se questa suggestiva cerimonia, che certo non costituisce il Sacro Romano Imperatore in quanto Imperatore, lo costituisca come vero Suddiacono. Essa, per certi versi, riveste un’importanza ancora maggiore, in ordine all’espressione della natura divina dell’autorità imperiale e della sacralità del sovrano, rispetto all’Unzione vera e propria, anche se, da un punto di vista simbolico, il rito dell’Olio, con il suo retaggio biblico, si mostra più appariscente e comprensibile.

Gregory VII saying Mass.JPG
San Gregorio VII.

L’elemento sacro presente nella potestà temporale cristiana spiega perché storicamente i sovrani cattolici rivendicarono con forza riti e prerogative che sottolineavano e dichiaravano tale condizione non-ordinaria. Il potere sacerdotale, custode occhiuto della disciplina liturgica, sull’onda delle Riforma gregoriana del secolo XI, attenuò la portata dei riti di Consacrazione dei Sovrani.
Così per mitigare l’analogia tra la Consacrazione episcopale, dove pure era presente, seppure come rito accessorio, il Rito dell’unzione sul capo col Sacro Crisma, e le cerimonie d’Incoronazione, abolì in queste ultime l’uso del Crisma, sostituito col meno pregiato Olio dei Catecumeni, e confinò l’Unzione su parti meno nobili del candidato come le scapole, il gomito, e la mano, anziché sul capo, come era in antico e come si leggeva nella Bibbia.
Se tale cangiamento fu relativamente facile operare nella liturgia dell’Incoronazione imperiale, che dipendeva direttamente dal Papa, più difficile fu intervenire altrove. Così i Re di Francia, d’Inghilterra, e il Re di Germania (l’Imperatore Eletto) continuarono ad essere unti sul capo con il Sacro Crisma.
L’intenzione della potestà sacerdotale non era quella d’abolire l’idea della sacralità dei Re, quanto d’attenuarla. Essa, ciò nonostante, faceva capolino nei riti più insigni della Religione cattolica. Così, in uno dei momenti più solenni della liturgia del Venerdì Santo (Feria VI in Parasceve) nelle Orationes, che si recitano per tutti i generi di persone, ed in primis a vantaggio di coloro che nella Chiesa sono costituiti in dignità, si cita espressamente anche l’Imperatore Romano: “Oremus et pro Christianissimo (si non est coronatus, dicatur: electo Imperatore) Imperatore nostro N. ut Deus et Dominus noster subditas illi faciat omnes barbaras nationes, ad nostram perpetuam pacem.  […] Omnipotens sempiterne Deus, in cuius manu sunt omnium potestates, et omnium iura regnorum: respice ad Romanum benignus Imperium; ut gentes quae, in sua feritate confidunt, potentiae tuae dextera comprimantur. Per Dominum. Amen. [Preghiamo anche per il nostro Cristianissimo Imperatore (se non è coronato si dica: Imperatore eletto) affinché Dio, nostro Signore, gli renda soggette tutte le nazioni barbare per la nostra perpetua pace… Dio onnipotente ed eterno, nelle cui mani stanno tutti i diritti e i poteri dei regni, guarda benignamente l’Im- pero Romano, affinché le nazioni che confidano nella forza brutale siano domate dalla potenza della tua destra].
Anche il Sabato Santo, alla Benedizione del Cero Pasquale, simbolo del Corpo di Cristo Resuscitato, si fa esplicita menzione, dopo il Sommo Pontefice, del Sacro Im- peratore. La luce del Cristo Risorto deve illuminare le due supreme potestà della Chiesa: “Precamur ergo Te, Domine: ut nos famulos tuos, omnemque clerum, et devotissi- mum popolum: una cum beatissimo Papa nostro N., et Antistite nostro N., quiete temporum concessa, in his pascalibus gaudiis, assidua protectione regere, gubernare, et conser- vare digneris. Respice etiam ad devotissimum (si non est coronatus, dicatur: electo Imperatore) Imperatorem nostrum N. cuius tu, Deus, desiderii vota praenoscens, ineffabili pietatis, et misericordiae tuae munere, tranquillum perpetuae pacis accomoda: et coelestem victoriam cum omni populo suo. Per.” [Ti preghiamo dunque, affinché noi tuoi servi, il clero tutto, il devotissimo tuo popolo, assieme al beatissimo nostro Papa N., e col vescovo nostro N., concessa la pace dei tempi, ti degni, durante questi gaudi pasquali, reggere, governare,  e conservare con assidua protezione. Degnati pure di riguardare favorevolmente il nostro piissimo Imperatore N., e, conoscendo i desideri del suo cuore, accorda- gli, nella tua misericordia e nella tua bontà ineffabile, che egli goda del riposo di una pace duratura e che con tutto il suo popolo consegua quella vittoria che conduce al regno celeste]. Nell’occasione solenne del Triduo Pasquale, cuore della liturgia cattolica, pregando per la figura sacra dell’Imperatore, accanto a quella del Papa, si sottolineava ancora una volta l’unità e concordia dei due poteri ministeriali nella Chiesa, la loro origine divina, la loro sacralità. Si noti, per inciso, come la rubrica prevedesse la recita di dette orazioni anche nel caso in cui l’Imperatore non fosse stato effettivamente Unto dal Pontefice Romano, ma fosse solo Imperatore ‘eletto’.

Carlo V d'Asburgo
Carlo V del Sacro Romano Impero.
Evidentemente, anche in questo caso, l’Imperatore non era meno Imperatore, che dopo l’Unzione. Purtroppo l’epoca moderna vide cadere in desuetudine la solenne cerimonia della Consacrazione imperiale da parte del Pontefice Romano. Carlo V del Sacro Romano Impero (1519-1556) il 24 febbraio 1530 fu l’ultimo Sacro Imperatore a farsi incoronare dal Papa Clemente VII (1523-1534). Dopo di lui, fino alla fine del Sacro Romano Impero (1806), nessuno dei successori rinnovò l’antica cerimonia, che, iniziatasi ufficialmente nel Natale dell’800, con l’Incoronazione di Carlomagno, si protrasse, quasi senza interruzione, per poco più di sette secoli.

L’Imperatore – lo si è visto – partecipava alla Messa della sua Incoronazione, non come semplice fedele, bensì come un Suddiacono, offrendo al Pontefice, all’Offertorio, il Calice e l’acqua per il Sacrificio. I monarchi non pretesero certo d’essere impiegati ordinariamente quali Suddiaconi nella Messa papale, ma vollero conservare, anche in altre solenni circostanze, quel rito che, scaturendo dal loro ministero suddiaconale, li palesava sacri e legittimi , e non semplici laici: la Comunione sotto le due Specie, che comportava il contatto con il sacro Calice.
 A partire dal XI secolo infatti, nella Chiesa Latina, cominciò a diffondersi il rito di comunicare i fedeli con la sola specie del Pane, riservando il Calice ai Sacerdoti. Motivi pratici e ragioni dottrinali spinsero la Gerarchia in tale direzione. La Comunione al Calice era praticamente difficoltosa, nonostante i vari accorgimenti escogitati. Inoltre, poiché chi riceveva una sola Specie, riceveva anche l’altra, il conferimento del Vino diveniva inutile.
Infine, restringendosi la Comunione sub utraque Specie ai soli Sacerdoti, a coloro che soli godevano del potere consacratorio, se ne sottolineava meglio la specificità ministeriale e la gerarchia rispetto al semplice laico. I sovrani più consapevoli, comprendendo che a mano a mano che l’antica prassi andava in desuetudine a vantaggio del Clero, essi rischiavano di veder, in un certo modo, menomata la propria aura sacrale, si rivolsero all’autorità ecclesiastica perché il rito fosse loro confermato come in antico.
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Filippo VI di Francia.

Così i Re di Francia, che, come il Sacro Imperatore, si comunicavano sotto entrambe le Specie il giorno dell’Incoronazione, ottennero nel 1344 con Filippo VI (1328-1350) da Papa Clemente VI (1342-1352) di poter comunicare al Calice senza limitazioni.
Sul finire del ‘300 tuttavia, il diffondersi dell’eresia hussita, che si proponeva, con speciose argomentazioni, la restaurazione integrale dell’antica prassi, fece sì che i Papi guardassero con diffidenza le eccezioni alla norma, che voleva riservata ai soli sacerdoti la Comunione al Calice. Gli eretici, in effetti, giustificavano il ritorno all’antico rito, in quanto rigettavano erroneamente la distinzione tra laici e sacerdoti, mettendo in discussione la natura sacramentale dell’Ordine Sacro. Tutti erano sacerdoti nella chiesa immaginata da Huss: tutti dovevano quindi comunicarsi sotto le Due Specie.
Anche i Sovrani pagarono le spese di tale torbidi religiosi. Così, l’Imperatore Federico III del Sacro Romano Impero  (1440-1493), incoronato a Roma il 15 marzo 1452 da Papa Niccolò V (1447-1455) rinunciò alla Comunione al Calice.
Tuttavia il rito appariva troppo essenziale alla natura sacrale dei Principi per scomparire del tutto. Così, quando, con il Concilio di Trento (1542-1564), la reazione cattolica alla ben più grave eresia protestante confermò la prassi liturgica, che escludeva i semplici fedeli dalla Comunione al Calice per i semplici laici , i Sovrani tornarono alla carica.
Il Re di Francia vide confermato per sè e i suoi legittimi discendenti la Comunione sotto entrambe le Specie il giorno della Consacrazione ed in punto di morte.
Gli Imperatori-Suddiaconi invece, oltre che al momento della loro Consacrazione, rinnovavano il rito al Calice nella solennità del Giovedì Santo. Sicuramente Papa Pio IV (1559-1565) confermò l’usanza all’Imperatore Massimiliano II (1564-1576) usanza che rimase in vigore fino al 1918, quando  la monarchia austro-ungarica erede del Sacro Romano Impero trovò la sua tragica battuta d'arresto.

Francesco Giuseppe I d'Austria esegue il
rito della Lavanda dei Piedi, a dodici poveri.

Francesco Giuseppe I d'Austria (1848-1916) e Carlo I d'Austria (1916-1918) quindi comunicarono al Calice ogni Giovedì Santo dei loro anni di regno. Non senza profondo significato, infatti, la cerimonia avveniva in quella solennità. Il Giovedì Santo è la festa ‘sacerdotale’ per eccellenza della liturgia cattolica. Nella Missa in Coena Domini si commemora fastosamente l’Istituzione da parte del Signore Gesù del Sacerdozio e del  Santo Sacrificio della Messa. Il Vescovo, poi, benedice gli Olii santi: Olio degli infermi, Olio dei Catecumeni e Sacro Crisma “unde unxisti Sacerdotes, Reges, Prophetas et Martyres” [col quale ungesti sacerdoti, Re, profeti e martiri] che sarebbero impiegati nell’amministrazione dei Sacramenti, o nella consacrazione di persone o cose. In quella solennità, ove risplende nell’azione liturgica, quasi ad ogni passo, la potestà sacerdotale che s’esercita nel Sacrificio Eucaristico, proprio allora gli Imperatori si comunicavano al Calice, toccando i Vasi sacri. La natura sacrale della loro autorità era ancora riconfermata, come nel giorno dell’Incoronazione. In quella medesima solennità i legittimi Re Cristiani compivano, come i Sacerdoti e i Vescovi, il Mandatum, ossia la Lavanda dei Piedi, a dodici poveri.

San Luigi IX di Francia distribuisce elemosine
ai poveri.


La natura sacra della potestà monarchica e, in generale, del potere politico, così come la Chiesa lo tradusse in formule liturgiche prima che in enunciazioni dottrinali, spiega un fatto innegabile che caratterizzò l’intera vicenda della società cristiana fin quando vi furono Principi cattolici legittimi: l’esercizio da parte loro, nei confronti delle istituzioni gerarchiche della Chiesa cattolica, di una potestà reale, sfumata alle volte, diversamente giudicata ed interpretata; un fenomeno però troppo costante nel tempo per non essere privo di un  qualche fondamento legittimo.
Gli storici della Chiesa, spesso, avendo perso il senso della concordia e dell’unità dei due poteri supremi nella Chiesa, e tendendo soprattutto a sottolineare la distinzione netta, ma astratta tra la Chiesa gerarchica e i fedeli, senza tener conto della singolare natura dell’autorità temporale, giudicarono tali fatti alla stregua di indebite ‘ingerenze’ del potere politico negli affari ecclesiastici, di intromissioni dei laici nel governo della Chiesa, non distinguendo quelle che furono vere e proprie ingerenze, come certi fenomeni prodotti dal processo rivoluzionario (gallicanesimo, giurisdizionalismo, febronianesimo, giuseppinismo ecc.) da una prassi costante, dalla Chiesa in vario modo approvata.
La mentalità e la prassi rivoluzionarie hanno disabituato il cattolico alla comprensione di quell’unità nella distinzione, in cui consisteva la sostanza della società cattolica, articolata nella duplice, ma concorde, gerarchia temporale e spirituale.
Così, un’istituzione tipica della monarchia cattolica, come i cosiddetti Concili misti (Concilia mixta) potrà apparire all’uomo contemporaneo, imbevuto di idee liberali, come una stravaganza medioevale. Siffatte assemblee, al contrario, convocate dai sovrani cristiani fin dai tempi di Costantinopoli, «a cui prendevano parte, oltre ai Vescovi, i conti, i duchi ed altri principi secolari, e nelle quali si stabilivano di comune accordo misure sia d’ordine civile, che ecclesiastico» , esprimevano bene tale unità politico-spirituale.
Sorta la monarchia sacra e pienamente legittima con la conversione dell’Imperatore Costantino, i sovrani cristiani, compresi del loro alto ufficio di custodi dell’ordine naturale ed alleati della Gerarchia ecclesiastica nella Chiesa, si interessarono, oltre che della nomina di vescovi ed abati,  anche della scelta del Sommo Pontefice. Tocchiamo qui un argomento spinoso, che ha fatto versare fiumi d’inchiostro. Una concezione storiografica influenzata dal processo rivoluzionario anticristiano degli ultimi secoli, ha talvolta assuefatto anche gli ecclesiastici di buono spirito, non ultimi alcuni ‘tradizionalisti’, a giudicare, nella relazione tra Sacerdotium e Imperium dei secoli cristiani, sempre e comunque, l’azione del potere temporale, anche se consacrato e legittimo, nella sfera religiosa, come uno sconfinamento indebito, immaginando la relazione ideale della Chiesa docente con lo Stato cristiano non altrimenti che di semplice obbedienza ad nutum dei voleri pontificali.

Papa Pio IX prigioniero dello Stato Italiano
(Rivoluzione).

Molti tra i moderni storici della Chiesa, avendo perduto il senso dell’unità nella distinzione della potestà monarchica e dell’autorità pontificale nell’unica Chiesa di Cristo, influenzati dalla condotta anticattolica dei governi illegittimi degli ultimi secoli, hanno trasferito, più o meno inconsciamente, anche alle epoche in cui vigeva un regime di concordia tra lo Stato e la Chiesa, il giudizio negativo sulle relazioni tra le due supreme potestà nell’epoca rivoluzionaria.
Basterebbe leggere il lungo e, per altro, ben documentato saggio che nel 1911 il Dictionnaire de Théologie Catholique dedica a tale argomento, per toccare con mano come, ben prima dell’esplosione neo-modernista degli anni ’60 del secolo trascorso, molti autori ecclesiastici avessero completamente perduto il senso dell’unità e della concordia dei due poteri nella Chiesa. Il saggio sopracitato, infatti, trasuda di anacronistico nazionalismo anti-tedesco. Si parla continuamente di imperatore ‘tedeschi’ e si riduce la contesa tra le due potestà, spesso, a una questione nazionale!

La Rivoluzione a scavato nell'intelletto delle genti creando vuoti deleteri capaci di sovvertire ogni cosa.



Conclusioni e riflessioni.


 Senza dilungarci ulteriormente , comprendiamo come l'autorità legittima sia espressamente ed intensamente legata alla Chiesa di Cristo (Cattolica) e come le due massime potestà legittime in terra siano collaborative in maniera intrinseca. Certo è che molti, anche coloro i quali vantano titoli accademici di spicco, siano estranei a codeste verità oggettive arrivando a negarle e a ragionare attraverso dettami rivoluzionari un qualcosa di diametralmente opposto. Se ci fermiamo a riflettere ed ad analizzare quanto detto fino a questo punto arriviamo a comprendere che la legittimità non è soltanto una questione di sangue. Arriviamo a comprendere che un sovrano , che egli  sia il Re di Francia o il Sacro Romano Imperatore, doveva e deve rispettare la legge di Dio ed il Diritto Naturale per essere legittimato nella sua potestà. Un sovrano in seno alla Verità Rivelata non può negarla ne commettere delitti contro di essa. La pena per una tale condotta è la decadenza del sovrano.
La legittimità risiede si nel sovrano dal momento in qui , nel rispetto della morale e delle leggi divine , diviene Re o Imperatore ma la sua condotta è metro importante per valutarne il diritto a Regnare. Certo è che non tutti possono svegliarsi la mattina e dettare le regole per valutare ciò , ma è altrettanto vero che queste regole esistono già da secoli e per secoli sono state rispettate. Se un Principe dimentica i suoi doveri , negando il suo Trono , approvando leggi inique (aborto, eutanasia, matrimoni sodomiti ecc...) , e così discorrendo , decade per mano sua venendo meno ai suoi doveri , infrange la legge di Dio (Diritto Naturale).
Oggi viviamo in un sistema retto sul marciume della Rivoluzione , nulla è lontanamente paragonabile alla politica dei valori figlia della potestà legittima. Delle monarchie oggi esistenti nessuna rientra in seno alla legittimità , chi per sangue , chi per istituzione , e chi per entrambe. Questa non è una regola che ho dettato io per un mio capriccio ma è semplicemente quello che è: il legittimismo. Il legittimismo , come è ormai chiaro, non si basa sui capricci dell'uomo e dell'ora presente , non può e non deve essere contaminato dalla dottrina rivoluzionaria. Infatti, se si contamina , perde la sua essenza divenendo una moda e non un qualcosa di eterno (cosa che il legittimismo è).
In questo lavoro ho voluto spiegare attraverso le prerogative del sovrano dal Vecchio Testamento all'epoca moderna per far comprendere al lettore quali siano le caratteristiche che rendono legittima una potestà (in questo caso il sovrano).
Quindi , un sovrano si dice legittimo quando:

1) Rispetta e difende la Verità Rivelata nella sua integrità.

2) Non contravviene al diritto Naturale.

3) Discende in linea di sangue , rispettando leggi e disposizioni, dal capostipite della casata regnante.

4) Rispetta i popoli messi da Dio nelle sue mani.

5)  Collabora con Santa Madre Chiesa al bene del popolo e per la sua prosperità.

6) Combatte la Rivoluzione e i suoi difensori.

Questi sono i principali punti che un sovrano deve rispettare per mantenere salda la propria legittimità. Contravvenire ad un solo punto significherebbe soltanto il crollo dell'intera istituzione , così come la storia ci ha mostrato più volte. Mantenersi saldi alle fondamenta che stanno alla base della potestà legittima è il dovere primario di ogni Principe Cristiano. Tali prerogative saranno valide fino alla fine dei tempi e indifferentemente dai capricci dell'uomo.


Fine...

Fonti:

 Pio VI, Allocuzione tenuta al Concistoro del 17 giugno 1793, citato in P. Corrêa De Oliveira, Nobiltà ed elites analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana, Milano, Marzorati, 1993, p. 151.
 Sac. P. Albrigi, Sacra Liturgia. I Sacramenti e i Sacramentali, Vicenza, Soc. Anonima Tipografica, 1941.

M. Andrieu, Le Pontifical Romain au Moyen Âge, Città del Vaticano, Studi e Testi, 1938, vol. II.

 M. Bloch, I Re taumaturghi.

Messale Romano. Testo latino completo e traduzione italiana di S. Bertola e G. Destefani, commento di D.G. Lefebvre OSB,Torino, Centro Litur- gico di Torino, 1936.

 S. Tommaso d’Aquino, De Regimine Principum, (l. II, c. XVI),  traduzione di R. Tamburini, introduzione e note di P. Tito S. Centi, OP, Sie- na, Cantagalli, 1981.
 E. Mangenot, Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris, Letouzey et anè, 1911, t. III.

Scritto da:

Presidente e fondatore A.L.T.A. Amedeo Bellizzi.