Maometto II. |
Frattanto parve che s'allontanasse ancora una volta il pericolo, che da più d'una generazione minacciava Costantinopoli e tutto il mondo orientale , poichè, invece di dirigersi, come si temeva, contro Cipro, il sultano Mohammed si volse contro l'antico nemico del suo impero, il principe maomettano di Caramania. I bizantini, quando videro così occupato in Asia il loro più pericoloso nemico, con infausta cecità credettero di potere usare con lui un linguaggio minaccioso. Inviarono nel campo di Mohammed una ambasceria minacciante di metter su come pretendente al trono Urchan nipote del sultano, che veniva educato a Costantinopoli, qualora non si pagasse pel medesimo il doppio della pensione! Mohammed rispose a questa richiesta di imbecille avarizia con parole sbuffanti di rabbia, in tutta fretta concluse la pace col principe di Caramania e con sacrifici d'oro accontentò i giannizzeri allo scopo di potere, libero da nemici esterni e interni, impiegare tutte le sue forze contro Costantinopoli. Appena giunto ad Adrianopoli, proibì di consegnare all'imperatore le rendite delle contrade sullo Strimone, che erano destinate al mantenimento di Urchan, indi diede principio con sterminatrice sicurezza alle sue misure che miravano a strozzare alla lunga Costantinopoli . Prima di tutto mediante l'erezione d'una fortezza sul Bosforo, sopra Costantinopoli, dovevasi tagliare la comunicazione della città col Nord. I preparativi per questa costruzione cominciarono fin dall'inizio dell'inverno 1451. La notizia della cosa suscitò a Costantinopoli il più grande sbigottimento. «Ora» dicevasi «ecco la fine della città; ecco i segni precursori del tramonto della nostra razza, ecco i giorni dell'Anticristo. Che sarà di noi? Ci si tolga, o Signore, la vita piuttosto che gli occhi de' tuoi servi abbiano a vedere la rovina della città, affinché i tuoi nemici, o Signore, non dicano: ove sono i santi, che custodiscono la città?» .
L'imperatore Costantino mandò ad Adrianopoli degli ambasciatori per fare rimostranze sulla progettata costruzione della fortezza. Il sultano rispose, che farebbe scorticare chi venisse ancora a lui per tale cagione. Nella primavera del 1452 si cominciò la fabbrica della fortezza, della quale il sultano stesso aveva abbozzato il piano, scegliendo come sito quella località, ove il Bosforo é più stretto ed una forte corrente spinge le navi dalla costa d'Asia a quella d'Europa sul promontorio Ermeo.
In poco tempo ivi sorse una fortezza, di cui le mura erano grosse 22 a 25 piedi e le torri coperte di piombo alte 60 piedi. I Turchi le diedero il nome di Bogaz Kessen, cioè tagliatore dello stretto od anche del collo. Già Baiazid aveva eretto sul lato opposto un simile castello, che portava il nome di Anadolu Hissari. Le due fortezze dominavano appieno lo stretto e rendevano in ogni ora possibile al sultano di colpire nel modo più grave sul punto più sensibile le potenze marittime cristiane, specialmente Venezia e Genova, potendo a piacimento interdire e chiudere alle medesime il passaggio al mar Nero ed alle loro colonie là esistenti. Ora dipendeva dal suo beneplacito anche il tagliare a Costantinopoli l'indispensabile importazione e metterla con ciò in braccio alla fame nel caso d'un assedio.
Durante la costruzione della fortezza erano sorte con alcuni abitanti di Costantinopoli, che possedevano campi seminati nelle vicinanze, delle controversie, le quali condussero a sanguinosi conflitti. A questo punto l'imperatore greco si rivolse con una lettera seria e dignitosa al sultano, il quale tuttavia non si diede neanche la pena di scusarsi: fece anzi decapitare l'inviato e dichiarò la guerra all'imperatore (giugno 1452). Mohammed però fu prudente abbastanza di non cominciare subito la guerra, limitandosi ad una ricognizione delle mura, fosse e torri di Costantinopoli e ritornando il 1° settembre ad Adrianopoli.
Anche l'inverno seguente passò senza fatti di guerra; da una parte e dall'altra si fecero con tutte le forze i preparativi per la lotta, che doveva portare la terribile decisione . Adesso l'imperatore Costantino si mostrò nuovamente propenso all'unione coi Latini, senza dubbio per ottenerne l'aiuto contro i Turchi. Bisogna lasciar indeciso se ciò facendo egli avesse intenzioni del tutto leali, ma anche se si ammette la cosa, egli mancava tuttavia della potenza di fare eseguire la sua volontà presso il popolo eccitato contro i Latini sino al fanatismo. Ciò sarà stato riconosciuto anche a Roma: ad ogni modo là si era già abbandonata la speranza sì a lungo avutasi, che l'intiera Chiesa greca accetterebbe l'unione fiorentina . Comunque fosse, la Roma orientale doveva almeno officialmente adattarsi a riconoscere sulla base dell'unione fiorentina i diritti papali, prima che Niccolò V, senza ledere la propria autorità potesse lavorare attivamente a favore dei Greci .
Discussa con zelo e variamente sciolta fu allora in Roma la questione se s'avesse a concedere aiuto ai Greci. Sappiamo dei particolari in proposito da una dissertazione purtroppo anonima, scritta a Roma, (9) che con tutta l'eloquenza dell'umanismo e con grande impiego di scienza scende in campo a favore dell'aiuto da darsi ai Bizantini . Da essa riluce quanto differissero allora in Roma le idee sul modo di contenersi coi Greci. Stavano acutamente di fronte due tendenze: l'una, partendo dal principio che non si potesse tener commercio alcuno con eretici, scismatici e scomunicati, era contro la concessione dell'aiuto, ed i seguaci di questa opinione s'accordavano poi in questo, che quegli empi scismatici venissero colpiti dalle pene loro competenti . Contro questo esagerato rigore l'autore del lavoro polemizza con acutezza appellandosi a detti dei santi Padri e di classici pagani, come fra altri Aristotele, Sallustio, Valerio Massimo, Seneca . Egli appella alla carità cristiana, all'amore pei peccatori comandato dal Signore ed energicamente propugna la massima, che, malgrado lo scisma e la loro ingratitudine, si debba prestare aiuto ai Greci . Se si nega il soccorso, è da temersi che dopo la conquista di Costantinopoli avvenga un massacro dei cristiani . Se si dice, che i Greci vogliono perseverare nello scisma, gli è vero bensì, che molti così la pensano, ma non tutti però: anche fra essi vi sono pure molti uomini distinti e religiosi. Non si sa che cosa faranno costoro, ma non bisogna darsi pensiero del futuro; per ora conviene avanti tutto esaudire le preghiere dei così crudamente provati dai nemici del nome cristiano . Finalmente, pensa l'autore, va portato aiuto alla città di Costantinopoli pel suo glorioso passato. Là avevano vissuto molti uomini distinti per dottrina, pietà e purezza della vita, fra le sue mura la città nasconde numerose reliquie di santi e chiese riccamente ornate. Anche per onore dell'imperatore Costantino così benemerito del popolo cristiano e in ispecie della Chiesa romana si è obbligati ad impedire che la città sua cada nelle mani degli infedeli .
Proseguendo, l'autore mostra per quali motivi il papa abbia specialmente il dovere di darsi pensiero della conservazione di Costantinopoli e qui trovano onorevole menzione gli sforzi fatti da Eugenio IV di fronte al pericolo turco . Indi a vivaci colori si dipingono ancora i pericoli imminenti e si enumerano gli orrori commessi dagli infedeli: finalmente si fa risaltare quanto sia necessario, che si instauri in Italia una pace, se non stabile, almeno temporanea. In causa dei pericoli, di cui erano minacciate Costantinopoli, Cipro e tutte le coste del Mediterraneo, tutti i re e principi cristiani, in ispecie tutti i prelati ed ecclesiastici, dovrebbero prepararsi alla difesa della cristianità .
Tutti questi motivi, ai quali non poteva negarsi che fossero giustificati, erano stati sottoposti a severa considerazione in Roma e determinarono il papa a favore d'un aiuto da darsi ai Greci. Il momento però che veramente diede la decisione fu la circostanza, che la caduta di Costantinopoli minacciava di mettere in serio pericolo l'Italia stessa, perchè secondo ogni probabilità la sede del papato doveva essere il primo oggetto d'un assalto turco. Poichè inoltre l'imperatore Costantino si dichiarò pronto a riconoscere pubblicamente l'unione, il papa si decise a mandare uno speciale legato a Costantinopoli. La scelta cadde sul cardinal Isidoro, che già per le sue tendenze umanistiche stava presso di lui in grande favore. Isidoro lasciò Roma ai 20 di maggio del 1452 , portando 200 uomini di truppe ausiliari e trovandosi nel suo seguito Leonardo arcivescovo di Mitilene, di cui si conserva una relazione sulla tragica rovina dell'impero romano orientale.
La scelta del papa va dichiarata molto felice perchè il cardinale Isidoro conosceva in modo esattissimo le condizioni in cui si trovava Costantinopoli. Inoltre egli agì con grande senno e prudenza. Per questo e per la grandezza del pericolo da parte dei Turchi egli ottenne più di quello, che persino i più audaci avevano ardito di sperare. Egli il 12 dicembre 1452, circondato da 300 preti, promulgò in S. Sofia l'unione della Chiesa greca colla romana. Le stesse parole, le stesse preghiere pel papa, che 13 anni prima avevano risuonato a Firenze sotto la cupola del Brunelleschi, echeggiarono ora nell'incomparabile chiesa di Giustiniano. Ma la festa dell'unione rimase sostanzialmente limitata ai circoli di Corte. La massa del popolo s'attenne non all'imperatore, ma al fanatico Gennadio, che eccitava a nuovo odio contro i Latini e designava come apostati gli amici dell'unione . Di giorno in giorno si rese sempre più chiaro quanto era profondamente radicata a Costantinopoli l'avversione a tutto ciò che fosse occidentale.
Molti non vedevano nell'unione che un momentaneo mezzo d'uscita, nè rifuggivano dal dire apertamente: fate solo che sia passato il dragone turco e vedrete se ci atterremo o no agli azimiti. Il popolo e grande parte del clero mandarono nuovamente a vuoto l'unione. Un nuovo selvaggio scoppio del fanatismo successe in un momento, nel quale i Turchi avvicinavansi già alle mura di Costantinopoli. Preti scismatici, furenti per l'aperta adesione dell'imperatore all'unione, proclamarono solennemente l'anatema su tutti gli aderenti al concilio fiorentino. Nel confessionale rifiutavano l'assoluzione a coloro che erano intervenuti alla festa dell'unione, anzi esortavano gli ammalati a morire senza i santi sacramenti piuttosto che riceverli da un unito. La chiesa di S. Sofia venne infamata siccome caverna dei demoni e sinagoga dei Giudei. La plebaglia malediceva agli unionisti, i marinai del porto bevevano alla rovina del papa e dei suoi schiavi e vuotavano i bicchieri ad onore della Beata Vergine dicendo: a che ci abbisogna l'aiuto dei Latini? Naturalmente gli amici dell'unione non erano forti abbastanza per sostenersi contro questi sfoghi brutali d'un popolo fanatico, che consumava il resto della sua forza in odio selvaggio contro i Latini . Questa fanatica irritazione contro la comunione ecclesiastica con Roma si estese fino a circoli molto elevati di Bisanzio, donde anzi vennero allacciate trattative cogli utraquisti boemi . Il granduca Luca Notaras, l'uomo più potente dell'impotente impero, non ristette dal pronunziare la famigerata frase: vedrei più volentieri nella città il turbante turco che la tiara di Roma .
Non è da far meraviglia che fosse soltanto leggero lo zelo dei Latini per la salvezza di un popolo sì insanabilmente a ciecato e che a Roma ed altrove si difendesse l'opinione non doversi in generale concedere aiuto alcuno a questi scismatici . L'antilatinismo fanatico dei Greci spiega e scusa almeno in parte il fatto, che da parte delle potenze occidentali non fu prestato quel sollecito aiuto, che forse avrebbe potuto salvare la magnifica metropoli dell'Est.
Oltre al papa ed al re di Napoli , fra tutte le potenze occidentali solo le due repubbliche di Venezia e di Genova, ed anche esse principalmente soltanto per motivi molto poco ideali, prestarono aiuto reale all'imperatore greco. I Veneziani cioè ed i Genovesi sentirono molto bene quanto profondamente venissero toccati i loro interessi dall'assalto dei Turchi contro la capitale greca. Se cadeva la Roma orientale, andavano perduti non soltanto i beni e immobili di straordinario valore, che le due repubbliche e numerosi loro pertinenti possedevano a Costantinopoli, ma anche le ricche colonie del Mar Nero: tagliate dalla madre patria, esse senza scampo sarebbero divenute una preda del rapace nemico .
I Genovesi e la loro colonia di Chios mandarono materiale da guerra ed un'eccellente schiera di guerrieri, che, ben lungi dalla doppiezza dei loro concittadini di Pera, si dedicarono con tutta l'anima all'opera di difesa .
Uno zelo relativamente molto minore svolse la potente Venezia . Due volte nel 1452 comparvero nella città delle lagune gli inviati dell'imperatore greco a chiedere pressantemente aiuto e consiglio contro l'imminente assalto dei Turchi, ma non ebbero alcuna promessa determinata, perchè l'interesse delle persone dirigenti la repubblica concentravasi allora esclusivamente nella guerra contro il duca di Milano . Meramente il più vicino interesse materiale fu quello che mosse la Signoria a mandare alcune navi a Costantinopoli. A Venezia si partì dal disgraziato pensiero, che la flotta della repubblica avesse ad operare in unione colle navi promesse dal papa e da re Alfonso e perciò si differì fino ai 7 di maggio del 1453 la spedizione di una maggior flotta di soccorso. Le dieci navi comandate da Jacopo Loredano, alla venuta ardentemente desiderata delle quali gli assediati avevano legato grandissime speranze, arrivavano ora troppo tardi . Caratteristiche idee sulle vere intenzioni della repubblica veneta suscita l'istruzione data a Jacopo Loredano. Nell'andare a Costantinopoli, vi si legge, tu non devi recar danno qualsiasi alle città, uomini o navi dei Turchi, trovandoci noi con essi in stato di pace. Poichè, sebbene abbiamo armata la flotta nostra in onore di Dio e per conservare la città di Costantinopoli, pure non vogliamo - se è possibile - impigliarci in guerra coi Turchi .
Per mala ventura sono estremamente lacunose e in parte contradditorie le notizie sull'aiuto dato da Niccolò V. Il diario dello scribasenato Infessura, fonte veramente molto sospetta, narra, che gli inviati dell'imperatore, invocanti soccorso furono tenuti a bada in Roma e non poterono ottenere decisione alcuna. Nella sua cronaca Antonino arcivescovo di Firenze riferisce, che Niccolò V negò direttamente agli inviati greci la concessione di un aiuto in denaro. Ma poiché per una iscrizione consta, che anche nel 1452 Niccolò V mandò denaro per fortificare le mura di Galata, questi dati possono non essere esatti . Aggiungi la testimonianza, che il papa stesso diede al cospetto dell'eternità.
Ai cardinali raccolti intorno al suo letto di morte Niccolò V dichiarò che, ricevuta la notizia dell'assedio di Costantinopoli, egli s'era tosto deciso a venire in aiuto dei Greci secondo le forze, ma che insieme era stato ben conscio di non trovarsi in condizione di potere opporre da solo e coi proprii mezzi una forza comechessia sufficiente alle straordinarie forze militari dei Turchi. Che pertanto egli aveva dichiarato «chiaro ed aperto» agli inviati greci, che quanto possedeva in oro, navi e uomini, era a disposizione dell'imperatore, ma che questi, a causa dell'insufficienza di tale soccorso, cercasse, al più presto quello pure di altri principi, dichiarando inoltre, che le forze ausiliarie del papa erano a disposizione siccome ferma base delle altre. Aggiunse che gli inviati sarebbero partiti del tutto soddisfatti di tale risposta, ma che, nonostante gli sforzi fatti presso varii principi, essi tornarono a Roma senza aver nulla concluso, e che allora egli (il pontefice) aveva dato il suo aiuto così quale era .
Conformemente a questo il 28 d'aprile Niccolò V diede ordine all'arcivescovo di Ragusa, Jacopo Veniero di Recanati, di accompagnare come legato a Costantinopoli le 10 galere pontificie ed un certo numero di navi fornite da Napoli, Genova e Venezia . Questa flotta italiana unita, alla quale legaronsi grandi e liete speranze , non arrivò a entrare nell'azione perchè fin dal 29 maggio sì decise il destino della metropoli del Bosforo.