Mappa di Famagosta a fine Cinquecento
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Famagosta è difesa da settemila uomini e da 500 bocche da fuoco. Le fortificazioni, opera del celebre architetto Sammicheli, sono frutto delle più avanzate concezioni belliche: la cinta rettangolare delle mura, lunga quasi quattro chilometri e rafforzata ai vertici da possenti baluardi, è intervallata da dieci torrioni e coronata da terrapieni larghi fino a trenta metri. Alle spalle le mura sono sovrastate da una decina di forti, detti "cavalieri", che dominano il mare e tutta la campagna circostante, mentre all'esterno sono circondate da un profondo fossato. La principale direttrice d'attacco è difesa dall'imponente massiccio del forte Andruzzi, davanti al quale si protende, più basso il forte del Rivellino.
Per spaventare i difensori, Mustafà Pascià invia a Famagosta, racchiusa in una cesta, la testa del governatore di Nicosia, Niccolò Dandolo. Ma il Capitano Generale di Famagosta, Marcantonio Bragadin, di antico e nobile casato veneziano, non s'impressiona, respinge ogni intimidazione di resa e dà tutte le disposizioni necessarie per quella lunga ed eroica resistenza "che resterà sempre monumento di gloria negli annali militari". Bragadin ed i suoi uomini sono convinti che Venezia non li lascerà in balia del turco e che, prima o dopo, arriveranno i sospirati e promessi soccorsi.
Il 22 settembre 1570 il blocco di Famagosta è completo, dopo che anche Creta è caduta in mano agli ottomani. Un esercito di 200 mila uomini l'assedia per via terra, una flotta di 150 navi per via mare. I turchi hanno completato l'accerchiamento della città fino ad un tiro di cannone. Sulle alture circostanti millecinquecento cannoni ed alcuni obici giganteschi tengono sotto il loro micidiale tiro sia la fortezza che i quartieri cittadini; invano i veneziani cercano di salvare i più importanti monumenti e le chiese, ricorrendo a "travate di sostegno e cumuli di sacchetti di sabbia": tutto crolla o brucia irrimediabilmente e la popolazione, terrorizzata, si rifugia nella fortezza aggravando la già precaria situazione dei combattenti. Tra gravi privazioni e sofferenze - scarseggiano viveri e munizioni - passa così l'inverno 1570.
Nella primavera del 1571 Mustafà Pascià, che fino ad allora si è illuso di far cadere Famagosta per fame, decide di passare all'offensiva. Così all'alba del 19 maggio i millecinquecento cannoni turchi scatenano un bombardamento di potenza inaudita che si prolunga senza soste, notte e giorno, per millesettecentoventotto ore, sino alla fine della battaglia, con una tattica di demolizione sistematica delle postazioni difensive e di debilitazione psicofisica degli avversari che troverà riscontro solo durante l'ultima guerra mondiale con il martellamento italo-tedesco di Malta e con quello americano su Pantelleria. Ma poiché non bastano a piegare Famagosta, le 170 mila cannonate sparate durante la battaglia, Mustafà Pascià passa alla "guerra delle mine", con un impiego di esplosivo talmente grande per quantità e potenza da risultare senza precedenti.
I turchi scavano nottetempo lunghissimi cunicoli sotto il fossato e raggiungono così le fondamenta dei forti, minandole con forti cariche di esplosivo. Vasti tratti di postazioni saltano improvvisamente per aria sotto i piedi dei veneziani, mentre i turchi attaccano selvaggiamente a più ondate. L'otto luglio cadono su Famagosta 5 mila cannonate: è il preludio ad un ennesimo attacco generale che l'indomani si scatena, più massiccio che mai, contro il forte del Rivellino. Per arrestare i turchi, Bragadin non esita a dar fuoco alle polveri ammassate nei sotterranei della piazzaforte, sacrificando trecento soldati veneziani ed il loro comandante, Roberto Malvezzi. Con loro sotto le macerie del forte rimangono sepolti migliaia di ottomani.
A difendere Famagosta sono rimasti ormai solo duemila uomini, in gran parte feriti, debilitati dalla fame e dalle fatiche. Da tempo, esaurite le vettovaglie, militari e civili ricevono come razione giornaliera un po' di pane malfermo ed acqua torbida con qualche goccia di aceto. La situazione è disperata, anche se finalmente la Santa Lega contro il turco è stata sottoscritta, il 20 maggio, da tutti gli Stati interessati. Ma la flotta spagnola arriverà a Messina, dove già si sono date appuntamento le altre navi alleate, solo alla fine di agosto, quando ormai Famagosta è costretta a capitolare.
Il 29 luglio i difensori respingono un'altra terribile offensiva del nemico: decine di migliaia di turchi si alternano all'attacco che continua ininterrotto per oltre 48 ore, fino alla sera del 31. Per la prima volta, dopo 72 giorni, i cannoni ottomani finalmente tacciono; centinaia e centinaia di turchi giacciono sul campo di battaglia e sotto le mura della fortezza. Tra gli altri, lo stesso figlio primogenito di Mustafà Pascià. Questi, ignorando le misere condizioni degli assediati e preoccupato per le gravi perdite subite, offre ai veneziani patti insolitamente generosi ed onorevoli: se si arrendono, tutti avranno salvi vita ed averi, la popolazione sarà rispettata, chi lo chiederà sarà trasportato in paese neutrale, onori militari per i vinti.
Marcantonio Bragadin non vuole nemmeno ricevere il messaggero turco e, presagendo quanto sarebbe accaduto in caso di resa, respinge sdegnosamente l'offerta. Ma la maggior parte degli ufficiali, dei soldati, la stessa popolazione invocano la fine di una battaglia troppo impari. Famagosta, abbandonata dalla madrepatria, non ha più alcuna speranza di salvezza: bisogna almeno salvare la vita ai superstiti e salvaguardare la popolazione civile. I rappresentanti dei cittadini, il Vescovo, i magistrati, appositamente convocati, optano tutti per la resa. Tanto più che al primo agosto rimangono solo munizioni per una giornata di fuoco, mentre i difensori ancora validi sono ridotti a settecento (in media uno ogni 50-60 metri del perimetro difensivo).
Così il 4 agosto, dopo dieci mesi di assedio, i turchi possono entrare a Famagosta. Come Bragadin, che non volle firmare l'atto di resa, aveva previsto, i turchi non rispettano i patti. Mustafà Pascià, esasperato per la morte del figlio e dalla mancata espugnazione di Famagosta, soprattutto dopo aver accertato l'esiguità numerica dei veneziani, fa massacrare a tradimento tutti gli ufficiali e deportare come schiavi i soldati. Il colonnello Martinengo, l'unico che aveva avuto il coraggio di accorrere il 24 gennaio 1571 in soccorso di Famagosta a capo di un piccolo manipolo di soldati, è impiccato per tre volte. Marcantonio Bragadin è scuoiato vivo dopo tredici giorni di atroci torture: "... e lentamente staccarono dal suo corpo vivo la pelle, spogliandola in un sol pezzo, a cominciare dalla nuca e dalla schiena, e poi il volto, le braccia, il torace e tutto il resto ...". La pelle riempita di paglia è esposta a guisa di trofeo sull'antenna più alta della nave di Mustafà Pascià.
I turchi lasciarono sotto le mura di Famagosta ben 80 mila uomini, quanti all'inizio avevano destinato alla conquista dell'intera Cipro; i veneziani circa seimila.