di ROMANO BRACALINI
Renzi che va a Berlino col berrettuccio in mano e la parlantina senza freni di un fiaccheraio toscano, rimanda ai viaggi d’ossequio dei reali italiani che a fine Ottocento con Crispi, bombardiere nero, erano ansiosi di mostrarsi a Birsmarck come alleati affidabili e potenti. Ma il cancelliere di ferro, nella sua rigidezza prussiana, non riusciva a considerare l’Italia una potenza alla pari; e a Vienna l’Italia la si vedeva come “la caricatura di una grande potenza”. In Etiopia gli italiani erano scappati davanti agli abissini scalzi e male armati. La regina Margherita, sangue misto piemontese e sassone, spingeva Crispi alla conquista dell’Africa, dove il siciliano aveva sacrificato capitali e giovani vite, per arrivare al disastro finale di Adua nel 1896. Gli scambi di visite tra Roma e Berlino erano frequentissimi e precedettero in quel periodo le scalmane più reazionarie di Umberto. L’alleanza con la Germania rafforzava il traballante trono dei Savoia. I giornali umoristici riferivano puntualmente le cronache più esilaranti dei viaggi reali in Germania. I tedeschi si sforzavano di rivolgere ai sovrani d’Italia discorsi in italiano, senza poter attenuare l’orrendo accento dei “crucchi”. Così nell’autunno 1893 l’Asino, foglio satirico, presentò il testo di “uno dei quarantadue brindisi guerreschi fatti nei centoventinove banchetti militari da S.M. l’imperatore di Germania, in una delle seicentododici caserme da Lui e dal Principe di Napoli visitate”. Dunque il nuovo imperatore Federico III prese la parola rivolto al principe Vittorio Emanuele,erede al trono d’Italia:
“Altitudine! Befo vostra salutazione e salutazione fostro genitore Umperto Primo e prosperitudine fostri cannoni fostre spade fostri fucili! Befo nostra amicizia difesa troni interessi nostri bajocchi -come a Roma dicere- conservare”. L’imperatore terminò il discorso con un saluto a re Umperto, “eroe del Quadrilatero” nella guerra del 1866 che maldestramente fruttò all’Italia il Veneto, e volendo rendere omaggio alla bontà e alla gentilezza della regina, di cui nessuno si era mai accorto, disse che “Margherita è un angolo”; concluse con il grido tedesco “Hoche” che l’Asino da par suo tradusse in “Oche”.
L’alleanza con gli imperi centrali finì nell’ignominia del tradimento più plateale, quando l’Italia in gran segreto sottoscrisse nel maggio 1915 il patto di Londra che rovesciava l’alleanza. L’Italia vinse la guerra per il rotto della cuffia, annettendo il Sud Tirolo austriaco per raggiungere la sicurezza delle frontiere al Brennero. Mussolini, da bravo italiano, era transitato dalla neutralità socialista all’intervento nazionalista. Era fatale che il nazionalismo straccione si accodasse un’altra volta alla Germania di Baffino. La Germania non aveva avuto modo di sperimentare il “valore italiano” che veniva descritto nei libri ed era una pura invenzione dei retori di corte. Così un’altra volta fottemmo i tedeschi e quando Hitler nel 1938 venne in visita ufficiale in Italia rimase impressionato dal potenziale d’armi dell’esercito italiano che in omaggio all’ospite sfilava a passo romano,passo romano che non esisteva, ed era solo l’imitazione del passo dell’oca fatto da un esercito con le gambe corte. Anche i fascisti come i napoletani di re Ferdinando avevano trovato il modo di fare “ammujna”. Hitler non sapeva che i carri armati che vedeva erano quelli fatti venire da tutta Italia. Dice Leo Longanesi che Hitler salutando il duce al Brennero aveva le lacrime agli occhi, non si sa se dal piangere o dal ridere. In ogni caso c’era poco da ridere, come poi i tedeschi avrebbero sperimentato. Il patto d’acciaio venne firmato a Berlino da Ciano, genero e ministro degli esteri di Mussolini. Ciano aveva la voce chioccia e i piedi piatti, ed essendo stato fatto conte di Cortellazzo a Livorno lo chiamavano con una brutta parola che faceva rima col predicato. I crucchi, lenti di comprendonio, non avevano capito che quello italiano era un altro bluff di un popolo di pizzaioli e di magliari. Il complesso della Germania è rimasto nell’animo truffaldino dell’italiano. L’ammiriamo e ne abbiano paura. Vediamo in essa ciò che non riusciamo e non possiamo essere. Renzi, come un vu cumprà dell’Arno, è andato a Berlino col medesimo senso di inferiorità e con i compiti da fare.
L’Italia era già un fallimento alla fine dell’Ottocento, quando i Veneti rimpiangevano il Leone e i Lombardi il buon governo austriaco. Dopo 153 anni il vincolo nazionale non è mai stato così debole. Non erano necessari Monti, Letta o Renzi per farci scendere nella considerazione stupefatta dell’Europa. Dobbiamo liberarci dal giogo italiano insieme alla vergogna di essere italiani. A Nord-Est i primi segnali di cedimento e di liberazione. Poi tutto crollerà come un castello di carte.