La storiografia unitaria canta le lodi del cosiddetto “decennio francese” (1804-1814), allorché il Regno di Napoli cadde sotto la dominazione francese ed ebbe come suoi re due francesi, Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, il primo fratello di Napoleone (cioè Leone di Napoli, stranezze della storia dei valori!); cognato il secondo. I meriti assegnati ai due sarebbero le riforme antifeudali e quelle amministrative. In effetti si trattò di carta inutilmente stampata, in quanto …restarono sulla carta, e se proprio ebbero qualche effetto pratico, esso fu nocivo alle popolazioni meridionali.
Quel che si omette, crocianamente, di raccontare è che essi regnarono solo su Napoli e sulle città maggiori, mentre, in tutte le regioni del Regno le campagne i paesi furono insanguinati da lotte feroci fra francesi e resistenti, nel corso delle quali vennero perpetrati dei veri genocidi. Decine di borghi, forse un centinaio, furono dati alle fiamme, i loro abitanti trucidati, le donne stuprate, i bambini precipitati dalle rupi.
Gli italiani che elogiano la dominazione francese sono in tutto e per tutto simili a quegli abissini, libici, greci, albanesi che stettero dalla parte di Mussolini quando l’esercito italiano ridusse a colonia il loro paese. Direi di più: simili a quegli ungheresi, polacchi, norvegesi e ucraini che stettero dalla parte di Hitler e seviziarono i loro concittadini.
Il testo che presentiamo non è di parte borbonica. Il suo autore nacque e visse in Toscana (Firenze 1904-1994), deve da più di un secolo si era trasferito un discendente del celebre John Francis Edward Acton, ministro di Ferdinando IV, e forse qualcosa in più. Il nonno e uno zio dell’autore, nati nel Napoletano e alti ufficiali di marina, tradirono i Borbone . Gli stessi più il padre dell’autore furono ammiragli e comandanti in capo della marina italiana.
Nicola Zitara
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Non era stato capace di tenere Napoli quando aveva un grande esercito ai suoi ordini, eppure [Murat] credeva che l'intero paese sarebbe insorto in suo favore contro Ferdinando. Aveva radunato circa duecentocinquanta seguaci ed equipaggiato sette feluche. “Non rinuncerò al mio Regno” disse a Carabelli [n.d.r. agente còrso]. “Basterà che mi faccia vedere per vincere”.
S'imbarcò [dalla Corsica] la sera del 28 settembre [1815]. La piccola flotta fu dispersa da una tempesta nei pressi di Napoli e la feluca di Murat con un’altra furono portate molto più giù. Il 7 ottobre, quando erano in vista di Sant’Eufemia, alcuni compagni di Murat insistettero perché andasse a Trieste, ma Barbara, il comandante della feluca, disse che avrebbe dovuto comunque approdare per rifornirsi di acqua e provviste. Cosi si diresse verso Pizzo, il porticciolo più vicino. Indubbiamente la fuga di Napoleone dall'Isola d'Elba aveva ispirato Murat. “Alla peggio morirò da Re”, aveva detto.
Si mise una magnifica uniforme ed un cappello piumato con una fibbia di diamanti, e alle undici di mattina scese a terra. Dalla riva, con il suo piccolo gruppo di uomini che gridavano “evviva Re Gioacchino”, andò direttamente alla piazza del mercato che essendo domenica era affollata; ma i popolani invece di unirsi all'applauso fuggirono di gran carriera come se avessero visto un fantasma.
Non avevano felici ricordi del regno di Murat: l'occupazione francese aveva rovinato il loro commercio costiero; molte famiglie erano imparentate con le vittime del generale Manhès [n.d.r. inviato in Calabria dal re francese per reprimere il cosiddetto brigantaggio], ed il magnate del distretto, il duca di Infantado, era un Grande di Spagna, i cui possedimenti erano stati confiscati sotto il regime da lui esecrato fin dal Dos de Majo del 1808.
Davanti alla postazione dei guardacoste c’erano dei soldati. Murat freddamente ordinò loro di seguirlo, e disse al loro sergente che lo promuoveva capitano; ma anche questi scapparono davanti allo sfarzoso intruso. Poiché la piazza del mercato s’era vuotata, Murat decise di andare a Monteleone [n.d.r. odierna Vibo Valentia], la grossa città più vicina, che era stata sempre favorevole alla Francia; ma quando si fermò per comprare un cavallo si era già riunita una folla ostile, e Trentacapilli, l’ufficiale di polizia, gli intimò di arrendersi.
Murat cercò di ricorrere ad un inganno (andava a Trieste, il suo passaporto era in ordine), ma la folla gli si fece addosso.
Vi fu una rissa: un colpo di pistola disperse la folla, e Murat con pochi dei suoi uomini corse alla spiaggia; ma le feluche erano scomparse. Stavano cercando di tirare in acqua la barca di un pescatore, quando furono raggiunti dai loro inseguitori. Uno dei compagni di Murat sparò, e venne ucciso.
Ne nacque uno spaventoso parapiglia in cui Murat riuscì a malapena a non essere fatto a pezzi. Molti dei suoi assalitori erano donne, una delle quali lo colpì in faccia strillando: “Tu parli di libertà ma mi hai fatto fucilare quattro figli!” Un’altra megera conservò orgogliosamente in un giornale un ciuffo di peli che gli aveva strappato dai baffi. Trentacapilli gli prese i documenti e la fibbia di diamanti.
Affamati, esausti, sanguinanti e laceri, gli invasori furono trascinati fino al castello e rinchiusi in una tetra cella. Gli altri erano stati circondati: settantanove in tutto.
Per mezzo di segnalazioni, il generale Nunziante, comandante della Calabria Meridionale, trasmise le notizie a Napoli e mandò a Pizzo un distaccamento di truppe agli ordini di un ufficiale comprensivo, mentre il cameriere del Duca di Infantado procurò a Murat abiti, cibo, vino e un dottore che ne medicasse le ferite.
Siccome Murat aveva ancora molti partigiani, specialmente nell'esercito, il Re [Ferdinando] era rimasto un po' preoccupato di quella spedizione. Lo informarono dell'arresto di Murat mentre era al San Carlo, dove si rappresentava un'opera; immediatamente riunì il Consiglio, e Medici [n.d.r. Luigi de’ Medici, che allora era Ministro della Polizia] propose che Nunziante radunasse una commissione militare per giudicare Murat come nemico pubblico. Questo fu con tutta probabilità un consiglio di A'Court [n.d.r. diplomatico inglese], mentre l' Ambasciatore Austriaco si ritirò prudentemente in campagna.
Il l3 ottobre Murat fu regolarmente giudicato da una corte marziale di ufficiali che egli stesso aveva promosso; dichiarato colpevole di incitamento alla guerra civile e di attacco armato contro il legittimo sovrano, fu condannato alla fucilazione.
Scrisse una commovente lettera a sua moglie, ed il curato di Pizzo, uomo sincero e pio, lo persuase a confessarsi e gli dette l’assoluzione. “Mirate al cuore, ma risparmiate la faccia” disse egli calmissimo al plotone d'esecuzione, rifiutando di essere bendato. Lo sconsigliato eroe cadde senza un gemito.
Fu una fine indegna di una carriera cosi spettacolosa; ma è difficile concepirne una diversa in quella situazione.
[tratto da H. ACTON, I Borboni di Napoli, pagg. 723 e segg., Firenze 1985 – Giunti Martello Editore]