Don Liborio Romano.
Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.
Re Francesco, vedendo prossima la totale catastrofe della dinastia e del regno, volea sguainare la spada e mettersi alla testa dei soldati per salvare l'una e l'altro, e fare di se un sacrifizio alla patria già pericolante. I traditori che lo circondavano usarono tutte le arti per rimuoverlo da sì patriottica ed eroica risoluzione: essi gli faceano osservare, l'esercito niente valere, i tre battaglioni esteri essere pronti a ribellarsi, e correre sopra Napoli e saccheggiarla insanguinandola: promuovere la guerra civile continuare le ostilità contro Garibaldi, atto eroico il cedere.
D. Liborio per cattivarsi la fiducia del Sovrano, si mostrava avverso all'unità italiana; e facea leggere al Re alcune lettere di Dragonetti, il quale gli raccomandava l'autonomia del Regno. Egli, avvocato, patrocinava la due cause avverse; scrivendo pure bozze di proclami nell'interesse della dinastia. Quando però vide Garibaldi sul continente, e senza ostacoli marciar sopra Napoli, cercò di distogliere il Sovrano da qualunque difesa. Per la qual cosa il 20 agosto gli presentò un indirizzo firmato dal Ministero ove si dicea: L'opinione pubblica essere avversa alla dinastia, i Ministri non poterla cambiare in favore, essendo tale la diffidenza tra popolo e principe che nessuna potenza umana avrebbe potuto distruggerla o mitigarla. Non potersi contare sull'esercito perché indisciplinato e in dissoluzione. La marina regia, rotto ogni freno di subordinazione, aspettare il momento per dichiararsi avversa al trono, e ligia alla causa nazionale italiana. Alle interne difficoltà aggiungersi quelle esterne. Sorgere innanzi un'Italia riunita nemica de' Borboni, e guidata da un vessillo italiano sorretto dalla più antica dinastia della penisola italiana. Il Piemonte ispirare fiducia e simpatia alle due grandi potenze, Francia ed Inghilterra, che, per ragioni diverse e diversi fini gli stendeano le braccia protettrici, e Garibaldi essere semplice strumento di questa politica innipossente.
L'indirizzo conchiudea: «Unico consiglio è che V.M. si allontani, e lasci Reggente un Ministro onorato (come D. Liborio), e capace di universale confidenza, ma capo di esso, non porrà un Principe reale: ei non avrebbe la fiducia pubblica, né garentirebbe gli interessi della Monarchia. Vi porrà un uomo che sia generalmente conosciuto virtuoso, e che meriti la vostra e l'universale fiducia. (Ma a far che?) E la Maestà vostra allontanandosi volgerà al popolo parole leali e magnanime, testimoni del suo cuore paterno, e della nobile decisione di risparmiare gli orrori della guerra civile: invocherà il giudizio dell'Europa, aspetterà dal tempo e da Dio il trionfo del dritto. Questo consiglio diamo con franchezza e buona coscienza (coscienza di D. Liborio!) ed è il solo che possiamo dare.
Siamo certi che lo accoglierà: ed ove per isventura il respingesse, noi sentendo non aver meritato la fiducia del nostro Re, dovremmo rinunziare all'alto ministero che ci fu affidato.
Questo indirizzo è degno di chi lo scrisse, cioè di d. Liborio, uno de' cinque uomini fatali alla dinastia e al Regno di Napoli. Questo indirizzo si giudica da sè stesso, ove al Re si consiglia viltà sotto lo specioso pretesto di risparmiare gli orrori della guerra civile, che fomentava lo stesso ministero, per consegnare il Regno a stranieri
parlanti tutte le lingue d'Europa, che famelici si avanzavano dalle Calabrie, potenti solamente nella corruzione.
Era poi una sfacciata calunnia il dire al Re, non potersi contare sopra l'esercito perché indisciplinato; Capua, il Garigliano, e Gaeta dimostrarono splendidamente il contrario: e così il resto dell'indirizzo ov'è pervertito il senso de' vocaboli, chiamandosi magnanimità la dabbenaggine, eroismo la viltà, ed infine virtù il vizio.
Il Re non rispose a quel subdolo ed insultante indirizzo di un ministero fedifrago. Egli però avrebbe dovuto rispondere con mettere sotto processo que' ministri, i quali tradivano la Monarchia, calunniavano il popolo e l'esercito, e disonoravano l'alta loro missione.
Per il modo di contenersi del Re, D. Liborio e compagni invece di ritirarsi dal ministero, come aveano promesso nell'indirizzo istesso, rimasero in carica per meglio congiurare contro il sovrano e la patria!
Intanto Cavour da Torino fremea d'impazienza e di rabbia perché Napoli non insorgesse a rivoluzione. Egli avrebbe desiderato che Francesco II fosse stato costretto a lasciar Napoli per ragione di una rivolta popolare, anzi che partirsene per un atto generoso, risparmiando alla Capitale gli orrori della guerra civile. Ecco cosa sono cotesti sedicenti redentori di popoli, venuti in fama di grandi politici: vada pure a soqquadro l'Universo purchè la loro trista volontà sia fatta!
Cavour scriveva a Villamarina, ministro sardo accreditato presso Francesco II, ed al Comitato rivoluzionario, detto dell'ordine,
rimproverandoli che non aveano saputo creare un simulacro di sommossa popolare.
Il Comitato se ne scusava allegando la mancanza delle armi; e Cavour ne affidava l'incarico ad una casa inglese con l'obbligo di sbarcarle a Napoli. Però a Napoli non mancavano le armi per un tentativo di rivoluzione, mancavano gli uomini. Quel Ministro piemontese, benchè fosse certo della caduta del Regno di Napoli, nondimeno per mistificare l'Europa, non aveva scrupolo di sacrificare tutto e tutti, ed insanguinare una delle principali Metropoli d'Europa. Sono questi gli uomini che celebra la rivoluzione!
Cavour, fisso nella barbara idea di arrecare la rivoluzione nel Regno e nella Capitala prima che partisse Re Francesco, mandò 3000 fucili sul Piroscafo la Dora
comandato dal marchese del Carretto. Nisco era stato pure mandato a Napoli da Cavour per agevolare lo sbarco di que' fucili in tre diversi punti; cioè in Mondragone, in Salerno e in Calabria. Nisco adempì il suo incarico, ma i fucili sbarcati a Mondragone furono sequestrati: di tutte queste turpi manovre gli attori erano Villamarina e Persano, e quest'ultimo se ne dà pure vanto nel suo diario.
D. Liborio, presentato al Re l'indirizzo riportato di sopra, e vedendo che questi non rispondeva temette di essere arrestato insieme coi colleghi. Egli si giudicava da sè stesso, come fanno i reprobi! Reputando assai difficile suscitare in Napoli almeno un simulacro di rivoluzione per sollecitare la partenza del Re, affrettò l'arrivo di Garibaldi.
Trovavasi allora nel porto di Napoli a bordo del battello a vapore Emma il romanziere
Dumas mandato da Garibaldi per ispargere proclami, menzogne, e calunnie contro i Borbonici; D. Liborio la notte del 23 agosto si recò presso quel vendifrottole del Dumas, e lo pregò di scrivere al Dittatore perché costui affrettasse la sua marcia sopra Napoli; ed egli intanto qual ministro liberale del Regno delle due Sicilie avrebbe dichiarato (questa è proprio buffa), Francesco II traditore della patria! ed andrebbe ad incontrare Garibaldi riconoscendolo Dittatore delle Due Sicilie, ed antesignano dell'annessione del Regno al Piemonte.
Il previdente ma niente leale D. Liborio conchiudeva, che in caso contrario sarebbe stato costretto lasciare le pratiche incompiute, e salvarsi sopra un legno inglese. Oh!... recedat a nobis et fiat Pontifex -
(del diavolo). D. Liborio e Dumas mandarono due messi a Garibaldi uno de' quali oggi fa il borbonico!.., con l'incarico di recarsi in Calabria e sollecitare la marcia del Dittatore. In quello stesso tempo il de Martino ministro degli esteri, mandò pure in Calabria un'altra persona antica conoscenza di Garibaldi, con la missione di offrire a costui dieci milioni di lire, il passaggio libero sul Napoletano per recarsi a Roma, ed ivi far guerra al Papa, e così lasciar libero il Regno di Napoli.
Questa politica del de Martino è la più sciocca e la più malvagia di quante allora se ne immaginarono: intanto il messo da lui mandato non giunse a parlare con Garibaldi, perché fu arrestato in Basilicata per ordine del comitato diretto da D. Liborio; ed essendo stato costui ben servito da' generali Gallotti, Briganti, Caldarelli, Ghio, e Colonnello Ruiz, respirò più libero sentendo prossimo l'arrivo del Dittatore a Napoli.
Il Re ebbe notizia della visita notturna di D. Liborio fatta al Dumas, e stava per farlo arrestare. Quello il seppe, e con quella audacia e sfrontatezza che nessuno poteagli negare, si presentò a Francesco II, e confermò la sua visita fatta al Dumas, con lo scopo, dicea, di far desistere Garibaldi dalla sua impresa mediante offerta di danaro: D. Liborio si attribuiva in parte la malvagia politica alla Cavour, messa in pratica dal de Martino.
Tutte queste indegnità ed infamie furono poi pubblicate dagli stessi rivoluzionari e traditori; da alcuni per farsene un vanto, e da altri per accusare o vituperare i complici.
In quanto poi al romanziere Dumas, il quale si mostrava tanto tenero dell'unità italiana, ecco quello che scrisse l'ammiraglio Persano nel suo Diario parte II, pag. 66, edizione di Torino 1870:
Restituisco la visita all'insigne scrittore A. Dumas, a bordo del suo bastimento di piacere. Si entra tosto in discorso sulle cose nostre. Mi dice di una sottoscrizione per guadagnare un reggimento alla causa dell'indipendenza italiana. Mi presenta l'incarico di ritirare l'ammontare di ciascuna sottoscrizione; ed egli senza più depone una forte somma del suo, che mi è parso salire alcune migliaia di franchi -Colto all'improvviso, m'impegno a soscrivere anch'io. Restituitomi al mio bordo parlo con alcuni dei rifugiati politici, a cui avevo dato asilo, di tale mia promissione; e da essi mi vien detto, che quel danaro passerebbe probabilissimamente in mani tutt'altro che
amiche. Bell'affare avrei fatto davvero, se avessi corse le poste senza assumere informazione! -
Risolvo quindi di non dare un quattrino, e di lasciare che si dica di me quel che si voglia; chè si possono fare minchionerie col proprio danaro, ma non mai con quello d'altrui.»
In mezzo a queste ignominie, cattivi negozii, e tradimenti, ove si facea sentire alto Italia una,
anche Luciano Murat figlio secondogenito di Gioacchino, dopo 45 anni di silenzio, volle alzare la sua voce e reclamare i suoi diritti
sul Trono di Napoli. Con una lettera diretta a persona innominata, cioè ad un Caro Duca,
promettea tutte le delizie, e il ben di Dio al travagliato popolo delle due Sicilie. «Forte, egli dicea, dell'assenso dell'imperial Cugino Napoleone III, io porterei l'alleanza francese, sola e certa sicurtà d'indipendenza.» Bravo sig. Pretendente..! Gl'Italiani non ignorano in qual senso intendano i Napoleonidi l'alleanza dell'Italia con la Francia; se alla vostra strombazzata indipendenza
aveste tolta la prima sillaba, almeno sareste stato ammirato per la vostra franchezza. Quella sfinge di Napoleone facea stampare nel Moniteur
del 1° Settembre: «Il Governo francese approvare
la lettera (di Murat); ma non in quello di potere Murat andare a Napoli con l'assenso,
e il braccio della Francia; questo l'Imperatore non volere, e respingere ufficialmente la proposizione. «Mi pare che approvare
e poi non dare l'assenso
fanno a calci! Napoleone III si facea distinguere per questi delfici responsi - ibis et redibis, NON, morieris in bello -
ecco come rispondeva quel grand'uomo quando voleva corbellare o rovinare una persona ed un regno!
Nessuno comprese la lettera di Murat, e la sibillina nota del Moniteur.
In quel tempo apparve un'altra lettera, la quale arrecò maraviglia e sbalordimento. Il Conte di Siracusa zio del Re Francesco II, diede l'ultimo colpo alla Monarchia fondata dal suo illustre antenato Carlo III di Borbone, disonorando il nome che indegnamente portava. Il Real Conte udito lo sbarco di Garibaldi sul continente e le prime vittorie di costui, invitò a lauto pranzo gli ufficiali della flotta sarda, ove, inebbriato di vino e di plausi, fece brindisi a Garibaldi e ad altri corifei dell'unità italiana.
Il 24 Agosto Leopoldo di Borbone, figlio terzogenito di Francesco I di Napoli, e fratello di Ferdinando II, scrisse al Re suo nipote dicendogli, avergli altra volta consigliato che scongiurasse il pericolo, e non essere stato udito; ora fatto grande il sentimento dell'unità, non più possibile la lega col Piemonte; le stragi di Sicilia destare orrore; la casa Borbone segno di universale riprovazione; la guerra sul continente strascinare la monarchia a rovina; le inique arti de' Consiglieri perversi aver da lunga mano preparata alla discendenza di Carlo III la rovina. - Ed è quest'ultima la sola verità detta in quella famosa lettera. - Il Conte conchiuse: «Sire, salvate, che ancora ne siete in tempo, salvate la nostra casa dalla maledizione di tutta Italia! seguite il nobile esempio della nostra Regale Congiunta di Parma, che, allo irrompere della guerra civile, (cioè allo irrompere della guerra franco-sarda), sciolse i sudditi dall'obbedienza, e li fece arbitri de' loro destini.» (Menzogna degna di chi la scrisse.)
Questa lettera tutta intiera è trascritta nella 2a parte del Diario di Persano pag. 58.
Il Real Conte scrisse quella lettera per ordine di Cavour, costui il 15 agosto telegrafò a Persano, e gli disse: «Veda di far
scrivere dal Conte di Siracusa una lettera al Re suo nipote nel senso di quello che mi scrive Nisco. Sarebbe cosa utile.»
Il Real Conte non si fece pregare da Persano, anzi si dichiarò pronto a tutto. Egli scrisse quella lettera dopo di un abboccamento con D. Liborio Romano. Difatti quella lettera del 24 Agosto, e l'indirizzo di D. Liborio al Re del 20 dello stesso mese, sono figli dello stesso malvagio pensiero. Persano intanto osa scrivere nel suo Diario:«Checchè si pensi, questo scritto altamente onora il Principe Patriota.»
Principe Patriota, Leopoldo di Borbone! Che sempre avea pensato come rovinare la patria ed abbattere il trono; protestava amore all'unità italiana nello scopo di farsi egli stesso tiranno di Napoli col titolo di Reggente o Vicerè di Cavour, e cogliere il momento per proclamarsi re indipendente. Il patriottismo di questi cadetti di Casa Borbone si sà ove vada a finire; ne troviamo qualche esempio in quelli di Francia e di Spagna.
Quella lettera amareggiò l'ottimo cuore di Re Francesco, il quale in un momento di malinconia, esclamò: «Se non fossi Re responsabile della Corona al mio popolo e alla mia famiglia, già da gran tempo ne avrei gettato lungi il fardello.»
Il Conte di Siracusa, Persano, Villamarina, D. Liborio, ed Alessandro Nunziante tutti travagliavano e congiuravano alacremente a creare ostacoli al Re per farlo partire subito da Napoli.
Il real Conte si serviva del suo credito, svelava il debole della Corte di Napoli. Persano in qualità di ammiraglio Sardo mandava armi coi piroscafi piemontesi sul littorale delle Calabrie, e del Salernitano, aiutato dal napoletano Nisco, e da parecchi uffiziali della flotta napoletana. Villamarina con l'alta carica di ministro Sardo accreditato
presso Francesco II, intrigava diplomaticamente con arti settarie. D. Liborio capo di fatto del ministero liberale, dava braccio forte a tutti, avendo la polizia settaria nelle sue mani, e i camorristi
a sua disposizione. In fine il Nunziante tenuto a Napoli da Cavour per far succedere un pronunziamento militare, e direttamente ne' battaglioni cacciatori a favore del Piemonte, faceva l'arte di Satana. Egli albergava in un quartino matto del Palazzo Le Fevre
alla riviera di Chiaia, in compagnia del sig. Filioli, ed andava spesso a bordo alle navi Sarde per confabulare con Persano, ma timoroso sempre di essere arrestato, e più di tutto di essere riconosciuto da' soldati, i quali certamente gli avrebbero fatto subito la festa. Ad onta delle sue arti di settario e traditore nulla ottenne, e per legittimarsi con Cavour, disse che il ministro Pianelli avea tramutato tutti i capi di battaglioni ed uffiziali di sua fiducia. Disse pure che avrebbe potuto ottenere delle defezioni parziali ne' battaglioni cacciatori, ma che neppure avea speranza di buon successo; tanto più che scorgea poca fiducia nel Comitato d' ordine.
La vera ragione di tutti gl'insuccessi del Nunziante era che tutti lo abborrivano: pessimo assolutista, e più che schifoso settario! Alessandro Nunziante non tenendosi più per sicuro nel quartino matto del palazzo Le Fevre, andò ad alloggiare in quello ove abitava Ciccarelli, mandò una persona di
sua fiducia al Persano avvertendolo che era minacciato dalla polizia, ma forse più di tutto da' soldati che volea far disertare, dapoichè D. Liborio non avrebbe mai arrestato il suo più fedele complice. Persano si trovava in teatro quando gli giunse il messo di Nunziante; chiamò alcuni uffiziali suoi dipendenti, e che giudicava bravi, e li mandò a S. Lucia per disporre la fuga di Nunziante sulle navi Sarde. Egli poi si recò al palazzo Ciccarelli, ove trovò Nunziante contraffatto mercè di una finta barba e di occhiali verdi! Lo fece montare in carrozza, lo condusse a S. Lucia avendolo fatto passare davanti il palazzo reale; e da S. Lucia, lo trasportò a bordo con una lancia sarda.
Bravo, sig. Alessandro Nunziante, fa proprio piacere che vi siete vestito in maschera nel mese di agosto con la vostra statura ed andamento! Oh! voi tanto rispettato e temuto sotto l'egida de' Borboni, vostri benefattori, appena vi siete ribellato a costoro, per traversare una strada di Napoli e mettervi in salvo sopra navi straniere, fu necessario vestirvi da Pagliaccio, e farvi scortare da coloro che insidiavano i vostri concittadini, un vostro fratello di sangue, ed i vostri nipoti che allora combatteano onoratamente! Diteci di grazia, quando passaste abbigliato con quella ridevole toletta sotto il palazzo reale, che era allora tutto sfolgorante di lumi, come dice Persano, non ricordaste «La gloria che passò «? Mi auguro però che in questo punto, muto penserete «all'ultima - ora dell'uomo fatale». Non temete: Colui che volea perdonare Iscariota, può anche perdonar voi. Approfittatene, giacchè non vi resta che la sola misericordia di Dio.
Il Conte di Siracusa si credea vicino ad afferrar la Reggenza del Regno, o simile titolo; e promettea a' suoi amici il suo prossimo innalzamento. Però il real Conte e Cavour giuocavano all'onore per vincersi e ribellarsi a vicenda: la vinse costui perché più furbo, e perché avea più mezzi; ma tutti e due fecero grandissimo sciupo in quel giuoco..!
Quando Cavour giudicò inutile l'appoggio del Conte di Siracusa, lo fece partire per Torino, mercè alcuni consigli che gli fece suggerire da D. Liborio ministro liberale. Ecco una lettera del real Conte diretta a Persano in cui si rivelano tante iniquità.
Lunedì 27 agosto 1860 Caro Persano,
Sono in questo momento con D. Liborio Romano, il quale mi sembra deciso di servir bene la causa italiana con Vittorio Emanuele. Il Mazzinismo prende piede in grandi proporzioni, e non vi è tempo da perdere. Romano mi consiglia a partire al momento per andare a Torino ad esporre al Re e al Cavour la posizione del paese. Io son pronto a farlo. Non vi è sagrifizio che io non incontrerei per salvare l'Italia, e questa povera Napoli dall'anarchia. - Se voi l'approvate,
io potrei partire con vostro piroscafo avviso, quest'oggi stesso per Genova. Se volete parlare con D. Liborio sarà da me al tocco.
Il vostro amico Firmato Leopoldo Conte di Siracusa.
Il disinganno di questo Conte fu terribile, e la sua fine miseranda. Egli partì per Genova sulla nave la Costituzione
della marina reale Sarda la sera del 31 agosto, e fu accompagnato a bordo da Persano e Villamarina. Giunto a Torino ebbe fredda accoglienza da chi aspettava ringraziamenti, plausi e potere. Sconfortato per quella accoglienza, andossene a Parigi, ove fu fischiato appena conosciuto, e nel teatro gli gridarono: «Le Bourbon, qu'il aille défendre Gaete»
-il Borbone vada a difendere Gaeta. - Ritornò in Italia con un solo cameriere e si fermò in Pisa, ove morì il 4 dicembre dello stesso anno, abbandonato da tutti. Il cameriere giunto nel porto di Napoli fu arrestato, e gli sequestrarono le carte del Conte. Da quelle carte furono sottratte due lettere scritte da un altro personaggio: il rimanente fu restituito.
Francesco II, quando intese la morte dello zio, trovavasi in Gaeta bombardato: pure ordinò il lutto di Corte.
Il cadavere del real Conte di Siracusa Leopoldo di Borbone rimase nel Camposanto di Pisa come l'ultimo de' miseri mortali. Nel giugno del 1863 la vedova nata Principessa Carignano, ottenne a stento di trasportare a Napoli il cadavere dello sposo.
Chi potrebbe descrivere lo stato di Napoli in que' tristissimi giorni dell'agonia del regno de' Borboni?
Non vi era più freno alcuno: le passioni irrompevano e metteano spavento. Tutti faceano a gara per distruggere e vilipendere la monarchia, e tutto quello che era napoletano. Quelli che erano stati gli umili servitori de' Borboni in tempo di prosperità, e che aveano strisciato per le loro anticamere, per far dimenticare il passato, e per non perdere quella importanza che immeritatamente aveano acquistata, si mostravano i più fieri nemici della dinastia e del Regno.
I comitato rivoluzionarii agivano apertamente e prima che Francesco II partisse, erano il vero governo riconosciuto. La stampa era divenuta intollerabile eziandio a rivoluzionari ai quali rimaneva ancora un poco di pudore. Esaltava le vittorie di Garibaldi, l'appellava novello Messia: al contrario chiamava i soldati coi nomi i più odiosi, calunniava e minacciava la real famiglia e il Re, chiamando costui Caino..A Lo stato della sventurata Napoli faceami ribrezzo; ovunque io mi rivolgessi altro non mirava che spettacolo di dolore, e non udiva che oscene bestemmie e disprezzi per le cose e le persone più degne di rispetto. Io non potea capire come mai una Città così beneficata da' Borboni, anche a scapito della Sicilia, fosse divenuta in poco tempo più provocante e nemica di quell'Isola a' proprii benefattori. Napoli mi fece dimenticare i baccanali di Sicilia. Non potea capire come la prima Città d'Italia, forse la quarta d'Europa, Capitale di un Regno di circa dieci milioni di abitanti,
ricca, onorata e protetta, con una delle più ricche e splendide Corti del mondo, volesse diventar donna di provincia, rinunziando alla propria indipendenza ed autonomia secolare, e rendersi vassalla di un piccolo paese a piè dell'Alpi, non ricco, né bene governato.
Mi si potrebbe rispondere, che i Napoletani (cioè i rivoluzionarii) sacrificavano tutto per l'amore dell'unità italiana. Benissimo rispondo: ma perché tanta viltà, tante fellonie, tanta degradazione, non poteano contenersi come si contennero i Toscani in simile circostanza? E dico questo non volendo tener conto che doveansi contentare dell'unione italica che si trattava allora tra il Re di Napoli e quello del Piemonte; di quella unione riconosciuta in Zurigo come la più conveniente a' veri interessi d'Italia. Però, l'unione italiana sarebbe stata utile al popolo italiano, e non si volle effettuare perché non era utile alla setta de' petrolieri.
Io andavo a zonzo per la Città mentre mi erravano in capo que' tristi pensieri, e per confortarmi un poco mi diressi verso il Palazzo Reale. Quel magnifico edifizio opera di tanti splendidi sovrani, mi sembrava mesto, muto e derelitto, quasi un mucchio di informi ruine; e in mezzo a queste mi parea vedere sorgere le gigantesche figure di Ruggiero il Normanno e di Carlo III di Borbone, non più calmi e benigni in volto, ma accigliati e sdegnosi, lanciare una terribile maledizione all'ingrata a sconoscente Città. Ed io trasportato dalla mia fantasia, non so se riverente mi prostrai alla vista di que' grandi, e dissi: salvete potentissimi e benefici monarchi, onore e gloria di queste amene e ricche contrade italiane; deh! non maledite tutti i vostri posteri, e i vostri lontani nepoti: essi non sono tutti colpevoli, ma infelici: maledite que' Giuda che vendono la patria allo stranierio, e que' Caini che ci disonorano, e ci assassinano..!
(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).