Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.
Il generale Briganti dopo che sacrificò la propria brigata, andava attorno predicando, che era inutile la difesa, e che il meglio sarebbe darsi a Garibaldi. E fece di tutto per far disertare al nemico il proprio figlio che era capitano d'artiglieria in Calabria.
Ruiz che non volle combattere con la sua brigata nonostante gli ordini di Vial, fu chiamato a Napoli, ove in cambio di castigo ebbe premio dal Ministero Pianelli. In seguito vedremo come il Ruiz è sempre quello di Calabria, cagione non ultima della perdita della battaglia del 1° Ottobre!
Il generale Vial figlio del prode ed onesto Tenente Generale G. Croce Pietro, dopo i fatti di Melia e Piale retrocede con le sue fresche genti, ed entra come fuggitivo in Monteleone, senza che avesse veduto il nemico. Tutti i duci scusavano la loro indegna condotta, dicendo che i soldati fossero indisciplinati. A dir vero ne' soldati si era in certo qual modo rilasciata la disciplina, perrocchè essi aveano notato la viltà ed i tradimenti di alcuni de' loro capi, ma si facevano condurre ciecamente da quei superiori che aveano sperimentati prodi e fedeli al Re.
Di fatti di tanti prodi uffiziali benemeriti della truppa, piace a me nominarne due - non potendoli tutti mentovare - il prode Aiutante Maggiore Giuseppe Musitani che si distinse in tutti i fatti d'armi di Calabria, e godeva tutta la fiducia de' soldati. Il distinto Capitano del 15° Reggimenti di linea Ferdinando Rodogno, il quale dopo i disastri del Piale riunì parte di quel Reggimento conducendolo a Mileto. I soldati lo seguirono volentierosi perché lo aveano sperimentato fedele a' suoi doveri e al proprio Sovrano. Fu il Rodogno che cercò di salvare il generale Briganti al presentarsi di costui nel suddetto Comune di Mileto, e se vi fu assassinato, come di presente dirò, lo deve al suo ostinarsi di percorrere le file di que' traditi soldati perché gli premea di persuadere il figlio a darsi a Garibaldi con tutta l'artiglieria.
La maggior parte de' Generali e de' Capi di Corpo, voleano un pretesto per non compromettersi col nemico e finire la guerra comodamente: essi voleano buttar la colpa sopra i soldati dichiarandoli indisciplinati; la tenacità del soldato alla patria bandiera guastava i loro piani. Difatti quella truppa a scaloni e quasi in ordine raggiunse il punto di Monteleone.
Il generale Briganti, dopo tutte quelle fellonie che avea commesse, doveasi ritirare nel Campo garibaldino, e guardarsi di comparire in mezzo a' soldati napoletani. Forse egli, non contento di aver fatto capitolare ed operato in modo da inutilizzare tre brigate, voleva rendere altri servizii a Garibaldi. Già sapeano i soldati ch'egli, la sera del 24 agosto avesse fatto un telegramma in cifra al ministro Pianelli; di che stavano fortemente indegnati, e ne avesse ricevuta la risposta anche in cifra non conosciuta dallo stesso Vial.
Briganti la mattina del 25 si presentò a cavallo in Mileto, senza segno del suo grado, con un sotto uffiziale di fanteria, di cognome Giardina anche a cavallo_ giunto nella piazza della Fortuna ove erano due battaglioni, uno del 4° di linea, l'altro del 15°, e molti avanzi delle disciolte brigate; al suo apparire i soldati corsero alle
armi gridando: Viva il Re; fuori il traditore.
Egli per un momento rimase perplesso, ma subito senza dir parola s'allontanò da Mileto, dirigendosi per Monteleone. Accorse immantinente il Comandante di quella colonna e rimproverò a' soldati la sediziosa accoglienza fatta al Generale, e sembrava che tutti fossero rientrati nell'ordine. Dopo mezz'ora comparve di nuovo Briganti. Come fu conosciuto, gli uffiziali per non salutarlo entrarono in un caffè; i soldati gridarono di nuovo: Viva il Re, fuori il traditore.
Briganti cercò di arringare la truppa: però in quel momento una scarica di fucilate lo fece cadere estinto assieme col cavallo. Vuolsi l'uccisore vero fosse stato il Tamburo maggiore del 4° di Linea della Brigata Melendez. Le carte che avea addosso furono raccolte dal 1° Tenente Fragola, e consegnate poi al Re, vi era pure un ufficio di Pianelli. Così ebbe fine il bombardatore di Palermo «a Dio spiacente ed a' nemici sui!
Io vidi una sola volta il generale Briganti. Trovandomi in Messina dopo la cata strofe di Palermo, il 26 giugno fui invitato a pranzo dal Colonnello Bosco all'Albergo della Vittoria, ove costui alloggiava. Mentre eravamo sul finire del pranzo, fu annunziato il Colonnello Briganti, poi generale.
Il Briganti tutto allegro annunziò al Bosco, che il Re avea dato la Costituzione. Bosco, che sapea come io la pensassi circa il bombardamento di Palermo, per divertirsi un poco, e com'era naturale, cominciò a parlare de' fatti di Palermo e del bombardamento.
Briganti, sapendo che il suo amico Lanza era sotto consiglio di guerra, parlò male del suo protettore e complice di Palermo. Io dissi qualche parola perché Bosco mi obbligava con le sue insistenza. Quando Briganti ci liberò della sua presenza, il Colonnello mi disse: mi sembravate un novizio cappuccino alla presenza del suo superiore. Ah! voi vi mettete paura di quell'uomo, mentre dietro le spalle dite male, perché bombardò Palermo.
Io risposi, il sig. colonnello sa ch'io non mi faccio tanto facilmente dominare dalla paura: ma la vista di quell'uomo mi fa male: quel suo ceffo brigantesco, i suoi sguardi truci ov'è scritto tradimento ed infamia, mi strozzano le parole in gola, non per sentimento di paura, ma di orrore che mi desta la presenza di quel colonnello degno del nome che porta. -
Ed in verità, il Briganti era di statura alta con le spalle assai larghe; viso bronzino, occhi truci, sguardi affascinanti; quando parlavate in sua presenza, vi guardava in modo, come se volesse scrutare i vostri più occulti pensieri: il suo esteriore era il ritratto fedele dell'anima sua.
Dopo quella terribile giustizia sommaria fatta contro Briganti, i soldati lasciarono Mileto, e muti si diressero a Monteleone.
Tutta la truppa sbandata si riunì in Monteleone, ov'erano due brigate intatte, alle quali riunita potea ancora combattere con facile successo contro Garibaldi. I Generali e Capi di corpi, alcuni vili, altri traditori, e quasi tutti desiderosi di finire quella guerra, consigliarono, anzi obbligarono il Vial ad ordinare la ritirata alla volta di Napoli: e poichè temevano che fossero molestati nel loro cammino, divisarono di fare una convenzione con Garibaldi, e per questo modo liberarsi da qualunque timore che aveano. Il Vial, avvilito più degli altri, e dubitando che i soldati facessero la festa anche a lui,
come l'aveano fatta a Briganti, approvò ogni cosa. Il 26 Agosto mandò il colonnello Bertolini da Garibaldi a trattare a convenzione.
Nel medesimo tempo arrivava al Pizzo, sul piroscafo Eugenia,
il maggiore Ludovico de Sauget mandato dal ministro Pianelli per vedere lo stato delle cose, ed avvisare se la truppa dovesse ancora combattere o ritirarsi. Il Vial che avrebbe dovuto chiamare a se il de Sauget, credette bene recarsi egli medesimo a bordo dell'Eugenia...
Corse allora voce tra' soldati che Vial andasse a trattare con Garibaldi sopra quel piroscafo, altri diceano che volesse disertare: l'ira e l'accecamento de' soldati non ebbe più freno. Un drappello del 12° di linea lo inseguì, e trasse molte fucilate da lontano contro il Vial, ma senza colpirlo.
La soldatesca, credutasi davvero abbandonata dal Generale in capo, diede in eccessi, scassinò i magazzini de' viveri, e li disperse per non lasciarli ai garibaldini.
La sera del 27 ritornò Bertolini e portò la convenzione con Garibaldi, con la quale si era stabilito, che i regi da Monteleone potessero ritirarsi a Napoli o per terra o per mare, senza essere molestati dai garibaldini. Come poi Garibaldi adempì quella convenzione, lo vedremo tra breve.
Vial dall'Eugenia
passò sull'altro piroscafo Protis,
e mandò un itinerario alla truppa, nel quale erano segnate le tappe sino a Salerno, ove questa dovea giungere il 10 settembre. Egli poi, che avea a bordo la Cassa militare avrebbe seguito l'esercito lungo la costa. Ma udito che Garibaldi era già a Monteleone, che a Paola si era proclamato il governo provvisorio e questi gli domandava la Cassa militare; vedendo che gli volteggiava intorno qualche legno della marina regia del Piemonte, navigò direttamente a Napoli, ove arrivò il 30 agosto; salvò la Cassa militare, ma fece perdere la truppa delle Calabrie a lui affidata. Il generale Ghio, tanto beneficiato da' Borboni, prese il comando in capo di tutta quella truppa; avea dodicimila uomini, quattrocento lancieri, dodici cannoni, ed ordinò la ritirata alla volta di Napoli.
Garibaldi non tenendo conto della convenzione fatta col Bertolini, molestava ed attaccava spesso i regi per impedire la ritirata. Bertolini si mosse di nuovo con l'intenzione di richiamarlo ai patti; però gli tolsero il mezzo di vederlo.
Ecco come Garibaldi adempiva i patti convenuti in suo vantaggio con i duci regi! Che ne dicono ora i propugnatori dell'onor militare,
quelli che ancora lodano il generalissimo Lanza, perché impedì a Meckel di distruggere la rivoluzione quasi distrutta in Palermo?
Forse risponderanno, che il mancar di parola di Garibaldi, non è una ragione, perché dovessero mancare i duci regi. Benissimo: ma io ho già detto, che Lanza non avrebbe mancato alla sua parola, se avesse lasciato libero il braccio di Meckel, perché Garibaldi non era stato riconosciuto parte belligerante, e perché la tanto vantata tregua del 29 maggio 1860, non era stata né discussa né firmata. D'altronde se i teneri dell'onor militare,
cioè, se quelli che difendono Lanza, perché costui rispettò quella fatale tregua, volessero ancora ostinarsi, direi: ebbene, cullatevi tuttavia in quell'onor militare, ma sappiate che quell'onor militare
fu la causa vera della sventura napoletana, dell'esercito messo in dileggio nell'attonita Europa, e del trionfo della rivoluzione, che rovesciò Re e trono con tutte le conseguenze
accessorie; e che infine ridusse voi, signori dell'onor militare,
a soffrire l'obblio, l'onta e il pubblico biasimo.
Giunta la colonna Ghio al piano Bevilacqua, ebbe luogo una scaramuccia tra soldati e garibaldini, la quale, al solito, finì con isvantaggio di questi ultimi. Un parlamentare si recò a secreto colloquio col generale Ghio. Allora si videro intorno a costui i garibaldini ed altri rivoluzionari calabresi.
La sera del 29 agosto la truppa giunse a Sovaria-Mannelli. Ghio fece accampare i soldati due miglia prima di giungere a questo paese, ov'è un'aperta campana e attorno si elevano alte montagne, che formano una gola, luogo bene scelto per far opprimere un esercito con pochi uomini.
Lo stesso garibaldino e scrittore Rustow si maraviglia che il generale Ghio abbia potuto condurre i suoi soldati in quella trappola, quando potea farli accampare in luoghi alti e strategici, che non ne mancavano in quelle vicine contrade.
Ghio disse ai soldati che stessero allegri, e facessero festa, perché Garibaldi era morto: Che Generale buffone...!
Fece dividere a' soldati poco pane e carne cruda, e non già per compagnie com'è uso, ma per persone. I soldati che si trovavano stanchi ed affamati, furono costretti a lasciare i fucili, e cercar legna per cuocersi la carne. Quel campo fu lasciato senza esploratori e senza avamposti.
Garibaldi e i suoi aveano seguito i soldati da vicino, come gli orsi bianchi affamati sieguono gli uomini stanchi nelle regioni polari per dar loro addosso al primo momento propizio. SovariaMannelli era il luogo destinato da Ghio a compiere la più atroce perfidia che mai soldato avesse potuto ideare.
Fin dal mattino del 29 le alture di Sovaria-Mannelli erano occupate da uomini in armi, come se avessero saputo che in quel luogo il Ghio avesse stabilito di sugellare la sua vita militare col suggello del tradimento e dell'infamia.
Alle otto del mattino chiama gli uffiziali superiori ed espone loro la difficile posizione della truppa; essere circondati da numerosissimi nemici, impossibile la ritirata, perché rotti i ponti e sbarrate le strade con alberi ed altri materiale; mancanti i viveri, e popolazioni avverse, i soldati indisciplinati; chiedere consiglio pria di decidersi ad un partito. Il colonnello Koënig dice che declina ogni responsabilità, perché non può contare sul suo reggimento; lo stesso ripetono Guarini, Marquez e Morselli. Il tenente colonnello de Lozza comandante l'11° cacciatori indegnato di tanta viltà e fellonia, dice che il suo battaglione è disciplinato e bravo, e quindi con i soli uomini sotto il suo comando avrebbe affrontato il nemico, per aprirsi la via con la forza; lo stesso dissero i maggiori Capasso, de Liguori, Armenio, e il Comandante la batteria. Ghio li accomiata senza esternare la sua opinione.
Mentre i soldati erano in isciopero, e che pensavano a cuocersi la carne, dalle altura si vede scendere un uomo barbuto con mantello bianco, seguito da due uomini vestiti alla calabrese, ed avendo incontrato il bravo capitano Campanino dell'11°
cacciatore, dice a costui che egli era il capo dello Stato maggiore di Garibaldi, e chiedeva voler parlare col Generale in capo. Ghio che stava alle vedette si fece incontrare a pochi passi distante.
Il garibaldino con pronunzia che sembrava inglese disse a Ghio: «Generale nello scendere i monti i soldati hanno gridato: viva Garibaldi -
Questo non può essere, rispose Ghio... Glielo assicuro, ripetè il garibaldino, additando colla mano le alture, di là ove noi stiamo.... Ma, interrompe il Generale, là voi non dovete sta.... e tronca a mezzo la parola accorgendosi che stavano attorno a lui de' soldati che ascoltavano quel dialogo, e bruscamente dice loro: «Signori miei se volete farci parlare..!»
Tutti si allontanarono. Bisogna convenire che Brigati fu meno fortunato di Ghio, mi fa maraviglia come i soldati non abbiano fatto la festa anche a costui!
Nel medesimo tempo che Ghio confabulava con i garibaldini si udirono diverse scariche di fucilate sopra le colline, e per la via che conduce a Napoli. Fu allora che si rinnovarono fatti del Piale; i soldati corrono alle armi e succede una grande confusione, tutti gridano: siamo traditi.
Koënig e Guarini cercavano di confortare i soldati consigliandoli a darsi a Garibaldi, e fu una fortuna per quei due traditori se si salvarono la vita fuggendo. I soldati vedendosi senza guida, traditi e circondati da nemici, rompono le armi e si allontanano a drappelli e prosieguono la via di Napoli. Nessuno volle rimanere con Garibaldi, ad eccezione di un sol chirurgo di battaglione. Alcuni soldati ritornarono alle proprie case, la maggior parte de' Calabresi, non badando ai luoghi che li videro nascere, sprezzando le preghiere e le minacce degli amici e de' parenti, si diressero alla volta di Napoli. Giunti in Capua, dopo lunghi stenti, ed innumerevoli pericoli, si fecero incorporare in altri reggimenti e battaglioni, e nel resto della campagna si mostrarono bravi e fedeli soldati.
Le casse de' reggimenti furono quali saccheggiate da' garibaldini, quali destinate da Garibaldi al tesoro garibaldesco. La Cassa dell'11° Cacciatori se la prese un R.mo Prete garibaldino, e poi si seppe, che facesse il pubblico usuraio.
Garibaldi, Cosenz, e Stocco si presentarono agli uffiziali, e li confortarono dicendo che non erano vinti, e quindi serbassero la propria spada per difendere la patria dallo straniero: finirono con invitarli a rimanere con essi; però nessuno accettò quell'offerta. Quegli uffiziali in numero di 260 furono imbarcati sopra un legno garibaldino e mandati a Napoli.
I garibaldini raccolsero in Sovaria-Mannelli migliaia di fucili, parte rotti o guasti, 400 tra muli e cavalli, e otto cannoni, erano dodici, degli altri quattro non si sa che ne facessero gli artiglieri, forse l'abbiano occultati.
Il generale Ghio non si fece più vedere in Sovaria-Mannelli; se ne andò al Pizzo accompagnato da' garibaldini: e così questo militare ricompensò i Borboni dell'aver lo fatto capitano appena nato. Egli, al 1858, si distinse alla testa del 7° cacciatori nel fatto d'armi di Sapri, ove distrusse le bande sbarcate allora in que' siti, e ne arrestò i superstiti. In mezzo agli altri venne ucciso Pisacane, ed arrestato Nicotera il quale ebbe poi il perdono da Ferdinando II, ed oggi è deputato al Parlamento italiano.
Garibaldi raggiante di gioia annunziava enfaticamente a' suoi amici: «dite al mondo che con i miei bravi calabresi ho fatto deporre le armi a 14 mila uomini,» Ossia fece deporre le armi a Ghio ed a tutto il codazzo de' traditori. E Ghio se sfuggì la sorte di Briganti, dopo 15 anni di rimorsi inconsolati, ne' primi di quest'anno si trovava ucciso ne' fossi de' ponti rossi in Napoli; chi crede siasi suicidato, e chi il crede assassinato; che Iddio perdoni all'anima sua!
Quella stessa sera, Garibaldi entrò in Cosenza ove fu acclamato sino al delirio da quelle popolazioni immaginose ed entusiasmate dai tanti facili trionfi riportati dal supremo duce della rivoluzione. Egli dal balcone della Prefettura arringò il popolo con quelle sue cicalate di patria e libertà, e con le solite promesse, che oggi son volte in caricatura. Il giorno 31 agosto partì per Castrovillari lasciando governatore di quella Provincia, Donato Morelli.
Il generale Caldarelli volle pure essere annoverato tra i Landi, Clary, Gallotti, Briganti e Ghio: trovandosi con una brigata in Cosenza, fece disarmare i suoi gendarmi e proclamare il governo provvisorio.
Fece dippiù, il 26 agosto, sottoscrisse obbligo con quel governo di non combattere contro la rivoluzione, e di non ostacolare l'unità italiana; e tutto questo per la vigliaccheria di assicurarsi la ritirata senza molestia sino a Salerno. Quel Generale comandante di una brigata, senza che questa avesse veduto il nemico, partì da Cosenza lo stesso giorno 26 Agosto, prima che fosse succeduta la catastrofe di Sovaria-Mannelli. Riposò più giorni a S. Lorenzo la Padula, aspettando che si avanzassero i garibaldini per far disarmare la sua gente.
Siccome temea di essere ucciso da' suoi soldati, scrisse a Garibaldi, e lo pregò di affrettarsi; costui gli spedì la Masa. Il Caldarelli circondato d'alcuni uffiziali felloni, e dal La Masa, poco mancò che non fosse trucidato assieme con quelli che lo circondavano.
La brigata Caldarelli si sbandò secondo i desiderii di costui, ma tutti i soldati si diressero a Salerno, e poi a Capua per raggiungere il resto della truppa ed il Sovrano. Il Caldarelli avrebbe ben dovuto essere riconoscente ai Borboni; ma chi è riconoscente non si brutta di viltà giammai!
Le vergogne di Calabria furono necessaria conseguenza di quelle di Sicilia. I Generali ed uffiziali superiori vili, vedendo che poteano salvarsi la pelle senza essere sottoposti ad un consiglio di guerra e fucilati, scelsero la parte più comoda di non far nulla. I traditori avendo osservato che Landi, Lanza, e Clary se la passarono liscia, osarono imitarli, maggiormente che erano appoggiati e protetti dal Ministero liberale. Quelli poi titubanti opagnottisti
si fecero trascinare dalla corrente; e tutti svergognarono la divisa che indegnamente portavano, facendo maravigliare l'Europa con le loro inettezze, co' loro turpi e triviali tradimenti. Sarebbe stato meno disonorevole per essi se avessero imitato i Generali toscani, ma disgraziatamente per loro trovarono il soldato napoletano fedele alla Patria bandiera. Oggi questi uffiziali superiori e Generali, quali inetti, quali vili, quali traditori, dopo di essere stati onorati, temuti ed arricchiti sotto il passato Governo, o son morti, o disprezzati, o vivono caduti nella più degradante abbiettezza.
(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).