Un dipinto che raffigura i garibaldini a Santa Maria Capua Vetere durante lo scontro
Mentre a Sant’Angelo le forze del De Rivera davano bella prova del proprio valore mettendo in fuga i garibaldini appostandosi a poche centinaia di metri dall’anfiteatro romano di Santa Maria Capua Vetere, e mentre a San Tammaro le forze di Negri e Corsi lottavano strenuamente con gli avversari, il centro della colonna agli ordini del Generale Luigi Tabacchi urtava contro le fila degli invasori alle porte di Santa Maria. A fronteggiare Tabacchi, di cui già precedentemente abbiamo evidenziato l’indole poco combattiva e la sua figura di “raccomandato” eccellente all’interno dello Stato Maggiore dell’Esercito del Regno delle Due Sicilie, era il generale Medici. Le forze napoletane erano, sulla carta, il doppio, di quelle garibaldine (poco meno di 10.000 contro 5.500 circa). A fare la differenza fu la pessima gestione delle truppe messe in campo, da attribuire direttamente al Generale Tabacchi, e delle riserve, la cui responsabilità ricade invece sul Maresciallo Giosuè Ritucci, comandante l’operazione sul Volturno. La battaglia consisteva, per semplificare, in una enorme operazione a tenaglia che i duo siciliani tentavano di mettere in atto tra Capua e Maddaloni per prendere tra due fuochi i garibaldini. In un caso del genere la sincronizzazione dei movimenti tra le due ali e gli eventuali intoppi influenzano in modo determinante l’esito finale dello scontro. In realtà la lunghezza della linea di battaglia (oltre 10 chilometri) rese possibile la singolare condizione per cui tra il 1° e il 2 di ottobre del 1860 si giocarono, in pratica, due partite distinte. Lo scontro tra Sant’Angelo in Formis – Santa Maria Capua Vetere – San Tammaro e quello sul lato est Castel Morrone – Maddaloni. Ai duo siciliani sarebbe bastata la vittoria su uno solo dei due fronti e lo schieramento Garibaldino si sarebbe rapidamente sgretolato. Ma di questo sarà evidente a conclusione del racconto della battaglia. Lo scontro di Santa Maria Capua Vetere fu uno dei più feroci di tutta la battaglia (assieme a quello ai Ponti della Valle) perché, dopo la presa di Sant’Angelo in Formis, la pressione duo siciliana si fece forte sulla zona dell’anfiteatro romano. Il grosso dello scontro si combattè proprio nell’area dell’anfiteatro e di quella che viene comunemente definita Porta Capua (perché attraversata dalla strada che conduceva alla fortezza) o Arco di Adriano. A distinguersi nello scontro furono, dalla parte duo siciliana, diversi ufficiali. Il Colonnello Conte Gennaro Marulli, il Colonnello Matteo Negri (al comando delle artiglierie tra Santa Maria e San Tammaro), i Principi Reali Luigi Conte di Trani e Alfonso Conte di Caserta (passati da Sant’Angelo al centro dello schieramento) e, infine perito nello scontro, il Capitano Giuseppe De Mollot. Inoltre, nelle prime ore del pomeriggio a combattere con i suoi soldati giunse anche il Re Francesco II. Gli scontri a Santa Maria consistettero in una serie di cannoneggiamenti reciproci tra le forze duo siciliane e quelle garibaldine con conseguenti cariche di sfondamento delle truppe regie. Dopo sei ore di battaglia, passate le 11 della mattina, le forze garibaldine erano impossibilitate a reggere oltre. Lo stesso Garibaldi, finito quasi catturato a Sant’Angelo era diretto a Caserta per avere notizie dal lato destro del suo schieramento agli ordini di Nino Bixio. Come annota anche il De’ Sivo quella fu l’occasione perduta che segnò lo scontro sul lato sinistro del fronte. Se Tabacchi avesse avuto un animo guerriero maggiormente spiccato avrebbe assaltato ancora le barricate garibaldine. La popolazione di Santa Maria, nel mentre, rifiutava di accogliere in casa i feriti garibaldini e già si preparava al rientro dei duo siciliani in città. Furono delusi. Utilizzando la tanto vituperata ferrovia borbonica Garibaldi, ricevute le rassicurazioni da Bixio sulla tenuta del fronte, inviò rapidamente i rinforzi che colmarono il deficit umano. Altrettanto non fece Ritucci che, pensando ormai di aver perso la battaglia (o forse entrato in battaglia con la convinzione di essere già sconfitto!), non si scomodò nemmeno a mandare i rinforzi in campo, stiamo parlando di quasi 10mila uomini che avrebbero rovesciato le sorti della battaglia e né tantomeno pensò alla possibilità di far entrare in campo la cavalleria napoletana. Tanto famosa e temuta per le sue furiose cariche anche da Napoleone (che chiamava i reparti duo siciliani i “Diavoli bianchi”) in una bella pianura come quella della Campania Felix la cavalleria duo siciliana non cavalcò né per caricare le barricate, né per aggirare i nemici e piombare su Caserta da sud. Errore madornale che costò l’esistenza del regno più antico d’Italia. Nel corso di una delle cariche alle barricate garibaldine fu colpito, da una scarica a mitraglia, il Capitano De Mollot, eroe dello scontro. Vale la pena di leggere la biografia che ci ha lasciato il Barone Roberto Maria Selvaggi nella sua opera “Nomi e volti di un esercito dimenticato”.
Il Capitano De Mollot
Giuseppe De Mollot (29-9-1821 – 1-10-1860)
Figlio del Tenente Colonnello Michele, ufficiale Svizzero al servizio del Re di Napoli, fu ammesso alla Nunziatella nel 1832. Alfiere di fanteria nel 1837, preferì abbandonare la carriera militare per passare a quella civile. Entrò nell’amministrazione dello Stato come funzionario dei dazi ma, nel 1848, chiese di rientrare in servizio facendosi assegnare al X Abruzzo che partiva per la Lombardia per partecipare alla guerra contro l’Austria. Combatté valorosamente a Goito e, rientrato a Napoli, fu trasferito ai Granatieri della Guardia coi quali partecipò alla campagna nello Stato Pontificio (1849). Primo Tenente nel 1853 e Capitano nel gennaio del 1860, fu trasferito al battaglione Tiragliatori. Il primo ottobre 1860 al comando di una compagnia attaccò per ben tre volte le fortificazioni nemiche a Santa Maria Capua Vetere. Al quarto attacco fu colpito da una cannonata a mitraglia che lo uccise sul colpo. I suoi soldati poterono riportare indietro soltanto la sua sciabola.
(Continua nel prossimo articolo)