Nonostante le scienze storiche e politiche abbiano, oramai da tempo, inoppugnabilmente dimostrato che la Rivoluzione Francese (1789-1815, a voler, correttamente, considerare come parte integrante di essa pure l’ "età napoleonica", 1799-1815) e la cosiddetta "rivoluzione" americana (1775-1783) siano avvenimenti tanto diversi da porsi addirittura l’uno come il contrario dell’altro, nelle percezione comune, ma anche della “cultura diffusa”, sopravvive invece l’idea di una certa "parentela" tra le due.
Del resto, in lingua italiana la bibliografia sull’argomento continua a scarseggiare, e solo una piccolissima parte di quanto prodotto nel mondo anglofono è disponibile in traduzione. La pubblicazione, dunque, de L’origine e i princìpi della Rivoluzione Americana a confronto con l’origine e i princìpi della Rivoluzione Francese di Friedrich von Gentz (Introduzione di Russell Amos Kirk, Prefazione di John Quincy Adams, a cura di Omar Ebrahime, Sugarco, Milano 2012) costituisce avvenimento di grande rilevanza.
Del resto, nel comparare i due avvenimenti, l’autore si spende soprattutto nell’illustrazione della cosiddetta "rivoluzione" americana. E così il testo - ecco le ragioni forti della sua importanza oggettiva - diviene la "pezza d’appoggio" autorevole che permette di sfatare il falso "mito" della parentale tra i due avvenimenti: perché si tratta di un testo coevo ai fatti; perché è scritto da un osservatore "terzo", non statunitense, non britannico, e nemmeno francese; perché l’autore è un osservatore ben conscio - "per partecipazione" - della realtà - e dei mali - della Rivoluzione Francese; perché si tratta pure di un profondo conoscitore dell’ecumene occidentale di allora - anche sui piani per esempio giuridici e linguistici, con riferimento particolare al mondo anglosassone -, peraltro non un quidam de populo bensì un protagonista diretto dello scenario politico e culturale del tempo.
Von Gentz nasce a Breslavia, nella Slesia prussiana oggi polacca, nel 1764, rampollo di una famiglia di ascendenze nobiliari. Seguendo le orme del padre, diviene funzionario dell’amministrazione centrale del Regno. Quando, nel 1789, scoppia la Rivoluzione Francese, ne viene conquistato, dedicandosi a un’alacre attività di pubblicista e di traduttore in sua difesa. Ma presto muterà radicalmente giudizio. Quindi, nel 1802, diventa Consigliere aulico della Segreteria di Stato asburgica e, dal 1812, stretto collaboratore del principe Klemens von Metternich (1753-1859), cancelliere dell’impero della Doppia Aquila. In questa veste è dunque Segretario generale di quel Congresso di Vienna (1814-1815) che chiude l’"età napoleonica" ponendo fine alla Rivoluzione Francese anche se solo parzialmente alle sue vittorie, certo con grande rammarico di menti accorte proprio come Von Gentz. Il grande diplomatico, infatti, morto a Vienna nel 1832, da sostenitore dell’Ottantanove era divenuto suo acerrimo nemico.
STORIA DI UNA CONVERSIONE
Da giovane, Von Gentz era stato allievo del filosofo Immanuel Kant (1724-1804), la "vedette" culturale del momento, l’uomo più à la page nei circoli intellettuali, il maestro indiscusso delle accademie. Alla sua scuola, il futuro diplomatico aveva appreso i criteri che lo avrebbero poi portato a farsi fiero sostenitore della Rivoluzione Francese. Basti infatti ricordare che Kant fu colui che, al culmine di una plurisecolare filiera filosofica, diede il benservito finale al concetto di metafisica su cui, da tempi immemorabili, si reggeva la filosofia dell’essere elaborata dalla classicità greca e dunque - in continuità diretta - il pensiero cristiano capace della dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio.
Con Kant va cioè definitivamente in soffitta l’idea che la metafisica abbia strumenti adatti a conoscere la verità e inizia un rattrappimento sistematico delle ragione umana che si accompagna a un’idea solo intimistica e per lo più sentimentale della fede religiosa, a un moralismo autoreferenziale ormai privato del sostegno appunto metafisico, insomma a un’idea di Dio il quale, se ancora esiste, interessa solo a chi, per motivi suoi, ci crede, ma che già è pronto per essere archiviato come pratica superata (cosa che con il kantismo e oltre il kantismo s’incaricherà di fare il pensiero filosofico successivo).
Per questo Kant sta pure alla base di quel concetto nuovo di scienza - a cui lo scientismo positivistico deve almeno qualcosa di significativo - che viene ritenuto - contro la metafisica e la religione - l’unico strumento in grado di conoscere con certezza il reale poiché si occupa dell’"oggettività" di "ciò che si misura" ovvero "si vede e si tocca".
Coerente con questa impostazione filosofica, Kant elaborò anche progetti politici fondati su un’idea di armonia tra i popoli e le nazioni (per molti versi riecheggiata decenni dopo nella "filosofia" della Società delle Nazioni e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite) che si fonda sull’utopia di un "impero nuovo" radicalmente alternativo a quello - allora - esistente, cioè l’asburgico, e inteso come "dottrina sociale" del pensiero nuovo postmetafisico - quando non antimetafisico -, razionalistico e illuministico. Tra i molti suoi scritti, Kant fu infatti, assai indicativamente, autore, nel 1784, di un breve ma cogente opuscolo, Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?, vale a dire un’opera di "catechesi" e d’"intervento sociale", dove - con parole divenute famose - il filosofo stabilisce "magistralmente" che l’«Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità».
Emancipato (come gran parte dell’Europa di allora) da questa novità prometeica che finalmente permetteva all’uomo di scrollarsi dalle spalle le "superstizioni" e le "tirannie" di "trono e altare" che avevano costretto l’umanità in un "Medioevo" troppo buio e angusto, il Von Gentz kantiano si era insomma predisposto a divenire un "agente" della rivoluzione nel seno stesso di quel che restava dell’organizzazione politica - il Sacro Romano Impero - dell’antica Cristianità, una quinta colonna della distruzione dentro quanto sopravviveva di un ordine anche sociale a misura di uomo e auspicabilmente secondo il piano di Dio, se non altro perché disposto a prendere sul serio la Rivelazione cristiana nei suoi "princìpi non negoziabili" tentando d’investirne pure gli aspetti invece più legittimamente negoziabili dell’esistenza.
Ma, nel 1790 - avendolo scritto in diretta nei primi mesi successivi alla "Presa della Bastiglia", il 14 luglio 1789 -, il pensatore e statista angloirlandese Edmund Burke (1729-1797) pubblicò Reflections on the Revolution in France - in italiano Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia -, testo lucido e a tratti decisamente profetico che costituisce la prima critica organica e ragionata dei guasti (molti dei quali ancora tutti da produrre) dell’Ottantanove francese, un’opera somma destinata a stabilire il parametro di ogni ulteriore pensiero antirivoluzionario, e per ciò stesso matrice della tradizione conservatrice e contro-rivoluzionaria.
Von Gentz ebbe subito quel libro tra le mani, e dapprima non ne fu contento. Lo criticò severamente e lo avversò appassionatamente, ma pure continuò a studiarlo, lasciandosene alla fine innamorare. La lettura di Burke, e la sua difesa strenua del "Commowealth cristiano d’Europa" attaccato dall’illuminismo e dal giacobinismo, convertì insomma Von Gentz, cancellandone progressivamente il kantismo. In quel frangente decisivo dello scontro epocale tra due mondi contrapposti, lo statista prussiano, che era nato su una parte della barricata, capì che la ragione stava sull’altro versante, e mutò radicalmente mente e cuore.
Tradusse rapidamente in tedesco l’opera di Burke - pubblicata a Berlino nel dicembre 1793 con il titolo Betrachtungen über die Französische Revolution - per contribuire alla più ampia diffusione possibile delle sue argomentazioni anche dentro la struttura politica di quel che restava del Sacro Romano Impero, ovvero la realtà socio-culturale che più aveva titolo e più avrebbe dovuto sentire il dovere di combattere l’Ottantanove francese, ma si spinse anche oltre.
Di Burke, infatti, di quel Burke che lo aveva strappato a Kant (e di cui peraltro lo stesso Kant aveva subito una certa influenza allorché aveva ragionato di estetica anche alla luce dell’Indagine sull’origine delle nostre idee di sublime e di bello che l’angloirlandese aveva pubblicato nel 1757) Von Gentz studiò l’opera intera, trovandovi materiali abbondanti per distinguere con acume l’Ottantanove francese da quanto accaduto nel dissidio che, nel 1776, aveva portato i coloni britannici dell’America Settentrionale a dichiararsi indipendenti dalla madrepatria londinese. Così educato, il prussiano redasse dunque L’origine e i princìpi della Rivoluzione Americana a confronto con l’origine e i princìpi della Rivoluzione Francese, la cui stoffa, le cui argomentazioni, il cui lo spirito e a tratti persino la cui lettera sono tutte squisitamente di marca burkeana.
Burke era stato infatti il grande difensore delle prerogative dei coloni britannici nel Mondo Nuovo, che egli giudicava legittime, tradizionali e conservatrici, contro le pericolose politiche che in quel momento la Corona britannica praticava, ispirandosi a un assolutismo innovatore estraneo alla sua prassi inveterata di governo e di amministrazione.
Anche contro molti dei suoi amici, colleghi e compatrioti, Burke si era cioè dato gran da fare per dimostrare che la condotta davvero sovversiva era quella seguita dalla Corona, non dai coloni; aveva predisposto terreni di confronto leale tra le parti; e si era adoperato per propiziare la conciliazione. Ma fallì; e così i coloni, del resto dopo mesi di guerra, quindi "alla fine" e non all’inizio del conflitto, si trovarono costretti a rompere istituzionalmente con la madrepatria onde potere continuare a seguirne, seppur indipendentemente, la storia giuridica e culturale. Di fronte a ciò, Burke ammutolì. Dell’America Settentrionale, e a maggior ragione della separazione delle colonie da Londra, non parlò più. Era infatti deciso a difendere fino all’ultimo le rivendicazioni dei coloni giacché riteneva che il rispettarle avrebbe fatto bene a tutti, ma riteneva che solo entro l’ampia struttura federativa imperiale potesse trovare giusta collocazione la fattuale autonomia di cui da decenni godevano le colonie d’Oltreoceano, quindi il dissidio comporsi.
Non era, quella nordamericana, una rivoluzione, ma - diceva Burke, dicevano i coloni - una rivoluzione impedita, tesa a conservare invece che a distruggere. Non desiderava, Burke, che i coloni rompessero con l’impero poiché riteneva i coloni una risorsa imprescindibile per l’impero tutto e l’impero la casa naturale anche di quei coloni nordamericani. Rimase, insomma, scottato, e quindi, "sconfitto", prese a occuparsi "a tempo pieno" di altro: eminentemente di quella Rivoluzione Francese che giudicava il contrario stesso di quanto avvenuto in America Settentrionale.
Sempre in nome di una lex suprema fondata nel diritto naturale e radicata nei diritti di Dio, Burke si sforzò così di descrivere al mondo e per tempo i mali attuali e venturi dei fatti francesi. Fu Burke il primo a comprendere che la Rivoluzione Francese segnava una svolta storica decisiva per l’Occidente, e affatto positiva.
Ebbene, raccogliendo e riorganizzando questo magistero, Von Gentz scrisse dunque il libro che manca alla bibliografia burkeana, il libro che avrebbe potuto e dovuto ma forse non voluto scrivere il suo maestro angloirlandese, l’uomo che provvidenzialmente aveva a suo tempo, senza saperlo, salvato dal baratro illuministico quel futuro grande artefice della reazione al giacobinismo.
Sembra infatti davvero di stare leggendo Burke quando si segue il Von Gentz che, ne L’origine e i princìpi della Rivoluzione Americana a confronto con l’origine e i princìpi della Rivoluzione Francese, individua quattro motivi centrali della differenza inconciliabile tra quei due avvenimenti.
Il primo è che la Rivoluzione Francese ha mirato a cancellare tutto quanto l’aveva preceduta allo scopo di ricominciare da zero un mondo nuovo ideologico che non avrebbe più avuto più bisogno di Dio, della Chiesa e delle vecchie concezioni culturali e politiche giusnaturali e cristiane, mentre la Guerra d’indipendenza nordamericana si è sempre intenzionalmente e coscientemente mossa dentro l’ambito della legittimità e della legalità sancite dalla tradizione giuridico-politico-culturale britannica, per la quale - l’esempio eminente à la Magna Charta del 1215 - il diritto positivo trae legittimità solo dal diritto naturale e dalla legge divina, e così dunque fa anche il potere politico.
Poi, ed è la seconda differenza, «la Rivoluzione Americana», scrive Von Gentz, «fu dall’inizio alla fine una rivoluzione difensiva, quella francese, invece, fu dall’inizio alla fine, nel senso più letterale della parola, una rivoluzione offensiva». In terzo luogo quella americana ebbe sempre motivi e scopi precisi, senza mai mirare, come invece fece quella francese, a "rifare il mondo". E così - quarta distinzione -, una volta ottenuto lo scopo che si erano prefissi, gli americani restaurarono prontamente l’ordine civile - che fu dunque un "nuovo ordine antico" - evitando la sovversione delle strutture sociali, economiche, politiche e religiose del Paese come invece positivamente non fecero i rivoluzionari francesi.
Alla vigilia dello scoppio dello scontro che avrebbe poi generato l’indipendenza americana, il Congresso delle colonie pronunciò peraltro un discorso rivolto al re britannico - sono parole che Von Gentz riporta testualmente nel libro - in cui fu chiaramente detto: «Domandiamo solamente pace, libertà e sicurezza. Non vogliamo alcun ridimensionamento dei poteri del re, né nuovi diritti. Davanti alla magnanimità e alla giustizia di Sua Maestà e del Parlamento, ci impegniamo a riparare alle nostre rimostranze, fermamente convinti che quando le cause delle nostre rimostranze verranno rimosse, la nostra condotta futura non sarà immeritevole di un trattamento migliore, lo stesso al quale eravamo abituati in passato». Non fu, quella americana, una rivoluzione, ma il suo contrario esatto; fu una controrivoluzione. Per questo, a differenza del mondo delle ideologie nato dall’Ottantanove francese foriero delle ideocrazie più orrende, gli Stati Uniti nascono profondamente conservatori.
Von Gentz pubblicò il suo testo sul mensile di studi storici Historisches Journal, di cui era fondatore, direttore e redattore pressoché unico, nell’anno 1800, nei fascioli di aprile e maggio, con il titolo Der Ursprung und die Grundsätze der Amerikanischen Revolution, verglichen mit dem Ursprung und den Grundsätzen der Französischen. Oltre l’Atlantico, se ne accorse subito John Quincy Adams (1767-1848), che così lo tradusse in inglese. Figlio del presidente degli Stati Uniti John Adams (1735-1826), Quincy guiderà egli stesso la Casa Bianca dal 1825 al 1829.
Il testo di Von Gentz sta insomma nel DNA stesso degli statunitensi, ne spiega lo spirito, ne difende la storia. Questa sua importante opera "burkeana" è del resto sempre stata viva nel mondo americano, direttamente poiché sempre in edizione, indirettamente perché rifluita in mille altri scritti e discorsi. Solo dopo la Guerra di Secessione (1861-1865) - vale a dire la vera "rivoluzione ideologica americana", come la Guerra d’indipendenza invece non era appunto stata - il libro di Von Gentz ha conosciuto, sintomaticamente, un certo oblio. Così, quando il "padre" della rinascita conservatrice nordamericana burkeana Russell Kirk (1918-1994) lo riscoprì nel 1955, rieditandolo per documentare come e quanto gli Stati Uniti siano davvero da sempre il contrario stesso dell’illuminismo e del giacobinismo, fu una risurrezione.
Nell’introduzione apposta alla propria traduzione di Von Gentz, John Quincy Adams firma parole che sono macigni: «La differenza fondamentale tra questi due grandi eventi, la loro nascita, la loro evoluzione e la loro conclusione, viene qui illuminata in più aspetti, dei quali per un uomo onesto uno solo sarebbe più che sufficiente. Un filoso moderno potrebbe rispondere che lo sceriffo che mette a morte un criminale e un brigante che uccide un viaggiatore agiscano sulla base degli stessi princìpi ma il semplice buonsenso riscontrerà fra loro la stessa differenza qui evidenziata fra la Rivoluzione Francese e quella Americana. La differenza fra il bene e il male».Le immagini: il famoso quadro Prayer at Valley Forge ("La preghiera di Valley Forge"), del pittore Arnold Friberg (1913-2010), ritrae il "padre della patria" George Washington (1732-1799) in raccoglimento prima di una decisiva battaglia combattuta in Pennsylvania nel 1778 durante la Guerra d'indipendenza contro la Corona britannica.
Lo stesso soggetto ricorre nel francobollo da 13 centesimi di dollaro emesso nel Natale del 1977 per celebrare il 150° anniversario della sosta a cui le truppe statunitensi furono lungamente costrette dal rigore invernale a Valley Forge, in Pennsylvania, prima di quella battaglia.
di Marco Respinti