domenica 12 febbraio 2012

Nascita della metalmeccanica privata



La cosa che maggiormente mi rende nervoso è quando qualcuno vuole affermare delle cose senza conoscerne a fondo le motivazioni. Si parla tanto del "primati del regno delle Due Sicilie", se ne parla senza che si capisca come si siano ottenuti e se veramente abbiano dato luogo alla superiorità tecnologica del regno.
Principalmente bisogna ricordare che tra le industrie primarie del regno c'era quella tessile e da li inizia la tutto ...........
All'industria tessile si devono riconoscere due meriti: la nascita della moderna industria chimica e il sorgere della metalmecca­nica privata. La chimica nasce per la produzione di acidi sbian­canti, mordenti e coloranti necessari alla tessile. Sfrutta i vasti giacimenti siciliani di zolfo, la più importante impresa mineraria italiana dell'epoca (in grado di rifornire nel suo complesso tutta la chimica inglese, almeno fino alla conversione degli impianti all'uso delle piriti).
A un'altra esigenza dell'industria tessile è legata la nascita dell'industria metalmeccanica, non più statale ma privata. La tessile, al Sud, avvia la produzione servendosi di telai meccanici di fab­bricazione straniera, specie francesi. Messa in moto, risente su­bito la mancanza di attrezzature di ricambio. A Napoli la me­talmeccanica privata nasce in contrappunto alla statale, ancora prevalentemente ad indirizzo militare, e coincide con la fonda­zione della Zino & Henry, emanazione dell'industria tessile, sorta per fornirle appoggio e autonomia. La Zino & Henry è un'impresa nata dalla volontà di Lorenzo Zino, proprietario di uno stabili­mento tessile a Carnello, sulle acque del Fibbreno, presso Sora. A Carnello sono in perpetua attività telai meccanici francesi; il lo­gorio cui sono sottoposti richiede quotidiane riparazioni e sosti­tuzioni. Per uscire dall'impasse dell'attesa dei ricambi, Zino, in società con il professore di meccanica Francois Henry, venuto da Parigi a curare l'installazione di macchine a vapore, concretizza l'idea di costruirsi da solo i ricambi e sottrarsi così ai lunghi ritardi e ripetuti errori di spedizione.
I due aprono, con l'unico scopo di produrre i ricambi, uno sta­bilimento meccanico a Capodimonte. La cosa non passa inos­servata: sono letteralmente sommersi da pressanti richieste di molti altri industriali tessili alle prese con i medesimi problemi. Ampliato lo stabilimento, vedono giungere non solo richieste di sostituzioni parziali, ma anche di macchinario completo. Aprono una succursale ai Granili, al Ponte della Maddalena; anche qui pioveranno le richieste più disparate, per merito questa volta della pubblicità ottenuta dalla riparazione delle macchine del Pacchetto a Vapore Nettuno, della Compagnia Toscana di Navigazione, in avaria durante il viaggio inaugurale da Londra. Il bastimento, ri­morchiato a Napoli in attesa di proseguire per Marsiglia, unico porto del Mediterraneo già specializzato in tali interventi, grazie alla perizia del professore francese e all'abilità delle maestranze della società, è stato messo in grado di riprendere il mare e proseguire da solo il suo primo viaggio.
L'intervento procura altro mercato: il porto di Napoli diviene meta obbligata dei provascelli in difficoltà nel Mediterraneo centrale e sarà poi dotato del primo bacino di carenaggio in muratura d'I­talia. La Zino amplia la gamma produttiva, diventa un'ottima in­dustria comprimaria, raggiungendo in breve una giustificata no­torietà (85).
La fama polarizza curiosità, invidia e, naturalmente, critiche: as­surta a ruolo d'industria d'importanza nazionale, oltre a lodi e commesse, s'attira aspri rimproveri per la preferenza accordata nella lavorazione alla ghisa nera inglese. Nel 1834, il Giornale di Commercio pubblica un violento attacco ai due soci, rei di tale scelta che, a dire di Giuseppe Del Re, autore del pezzo, va a tutto discapito della ghisa nazionale. L'articolo e lo strascico di po­lemiche scaturitene hanno il merito di mettere il dito sulla piaga. Al giornalista che dalle pagine del Giornale li invitava a far uso della ghisa di Mongiana, altrettanto pubblicamente, i due ribat­tono che solo gli altiforni inglesi, marcianti a coke, producono la ghisa e i ferri adatti alla lavorazione a tornio e trapano e che, se anche la Mongiana fosse stata in grado di produrli, il loro costo sarebbe risultato superiore a quello degli inglesi. Dichiarano inol­tre di ritenere Mongiana capace di produrre in futuro le qualità richieste, ma di nutrire seri dubbi sulla costanza delle consegne e temere i prezzi del loro trasporto sulla piazza napoletana.
Il divampare della polemica non sfugge al governo che, punto sul vivo dagli inoppugnabili argomenti, apre finalmente gli occhi sugli aspetti carenti della siderurgia statale. Decide l'apertura della strada tra Mongiana e il mare e, per non perdere la faccia, ac­celera i tempi di realizzazione del primo tronco ferroviario ita­liano. Nel 1837, richiesto dal Segretario di Stato per la Guerra e Marina, si vara il progetto del collegamento Mongiana-Pizzo; nel 1839 è pronta ed inaugurata la Napoli-Portici.
Effetto non secondario della polemica Zino-Del Re, scaturito dalla volontà di non lasciare il tronco ferroviario un'episodio isolato, o comunque gestito da imprenditori privati, sarà la fondazione delle Officine ferroviarie di Pietrarsa dove l'uso delle litantraci sarà previsto fin dall'inizio. Le Officine sono dei primissimi anni del 1840, servono per la costruzione del materiale rotabile, di motrici a vapore navali e per creare una classe di macchinisti navali (istruiti dall'annessa Scuola Macchinisti) che sulle navi napole­tane sono sempre stati inglesi, motivo di continua apprensione perché, come già all'epoca della “questione degli zolfi”, essi era­no in grado di bloccare in qualunque momento i traffici marittimi della flotta più moderna e consistente d'Italia e, fatta salva la Francia, dell'intero Mediterraneo.
Ancora oggi tra i ruderi delle vecchie Officine di San Giovanni a Teduccio campeggia la statua di Ferdinando II. La lapide sul piedistallo è un documento programmatico:
PERCHÉ DEL BRACCIO STRANIERO - A FABBRICARE LE MACCHINE MOSSE DAL VAPORE - IL REGNO DELLE DUE SICILIE - PIÙ NON ABBISOGNASSE - E CON L'ISTRUZIONE DEI GIOVANI NAPOLETANI - TORNASSE TUTTA NOSTRA L'ANTICA ITALIANA DISCOVERTA - FERDINANDO II - NELL'ANNO XI DEL SUO REGNO - GOVERNANDO LE ARMI DOTTE - CARLO FILANGIERI PRINCIPE DI SATRIANO - FONDO'.
L'Europa intera rimane sorpresa e ammirata per la modernissima fabbrica e la sua perfetta organizzazione. Inghilterra e Francia, che si ritengono uniche depositarie della rotaia e della locomo­tiva, accusano il colpo; Vienna non cela il disappunto; Torino invia in tutta fretta Alfonso Lamarmora a rendersi conto e a stu­diare la possibilità d'impiantarne una simile in Piemonte. Lo Zar russo la copierà identica e darà vita alle Officine di Kronstadt.
E se, nel 1862, il futuro re Umberto I di Savoia, nel visitare le Officine, avverte il bisogno di scattare sugli attenti di fronte alla statua di Ferdinando scalzata dal piedistallo e relegata in un deposito, nel 1903 gli operai dell'oramai “declassata” Pietrarsa costringeranno Vittorio Emanuele III a rimettere la statua al suo posto per un postumo, amaro ringraziamento.
Abbiamo precorso i tempi, accennato alla nascita della statale Pietrarsa e allo sviluppo della Zino - la prima in ordine cro­nologico delle molte società metalmeccaniche napoletane - e abbiamo ricordato la polemica giornalistica sull'impiego dei pro­dotti della Mongiana, per confutare il convincimento che porta ancora oggi a ritenere le industrie napoletane isolate eccezioni, avulse da un contesto più allargato e spesso definite “cattedrali nel deserto”. Tale definizione s'addice forse a qualche realizza­zione dei nostri giorni, a qualche odierna industria che, nata mon­ca al Sud, stenta a raggiungere i livelli produttivi attesi, e perde nel confronto con le “case madri” del Nord.
Se al contrario si confronta la siderurgia meridionale con quella degli Stati sardi intorno alla metà del secolo XIX, si giunge alla conclusione che in poco più di un secolo la situazione si è com­pletamente ribaltata. I 1290 addetti che, nel 1845, Piemonte, Li­guria e VaI d'Aosta potevano vantare, disseminati in una quin­dicina di piccoli stabilimenti artigianali, ammontano a quelli delle sole Mongiana e Pietrarsa. Per non parlare di quantità prodotte o di qualità sfornate, discorso completamente diverso nel quale, alla stessa epoca, perde il confronto tutta la siderurgia setten­trionale, ad eccezione del solo stabilimento Rubini a Dongo sul Lario che, a metà degli anni quaranta, doveva ricevere le cure dell'alsaziano G.E.Falck. Una tra le ragioni addotte dagli unitari liberali per giustificare lo smantellamento della siderurgia meri­dionale era data dalle onerose importazioni effettuate dal Sud. La stessa siderurgia settentrionale tuttavia non ne era esente poiché aveva assoluto bisogno del coke che non produceva. Tutta la siderurgia italiana era, e sarà poi, dipendente dall'estero: lo era con il ferro e il carbon fossile, lo sarà quando utilizzerà l'energia elettrica sostitutiva del carbone negli altiforni, continuerà ad im­portare carbone per produrre energia elettrica; importerà petrolio sostitutivo del carbone e già importa uranio per le centrali nu­cleari. L'italia è stata sempre dipendente per le materie prime, ed è perciò ancora più esiziale che la nazione unitaria abbia con­tratto definitivamente lo sfruttamento delle risorse locali e ab­bandonato l'esplotazione delle miniere meridionali.
In fatto d'importazioni poi, la siderurgia napoletana non si com­portava diversamente dalla fortissima inglese che, per sostenersi nei momenti di maggiore flessione, importava considerevoli quan­tità di ferro svedese. L'importante, evidentemente, era costruirsi una solida base di attrezzature e creare una nutrita classe di tecnici e maestranze. Nè la stessa Italia ci sembra essersi com­portata in modo diverso dalle “deprecabili” posizioni meridionali, quando, sfornita di materie prime, si è costruita un proprio ap­parato produttivo e ha tentato d'inserirsi nel novero delle nazioni industrializzate.
Si è parlato spesso dei “primati” conseguiti dal Regno napo­letano (primo vascello a vapore, primo tronco ferroviario, primo bacino di carenaggio in muratura, ecc.). La Napoli-Portici è ge­nericamente etichettata come iniziativa di regime e bollata col marchio della demagogia. Si dimentica, che essa costituisce il via per una serie di iniziative collaterali. A qual prò altrimenti Pie­trarsa? Ed è la Zino & Henry, metalmeccanica privata, che ap­poggia la Bayard nella realizzazione dell'opera.  
Cade così anche l'altra accusa “storica” al sistema meridionale, tacciato di privilegiare solo l'industria statale e non concedere spazio agli imprenditori privati. Il fatto è che il Sud non era su posizioni di protezionismo ad oltranza, nè su quelle di capitalismo privato “avanzato”, ma piuttosto su posizioni intermedie, con un capitalismo di Stato con funzioni di accumulazione primaria, oscillante tra le due vie. Tale scelta lo collocava su posizioni non molto differenti da quelle assunte dallo Stato francese post-ri­voluzionario nel creare il grosso della sua ossatura industriale, in tempi estremamente contratti, per recuperare il suo ritardo storico nei confronti di altre nazioni già più avanti sulla strada dello sviluppo industriale privato.
Anche se lo Stato meridionale non giunge al punto di creare imprese a capitale misto (strada seguita in seguito dall'Italia), esso concede franchigie tanto all'industria statale che alla pri­vata. Nè il protezionismo è tanto cieco da andare contro gli in­teressi del paese, nel quale, va sottolineato, non è consentita alcuna forma di monopolio e dove l'assegnazione delle commesse avviene sulla base della pura convenienza economica.
Certo, la Zino vince le sue gare d'appalto e ottiene la preferenza degli imprenditori francesi, per la realizzazione della Napoli-Por­tici, perché è ancora l'unica impresa sul mercato in grado di fornire il materiale richiesto. Vero anche che Pietrarsa, sorta per fornire il materiale rotabile al Regno, vede sfumare molti contratti a favore di industrie nazionali e straniere, prova ne sia che il Direttore della Regia Ferriera acquista le rotaie dove sono più a buon mercato e installa addirittura, all'interno dell'Opificio Mec­canico Ferroviario, una fonderia per produrle. Ciò dimostra che, sebbene Pietrarsa, al pari di S.Leucio, è sostenuta vigorosamente anche senza guadagno - per garantire comunque posti-lavoro, per accumulare esperienze e per evitare la fuoriuscita dal paese di forti somme di denaro - il protezionismo esasperato non è la strada di sviluppo scelta dal Regno napoletano. D'altro canto, nel 1880, il capitalismo liberale che aveva biasimato l'anacronistico protezionismo meridionale, quando vorrà gettare le basi dell'in-dustria italiana, sarà costretto ad erigere un'invalicabile barriera doganale con tariffe superiori a quelle napoletane di trent'anni prima (86).
Queste digressioni non sono vascolarizzazioni del discorso su Mongiana, ma servono ad inquadrare la realtà economica in cui si troverà la ferriera calabrese nel decennio 1830-40, quando nel paese si incentivano i processi di sviluppo industriale.
Alle nuove industrie Mongiana fornirà appoggio, e da esse trarrà sostentamento e motivo di crescita.