lunedì 30 gennaio 2012

I Re Taumaturghi

S.A.R Luigi XIV° di Borbone-Francia ritratto mentre adempie al rito della Taumaturgia.
  
  Uno degli eventi più singolari e misteriosi del medioevo cristiano fu senza dubbio il miracoloso potere guaritore che i sovrani di Francia e d’Inghilterra esercitarono senza interruzione per lunghi secoli. Il monarca francese e il suo collega d’oltremanica godevano infatti della capacità soprannaturale di curare con il tocco della mano consacrata una particolare malattia, un tempo assai diffusa, l’adenite tubercolare, detta volgarmente ‘scrofolosi’. Questo morbo, chiamato ‘mal reale’, Mal le Roi, the King’s evil, era raramente mortale, ma provocava delle tumefazioni purulente e maleodoranti nel collo e nelle articolazioni, rendendo assai precaria l’esistenza di chi ne era affetto. La vita sociale del malato era pure gravemente compromessa, poiché il cattivo odore ed il pus che emanavano dalle piaghe marcescenti, confinavano chi ne era affetto ai margini della società.
Tuttavia, a partire dall’anno mille, in Francia Roberto I il Pio (996-1031), nel regno d’Inghilterra S. Edoardo il Confessore (1042-1066) furono i primi sovrani ad esercitare pubblicamente questa meravigliosa facoltà taumaturgica. Al semplice tocco della mano del Re sulle piaghe dello scrofoloso, nella più gran parte dei casi, la patologia, ritenuta incurabile dalla medicina del tempo, si avviava a felice soluzione.
Scrive Gilberto, abate di Nogent-sous-Coucy, nel trattato De Sanctorum reliquis: «Che dico? Non abbiamo visto il nostro signore, il Re Luigi, far uso di un prodigio consuetudinario? Ho veduto con i miei occhi dei malati sofferenti di scrofole nel collo o in altre parti del corpo, accorrere in gran folla per farsi toccare da lui - al quale tocco aggiungeva un segno di croce. Io ero là, vicinissimo a lui, e lo difendevo persino contro la loro importunità. Il Re mostrava verso di essi la sua generosità innata; avvicinandoli con la mano serena, faceva umilmente su di essi il segno della croce. Anche suo padre Filippo aveva esercitato con ardore questo stesso potere miracoloso e glorioso; non so quali errori, da lui commessi, glielo fecero perdere»[1]. Secondo Gilberto non soltanto l’allora regnante Luigi VI (1108-1137) godeva del singolare privilegio di guarire la scrofolosi. Anche suo padre Filippo I (1060-1108) aveva esercitato «con ardore» quel «prodigio consuetudinario».
«Confesso che assistere il Re equivale [per un chierico] compiere una cosa santa; perché il re è santo; egli è l’Unto del Signore; non invano ha ricevuto il sacramento dell’unzione, la cui efficacia, se per caso qualcuno la ignorasse o la mettesse in dubbio, sarebbe ampiamente dimostrata dalla scomparsa di quella peste che colpisce l’inguine e dalla guarigione delle scrofole»[2]. Così scriveva, sul finire del secolo XII, riferendosi a Re Enrico II d’Inghilterra (1154-1189) Pietro di Blois, un chierico d’origine francese presso la corte di Londra.
Ben presto il tocco guaritore dei regnanti di Francia ed Inghilterra assurse a tale notorietà che divenne un luogo comune dell’opinione pubblica europea colta e meno colta.  Nessuno in quelle epoche di fede si stupiva che Dio potesse legare alla funzione sacra del Re un potere straordinario. I medici indicavano nei loro trattati il tocco reale come efficace rimedio contro quella particolare patologia. Così, per fare un solo esempio, il Compendium medicinae, un manuale della prima metà del secolo XIII, attribuito a Gilberto Anglico, nel libro III, al capitolo dedicato alle scrofole, recita testualmente: «Et vocantur scropholae…et etiam morbus regius quia reges hunc morbum curant» [E si chiamano scrofole.. ed anche malattia regia in quanto i re curano tale morbo ][3].
La vera misura, tuttavia, dell’immenso successo del tocco sovrano si rileva meglio dal costante e impressionante afflusso di ammalati alle corti di Francia ed Inghilterra. Ben presto, sia lungo la Senna che a Londra, invalse l’uso di accompagnare il tocco con la consegna di una simbolica somma di danaro a mo’ di elemosina[4]. I funzionari regi annotavano spesso nei Libri dei Conti i versamenti di elemosine a vantaggio degli ammalati di scrofole. Queste importanti, anche se parziali testimonianze, fanno fede tanto del numero altissimo dei tocchi regi, quanto del diffondersi, ben oltre i confini di quei regni, della popolarità dei sovrani taumaturghi.
Così, per quanto concerne l’Inghilterra, su cui siamo meglio informati, i libri mastri di corte durante i regni in sequenza di Edoardo I (1272-1307), Edoardo II (1307-1327) ed Edoardo III (1327-1377), che abbracciano un periodo di poco superiore al secolo (1272-1377) sono la prova più eloquente della costante attività medica dei Re inglesi.
Le cifre, come osserva Marc Bloch, «nel loro insieme, sono imponenti»[5].
Edoardo I, che regnò dal 1272 al 1307, nel quinto anno di regno ‘toccò’ 627 ammalati; nel dodicesimo ricorsero alla cure reali in 197 scrofolosi; 519 invece durante il diciassettesimo anno; si sale a 1736 nel diciottesimo; il venticinquesimo ne vide accorrere 725; 983 il ventottesimo anno; mentre furono 1219 i toccati da Edoardo I nell’anno trentasettesimo di regno[6].
I libri contabili della corte francese, al contrario, non offrono alcun dato numerico. Tuttavia, grazie alla meticolosa precisione di Renaud de Roye, un funzionario di corte di Filippo IV il Bello (1285-1314), che annotò le spese di palazzo tra il 18 gennaio e il 28 giugno 1307 e dal 1° luglio al 30 dicembre 1308, indicando nome e luogo di provenienza dell’infermo cui veniva elargita l’elemosina, ci si offre un vivace spaccato della varia umanità che, in quei primi anni del secolo XIV, si accalcava, speranzosa di guarigione, presso le residenze dei principi medici.
Tutte le condizioni sociali sono rappresentate. Così, il 12 maggio 1307, si presentò al Re per essere toccata la nobildonna Jeanne de la Tour («patiens morbum regium», affetta dal mal reale)[7]. Anche i religiosi non disdegnavano far ricorso al potere guaritore del sovrano. Il libro mastro, infatti, segnala la presenza a corte di un frate agostiniano, di due francescani e di un cordigliero[8].
Gli afflitti dal morbo regio sono disposti ad affrontare un lungo e pericoloso cammino, pur di potersi accostare alla mano taumaturgica dei Re. Un uomo chiamato Guilhem, originario della regione pirenaica della Bigorre, si presentò al sovrano francese mentre soggiornava a Nemours. Era il 13 dicembre 1307. Nonostante la stagione inclemente, quel pellegrino si era impegnato in un faticoso viaggio, che gli aveva fatto attraversare quasi tutta la Francia[9].
Non sono soltanto i francesi, come la francescana, suor Agnese, di Bordeaux[10] (allora feudo soggetto al re d’Inghilterra), o Gilette, castellana di Montreuil, o Margherita di Hans,[11] a voler approfittare del rimedio reale. I libri contabili infatti segnalano infermi provenienti dalla Lorena, allora terra imperiale, dalla Savoia, dalla Svizzera[12]. Tra il 1307 e il 1308 arrivano a corte anche sedici italiani, di cui alcuni milanesi, emiliani di Parma e Piacenza, un Johannes de Verona[13], quattro veneziani, un toscano, degli scrofolosi romagnoli, una donna urbinate e un frate agostiniano di Perugia, frater Gregorius de Gando prope Perusium, ordinis Sancti Augustini paciens morbum regium [il frate Gregorio di Gando vicino Perugia, dell’ordine di Sant’Agostino, ammalato di scrofole][14].
Nel celebre testo dell’abate di Nogent, sopra citato, abbiamo ancora la più antica testimonianza della modalità cerimoniale del tocco guaritore. Elemento essenziale del rito è il contatto della mano destra nuda del monarca sulla piaga infetta dell’ammalato: «…poi con la mano destra tocca i malati»[15]. Senza questo contatto o ‘tocco’ la guarigione o l’avvio alla guarigione non è possibile. La mano del Re è una delle parti del suo corpo consacrata e unta dal sacro crisma al momento della consacrazione. Il monarca così tocca di solito per la prima volta gli scrofolosi dopo la sua solenne unzione.
Nel cerimoniale tuttavia, fin dagli inizi, si aggiunse al semplice contatto della mano, un secondo importante gesto simbolico: il segno della croce. Questo doveva essere impartito a mo’ di benedizione, tracciando cioè semplicemente nell’aria all’indirizzo dell’infermo poco prima toccato, o contemporaneamente al tocco, nel senso che il monarca toccava la piaga facendo il segno della croce. Per questo talvolta i testi medioevali che riportavano il rito di guarigione usavano designare i malati toccati dal Re col termine di ‘segnati’: «XVII egrotis signatis per regem»  [17 ammalati segnati dal Re][16], recita una nota inglese del 27 maggio 1378.
 Il significato del tocco col segno di croce è molto chiaro. Non è il sovrano il primo autore del miracolo, ma svolge solo un’azione vicaria, essendo il semplice canale o strumento della grazia celeste, che opera per il tramite del principe consacrato. Questo carattere strumentale e mediato del potere medioevale dei Re, è ancora evidenziato nel terzo elemento che accompagna e segue il tocco: le preghiere a Dio. Stefano di Conty, un monaco di Corbie, scrive durante il regno di Carlo VII di Francia (1380-1422) un trattatello sulla monarchia francese, ove ricorda che il Re, prima d’accostarsi ai malati, si soffermava un poco in preghiera[17]. Anche l’inglese Bradwardine allude ad una simile consuetudine quando ricorda che il monarca, soleva precedere il rito taumaturgico con la recita di alcune preghiere: orazione fusa [dopo aver pregato][18].
 A partire dal XVI secolo, sempre in Francia, le preghiere pronunciate al momento del tocco, si fissarono in una formula, che rimase in vigore fino alla cessazione del rito. Il sovrano infatti prese a pronunciare al momento del contatto: ll Re ti tocca. Dio ti guarisce[19]. Questa breve e suggestiva preghiera ricordava tanto al beneficiato quanto al Principe che il miracolo non derivava da un magico potere personale del Re, ma dalla potenza di Dio, di cui il sovrano era semplice strumento.
Il giorno stesso della consacrazione e unzione del Re, o poco dopo, segnava l’inizio della cerimonia del tocco. Dopo allora, ogni giorno ed ogni occasione erano buoni. Soprattutto in epoca medioevale, quando i sovrani erano soliti percorrere in lungo e in largo i loro territori, accompagnati da un seguito poco numeroso, non era inusuale vedere frotte di ammalati di ogni condizione, ma più spesso poveri, accalcarsi presso le provvisorie sedi ove il monarca soggiornava, pretendendo che tenesse fede al suo dovere guaritore.
Con il trapasso dalla monarchia feudale a quella moderna, quando i re divennero sedentari e l'apparato burocratico si fece più robusto, il rito delle scrofole si adattò alla nuova situazione. Già S. Luigi IX (1226-1270), sebbene gli scrofolosi potessero accedere al tocco ogni giorno, riservava alla cerimonia medicinale un momento preciso della giornata, cioè al mattino, subito dopo la prima messa[20]. Tale situazione rimase stabile fino al XV secolo, quando Luigi XI (1461-1483) decise di ricevere gli infermi un solo giorno della settimana[21]. Inoltre i pazienti erano sottoposti ad una visita medica preventiva che accertasse la presenza della malattia[22]. In Inghilterra, ai tempi di Enrico VII (1485-1509) non risulta essere stato dedicato un giorno particolare per il tocco[23].
Nell’epoca della Controriforma, il tocco reale mantenne intatto il proprio prestigio. Le cifre sono più eloquenti delle parole: Luigi XIII (1610-1643) nel 1611 tocca  2210 scrofolosi, 3125 nel 1620. Nella Pasqua del 1613 sono ben 1070 gli ammalati che si presentano in quel solo giorno al Louvre per il miracolo regio[24]. Il sovrano compie regolarmente la funzione nelle grandi solennità, Pasqua, Pentecoste, Natale, o Capo d’Anno, talvolta, come per il passato, alla Candelora, la Trinità, l’Assunta, Ognissanti[25]. Con Luigi XIV (1643-1715), suo figlio, nulla cambia nella sostanza. Il sovrano, ricorda Saint-Simon, «si comunicava sempre col collare dell’Ordine, facciole e mantello, cinque volte l’anno, il Sabato santo nella Parrocchia, gli altri giorni nella Cappella: la vigilia di Pentecoste, il giorno dell’Assunzione, seguita da una gran messa, la vigilia di Ognissanti e la vigilia di Natale… e ogni volta toccava gli ammalati»[26]. Se il rito si svolge nella capitale è cura del Gran Prevosto far affiggere dei manifesti che annunziano l’evento in modo d’avvisare i pazienti. Uno di essi, che avvisa del tocco della Pasqua 1657, recita così:

Da parte del Re
e del Signor Marchese di Souches, Prevosto
dell’Ostello della Maestà e Gran Prevosto di Francia.

Si fa sapere ad ognuno che legge, che Domenica prossima giorno di

Pasqua, Sua Maestà toccherà i Malati di Scrofole, nella Galleria del
Louvre, alle ore dieci del mattino, in modo che nessuno possa scusarsi per non esserne a conoscenza, e che coloro che sono afflitti da
detto male, se così gli aggrada, abbiano a trovarsì lì. Redatto a Parigi, alla presenza del Re, il 26 marzo 1657.
Firmato, De Souches.[27]

Il Re Sole nel Sabato Santo del 1666 tocca 800 scrofolosi[28]. Ammalato di gotta la Pasqua 1698, e quindi impossibilitato a compiere il rito, vede presentarsi la Pentecoste successiva circa tremila infermi. Nella solennità della SS. Trinità, il 22 maggio 1710, vide presentarsi a Versailles 2400 scrofolosi. Il sabato 8 giugno 1715, invece, vigilia di Pentecoste, tre mesi prima di morire , il sovrano toccò per l’ultima volta i malati. Gli scrofolosi s’ammassarono in circa millesettecento[29].
Nel corso del secolo dei ‘lumi’ la cerimonia del tocco regio non perse nulla della propria notorietà. Luigi XV (1715-1774) il 29 ottobre 1722, giorno della sua consacrazione, trovò una folla di duemila scrofolosi ad attenderlo nel parco di Saint-Rémi a Reims[30]. Luigi modificò leggermente, probabilmente senza alcuna intenzione recondita, la formula tradizionale che accompagnava il venerando rito. Anziché, come per il passato, dire: Il Re ti tocca, e Dio ti guarisce (con il modo indicativo) egli pronunciò: Il Re ti tocca, Dio ti guarisca (al condizionale), espressione che rimase in uso anche presso i successori.
Dinanzi al progredire dell’incredulità insufflata dall’Enciclopedismo scettico ed anti-cristiano dei seguaci di Voltaire, i fedeli monarchici inviavano spesso a Corte i certificati di guarigione. Così, poco dopo l’incoronazione di Luigi XV (ottobre 1722) il Marchese d’Argenson, amico di Voltaire e intendente reale nell’Hainaut, venne a conoscenza di una guarigione miracolosa: «Alla consacrazione del Re a Reims – scrive nelle sue Mémoriesun uomo d’Avesnes, che aveva scrofole terribili, andò a farsi toccare dal Re. Egli guarì perfettamente, intesi dir questo. Io feci fare un processo e presi informazione del suo stato precedente e susseguente, il tutto ben autenticato. Fatto ciò, inviai le prove di questo miracolo a De La Villiére, segretario di Stato della provincia»[31].
Luigi XVI (1775-1793), incoronato il 7 luglio 1775, non fu da meno. Dovette toccare 2400 ammalati! Anche per lui abbiamo dei certificati di guarigione che attestano la permanenza del miracolo reale. Un tale Rémy Rivière, parrocchiano di Matougues, fu toccato dal Luigi XVI a Reims. Riacquistò la salute. L’intendente della provincia, Roullé d’Orfeuil il 17 novembre 1775 fece stendere un certificato sottoscritto dal risanato, dal medico locale e dal parroco. Tra il novembre e il dicembre  del medesimo anno vennero stilati altri quattro certificati di guarigione riguardanti quattro ragazzi guariti dopo la cerimonia reale[32]. Il monarca continuò certamente, come i suoi avi, a toccare i malati nelle grandi solennità. Poi venne il 1789 e la prigionia. Infine, nel gennaio 1793, la ghigliottina pose fine alla sua vita. Il tocco però non morì con lui, ma sopravvisse all’uragano rivoluzionario, e rifece capolino nel nuovo secolo.
Nel 1825, a differenza del fratello Luigi XVIII (1814-1824), che non volle essere consacrato a Reims, Carlo X (1824-1830) fedele ai propri convincimenti realisti, decise di rinnovare l’antica liturgia. Così venne unto e incoronato more antiquo con il Crisma della Santa Ampolla. Come un tempo, gli scrofolosi si presentarono al sovrano per essere toccati, ma questi rifiutò, limitandosi a far loro una generosa elemosina: “Molte persone erano d’avviso di sopprimere questa cerimonia per togliere un pretesto alle derisioni dell’incredulità, e si diede ordine di rimandare gli scrofolosi. Essi si lamentarono, il Re inviò una somma di denaro da distribuir loro. Essi dissero che non era affatto ciò che volevano. L’abate Desgenettes, allora Parroco della parrocchia delle Missioni Estere, più tardi Parroco di Nôtre-Dame de la Victoire, che era alloggiato a Saint-Marcoul, vedendo la loro desolazione, si recò a perorare la loro causa, e il re annunziò la sua visita per il 31 maggio all’ospizio. I malati furono visitati dal sig. Noël, medico dell’ospizio, e dal sig. Dupuytren, primo chirurgo del re, a fine di non presentare che i malati veramente colpiti da scrofole. Rimasero cento trenta. Essi furono presentati successivamente al Re dai dottori Alibert e Thévent de Saint-Blaise. Il Re li toccò pronunciando la formula tradizionale. Il primo guarito fu un fanciullo di cinque anni e mezzo, Giovanni Battista Comus; egli aveva quattro piaghe; la seconda fu una giovine sedicenne, Marie-Clarisse Fancherm; essa aveva una piaga scrofolosa alla guancia fin dall’età di cinque anni. La terza, Susanna Grévisseaux, di undici anni. Essa presentava delle piaghe e dei tumori scrofolosi. La quarta, Maria Elisabetta Colin, di nove anni, aveva molte piaghe. La quinta, Maria Anna Mathieu, d’anni cinque aveva un tumore scrofoloso e una piaga nel collo. Si stese processo verbale di queste guarigioni e si aspettò cinque mesi prima di chiuderlo e di pubblicarlo, per assicurarsi che il tempo le confermasse»[33]. Nonostante il felice esito della mano sovrana, lo spirito incredulo del tempo prevalse. Carlo X non rinnovò più il rito venerando. Pochi anni dopo, nel luglio 1830, la marea rivoluzionaria rinascente lo travolgeva. Cessava così con l’antica cerimonia delle scrofole, anche la monarchia legittima di Francia.


[1] Citato in M. Bloch, I Re Taumaturghi, Torino, Einaudi, 1989, pp. 17-18.
[2] Pietro di Blois, Patrologia Latina, t. 207, col. 440D, citato in M. Bloch, I re…, p. 27.
[3] Gilbertus Anglicus, Compendium medicinae,  citato in M. Bloch, i Re…, p. 86 e n. 1.
[4] M. Bloch, i Re…, pp. 70-71.
[5] M. Bloch, i Re…, p. 73
[6] M. Bloch, i Re…, p. 72.
[7] M. Bloch, i Re…, p. 78, n. 17.
[8] M. Bloch, i Re…, p. 78.
[9] M. Bloch, i Re…, p. 79, n. 21.
[10] M. Bloch, i Re…, p. 79, n. 20,
[11] Ivi.
[12] M. Bloch, i Re…, p. 80.
[13]M. Bloch, i Re…, p. 81, n. 25.
[14] M. Bloch, i Re…, p. 81, n. 27.
[15] Stefano di Conty citato in M. Bloch, i Re…, p. 67, n. 5.
[16] Citato in M. Bloch, i Re…, p. 66, n. 2.
[17] M. Bloch, i Re…, p. 68.
[18] Citato in M. Bloch, i Re…, p. 73, n.5.
[19] M. Bloch, i Re…, p. 68.
[20] M. Bloch, i Re…, p. 69.
[21] M. Bloch, i Re…, p. 69.
[22] M. Bloch, i Re…, p. 70.
[23] M. Bloch, i Re…, p. 69.
[24] M. Bloch, i Re…, p. 282.
[25] M. Bloch, i Re…, p. 280.
[26] Saint-Simon, Mémoires, ed. Boislisle, XXVIII, pp. 368-369, citato in  M. Bloch, i Re…, p. 280, n. 2.
[27] Cfr. Registres d’affisches et publications des jurés crieurs de la Ville de Paris, in BN, F 48-61, citato in  M. Bloch, i Re…, pp. 280, n. 3.
[28]  M. Bloch, i Re…, p. 280, n. 1.
[29] Ivi, XV, p. 432, citato  in M. Bloch, i Re…, p. 282.
[30] M. Bloch, i Re…, p. 309.
[31] D’Argenson, Mémories, I, 201, citato in E. Delassus, Il problema dell’ora presente. Antagonismo tra due civiltà, vol. II, Piacenza, Cristianità, 1977, p.  611. Cfr. M. Bloch, i Re…, p. 311.
[32] M. Bloch, i Re…, pp. 311-312.
[33] E. Delassus, Il problema dell’ora presente. Antagonismo tra due civiltà, vol. II, Piacenza, Cristianità, 1977, pp.  611-612. Cfr. M. Bloch, i Re…, pp. 312-315 e 330-331.