Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.
Dopo i fatti di Palermo le città e i paesi della Sicilia alzarono la bandiera della rivoluzione, e riconobbero il governo dittatoriale. Io oso affermare che gli abitanti di quell'Isola, nello stato in cui erano ridotti, non aveano altro da scegliere. Conciosiachè 24 mila uomini di truppa abbandonarono Palermo, dopo aver vinto, e l'abbandonarono per ordine sovrano; i Siciliani senza comunicazione col governo del Re, e finalmente minacciati da' rivoluzionari, non doveano essi difendersi sia pure con una forma di governo per garentire il meglio che fosse possibile, gli averi e la vita? In quel tempo gli uomini più attaccati alla causa del Re, per salvarsi la vita si atteggiavano a fieri liberali unitari. Vi furono, è vero, tanti impiegati e funzionari che realmente si buttarono con la rivoluzione, e si coprirono di vergogna perché abbruciarono quello che aveano adorato, ed adorarono quello che aveano abbruciato; ma vi furono Giudici circondariali, Sottintendenti ed Intendenti, i quali sebbene alzarono la bandiera di Garibaldi avrebbero strozzato ed annientato costui in secreto. Che potea fare la gente onesta e pacifica quando la forza del legittimo governo l'abbandonava in balìa della rivoluzione?
I Distretti e le Province ove rimase la truppa proseguirono a riconoscere il governo del Re, e non già per paura de' soldati, ma perché si credevano abbastanza garentiti contro la intemperanza de' ribelli. Le truppe intanto si ritirarono da que' Capoluoghi, e fu allora che la Sicilia tutta dovette riconoscere il governo dittatoriale.
I duci napoletani invasi dalla manìa di retrocedere sempre rendevano il più gran servizio alla rivoluzione. Il generale Clary alla testa di una brigata vinse e sottomise Catania, ed immediatamente l'abbandonò senza alcuna ragione, e si ritirò a Messina.
La truppe regie, avendo abbandonate le città, si riunirono nelle piazze forti di Siracusa, Augusta, Milazzo, e Messina.
I rivoluzionarii messinesi esaltati da' fatti di Palermo, e dalla propaganda settaria che faceano francesi, inglesi, ed agenti sardi, principalmente i Consoli, si sarebbero sollevati ad onta che la terribile Cittadella mettesse loro paura. Avendo però l'esempio di Palermo sotto gli occhi, ove Garibaldi avea vinto magicamente, aspettavano.
Quando la truppa di Palermo giunse a Messina gli abitanti di quella città ci guardavano come se fossimo gente da nulla: ritenevano i soldati quali fantocci che ad un cenno di Garibaldi avrebbero preso quell'atteggiamento o contegno che allo stesso sarebbe piaciuto. Trista condizione del governo di Napoli! I fatti di Palermo aveano tolto a questo Governo la forza morale tanto necessaria a reggere i popoli. I messinesi non si contentavano di dirci altamente quello che ne pensavano de' soldati e del Re.
Garibaldi, lasciato libero padrone della Sicilia, non se ne rimaneva in ozio. Abolì gl'Ispettori di polizia nel nome, ma vi aggiunse anzi attribuzioni illimitate. Tutte quelle calunnie inventate contro la polizia borbonica, gl'inventori l'usarono essi pubblicamente, accrescendole contro i borbonici con quanto settaria ira può di turpe. Prima l'arte della spia era infame, e la faceano pochi di bassa mano; però allora diventò arte gloriosa e da patriotti: quindi migliaia d'occhi a spiare: quindi accuse, calunnie, e carcerazioni. La polizia borbonica era reissima perché avea carcerati i rivoluzionari; a questi poi parea atto glorioso togliere la libertà, ed anche la vita, a chi non la pensasse come la pensavano essi: ed a queste tristizie davan nome di libertà e redenzione.
A queste ed altre nefandezze perpetrate dai rivoluzionari, già al potere, i giornali prodigavano elogi sperticati e nauseabondi. E l'Europa rivoluzionaria risuonava delle gesta redentrici, del senno civile, della magnanimità garibaldesca.
Garibaldi creò un Ministero: Orsini alla guerra, Crispi all'interno, Ugdulena, canonico, a' culti, Perenna, già tesoriere de' Borboni, alle finanze, Pisani siciliano agli esteri, l'ostetrico Raffaele Siciliano nativo di Naso, a' lavori pubblici. Era il Raffaele, come disse La Farina, borbonico al 1847, repubblicano al 48, deputato a Filangieri per la sottomissione di Palermo al 49, membro del Municipio borbonico nello stesso 49, e per ultimo, l'aver inventato la cuffia del silenzio
per calunniare i Borboni gli meritò il Ministero sotto Garibaldi.
Abborracciato quel Ministero che durò poco, e fu seguito d'altri ancora, Garibaldi pensò ad impinguare la cassa delle finanze, non bastandogli i danari che avea trovato nel Banco oramai sfumati. Primo per ingraziarsi i Siciliani, abolì il dazio sul macinato, tanto molesto ed aborrito in quell'isola feconda di grano, detta un tempo il granaio di Roma; prolungò le scadenza delle lettere di cambio: e poi ordinò che le opere di beneficenza e luoghi pii - che sono patrimonio del povero - trasmettessero nel tesoro quanto danaro avessero, da servire al sollievo de' Patriotti.
Il Garibaldi non volendo mostrarsi degenere rivoluzionario, a modo di tutti i governi ammodernati, ordinò la emissione della carta de' buoni del Tesoro per quattrocentomila ducati, di modo che, in agosto di quell'anno 1860, il debito pubblico siciliano era aggravato d'altri sedici milioni di ducati!
Col danaro che Garibaldi ricavò dalle libere tasche de' Siciliani, oltre a quello che sparì in quel modo che Lafarina ci lasciò scritto, comprò armi, arruolò francesi, inglesi, alemanni, ungaresi, polacchi, americani, africani; un'armata cosmopolita destinata alla redenzione d'Italia dello straniero, e lo straniero erano i Borboni che aveano cacciati gli stranieri dal Regno di Napoli, ed il Papa, l'unica ed invidiabile gloria che sia rimasta all'Italia dopo il naufragio dell'Impero Romano.
Il governo piemontese che pubblicamente chiamava Garibaldi filibustiere, gli spediva soldati della truppa sarda vestita alla garibaldina, facendo le viste, che que' soldati aveano ricevuto il congedo illimitato, o che erano disertori.
Garibaldi comprò tre legni, a' quali impose i nomi di Washington, Franklin, Oregon, e questi son nomi celebri, ma sarebbe stato più conveniente imporre nomi di celebri uomini siciliani, che nelle storia di quel popolo non fanno difetto. Ma l'italianità di quel duce Dittatore si fondava nelle adulazioni straniere, mentre si argomentava di cacciare dall'Italia non già lo straniero, come esso enfaticamente dicea, ma i veri italiani, che han fatta ed esaltata l'Italia. Que' tre legni secondo la proposta di Bixio furono consegnati a Persano, di che il medesimo Bixio se ne vantò poi in Parlamento.
Il Dittatore dopo di aver riunito un'armata che chiamava regolare la quale parlava tutte le lingue ed i dialetti d'Europa e di America, si consigliò spedire a Barcellona di Messina una avanguardia comandata dal Medici, ch'era arrivato allora da Genova con circa 300 garibaldini. Barcellona è una città 30 miglia distante da Messina dalla parte dell'Ovest.
Passando più oltre dovrei qui raccontare le conseguenze del governo dittatoriale, e quindi lo stato deplorevole di Palermo e del resto della Sicilia in vera anarchia, in cui si commettevano estorsioni di danaro e di averi, ruberie, incendii, stupri, e tutti i più turpi delitti, assai più di quello che calunniosamente si era attribuito alla truppa napoletana. E tutte quelle scelleratezza erano viste e celebrate dal romanziere Alessandro Dumas, venuto per quest'ufficio, ed alloggiato principescamente nella Regia di Palermo; come a bella posta uscivano in luce due giornali l'Unità Italiana
e il Precursore, diretti quello da' fratelli Capitò, l'altro da Crispi.
Andrei troppo per le lunghe se volessi raccontare tutto quello che si perpetrò in Sicilia sotto il così detto governo della Dittatura. Dirò solamente di un certo La Porta, il quale in aprile di quell'anno avea accozzata una banda nella provincia di Palermo, era ito sempre fuggendo i soldati, taglieggiando le famiglie ricche, dicendole borboniche, era entrato in Ventimiglia sua patria, ove assieme a' suoi scherani, commise saccheggi ed orribili insulti al pudore. Fu necessario accorressero i garibaldini da Palermo per mettere fine a tante nefandezza. La Porta fuggì, e fece spergere la voce di essersi imbarcato; ma il suo luogotenente Meli correa le terre, agguantava altresì fanciulli e donne, cui vituperava ed uccideva. Finalmente arrestato il Meli, gli si fece processo, e provatogli di aver rubato in poco tempo molto danaro, e di aver commesso tanti nefandi e selvaggi delitti, dovea essere giudicato. Se non che, (incredibilia sed vera!) in quella, fatto dal Garibaldi ministro di sicurezza pubblica, la Porta,costui trovò modo di liberare il Meli, con iscandalo degli stessi garibaldini. La Porta nel tempo che fu ministro si tenne vicino il Meli. Questi due per ingraziarsi il Dittatore secondavano l'ira dittatoriale contro i Gesuiti e i Liguorini: ma arruffando alla dirotta, il Garibaldi che avea bisogno esso di danari, andò in furia, ed ordinò che si arrestasse La Porta e Meli; però costoro fuggirono a tempo col bottino.
Passo sotto silenzio le scandalose gare tra Garibaldi e la Farina, perché non è mio divisamento raccontare le lotte tra rivoluzionarii e rivoluzionarii, tra rossi verdi e misti: dirò solamente che quella povera Sicilia che per ironia si chiama redenta, era un osso che tanti cani si disputavano ad oltranza.
Il Dittatore conseguente a' suoi principii - quando avea da fare co' deboli - avendo decretato in Calatafimi l'abolizione della benemerita Compagnia di Gesù, e de' Liguorini, diede principio all'esecuzione.
I Gesuiti avendo in Palermo molti collegi, convitti in gran numero, e moltissimi allievi, speravano nell'amor popolare per non essere molestati, avendo meritato quell'amore pe' benefizii spirituali e materiali prodigati al popolo.
Que' buonissimi religiosi della Compagnia non aveano presa alcuna parte alle vicende politiche; anzi in quelle ultime fazioni erano stati di aiuto e di scudo agli infermi e feriti garibaldini. Aveano nelle loro case aperti forni, davano pane a' poveri per metà del prezzo che correva in piazza, porgevano soccorsi di danaro e di robe a' bisognosi, davano loro case in città per ricovero di chi per le incendiate case aveano perduta la propria abitazione. Accoglieano nelle Chiese e nelle loro case tutti i fuggitivi famelici e feriti: ed eglino ed i loro novizii ed allievi accorrevano ov'era uopo a salvar vecchi, donne e malati.
Tutti questi meriti della Compagnia di Gesù acquistati con tanti sacrifizii non valsero a salvarla dall'ira settaria: fu accusata di lesa patria, e si pubblicò il decreto di Calatafimi. Si sequestrarono tutti i beni di que' Padri, si suggellarono musei, biblioteche, gabinetti di fisica, e sin le camere de' religiosi.
Il decreto che colpiva i Liguorini ed i Gesuiti portava la data del 17 giugno, con questo considerando: «I due ordini (Gesuiti e Liguorini) essere stati i più gagliardi sostegni del dispotismo durante lo sventurato periodo della borbonica occupazione.
Che ve ne sembra, lettori miei? si chiama occupazione borbonica, una cospicua Dinastia che regnò in queste belle contrade per lo spazio di 126 anni, dopo di aver cacciato i tedeschi dal Regno, e ridonata l'autonomia che ci avea data il normanno Ruggiero. Che i rivoluzionarii si annettano le nostra tasche, che ci mettano in car cere perché non la pensiamo come loro, vi è qualche tornaconto per essi, ma qual vantaggio possono ricavare con sciorinare simili corbellerie storiche?
A due ore dopo mezza notte una turba di scherani, dicentesi guardie di pubblica sicurezza, assaltò le case de' Gesuiti e de' Liguorini, sfondarono le porte, entrarono nelle camere di quei padri e li dichiararono in arresto. Che grandi prodezze!
Quei padri si tennero per quattro giorni in arresto chiusi nelle loro celle quasi digiuni, mentre le guardie di pubblica sicurezza saccheggiarono tutti il ben di Dio che trassero dalle cucine e dalle cantine. il 28 giugno furono imbarcati sopra un legno francese e mandati a Napoli. Si vedeano vecchi venerandi strappati dalle braccia de' parenti, e da' luoghi dov'erano nati; senza danaro, né arnesi, per tapinare un tozzo di pane, ed in tarda età cercare un tetto per coprirli in estranea terra! Non valse certificato di medico per gli infermi, giungendo fino ad espellere un vecchio di 84 anni.
La Porta, allora ministro di S. pubblica, il 4 luglio affisse un ordine alle cantonate di Palermo, nel quale dicea: «che qualunque Gesuita stesse ancora dopo 24 ore sul suolo siciliano, sarebbe fuor di legge, e abbandonato A furore popolare,»
Cioè al furore de' suoi sgherri. Lo stesso Ammiraglio francese scrisse a Garibaldi, acciò costui moderasse i suoi ordini contro i Gesuiti e i Liguorini.
Nelle Province ove non erano garibaldini, nulla soffrirono que' buoni padri, partirono, ed ebbero il tempo di regolare i loro affari, ed abbracciare i parenti. A Modica dove si trovava il garibaldino Fabrizi soffersero moltissimo.
E così il Dittatore potè incassare altro danaro con la espulsione de' Gesuiti e de' Liguorini.
Intanto in Messina si riuniva truppa quanto più si potea, molti battaglioni cacciatori che erano negli Abruzzi ed in Gaeta furono mandati in quella città, ove si riunirono circa 24 mila uomini in truppa di linea, di cui la maggior parte non si erano ancora battuti co' rivoluzionarii, aveano gran desiderio di battersi.
La rivoluzione trionfante avea però timore che il sovrano fosse consigliato di mettere alla testa di que' soldati qualche generale onesto e prode, e che facesse davvero. Conciosiachè capiva benissimo che una rotta toccata al Dittatore sarebbe stata la perdita assoluta di quanto avesse egli acquistato sino a quel tempo. Tutto questo era ben conosciuto e facea paura alla rivoluzione debaccante, e a que' governi esteri che si fingevano amici di quello di Napoli, ma che aveano desiderio ed interessi che fosse smantellato il Regno de' Borboni. Quindi pensarono che la via più facile e breve come disse il vecchio generale Carascosa sarebbe stata quella di consigliare il giovine re a dare una costituzione politica a' popoli delle Due Sicilie. Quella trista volpe di Napoleone III diede principio alla poco onorevole campagna diplomatica di costringere Francesco II a dare una costituzione, e far lega col Piemonte, promettendogli la sua valevole intermediazione per mettere ordine a' rivolgimenti del Regno.
Il re discusse in consiglio di ministri e di generali la proposta di Napoleone. Gli uomini devoti alla Dinastia furono di contrario parere, dicendo che nelle guerre civili principalmente, il Sovrano dovrebbe sospendere la costituzione se ve ne fosse, anzichè darla. Ma il re consigliato e importunato dalla zio conte di Siracusa, e da Brenier ministro di Napoleone a Napoli, credendo di far cosa grata a' suoi popoli, e di acquietare la rivoluzione, diede quella fatale costituzione che venne firmata in Portici il 25 giugno 1860, con la quale si tolse dalle mani quella poca autorità che ancora gli rimanea tanto necessaria in que' tempi fortunosi. Quella costituzione, com'era da prevedersi, non contentò nessun partito. I popoli fedeli al re previdero la catastrofe della Dinastia e del Regno, riguardando quella costituzione come un atto inopportuno: i rivoluzionarii dicevano pubblicamente che non voleano franchigie da' Borboni, perché voleano l'Italia con Vittorio Emmanuele re del Piemonte.
I re sono come le donne quando si mettono sulle vie delle concessioni: essi si rovinano per un sentimento di paura, come le donne si perdono per un sentimento di compiacenza e di curiosità, retaggio fatale ereditato dalla bella virago madre del genere umano. Guai a' re e alle donne quando cominciano a concedere, la catastrofe è vicina ed inevitabile!
La costituzione già promulgata con real decreto, se bene non fosse accettata da' rivoluzionarii, nondimeno arrecò in mezzo a loro il contento e la gioia, perché sin d'allora si tenne come sicuro il loro trionfo, e la caduta della Dinastia.
La truppa di Sicilia intese subito i tristi effetti della promulgata Costituzione. Da quel momento non si dovea più ragionare de' voleri del re, ma di quelli de' ministri, e qualunque dimostrazione a favore del Sovrano era giudicata reazionaria.
I soldati non ne capivano un acca di costituzioni, ma il buon senso naturale facea veder loro un tranello sotto quella maschera di costituzione; e le diffidenza de' medesimi giunsero a segno, che i duci di Sicilia non credettero prudente chiamarli per giurare quella costituzione.
Il ministero costituzionale esordiva con ordinare al Clary generalissimo di tutte le forze siciliane, di starsi sulla difensiva, e di non ispargere sangue italiano, mentre già negoziavasi della lega col Piemonte. Quest'ordine ministeriale si dava mentre i garibaldini ingrossavano a Barcellona. La costituzione legava le mani a' regii, e lasciava i rivoluzionarii liberi di congiurare impunemente, e di assalire a loro talento la truppa. A questo appena si concedea la grazia di difendersi ove mai fosse attaccata, però con moderata e prudente difesa.
Fu sotto questi influssi costituzionali che si organizzò la spedizione di Milazzo, non già per muover guerra a' garibaldini, ma per garentire quella Fortezza ritenuta come un baluardo destinato a proteggere Messina dalla parte di Barcellona.
Il Clary non si mosse quando il re gli ordinava di spingersi verso Barcellona: allora trovava mille scuse e difficoltà; quando poi il ministero costituzionale gli vietava di agire, si mostrava premuroso di munire Milazzo e tenere a segno i garibaldini di Barcellona.
Il colonnello Bosco amato dalla truppa, e stimato siccome prode e devoto al re, si offerse al Clary di assalire e distruggere i rivoluzionarii di Barcellona con soli cinque o sei battaglioni. Il Clary sulle prime promise che l'avrebbe mandato, indi si negò. Disgraziatamente tra i duci napoletani si accendeva la gelosia di mestiere.
Riconosciuto però l'urgente bisogno di opporre un argine all'irrompente rivoluzione che imperversava da Barcellona a Messina, fu necessità mandare il Bosco con tre battaglioni a solo scopo di difendere Milazzo.
Da' rivoluzionarii si dissero mirabilia
sulle strabocchevoli forze che conduceva Bosco nella spedizione di Milazzo, e tutt'ora da moltissime persone niente rivoluzionarie, si crede e si sostiene questa menzogna.71
Si giunse a dire e si stampò, che le forze del Bosco condotte a Milazzo ammontassero a venticinquemila uomini, con battaglioni svizzeri e bavaresi: i meno esagerati ne contarono 10 mila, mentre in quella piccola colonna non sin contavano che meno di duemila e seicento uomini. Componevasi di 800 uomini per ciascun battaglione, cioè il 1°, 9°, quattro compagnie dell'8°, la batteria a schiena num. 13 con otto obici da 12 centimetri, uno squadrone di 50 cacciatori a cavallo, e un distaccamento di 40 pionieri. E per far tacere tanti cicaloni, voglio trascrivere qui una riservatissima istruzione scritta dal Clary diretta al colonnello Bosco:
«Il Comandante superiore delle truppe riunite e della provincia e real Piazza di Messina N° .... Messina 13 luglio 1860.
A mente delle superiori prescrizioni le quali ingiungono di non attaccare l'inimico, ma di attendere che esso venga ad attaccare, vedendo che questi si è reso baldanzoso a segno di voler respingere la sfera di azione formando degli attruppamenti considerevoli alla distanza minore di cinque giorni di marcia da Milazzo a Messina, locchè è contrario allo stabilito nelle reali ordinanze di Piazza, ho disposto quanto appresso: 1° Le seguenti truppe formeranno una brigata d'operazione sotto i suoi ordini - 1° battaglione Cacciatori - 8° battaglione Cacciatori - e 9° battaglione Cacciatori. - La batteria a schiena N.° 13 - uno squadrone di Cacciatori a Cavallo - un distaccamento di 40 pionieri - una sezione d'ambulanza (per i feriti), - un Commissario di guerra. - Saranno addetti poi presso di lei il signor alfiere Acciardi del 2.° lancieri, ed un distaccamento di compagni d'armi - Ogni uomo dovrà essere fornito di 80 tiri a palla sopra di sè; altra piccola quota di cartucce sarà con la batteria 2.° Queste truppe muoveranno da Messina alla 8 p.m. di quest'oggi, ed avranno due giorni di viveri nel sacco: altri due giorni della stessa cibaria sarà trasportata per cura del Commissario di guerra.
3.° Giunto che sarà sulle posizioni di Colle S. Rizzo e Gezzo rileverà col 1.° battaglione Cacciatori il 5.° della stessa arma, e darà le istruzioni al Comandante del 1.° che avea dato a quello del 5.°: salvo le modifiche o aggiunzioni che potessero rendersi indispensabili, ora che una brigata di operazione si mette in avanti; il 5.° battaglione Cacciatori quindi farà parte integrale della brigata di suo Comando.4.° Scopo del suo movimento si è di garentire la minacciata piazza di Milazzo da un blocco, assedio o colpo di mano; quindi occuperà la Città la quale stando nel dominio del raggio d'investimento, è di dritto sotto la dipendenza del Forte occupato dalle reali truppe. Ma comecchè tra Gesso e Milazzo vi è una distanza considerevole e tale da potersi girare la posizione di Milazzo, così crederei che si piazzasse un distaccamento a Spadafora con un antiguardo ad Archi che è il trivio tra Messina, Milazzo e Barcellona.
Questo antiguardo ove mai fosse respinto, facendo parte integrale del distaccamento di Spadafora stessa, o se la distanza fosse troppo considerevole, ripiegherebbe sopra Milazzo ov'è il corpo principale. - S'intende bene, sig. Colonnello, che quanto ho detto o dirò in appresso è idea generale; ma ella a seconda dei casi e delle circostanze è facoltata a modificare le presenti istruzioni in quella parte che credesse, purchè tenga in mente lo scopo da conseguirsi ch'è quello di non essere attaccato alla sprovvista. A Milazzo resta a lei di mettersi di accordo col comandante di quella piazza riguardo all'andamento del servizio, ed alla cooperazione che la piazza stessa può dare allo sviluppo delle sue militari operazioni. Attenderà dopo di essersi militarmente piazzato, di essere attaccato, ma tenga per fermo che l'attacco in qualunque punto, le dà il diritto di sloggiare l'inimico dalle sue posizioni; ed ove mai, come spero, dal di lei valore e conoscenze, le riuscisse di respingere l'aggressione,
sappia ch'è mia intenzione che ella non debba per ora passare Barcellona ove si fermerà come in accantonamento militare attendendo miei ulteriori disposizioni. -
8° Se l'inimico non si curasse di Milazzo e marciasse invece per Archi e Spadafora, ella deve attaccarle alle spalle, mentre il posto di Spadafora ripiegherebbe a Gesso, ove tutta la truppa colà stanziata ed in quella posizione vantaggiosa l'attaccherebbe di fronte. Non è fuori proposito farle notare che l'inimico potrebbe evitare Milazzo e Spadafora, ed anche Gesso, spuntando per S.Lucia e Saponara e Colle S.Rizzo. Spetterebbe al distaccamento qui stanziato il sostenersi, finchè la truppa del Gesso e Castanea sopraggiungesse e mettesse l'inimico in due fuochi. È anche interessante il farle presente che per audace che sia, l'avversario non potrebbe mai presentarsi a Colle S. Rizzo in forze tali da potere oppugnare quelle dei nostri distaccamenti così ben piazzati.
Egli è perciò che resta a lei lo spiegar bene al Comandante del 1° cacciatori che rileverà il 5° dell'arma stessa, tutte queste svariate circostanze; e che s'infonda bene nell'animo de' singoli distaccamenti, e massime de' loro comandanti: che non si cede la propria posizione se non quando si sarà perduta metà della propria gente: che ciascun soldato rammenti aver l'Europa tutta, rivolto lo sguardo su di noi, che santa è la causa del Re, che fedeli furono sempre i militi al loro giuramento, che bello infine è l'incontrare gloriosa morte, anzi che cedere un sol passo. Le raccomando in ultimo, sig. Colonnello, di tenermi a giorno, e quanto più spesso si può, di tutte le operazioni, delle notizie che potessero raccogliere, nonchè de' lumi che può fornirmi nell'interesse del servizio del Re (N.S.). All'oggetto ella ha un distaccamento di compagni d'armi non solo, ma si accompagneranno con lei degl'impiegati telegrafici per far riattivare il telegrafo di Spadafora abbandonato, ma fortunatamente non distrutto. Con le popolazioni, sig. Colonnello, uopo non è qui dirle qual sia il temperamento a prendere. Ella è un Cavaliere così distinto che sarebbe ardimentoso di darle de' suggerimenti sul modo che si debba con esse comportare. Ricordi però che sono traviate dal retto sentiero, ma sono sempre figli del migliore tra i padri: tuttavolta quando le forme e le maniere gentili non raggiungano la desiata meta, ritenga che il contegno militare esige che si debba essere rispettati. - Farà rispettare eziandio le autorità, e funzionari regi, e li consideri sempre nel rispettivo ramo come parte della suprema autorità reale. - In qualunque ebbrezza di truppa non permetterà il sacco e le ruberie. Non mi dilungo su questo capitolo perché conosco pur troppo i di lei sentimenti in proposito.
Mi giova però renderla sicura che qualunque disposizione sia ella per dare affine di punire qualche trasgressore, sarà da me approvata.Firmato
Generale Clary»
La spedizione di Bosco con una brigata in miniatura era un tranello, dappoichè si sapea che in Barcellona erano immense forze rivoluzionarie, e che se ne aspettavano ancora. Si comprendea pure che, se si fosse data sufficiente forza a quel colonnello, costui si sarebbe gettato sopra i ribelli, ed avrebbe ottenuto quello che non si volea né dal Ministro Pianelli, né da Clary, cioè la disfatta della rivoluzione. Difatti, il Clary nel documento sopra riferito, inibisce assolutamente al Bosco di oltrepassare Barcellona nel caso che avesse vinti i rivoltosi adunati in quella città.
Bel sistema di guerra, voler la vittoria a metà, e non inseguire un nemico ad oltranza! quando si avea già la esperienza che questi si organizzasse subito dopo la disfatta, come avvenne dopo la rotta di Parco.
Mandando Bosco a Milazzo con poca forza si conseguivano due fini, uno quello di costringerlo alla semplice difesa, l'altro di farlo battere da' rivoluzionarii, e così fargli perdere quel prestigio che meritamente si era acquisito nell'armata, togliendosi da mezzo un duce prode e fedele al Re, che volea combattere davvero contro la rivoluzione.
In Messina restavano più di ventimila uomini, in luogo di scaglionarli sulla via di Messina a Barcellona, e al bisogno soccorrere la brigata di Bosco, il Clary li lasciava oziosi nella città. Non si potea dire che vi fosse alcuna minaccia dalla parte opposta di Catania; niente affatto: non vi era alcuno indizio di bande armata. Del resto il Clary, a qualunque costo volea tenersi attorno a sè in Messina solamente, tutta quella truppa che ivi si trovasse. Ed invero, dal surriferito documento d'istruzioni, diretto al Bosco, si rileva, che qualunque strategia avessero usata i garibaldini, egli non avrebbe mosso un sol soldato da Messina; ordinava invece che sostenessero tutto il peso della rivoluzione cosmopolita, aiutata da' battaglioni sardi, i soli tre piccoli distaccamenti in posizione al Gesso, a S.Rizzo e Spadafora, i quali erano poco più poco meno di mille e duecento uomini, e senz'artiglieria.
Il 13 Luglio si partì da Messina alla volta di Milazzo per la via di Gesso, piccolo paese sulle montagne all'ovest di Messina. Quando fummo in questo paese si ebbe l'ordine da Clary di non cambiare il 1° Cacciatori col 5° della stessa arma, ma proseguire la marcia senza effettuire quel progettato cambiamento. Bosco si mostrò dolente ed irritato di questa prima infrazione dei patti stabiliti con Clary, e continuò la marcia. Giunti a Spadafora che dista 7 in 8 miglia da Milazzo, fu necessità lasciare in questo paese quattro compagnie dell'8° Cacciatori; e così la brigata Bosco si ridusse a due battaglioni e mezzo, cioè 1° Cacciatori, 9° Cacciatori, e quattro compagnie dell'8° Cacciatori. E con sì poca forza si proseguì la marcia sopra Milazzo.
Clary, che avea magnificata al Re la forza rivoluzionaria di Barcellona, avendo scritto a Napoli che in quella città oltre delle innumerevoli squadre siciliane e garibaldine,vi erano 4000 uomini di truppa piemontese vestita alla garibaldina; egli che si dichiarava debole di forze in Messina ove avea allora 24 mila uomini, e la Cittadella di rifugio in caso di bisogno o di sventura, non avea difficoltà di gettar Bosco con una microscopica brigata, quasi sicura preda, nelle fauci della rivoluzione cosmopolita, coadiuvata da forti battaglioni sardi.
Ecco come agivano alcuni duci napoletani: se non li volete chiamare traditori chiamateli almeno vili ed inetti. Que' duci, quando erano obbligati dalla forza delle circostanze a far qualche cosa, la faceano sempre da sciocchi e da balordi, e se vi fosse stato qualche scopo ragionevole, sarebbe stato sempre pel vantaggio del nemico.
Che scopo avea la brigata Bosco? mi si risponderà, guardar la fortezza di Milazzo. Ma ciò non impediva ai garibaldini di marciare sopra Messina, non essendosi date al Bosco le forze necessarie per impedirlo. Del resto Milazzo resta lungi dalla strada che da Barcellona corre a Messina.
Il Clary, se avesse voluto comportarsi sinceramente, e da uomo di guerra, avrebbe dovuto mettersi alla testa di tutta l'armata e piombare sopra Barcellona. Messina che avrebbe lasciata alla spalle, non potea darle molestia perché sarebbe stata tenuta a dovere dalla Cittadella, e da pochi soldati. Dalla parte di Catania non avea alcun timore non essendovi minaccia alcuna di bande rivoluzionarie. In fine, l'occhio sagace di un Generale dovea vedere che i rivoluzionarii di Messina e della provincia, aspettavano l'esito della gran lotta tra' regii e la rivoluzione cosmopolita radunata a Barcellona: distrutta questa o sgominata, la riconquista della Sicilia si sarebbe ridotta ad una passeggiata militare. Voi lo sapete: i popoli festeggiano sempre il fortunato vincitore, e guai a' vinti, qualunque essi si siano.
Se mi si dicesse che questo disegno di guerra sarebbe stato pericoloso, perché toccando a' regi una sconfitta non avrebbero avuto alcuna ritirata, io risponderei: che 24 mila uomini si aprono sempre una ritirata, maggiormente a fronte delle masse armate: e dato pure che non avessero potuto mandarla ad effetto, sarebbe stato meno disonorevole abbassar le armi che abbandonar poi Messina senza vedere il nemico.
La brigata Bosco giunse a Milazzo sul vespro del 15 Luglio ed accampò nel piano di S. Pipino.
Le primarie famiglie di Milazzo, la maggior parte borboniche, aveano lasciata la Città, forse prevedendo l'entrata dei garibaldini che erano più potenti della meschina brigata che conducea il colonnello Bosco.
(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).