martedì 18 ottobre 2011

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due-Sicilie(1860-1861):I fatti di Milazzo e il susseguirsi dei tradimenti:Parte9.

Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.




Milazzo, l'antica Mila, fabbricata da' Zanclei secondo Strabone, i quali le diedero il nome dal fiume Mila che le scorre vicino; Milazzo è celebre per la prima vittoria navale riportata da' Romani sopra i Cartaginesi. Oggi è una piccola Città di 12 in 13 mila abitanti, e dista 25 miglia da Messina, 7 da Barcellona. È fabbricata in un sito delizioso: giace a piè di un promontorio ch'è il principio di un istmo, il quale si allunga nel mare per tre miglia in circa dal Sud al Nord. Questa Città ha un mediocre porto che guarda la parte dell'est: dalla parte del sud vi sono deliziose ed estese pianure, ben coltivate, ed interrotte da case e bellissimi casini. Sopra Milazzo vi è il forte o castello costruito alla maniera antica; è dominato da una collina, d'onde di possono colpire con palla di fucile i difensori fin dentro il forte. Non vi sono opere esterne, solamente due bastioncelli ad orecchione, ed un rivellino informe. Vi è una sola batteria con cannoni antichissimi, forse de' primi che si fusero: non vi è polveriera, e la polvere si conservava in un magazzino facile a prender fuoco.
Quel forte era presidiato dal 1° di Linea comandato dal Colonnello Pironti; il quale perché più anziano di Bosco, volle rendersi indipendente da questo per non prendere parte alla pugna col suo reggimento. E fu questa un'altra inettezza o malizia del Clary, il quale mandava un colonnello di presidio in una Città ove dovea giungere un altro Colonnello Comandante una brigata di operazioni meno anziano del primo.
L'altra sventura dell'esercito napoletano era quello, che anche ne' tempi di guerra, si dovea tener conto più dell'anzianità anzichè del merito.
È qui necessario raccontare la diserzione della fregata napoletana il Veloce, la quale prese parte nel fatto d'armi di Milazzo contro i napoletani.
Amilcare Anguissola, nato di onesta famiglia molto beneficata da' Borboni, era Comandante della fregata il Veloce, legno comprato dal governo rivoluzionario di Sicilia nel 1848, allora chiamato Indipendente.
Dovendosi l'Anguissola recare a Milazzo onde scortare un legno mercantile, il quale conducea il 1° di linea, vi si recò, e di là volse a Palermo. Egli avea già corrotto due uffiziali di bordo, il S. Felice e l'Afflitto: però alla ciurma della fregata disse che sarebbe andato a Palermo con bandiera parlamentare per una missione del Governo. Giunto nel porto di quella Città, smontò subito a terra. Indi a poco salì sul Veloce
molta gente armata e cambiò la bandiera con quella della rivoluzione. Garibaldi salì pure dopo cambiata la bandiera: arringò la ciurma, e disse i soliti suoi paroloni di Patria, di libertà, di benessere di tutti. La maggior parte de' marinari dichiararono che servivano il Re, e che non voleano disertare. Questi fedeli marinari furono chiusi in una stalla e lasciati digiuni. Garibaldi, persuaso che né l'arringa, né la prigionia, né il digiuno scuotevano que' prigionieri dalla loro costanza ed opinione, li mandò a Napoli, ove furono rimunerati dal Sovrano.
L'Anguissola, per farsi merito con la rivoluzione, il dì 11 Luglio uscì da Palermo sul Veloce, e predò due vaporetti mercantili, il Duca di Calabria e Y Elba.
Sopra uno di questi vaporetti si trovava il Maggiore Raffaele Riario Sforza, con altri uffiziali; egli si recava in Messina per affari di servizio: condotto dall'Anguissola in Palermo volle parlare con Garibaldi, al quale protestò la sua cattura e quella de' suoi compagni come contraria al diritto delle genti, e al libero commercio. Il dittatore invitò lo Sforza a rimanersi con lui offrendogli gradi maggiori e lusinghe; ma costui rispose che domandava in prova di lealtà di essere restituito alla sua bandiera. L'indomani Garibaldi noleggiò un vapore genovese e rimandò a Napoli Sforza, i suoi subalterni, e l'equipaggio del vaporetto. Questo fatto onora Garibaldi, il quale nel tempo della campagna del 1860 più volte si mostrò giusto e generoso verso i nemici, sia per calcolo sia per bontà d'animo.
Garibaldi italianissimo volle cambiare il nome della fregata Veloce in quello estero di Tukery, mentre si poteva ridonare il nome d'Indipendente, ma la Sicilia anche in questo dovea servire di commodino.
La Marina Napoletana fece arrivare al Re un indirizzo per mezzo del Conte d'Aquila, col quale deplorava la fellonia d'Anguissola. Giovanni Anguissola Maggiore al 4° di linea, e Cesare Anguissola Colonnello, fratelli di Amilcare, scrissero al Clary che voleano partire con la brigata Bosco per battersi da semplici soldati, e cancellar l'onta e il vituperio del fratello Amilcare che avea sparso sulla propria famiglia. Clary li ringraziò, e disse loro che la diserzione del fratello non avea potuto macchiare l'onore della famiglia Anguissola tanto onesta e fedele al Re, e che i presenti ed i posteri avrebbero condannato all'esecrazione il solo Amilcare.
Il Colonnello Bosco, giunto a Milazzo con la sua piccola brigata, dispose gli avamposti: e prima di tutto fece occupare da due Compagnie di soldati due mulini onde non mancasse di farina. Per ubbidire agli ordini di Clary - il quale comandava da Messina senza conoscere la condizione de' luoghi - mandò il Maggiore Maring al trivio d'Archi con le 4 Compagnie dell'8° Cacciatori, due cannoni e 25 cacciatori a cavallo.
Il 17 Luglio il Maring fu assalito da una moltitudine di garibaldini. Egli non solo li respinse, e li mise in fuga, ma fece 22 prigionieri tutti piemontesi, tra' quali un sergente e un capitano. Fu trovato addosso a questi prigionieri il congedo militare accordato dal Governo di Torino.
Medici, generalissimo di tutte le forze riunite in Barcellona, credendosi attaccato dalla parte d'Archi, vi corse con istrabocchevole forza contro Maring. Questi non potendo lottare con un nemico dieci volte maggiore, si ritirò a Milazzo conducendo seco i 22 prigionieri piemontesi.
Bosco rampognò Maring di aver abbandonato il trivio d'Archi, e lo mise agli arresti. In cambio mandò il Tenentecolonnello Marra con sei compagnie del 1° Cacciatori, quattro cannoni, e 25 cacciatori a cavallo. Il Marra assalì il nemico, il quale cercava di circondarlo. Si versò sangue dall'una parte e dall'altra: però i soldati vinsero e fugarono le bande garibaldine, e la sera Marra e i suoi restarono sul campo di battaglia.
Bosco temendo che il Marra fosse attaccato da forze maggiori, e tagliato fuori Milazzo, la notte accorse in aiuto di lui, ma con pochi soldati non potendo torre via da Milazzo tutta la forza che avea.
Medici con un ordine del giorno strombazzò la ritirata di Maring essere stata una disfatta, mentre egli era stato battuto per ben due volte.
Bosco per non tenere i soldati divisi, si ritirò a Milazzo, avendo già inteso che
Medici l'avrebbe assalito con tutte le sue forze, poichè voleva cancellare l'onta delle patite disfatte.
Medici, seguendo il costume di Garibaldi, mandò al Bosco un certo Zirilli milazzese, con la missione d'invitarlo ad un abboccamento. Bosco rispose all'ambasciatore del Medici che i soldati del Re non si abboccano co' nemici, ma li combattono. Il Medici conoscendo che Bosco non era un duce compiacente all'insidie rivoluzionarie, in fretta segnalò a Palermo, e disse a Garibaldi la sua posizione poco rassicurante ad onta che avesse assai più forza di quelle del nemico. Garibaldi udita la gravità del fatto d'armi d'Archi, nominò Sirtori Prodittatore, radunò tutta quella gente che avea, l'imbarcò sul Veloce
e sull'Eberdeen, sopra altri legni, e partì egli medesimo assieme a quell'armata cosmopolita. Giunto in Patti, ove sbarcò, passò a rassegna le sue bande, e dichiarò che il fatto d'armi d'Archi fosse stata una grande vittoria garibaldina, e per meglio farlo credere creò generale il Medici, chiamandolo benemerito della patria; il Carini, il Cosenza e Bixio anche creò generali. Ciò fatto si prese a forza la carrozza del Vescovo di Patti allora Monsig. Celesia, e partì per Barcellona con quattro divisioni, per assalire Milazzo con tutte le sue forze, e quelle del Medici.
Mentre Garibaldi, senza mistero, si preparava ad una decisiva battaglia assalendo con tutte le forze della rivoluzione cosmopolita, aiutata da' battaglioni sardi, la piccola brigata di Bosco, a questi giungevano ordini a furia di starsi sulla difensiva. Il generale Pianelli ministro costituzionale della guerra scriveva al Clary di vietare al Bosco di assalire i garibaldini, sciorinandogli la grande ragione del trattarsi che si faceva in que' tempi la lega italica tra Napoli e Torino: appena lasciava al Bosco la libertà di difendersi e ritirarsi sul forte di Milazzo nel caso che fosse attaccato da Garibaldi.
Bosco che ben conoscea le forze e le intenzioni del dittatore, segnalava a Clary di mandargli rinforzi di truppa, almeno due battaglioni: conciosiachè con la sua piccola brigata, né pure avrebbe potuto sostenersi sulla difensiva a fronte di tutta la rivoluzione cosmopolita, la quale da un momento all'altro gli sarebbe piombata addosso.
Clary or si negava di mandar truppa a Milazzo, adducendo la ragione che non convenisse sguernire Messina, ov'erano 22 mila uomini inoperosi, or dicea che la voleva mandare, ma che gli mancavano i trasporti per la via di mare, mandarla per la via di terra, dicea essere imprudente e pericoloso. Finalmente si decise a mandare il Capitano Fonzeca con sette uomini per la via di terra! Si vede proprio che il Clary tra le altre sue inqualificabili azioni, volea burlarsi di Bosco, uno de' pochi duci che col suo coraggio, e con la sua devozione alla Dinastia avrebbe salvato questa e il Regno dalla vicina catastrofe, se fosse stato nella posizione medesima del Clary. Se il Capitano Fonzeca giunse a Milazzo per la via di terra accompagnato da soli sette uomini, non era dunque imprudente e pericoloso di mandare per terra due o più battaglioni. Era poi falsissimo che il Clary non avea legni onde mandar truppe per la via di mare. Dapoichè il Governo di Napoli, per la sicurezza della bandiera, avea affittato nove battelli a vapore francesi i quali gli costavano circa mezzo
milione di franchi al mese, oltre il carbone. La maggior parte di que' legni si trovavano nel porto di Messina quando Clary scriveva a Bosco non aver trasporti per mandare truppe a Milazzo per la via di mare. Bosco convinto che Clary volea sacrificarlo alla rivoluzione col rifiutargli i richiesti rinforzi di truppa, non si perdè d'animo, ed animoso qual'era, si rassegnò a lottare con tutta la rivoluzione mondiale riunita in Barcellona, opponendogli nel caso che fosse attaccato un pugno di prodi soldati.
Il Bosco dicea: sarò vinto, ma la vittoria dovrà costar cara al nemico: i presenti ed i posteri diranno, che s'io avessi avuto il doppio de' soldati che comando, avrei sbaragliata e vinta la rivoluzione.
La mattina del 20 Luglio, fatto giorno, dissopra il forte di Milazzo si vedeano le pianure de' paesetti Merì e S.Pietro brulicare di armati, i quali si avanzavano verso Milazzo. Garibaldi oltre i battaglioni piemontesi vestiti in camicia rossa, ed oltre i volontari continentali, avea innumerevoli bande armate di siciliani, molti de' quali faceano quel mestiere per cercar fortuna in qualunque modo. Egli, e il Medici si avanzarono con due divisioni al centro del punto di attacco; un Melenchini con un'altra divisione all'ala sinistra; un Simonetti con una quarta divisione alla destra. Cosenza e Fabrizi furono lasciati di riserva tra Merì e S.Pietro. In sull'ore sette del mattino investirono la fronte de' regii dell'uno all'altro mare diviso dall'istmo, il quale in sul principio si allarga di molto. Il Veloce sostenendo il fianco sinistro, sbarcava uomini e munizioni. A causa della sua vergognosa condotta la squadra navale napoletana fu lasciata inoperosa nel porto di Napoli, laddove sarebbe essa stata il colpo di grazia contro il nemico nel fatto d'armi di Milazzo. In effetto i regii erano minacciati di uno sbarco di garibaldini alle spalle, e propriamente da quella parte dell'istmo che guarda il Nord. Fu quindi necessario dividere le poche forze regie e mandarle alla punta dell'istmo, ove si sospettava che avvenisse quello sbarco.
Bosco in sul mattino divise l'artiglieria in quattro sezioni, una sulla spiaggia presso S.Giovanni, una seconda a Casa Unnazzo, una terza al ponte delle Grotte, e la quarta sulla strada maestra destinata a proteggere i mulini. Lasciò una piccola riserva della quale avea il comando il Tenentecolonnello Marra, ed egli alla testa di non più di mille uomini, uscì fuori di Milazzo e si distese nella pianura per opporsi al nemico che si avanzava. Avuto riguardo alla grandissima ineguaglianza delle forze, quella lotta sembrava quella del pigmeo col gigante. Purtuttavia il Bosco assalì con tale slancio e si difese con tale destrezza come se avesse avuto 10000 uomini sotto il suo comando.
L'assalto cominciò al centro, poi sulla diritta, in seguito fu generale. L'artiglieria di otto piccoli cannoni fu chiamata sul campo di battaglia, e seminò la morte nelle falangi dei garibaldini. I soldati napoletani vedendo il loro duce sempre alla loro testa e sfidare qualunque pericolo, combatteano da valorosi. Si slanciavano in mezzo alle numerose e serrata schiere garibaldine, direi non più con l'ordinario coraggio comune a' buoni soldati, ma con quello dell'entusiasmo e della più sublime abnegazione.
Io avea veduto più volte il Bosco combattere con quel coraggio che tutti avevamo ammirato, ma nella giornata di Milazzo oltrepassò i limiti di quella prudenza dalla quale un duce, che comanda in capo, non dovrebbe mai allontanarsi.
Io lo vedea montato sopra un suo favorito e focoso cavallo, quell'uomo di statura gigantesca, saltar fossati, accorrer là ove la pugna era più micidiale, animare i sol dati con la voce e con l'esempio, dir loro piacevolmente de' frizzi che sono abituali in quell'uomo, roteando la spada arrecare lo scompiglio e la morte nelle file nemiche. Io lo guardava, e mentre mi entusiasmava a tanto coraggio, temeva tuttavia non dovesse ad ogni momento stramazzare e soccombere. Questo caso non avvenne. Spesso nelle battaglie muoiono e rimangono feriti i vili che fuggono o si nascondo no; gli animosi che, baldi ed intrepidi, combattono sotto il fuoco nemico si salva no; perché hanno tanto impero sopra sè stessi di saper quel che fanno, e tanto san gue freddo da scansare i colpi per quanto è possibile.
L'ala diritta de' garibaldini rotta e gettata indietro, quantunque soccorsa di nuova gente, fu di nuovo respinta. Allora il Medici chiamò la riserva di Cosenz. Questi, antico uffiziale napoletano, disertore del 1848, assaltò con gente straniera i suoi connazionali ed antichi compagni d'armi. La divisione Cosenz fu caricata da 50 cacciatori a cavallo, comandati dall'intrepido Capitano Giuliano, il quale, dopo aver messo lo scompiglio e l'esterminio nelle file di questa divisione, cadde da eroe, e con esso il Tenente Faraone.
La pugna era generale d accanita; si combattea corpo a corpo tra regi e soldati piemontesi, mentre i garibaldini faceano fuoco sulla truppa dalle case vicine, che se ne trovavano molte in quella pianura. Bosco vedendo sboccare il fresco nemico dalla strada maestra, che conduce a Milazzo, giudicando compromessa la posizione de' due capitani Purman e Fonzeca, i quali opponevano un vigoroso ostacolo alle forze strabocchevoli del nemico, che facea di tutto per girare la posizione de' regi, e tagliare la ritirata sopra Milazzo, ordinò che si fosse avanzata la riserva di Marra; e però questi, sin dal principio della lotta, non avendo potuto raffrenare l'impeto de' soldati, si era messo loro innanzi, e buttato nella mischia de' combattenti. Bosco che avea gran bisogno di gente fresca per opporla alle traboccanti falangi dei nemici, mandò al Forte dal Colonnello Pironti il quale, come ho detto si era dichiarato indipendente da Bosco come più anziano, che gli spedisse almeno 300 uomini. Pironti si negò, e solamente spedì circa 100 soldati senz'armi a soccorrere i feriti e condurli al Forte.
Il Medici e gli altri capi di divisione, compensando le perdite sofferte col numero dei combattenti che aveano disponibili, si spinsero sul centro de' regi, e sulle due ale per intercluderli. Già i soldati napoletani erano stanchissimi, e di sete ardenti, aveano combattuto otto ore senza interruzione, e non vi erano forze che potessero surrogarli. Bosco che tutto questo conoscea, vedendosi assalito da forze numerosissime e fresche, ordinò una ritirata lenta e sempre combattendo. Avea bene avuta la previdenza di cambiare i tocchi delle trombe, perché non si comprendessero da' disertori pugnati nelle file nemiche. Sicchè a loro insaputa fece stringere la linea di battaglia, e a poco a poco indietreggiando sempre, condusse a Milazzo i soldati.
Nella ritirata, per incuria di un Aiutante di artiglieria ma che si era ben condotto in tutta quella giornata fu abbandonato sul campo di battaglia un obice, che sul tardi raccolsero i garibaldini, e al solito, ne menarono gran vanto.
Garibaldi fin dal principio della lotta avea lasciato il Medici al centro, e si era ricoverato sul Veloce,
a vedere da quel luogo sicuro la condizione e le vicende di quella pugna. Nella giornata di Milazzo, Garibaldi si espose pochissimo, e solamente al cominciare del combattimento. Garibaldi dal Veloce
vedendo la ritirata de' regii, si avvicinò alla spiaggia, e cominciò a mitragliare Milazzo. Il Forte tirò più colpi di cannone a palla, e lo fece ritrarre. Bosco giudicando poco sicuro lasciare i soldati dentro Milazzo, ove la notte poteano essere mitragliati dal Veloce,
ordinò la ritirata nel Forte.
I Garibaldini scrissero e strombazzarono che cacciarono i regi in quel Forte con la baionetta alle reni. Qui debbo dire, che quante volte vidi combattere i garibaldini e la truppa piemontese, mai non vidi far uso della tanto celebrata baionetta. A' garibaldini li vidi sempre combattere da dietro i ripari, e mai allo scoperto. Intanto gli stessi garibaldini scrissero e spacciarono che i napoletani si batteano nascosti dietro i fichi d'India, e dietro i canneti; mentre furono essi che combatteano da dietro le mura de' giardini, e da dentro le case ed i casini, ove i soldati andavano spesso a trovarli. I soli soldati sardi e pochi garibaldini furono quelli che sostennero la pugna corpo a corpo, gli altri combatteano non visti.
I garibaldini rimasero più di un miglio lontani da Milazzo; dopo che la truppa entrò nel forte, temeano di entrare perché i cannoni di quel Castello li avrebbero decimati appena si fossero mostrati al principio dell'istmo.
Erano già corse due ore dacchè i regii si erano ritirati; quando i garibaldini cominciarono a farsi vedere in piccoli drappelli a tiro di cannone. Veduto che non si tirava contro di essi presero animo, e al cadere del giorno, a poco a poco, se ne entrarono in Milazzo, ad onta di qualche cannonata a palla piena che Bosco fece tirare ad pompam; avendo le sue ragioni di attirare il nemico dentro la Città, conciosiachè sperava sempre che Clary, o si fosse mosso da Messina con buon nerbo di truppa, o avesse mandato de' battaglioni per attaccare Garibaldi dalla pianura, ed egli uscire dal Forte per metterlo tra due fuochi. Il Clary però pensava a tutt'altro.
I regi dopo otto ore di guerra sotto la sferza del Sole di Luglio, combatteano uno contro dieci senza mai riposare, senza né mangiare né bere, mostrarono che valeano assai quando erano condotti alla pugna da duci non vili o non compri. Perderono tre uffiziali e 38 soldati, 83 feriti, e 21 prigionieri.
Questo poco danno della truppa nella giornata di Milazzo di debbe ascrivere all'abilità del come dispose e condusse i soldati il duce Bosco. I prigionieri della truppa piemontese, ormai Garibaldini, ci dicevano essere diecimila tra soldati sardi, garibaldini del continente ed esteri, oltre alle bande siciliane.
Alcuni garibaldini ci dissero che aveano perduto mille e cinquecento compagni nel grosso fatto d'armi di Milazzo. Il Bertani in un proclama a volontarii, scrisse: i mille caduti a Milazzo.
Garibaldi disse al comandante del Vapore francese il Protis, come avesse ottomila uomini tra soldati del Piemonte e garibaldini, oltre alle bande siciliane, e come ne avea perduti ottocento de' più prodi.
Sulla giornata di Milazzo ho detto coscienziosamente ciò che vidi ed osservai. Intanto su quella giornata si spacciarono menzogne iperboliche, e s'inventarono episodii e duelli simili a quelli della Gerusalemme liberata. Bosco e Garibaldi si fecero venire a singolare tenzone. Chi vide Garibaldi? Costui da uomo prudente e preveggente, sin dal principio della pugna, se ne andò sul Veloce:
e buon per lui se fosse venuto a duello col Bosco!
Venne a Milazzo il romanziere Dumas, a cui Garibaldi, sotto lo specioso titolo che avesse comprato 1500 fucili, avea dato delle lettere per esigersi dal tesoro di Palermo centomila franchi. Il sindaco Verdura non volle pagarli, il Prodittatore ne pagò sessantamila. Il Dumas inebbriato di quella non lieve somma, scrisse e stampò sul fatto d'armi di Milazzo menzogne sperticate, cose delle Mille ed una notte.
Descrisse Garibaldi un Orlando furioso per la forza, un Federico II di Prussia e un Napoleone 1° per la strategia militare. Fra le altre cose narrò che avea veduto innumerevoli schiere di soldati napoletani combattere in Milazzo contro duemila e cinquecento ragazzi garibaldini. Fu questo un fenomeno ottico prodotto da que' be' sessantamila franchi, perché non erano di carta straccia, ma luccicavano, ed aveano la immagine del tiranno
di Napoli.
Anche il Francese Visconte de Noë volle spezzare una lancia contro l'Esercito delle due Sicilie, e particolarmente contro i prodi difensori di Milazzo scrivendo un opuscolo col titolo: Trente jours à Messine par Monsieur le Vicompte de Noë.
Il sig. Visconte allucinato come il Dumas, ma per altre ragioni che sono quelle di questo cicalone, vide pure lui in Milazzo 25,000 napoletani, bene armati, bene disciplinati, ben equipaggiati, inseguiti da Garibaldi sul loro cammino con pochi battaglioni di ragazzi. Alla visione del Visconte Noë rispose trionfalmente il distinto uffiziale superiore de' Torrenteros con un opuscolo in forma di lettera, che compose a Roma e stampò in Firenze nel 1861.
Opuscolo raro e prezioso, e per me preziosissimo, perché nello stesso trovai de' documenti che invano avea cercato in altri libri.
In quella lettera il cav. de' Torrenteros racconta in succinto molti fatti, e specialmente di Milazzo, che sono la storia fedele di quelli avvenimenti. Egli tratta il sig. de Noë con molta politezza nella forma, ma gli dice delle scottanti verità. Non voglio defraudare il lettore del seguente brano: «Sicchè, o signore, gli dice il sig. de' Torrenteros: Voi che tanto vi scandalezzate de' nostri rovesci militari, mercè una tal quale estasi ricavata dalla passeggiata trionfale di Garibaldi per la Sicilia e le Calabrie, Voi, quale persona versata nella storia militare di Europa, e specialmente in quella che si liga ai rinomati nomi di Luigi XVI, di Federico II, di Maria Teresa, e di Napoleone I, potreste rinvenire glorie e catastrofi più clamorose della Napoletana d'oggi!
«Ed altrove parlando de' Generali: Meno que' Generali Napoletani comprati in oro ed ai quali gl'italianissimi non potran mai consegnar loro una spada che gli cadde di mano il giorno, che seppero stringere invece una borsa di monete!..
Nei brani di questa lettera il sig. de Torrenteros, ha messo, come suol dirsi, il dito, anzi direi, il ferro rovente sulla piaga, ed è uno splendido argomento per far cessare la maraviglia a quel Visconte circa i rovesci Napoletani del 1860 e 1861. E se questo uffiziale superiore di Stato maggiore avesse scritto dieci anni dopo a de Noë, cioè dopo Metz e Sédan? ah! non gli avrebbe potuto citare che le sole catastrofi, le quali paragonate con quelle napoletane, queste si potrebbero dire trionfi! Ma dopo Sédan il francese Visconte non avrebbe scritto in quel modo: Dio ci manda spesso delle tribolazioni per nostro maggior bene, cioè per fiaccare la nostra superbia, ch'è un bruttissimo peccato capitale, o meglio, come disse, in un discorso, l'immortale nostro Santo Padre Pio IX, è la base degli altri peccati capitali.
Io mi ero assunto l'incarico di scrivere gli avvenimenti del mio Battaglione e di tutti quelli ai quali questo si univa. Spesso io scriveva sul campo di battaglia in mezzo all'esterminio e la morte; e non di rado l'erculee spalle della mia ordinanza mi servirono di scrivania. Io ebbi l'agio di osservare tante particolarità essendo più libero degli uffiziali; e il desiderio di tutto vedere ed osservare da vicino, spesso mi spingeva in luoghi pericolosissimi, e di ciò ne fui più volte rimproverato da' miei amici.
Dopo che compilai alla meglio il mio itinerario da Boccadifalco a Gaeta esso restò meritevolmente per 14 anni gettato in mezzo a tante altre carte inutili; e non avrebbe veduto la luce se non fosse stata la benevola insistenza degli amici, come già ho detto nella Prefazione. Quell'itinerario lo coordinai; e feci quelle aggiunte necessarie per farne, direi, quasi un racconto completo di tutti gli avvenimenti della guerra del 1860 e 1861. Fra tante altre cose osservai che nelle file garibaldine erano de' giovani distintissimi per nascita, per ricchezze, per istruzione, e per isquisitezza di forme e maniere, i quali operavano individualmente sempre da perfetti cavalieri. Parecchi di questi giovani trascinati da un falso entusiasmo che oggi molti di essi deplorano credendo in buona fede rendere un gran servizio alla patria, erano quelli solamente che si batteano da valorosi. Ma in quelle stesse file erano dei così detti garibaldini avanzi di galera, e di tutte le piaghe sociali che ardivano scimmiottare gli altri, atteggiandosi a fratelli liberatori, mentre perpetravano nefandezze degne de' più volgari briganti. Il seguente episodio, che mai potrò dimenticare, farà conoscere che sorta di gente si trovasse nelle falangi garibaldesche. Questo episodio lo trovo registrato nel mio itinerario da Boccadifalco a Gaeta: non era mia intenzione pubblicarlo, ma gli amici mi hanno obbligato. Io lo do alle stampe quale lo trascrissi nel Castello di Milazzo il 22 Luglio 1860, riparato vicino una troniera, mentre mi fischiavano attorno le palle nemiche.
La mia missione sul campo di battaglia, era missione di umanità e di carità evangelica, cioè assistere i feriti materialmente e confortarli nello spirito. Io andavo sempre col chirurgo, ed insieme raccoglievamo i feriti amici e nemici, e li assistevamo senza alcuna distinzione; poichè caritas non quaerit quae sua sunt,
ci avverte S. Paolo. Nella giornata di Milazzo, sul tardi, i feriti erano molti, e non potevamo assisterli e medicarli in mezzo a' campi. Si mandò al forte e si fecero venire molti pagliaricci:si aprì un magazzino alla distanza di un miglio in circa da Milazzo, e s'improvvisò un ospedale quasi sul campo di battaglia, per darsi i primi e più urgenti rimedii a' feriti. De' feriti della truppa, quelli che non erano proprio moribondi si mandarono all'ospedale del forte, e rimasero 50 garibaldini feriti, che avevamo raccolti in quello stato sul campo.
Quando Bosco ordinò la ritirata, io e il chirurgo fummo avvertiti di andar via. A me si straziava il cuore all'idea di lasciare que' feriti senza assistenza o cura. Vi erano molti garibaldini che richiedeano un pronto soccorso, maggiormente quelli che soffrivano di emorragia cagionata dalle ferite; abbandonarli in quella trista condizione sarebbe stato condannarli ad una morte inevitabile. Pregai il chirurgo di rimanerci ivi sino a che fossero giunti i garibaldini, a' quali avremmo affidato la cura e l'assistenza de' propri compagni. Io in poche ore mi ero affezionato a que' giovani infelici, i quali prevedendo prossima ed inevitabile la loro fine, si disponevano a morire santamente; a me sembrava che presso di essi facessi le parti de' loro parenti, dei loro genitori, e questo pensiero mi animava, mi fortificava, non mi faceva sentire la mia stanchezza, i miei bisogni. Io dicevo al dottore, noi non siamo parte belligerante: noi siamo qui per soccorrere l'umanità sofferente, noi non facciamo distinzione da amici a nemici. Non dovete poi credere che i garibaldini che tra breve verranno qui siano bestie feroci; vi assicuro che non ci faranno alcun male, piuttosto ci faranno ritornare a Milazzo, e ci ringrazieranno perché abbiamo assistiti i loro compagni. Oggi, io dicea, le guerre si sono incivilite, e si usano tra nemici tutte quelle cortesie necessarie pel bene ed il sollievo dell'umanità sofferente. A provar questo, citavo alcuni fatti della guerra di Crimea. Io m'ingannavo, ma quella mia cicalata persuase il buon dottore di rimanere presso a que' feriti. Si mandarono a Milazzo le nostre ordinanze, pel timore ch'esse non rimanessero prigioniere, noi due soli ci sommettemmo a prestare tutti que' servizi necessari a 50 garibaldini feriti.
Verso le sei e mezzo della sera giunsero i primi garibaldini; io mi tenni perduto. Appena mi videro, esclamarono ad una voce: Oh..! un prete borbonico..! Quelli sciagurati imbestialirono, e più di dieci mi furono sopra a calata baionetta. Fu quello il più terribile momento della mia povera vita: io già sentiva la fredda lama di quell'acciaio entrare nelle mie viscere, ed esclamai, in manus tuas Domine commendo spiritum meum..! Chi mi salvò? gli stessi garibaldini feriti! Essi vedendo l'atteggiamento ostile de' propri compagni, saltarono da' pagliaricci e mi fecero scudo co' loro corpi insanguinati, gridando, strepitando che risparmiassero la mia vita, e dicendo a que' manigoldi il poco bene che io loro avea fatto.
Gli stessi garibaldini moribondi si rizzarono a metà ed implorarono grazia per me con le supplichevoli mani; quest'atto mi fece dimenticare il mio pericolo, ed i miei occhi si riempirono di lagrime di ammirazione e di riconoscenza per que' traviati, ma in fondo buonissimi giovani. I garibaldini che voleano assassinarmi, rimproverarono i feriti che si erano fatti borbonici, perché difendevano un prete borbonico. Ed io notai che invece di condolersi co' compagni feriti, li guardavano biechi per la ragione che aveano impedito di uccidermi.
Que' garibaldini imbestialiti contro di me, è vero che mi diedero in dono la vita, come essi diceano, ma commisero atti contro di me, e contro il povero dottore, il quale tremava in un angolo del magazzino, che avrebbe fatto ridere in altre circostanza che mi fecero conoscere benissimo che razza di ladri si fossero, e gente abbietta. Innanzi tutto mi strapparono i gigli del soprabito, e l'oriuolo: avea trenta ducati nelle saccocce, me li tolsero. Mi presero il vasetto di argento dell'Olio Santo, e non vollero darmi la bambagia intrisa di quel santo Olio: anzi se l'applicavano sopra alcune parti del corpo.
Non trovando altro nelle mie saccosse che due fazzoletti tutti intrisi di sangue, se li presero pure. S'impadronirono di un sacchetto di pelle, ove restava un poco di biancheria per mio uso, dappoichè la maggior parte mi era servita per fasciare le ferite degli stessi garibaldini. Un garibaldino, volea a forza tirarmi un buon paio di stivali che io avea ai piedi, e lasciarmi come que' devoti che si recano a qualche santuario a sciogliere il voto: un caporione garibaldino lo impedì con un «lascialo quel pretaccio» Il dottore fu pure rubato di tutto quello che avea.
Ci fecero prigionieri, e poi ci consegnarono ad altri garibaldini, i quali, per maggiore cordoglio, mi divisero dal dottore.
La sera tardi mi condussero dentro Milazzo.
Io dicevo tra me, sta a vedere! te la sei scappata da' nemici, sarai ucciso da qualche amica cannonata dal Forte! Mi condussero al palazzo Cassisi. Prima di giungere percorrendo un tratto di strada ove scorrea del vino, il cui odore ristorava in parte le mie abbattute forze. I garibaldini, i primi entrati in Milazzo, aveano scassinato la grande cantina del Palazzo Cassisi, ed aveano fatto da prodi tutta una scarica di fucilate contro le borboniche botti piene di vino. I garibaldini miei conduttori si metteano carpone, e bevevano quel vino che ci scorrea tra' piedi. Io ero assetato e digiuno, e dovetti fare un grandissimo sforzo sopra di me per non imitarli.
Giunto al palazzo Cassisi, lo trovai in grandissimo disordine. Non vi era più un mobile il quale non fosse stato rotto dai garibaldini; tutto era in pezzi: mobili, quadri, porte, finestre, balconi, le stesse mura che mostravano i fieri insulti del vandalismo. Quel palazzo era pieno di garibaldini, che aveano acceso lumi e luminarie, e faceano un baccano d'inferno. In quel palazzo io era nelle stesse condizioni e peggio di D. Abondio descritto dal Manzoni nella valle dell'Innominato. I visi arcigni di que' garibaldini mi sembravano dicessero ogni momento «fagli la festa a quel prete! «Vi era molta roba da mangiare, suppongo che l'abbiano trovata in quel palazzo: e quella grazia di Dio era gettata sopra i mobili distrutti e per terra.
Io volea dire a' garibaldini che mi dessero un poco di pane ed acqua, perché mi sentiva venir meno. Però avendo timore di attirare la loro attenzione sopra di me, che io sempre mi studiava di allontanare, mi contenni di chiedere alcuna cosa.
Ciò non ostante la fame e la sete sono cattivissime consigliere. Destramente ghermii un pezzo di cacio, mi ritirai in un angolo oscuro, e senza pane lo divorai. Il bisogno della sete divenne insopportabile. Con sufficiente accortezza, mi condussi in quella generale confusione vicino un gran vaso di latta pieno di vino, vi tuffai le labbra, e bevvi nel modo che fanno i quadrupedi:mi dissetai a sazietà. Dopo meno di un quarto d'ora, la testa mi girava, il suolo sembrava mancarmi sotto i piedi, la camera voltar sotto sopra; mi accovacciai dietro alcuni mobili distrutti, ove non potevo essere tanto molestato da quelli ch'erano più brilli di me, e grazie a Dio, mi addormentai profondamente.
Quello che avvenne in quel palazzo nelle tre in quattro ore che io dormii, nol so. Innanzi di far giorni mi svegliai. Appena mi resi conto dello stato cui ero condotto, non tenendomi obbligato a nulla, pensai alla mia liberazione. Nella oscurità in cui mi trovavo, sentivo solamente russare nella stessa Camera, sentiva parlare nella strada sotto il palazzo.
Non conoscevo la disposizione delle camere di quel palazzo. La sera però avea osservato che la camera ov'io era comunicava con una altra, e questa col giardino. Almanaccai un poco e mi diressi a quella volta. Apersi leggermente la porta mezzo distrutta della camera, passai nella seconda, e con due salti fui nel giardino. Albeggiava appena, ed io non sapevo se avessi veduto il tramonto di quel giorno; la liberazione che avea intrapresa era assai pericolosa. Le mura del giardino era alte, mi sconfortavano. Salii sopra un albero di arancio lunghesso il muro, ma non fu possibile afferrarne la sommità. Discesi e feci un giro entro il giardino; non vi erano scale, né altri oggetti che mi avessero potuto agevolare l'uscita e la fuga. Mi avvidi che vi era un sedile di pietra addossato al muro colla spalliera alta anche di pietra. Vi montai sopra, afferrai la sommità del muro, il quale finiva a lama di coltello, tanto mi sforzai con quella ginnastica, che giovanetto avea esercitata con successo, che pervenni a voltar l'anca, e giù abbasso dalla parte sottoposta, senza guardare l'altezza. Cascato a terra, ebbi una scossa terribile da sentirmi spezzare le ossa. Pur nondimeno ebbi forza di alzarmi, e mi diressi verso il forte. Temevo di essere riconosciuto ed inseguito; prendermi allora alla corsa non era tanto facile, ma ero certissimo che mi avrebbero raggiunto con le palle del fucile. Mi comportai in modo di giungere al forte senza alcuna molestia. Io conoscevo le diverse strade che conducevano a quella fortezza, e scelsi quelle che supponeva meno frequentate. Il mio tricorno di felpa lo nascosi sotto il soprabito, e via diritto, or rapido ora lento.
L'imbroglio serio era che mi sarebbe potuta arrivare qualche brava schioppettata dalle sentinelle avanzate della Fortezza: quindi giudicai prudente accovacciarmi in un fossato ed aspettare che si facesse giorno chiaro. Quando mi parve opportuno uscii dal mio nascondiglio, aggiustai il tricorno, e me lo misi in capo. Guardai ov'era la sentinella più vicina e gridai, sono il cappellano vostro, non tirare sentinella, bada... Oh, che momento..! fammi aprire subito. Immediatamente si affacciarono molti soldati dalle mura, ed altro non s'intese: «oh!.. u cappellano nuosto!"Quando entrai nel Forte i soldati mi condussero in trionfo; a dire il vero, io avea più desiderio di bere e riposarmi che di essere festeggiato.
Gli uffiziali miei amici mi oppressero con dimande senza aspettar la risposta; alcuni però, meglio ragionevoli mi prepararono delle limonate ch'io dimandava. Dopo che mi dissetai, dissi a quelli amici quello che mi era successo all'ospedale del campo, ed in quella notte per me memoranda. Quei buoni militari fremeano di sdegno al mio racconto, ridevano sgangheratamente per la parte buffa che mi toccò in sorte al Palazzo Cassisi.
Il dottore mio compagno fu condotto al Convento de' domenicani, e gli si diede da mangiare e da bere, ma restò prigioniero. Egli avea in Napoli una numerosa famiglia: quindi era dolentissimo della sua prigionia. Lo condussero poi a Messina, ed ivi ottenne da Garibaldi la libertà ed il permesso di partire per Napoli. Noi ci rivedemmo e ci abbracciammo in Caserta; il buon dottore non mi portava il minimo rancore per tutto quello che avea sofferto per me. Però tutte le volte che alla truppa era ingiunto di ritirarsi, egli era sempre il primo a lasciare i feriti e mettersi in salvo. Io più di una volta lo consigliai a restare, e ciò solo a fine di vederlo arrovellarsi. Ed egli mi dicea parole accompagnate da un gestire tanto buffo che mi facea ridere saporitamente.

(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).