domenica 30 ottobre 2011

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):L'abbandono della Sicilia, il tradimento dei gallonati, e la fedelta dei semplici:Parte11.

Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.







Ritorno agli ultimi fatti di Milazzo, avendo lasciato il racconto alla conchiusa capitolazione, e al conseguente abbandono di quella piazza.
I soldati prima di uscire del Forte, posero in pezzi i bellissimi fucili di nuovo modello detti Stuzen che aveano presi a' garibaldini, e li buttarono ne' pozzi: getta rono pure i viveri che restavano e molta polvere.
Il 25, Bosco uscì dal Forte e si diresse alla Marina per imbarcarsi, accompagnato dal suo stato maggiore. Garibaldi permise a' suoi di fischiare quel prode ed onorato duce, figlio di quella Sicilia che volea rigenerare. Quei fischi plateali furono il più bel trionfo del Colonnello Bosco: perciocchè indicavano il dispetto della rivoluzio ne per non aver potuto trarre a sè quel Colonnello; indicavano la rabbia pel danno che quel prode avea recato nelle file garibaldine.
Qualche scapato rivoluzionario censura Bosco perché si battesse contro quelli che voleano unificare l'Italia, e renderla nazione libera, indipendente, e ricca. Io, senza ragionare del vantaggio o svantaggio di questa unità, e degli altri accessorii, non che degli uomini che la faceano, dirò solamente che un militare onorato non deve impigliarsi di politica; il suo sguardo non si dovrà spingere più oltre del tiro dell'arme che porta o comanda.
In forza della capitolazione restarono a Garibaldi 43 cannoni, roba da Medioevo, 93 tra muli e cavalli.
La batteria a schiena della brigata Bosco fu imbarcata; mancava un cannone, quello che fu lasciato in mezzo alla strada per incuria di pochi artiglieri quando costoro si ritirarono in Milazzo, dopo il combattimento del 20 luglio.
Quando uscimmo in bell'ordine dal Forte, con grande difficoltà potevamo avanzarci verso il porto, tanta era la piena degli armati in quella Città. Vidi de' preti vestiti mezzo alla garibaldina con fucile, pistole, pugnali, sciabola, e un Crocifisso sul petto! Quel giorno vidi poi Padre Pantaleo appena io uscii dalla fortezza, egli mi si avvicinò tosto con modi cortesi, e mi pregò a rimanermi con Garibaldi. Io lo ringraziai anche cortesemente, supponendo che quella preghiera me l'avesse fatta in buona fede, e per mio vantaggio, e gli dissi che «i miei principii non era non quelli di Garibaldi: ch'io non era belligerante, ma che esercitava una missione di carità, tanto necessaria allora a quei soldati miei filiani; e che in fine era ligato da un giuramento a seguire le bandiere del mio sovrano a qualunque costo».
Si appiccarono diverse questioni di teologia morale, e di dritto canonico tra me e il reverendo Padre garibaldino, già vestito ancora con la tonaca con camicia rossa, pistole, e il solito Crocifisso.
In quelle questioni teologiche e di dritto canonico ebbi a notare che il Padre Pantaleo, oltre di professare principii di libero pensatore, per tutt'altro ne sapea meno di me; ignorava i primi rudimenti della morale teologica, del dritto canonico, della storia sacra e della profana; in breve lo scoversi una assoluta nullità: e mi meravigliai non poco quando seppi ch'egli non avea rossore di predicare a modo suo nelle principali chiese di Sicilia e di Napoli
Disceso dentro Milazzo, fui circondato da tanti conoscenti ed amici della mia giovinezza, tutti armati, e molti in camicia rossa. Costoro da principio mi pregarono, poi mi trascinarono da Garibaldi; la forza era nelle loro mani, e fu necessità cedere alla violenza. Il Dittatore si trovava in un piccolo palazzo sulla marina, stava al balcone per vedere l'imbarco della truppa napoletana, e il baccano che facevano i suoi, i quali strappavano i fucili di mano a' soldati, ed impedivano a questo o a quello d'imbarcarsi, strascinandoli seco loro. Condotto con la violenza da Garibaldi, vidi per la prima volta questo eroe de' due mondi, il duce supremo della rivoluzione cosmopolita, il Dittatore della Sicilia! Non sò se mi sia ingannato, l'aspetto di Garibaldi non mi annunziava la sua celebrità. Trovai un uomo di statura media, di un insieme piuttosto ordinario, ma semplice e cortese ne' modi. Difatti, senza che io gli avessi detta una parola, mi strinse la mano. I miei amici parlarono a modo loro per me. Garibaldi, dopo di avermi stretta di nuovo la mano, disse: «L'accetteremo per nostro fratello, e lo destineremo a' Cacciatori dell'Etna,»
Meno male, io dissi tra me e me: ho inteso un nome siciliano col quale hanno battezzato qualche squadra di garibaldini!
Uscito dalla camera di Garibaldi, senza che io avessi profferita una parola, incontrai nella sala un caporale del 9° Cacciatori, il quale si avvicinò a me tutto allegro, mi offerse la sua fiaschetta, e m'invitò a bere alla gloria di Garibaldi. Io respinsi quella fiaschetta, e soggiunsi: tu sei un vile disertore... e più volea dire, se non che i miei amici e conoscenti mi diedero furibondi sulla voce, minacciandomi del loro sdegno, e rimproverandomi che io non era andato dal Dittatore, con sentimenti di un sincero italiano. Io risposi loro: quando mai vi ho detto che sarei venuto qui con sentimenti d'italiano, quali voi intendete? Siete stati voi che mi avete condotto qui con la violenza; io voglio partire con la truppa... No, dissero ad una voce, resterai qui non da fratello, ma da prigioniero. E bene, io risposi, torrò in pace quest'altro abuso della forza.
Intanto appena usciti sul porto, i miei guardiani voleano si notasse da Garibaldi, che stava al balcone, ch'essi unitamente agli altri si affaticavano per la santa causa strappando fucili dalle mani de' soldati che si imbarcavano, e strascinandone alcuni con loro.
Io che tutto osservava, mi avvidi di essere poco sorvegliato, e siccome restavano pochi soldati ad imbarcarsi,
noi potevamo bene avvicinarci alla banchina del porto. Io mi feci a poco a poco dalla parte ove si trovava una barchetta piena di soldati. Per non cadere in sospetto di quello ch'io avea disposto di fare, invece di guardare la barchetta, guardavo verso la città, e propriamente verso il balcone ov'era il Dittatore, quasi che mi fossi entusiasmato al solo mirarlo; intanto con passi indietro mi avvicinavo più alla mia meta. Quando mi parve il momento meno pericoloso, mi voltai, e spiccando un lungo salto dalla banchina alla barchetta, mi accovacciai in mezzo a' soldati; non sicuro tuttavia, ma in dubbio che mi venisse da quegli amici e conoscenti qualche fraterna schioppettata, che mi aveano già promessa ov'io avessi tentato di fuggire. Fortunatamente nessuno de' miei guardiani si avvide o finse di non avvedersene. Mi lasciarono tranquillo, e dopo dieci minuti, salii sopra una delle tre fregate regie, ove trovai tutti gli amici dolentissimi della mia assenza.
Giunto sulla fregata, il primo sentimento che provai fu il piacere di essermi liberato da tanti pericoli, e direi quasi miracolosamente. Ringraziai la Provvidenza la quale visibilmente mi avea protetto. Il pensiero però ch'io aveva lasciata la dolce terra della Sicilia, e che tra breve sarebbe questa sparita dagli occhi miei, mi cagionò il più vivo dolore ch'io avessi potuto sentire. Io lasciava quella terra a me tanto diletta! Io desiderava unicamente la sua felicità. Ahi, vano desiderio! Ella invece era ravvolta nella più desolante anarchia, che io credevo con sicurezza non dover essere passaggiera ma di lunga durata; e credevo che finita l'anarchia popolare comincerebbero altri guai non meno terribili. Mi si affollava alla mente quel poco che avea letto circa le rivoluzioni antiche e moderne, e mi ricordava che queste ultime principalmente, promettitrici sempre di libertà, di fratellanza e di ricchezza, finiscono col proclamare in fatto il più degradante servaggio, condurre i cittadini a scannarsi l'un l'altro, e condannarli alla miseria con ingiusti ed esorbitanti balzelli. In quel momento mi si schieravano al pensiero i fatti terribili e selvaggi della rivoluzione francese dal 1789 al 1794, e temevo ch'e' non si rinnovassero in quella infelice e cara Sicilia che io avevo abbandonata. Almeno in quella nazione francese, dopo tanto sangue e tante inaudite vicende, sorse un prode e avventuroso soldato, il quale, se bene la facesse schiava al fulminar dalla sua spada, la strappò ciò non ostante al furore atroce dell'anarchia, cui atterrò ed oppresse. E non acquietandosi a questo, arricchì cotesta nazione di un codice, che oggi è in vigore presso i popoli più culti d'Europa: l'arricchì delle spoglie opime di tanti popoli soggiogati, e la rese la più temuta in tutto il mondo. Ma cosa io potevo sperare di buono per la povera Sicilia sempre reietta ed oppressa da tutte le dominazioni? Io non m'ingannava. Mentre guardavo quelle incantevoli spiagge, quelle feraci pianure, que' monti pittoreschi, ond'io già mi dipartiva, le città, i paesi, le campagne erano in preda all'anarchia, la quale infuriava con atroce energia contro tutto e contro tutti.
I funzionarii del caduto Governo erano perseguitati a morte perché aveano servita l'abbattuta Dinastia, o perché aveano impedito a' ladri di rubare, a' manigoldi di assassinare, a' rivoluzionarii di congiurare contro l'ordine pubblico. Tutte le passioni erano sbrigliate, ogni scelleratezza prendea aspetto di gloria liberale. Assassini e ladri correano campagne e paesi, rubavano, metteano taglie, perpetravano nefandezza ch'è bello tacere.
Ho accennate le sanguinose rapine del La porta e del Meli. Un Biondi, capo di masnade dichiarò guerra all'agiatezza e all'onestà: uccise in pochi giorni molti cittadini, donne e fanciulli. Quando costui incontrava una persona sconosciuta, la invitava a leggere, ed ove questa di leggere s'intendesse la dichiarava della classe borghese, la rubava e l'uccideva. Il Biondi rimase impunito, e se ne andava trionfante per paesi e città.
Molti paesi della Sicilia insorgeano per saccheggiare ed uccidere i ricchi e notabili, o insorgevano per abbattere quelle caste che si formavano per rubare ed opprimere le popolazioni.
In Trecastagne, S. Filippo d'Argirò, Castiglione nella provincia di Catania, avvennero scene di sangue per i suddetti motivi. Anche a Mirto, ad Alcara, a Caronia nella provincia di Messina uccisero i più notabili di quei paesi con modi selvaggi né pure risparmiarono i garzoncelli e le donne. Nella Piazza di Mirto, e nella Casina di compagnia di Alcara, avvennero fatti atroci. Sarei troppo prolisso se volessi raccontar tutte le ruberie, scene cruente e rappresaglie che avvennero in que' tempi in parecchi paesi e città della Sicilia. I mali della Sicilia cagionati dall'anarchia giunsero a tale, che un Saia liberalissimo disse al Prodittatore Depretis: «Questo vostro modo di governare ci fa desiderare il Maniscalco,» Io che ritornai in Sicilia nel maggio del 1861, sentiva la gente del popolo domandarsi con ansia: «ma quando metteranno la legge
com'era sotto il passato Governo?»
A tutti questi mali di quella disgraziata e sempre oppressa Isola, se ne aggiungeva un altro non meno terribile, le rappresaglie insensate e crudeli che facevano i duci garibaldini contro i paesi in rivolta. Di tanti fatti di simile natura ne racconterò un solo, e ciò per non essere troppo prolisso in queste memorie. Questo fatto servirà a lettori come un modello per conoscere la sciagurata condizione di que' paesi e città della Sicilia, e delle maniere ond'erano i siciliani trattati da coloro che si dicevano liberali, e liberatori dalla schiavitù borbonica.
Il 1° agosto di quell'anno 1860, i popolani di Bronte, grosso paese nella provincia di Catania, si levarono a tumulto a causa dei demanii di quel paese: gridarono repubblica, e moschettarono non pochi borghesi. Ad alcuni di costoro arsero le case, altri buttarono da' balconi, non esclusi bambini e donne.
Accorsero sei compagnie di soldati piemontesi, e poi Nino Bixio con due battaglioni cacciatori, quello dell'Etna,
e l'altro delle Alpi,
i quali entrarono in Bronte tirando fucilate alla cieca. Il Bixio con la burbanza e col dispotismo di un generale moscovita in Polonia, chiamò a sè il Sindaco, l'arciprete, ed altri notabili del paese. Dichiarò a costoro che Bronte era reo di lesa umanità, ed impose una multa di lire trecento per la prima ora, di cinquecento per la seconda, di mille per le sussequenti, sino a che si svelassero i ribelli. La paura di queste multe indusse a scoprire i rei della ribellione. Bixio ne fece fucilare ventiquattro immediatamente nella pubblica piazza, indi riscosse le multe di guerra da quelle stesse famiglie ch'erano state saccheggiate ed assassinate: legò i meno rei e li menò a Catania.
È certo che que' popolani di Bronte, i quali commisero que' terribili delitti, erano rei di morte. Ma non si devono fucilare gli uomini senza neppure un giudizio sommario. Secondo Bixio bastava la semplice denunzia per fucilare un cittadino, non avendo riguardo a que' tempi di terrore e di funestissime passioni. Difatti tra quegli infelici fucilati vi furono degli innocenti designati come ribelli per isbaglio, o per vendette private.
E poi un Bixio fucilare i ribelli e gli assassini! egli il primo ribelle ed istigatore dei massacri de' poliziotti di Palermo! L'entrata di Bixio in Bronte, le sue taglie di guerra alla turca, e a danno di quegli stessi che furono vittima della rivolta, e le fucilazioni senza giudizio, mostrano un bestiale rivoluzionario in trionfo.
Qual conto poi si facesse Bixio della umanità, da lui dichiarata lesa in Bronte, lo dimostra pure il seguente fatto. Un uomo di civile condizione di Bronte si avvicina a Bixio o per difendersi, e per difendere gli altri, o per altre ragioni: il Bixio infastidito, trasse la rivoltella e freddò quell'uomo a' suoi piedi!
Bixio morì ancora non vecchio, in estraneo e lontano paese, e gli sia lieve la terra che lo ricopre. Noi cattolici, speriamo che l'infinita misericordia di Dio gli abbia ispirato il pentimento e l'orrore de' suoi delitti, e che l'avesse perdonato, ad onta che avrebbe voluto gettare nel Tevere il Senato cattolico, cioè tutti i Cardinali!
La Sicilia riboccava di avventurieri che piombavano a stormi d'ogni parte dell'Europa; i quali si affannavano a cercar fortuna, ed accrescevano i mali dell'Isola, perché la facevano da redentori e padroni.
I partiti si dilaniavano e si combatteano a morte tra loro, ognuno avea i suoi luridi giornali: chi volea la repubblica, chi l'annessione condizionata, chi incondizionata. Chi si dichiarava per Cavour, chi per Garibaldi. Chi volea l'autonomia col Principe di Genova, chi col conte di Siracusa, chi col Principe Napoleone. Vi era il partito puro borbonico, però questo si faceva piccino piccino e si nascondea in que' momenti poco propizii per lui. In questo caos di ruberie, di nefandezze, di assassinii, di rappresaglie selvagge, e partiti lottanti ad oltranza, chi avea carpito un buono e lucroso impiego, gridava che tutto andava a maraviglia, e che fossero ritornati i be' tempi dell'età dell'oro.
Intanto i rivoluzionarii italiani dal 1860, figli legittimi e naturali di quelli di Francia del 1789, si slanciavano contro le chiese, saccheggiavano monasteri, capitoli, mense, vescovili, luoghi pii, imponendo taglie, vettovaglie e danari.
Nel clero di Sicilia era un poco di fradicio, si trovarono Preti e frati i quali coadiuvarono allo spoglio. Quali preti e frati già in toletta garibaldina con tuniche rosse, mischiando pistole e pugnali e crocifissi, salian su i pergami a predicare anarchia, eresie, ed infamie contro la vera ed unica gloria italiana, il nostro S. Padre Pio IX. Essi beffeggiavano tutto quello che vi è di più sacro nella religione santissima de' nostri padri, e si ridevano delle scomuniche. Giunsero a tal punto le bestemmie, l'eresie, ed i saturnali di que' preti spretati, di que' frati sfratati, da meritare gli elogi di Garibaldi, il quale dichiarò che in Palermo avea trovato un clero progressista.
Ma Garibaldi confondeva una fazione di ecclesiastici senza contegno e senza coscienza, col resto del clero di Palermo, il quale è e sarà sempre dignitoso, esemplare, e tutto per la Romana chiesa, madre e maestra di tutte le chiese del mondo.
Però questa vergogna del garibaldesco elogio toccò pure a Monsignor Giambattista Naselli Arcivescovo di Palermo, siccome il primo Prelato italiano che rendesse visita a Garibaldi. Il Naselli era di poco ingegno, gli eran piaciute sempre la buona vita, e le comodità, ed era facile strumento degli astuti. Consigliato dal suo Segretario Casaccio, ch'è una vera cosaccia, dall'astuto de Francisci Provicario, e forse da' suoi parenti, commise azioni poco degne di un Prelato.
Il de Francisci poi, già Parroco e Provicario, per far dimenticare la sua amicizia col Direttore di Polizia Maniscalco, che chiamava compare innanzi a chi non volea sentirlo, che vantava protezioni, e che minacciava arresti ad ogni piè sospinto, si fece rivoluzionario di occasione: consigliava male l'Arcivescovo, e per quanto avea scandalizzato con la protezione di Maniscalco, altrettanto e più scandalizzò con fare il sanculotte.
Quel povero Arcivescovo mal consigliato da que' volponi in sostanza, andò e tornò dall'Olivuzza alla Casa pretoria, ove abitava Garibaldi, e con turpi onoranze, tra suoni e bandiere, era sempre accompagnato dal segretario Casaccio, e dal Parroco Provicario de Francisci.
Arrivò a tale la condiscendenza del Naselli, con la rivoluzione, ch'egli Arcivescovo intervenne ad una buffonata di Garibaldi.
I re di Sicilia per ispeciale privilegio erano Legati apostolici della S. Sede, ed il giorno di S. Rosalia Protettrice di Palermo, soleano intervenire alla Messa solenne, e far uso di quelle prerogative che aveano. Garibaldi nel 1860, il giorno di S. Rosalia, dopo di aver fatto il pellegrinaggio al monte di questa Santa, volle fare da sovrano, ad onta di tutta quella democrazia che ci ha sempre imposto. Intervenne nel Duomo alla Messa solenne, montò sul trono reale in camicia rossa, e all'Evangelo snudò la spada, come a mostrar di difendere la fede cattolica secondo il cerimoniale prescritto in quella solennità dai sovrani di Sicilia. L'arcivescovo Naselli diede poi le incensate prescritte a Garibaldi atteggiato a sovrano!...
Il canonico Ugdulena, liberale dal 1848, poi graziato e premiato da' Borboni, nel 1849 si era col Pontefice scolpato de' suoi trascorsi e si era mostrato pentito. Nel 1860, rifattosi liberale, salì a ministro garibaldino. E più meritò promovendo le schiere rivoluzionarie, schiccherando lettere a' vescovi contro le canoniche discipli ne, e la libertà della Chiesa, ed approvando quel diluvio di protestantesimo che inondò l'Isola di Sicilia.
Nondimeno moltissimi furono gli ecclesiastici che rimasero illibati dal contagio rivoluzionario, e principalmente i vescovi dell'Isola, i quali spregiando calunnie, esilii e carceri, si alzarono impavidi a sostegno dei dritti della Chiesa manomessa.
Il Vescovo di Caltanissetta Monsignor Guttadauro dichiarò pubblicamente non parteggiare affatto pe' rivoluzionarii, e severo ai suoi lo inibì. Monsignor Criscuolo Vescovo di Trapani, minacciò sospensioni e scomuniche a qualunque sacerdote che facesse comunella co' garibaldini.

Monsignor Celesia, allora Vescovo di Patti, che non fa patti perché non volle giurare fedeltà a Garibaldi, e perché inibì a' sacerdoti della sua diocesi a fare da
sansculottes,
minacciando le censure ecclesiastiche, fu perseguitato, strappato dalla sua sede. Prima fu mandato a Palermo, ove l'Arcivescovo Naselli lo rimproverò perché non avesse giurato fedeltà al nuovo ordine di cose; indi fu mandato in Firenze, e poi a Roma ove dimorò circa cinque anni.
Monsignor Natoli, Vescovo di Caltagirone, sofferse che una schiera di garibaldini entrassero nelle sue stanze, per istrapparlo dal palazzo e dalla sua diocesi. Monsignor Papardo Vicario Generale di Messina con una Pastorale avea detto: «I garibaldini essere predoni nemici di giustizia,» Garibaldi per vendicarsi lo chiamò a Palermo. Ei si negò, e fu tradotto colà con la forza per essere giudicato e condannato da una giunta speciale, la quale non trovò nulla da condannare; in cambio gl'intimò l'esilio. Ma il Vescovo Papardo protestò che non partirebbe se non a forza, e a forza fu sbandito dalla sua terra natale e dalla Sicilia.
E così i sedicenti liberali, i quali riempivano il mondo di lamenti e piagnistei quando il passato Governo esiliava qualche rivoluzionario, il quale avea attentato all'ordine pubblico, e che era stato giudicato da' tribunali a pene maggiori; non appena ghermirono il potere, non si fecero e non si fanno scrupolo di maltrattare ed esiliare i Guardiani del gregge dell'Uomo-Dio; uomini tutti preclari per iscienza e per virtù, rispettati ed amati dal popolo; e li trattavano in quel modo, o perché difendevano i sacrosanti diritti della Chiesa, che aveano giurato difendere sino al martirio.
Garibaldi, sebbene avesse esordito scacciando i Gesuiti e i Liguorini, avvedendosi di essere cattolica la Sicilia, si moderava ad affettata devozione: egli volea scimiottare altri conquistatori. I suoi dicevanlo santo, inviato da Dio (come Maometto), visitava monasteri fingendo devozioni, dicendo non voler molestare le vergini del Signore, aver per pura necessità cacciato i Liguorini e i Gesuiti. Si inchinava a' santi, e faceva strombazzare a' suoi che facesse pellegrinaggi al Monte di S. Rosolia. Però, il Garibaldi con la sua santa
devozione personificava la favola del lupo, il quale per ingannar le pecore si coprì di una pelle di pecora, e siccome questa non era sufficiente a coprirlo tutto intiero, or gli apparivano gli orecchi, ora il muso ed ora la coda di lupo, ad onta che facesse tutti gli sforzi per occultarli. Di fatti avendo egli creato un collegio pei figli del popolo però ogni alunno dovea pagare tre carlini al giorno - fecero Direttore il Mario, celebre repubblicano, il quale col permesso del devoto
Garibaldi stampò nel programma le seguenti parole: «L'educazione (nel collegio), non sarà quella de' preti, non s'insegneranno ridicolaggini di confessione, di comunione, di Papa, ma invece dottrine accomodate ai tempi, alle nuove condizioni della Italia rigenerata,» Ed in fine, Garibaldi conchiuse e coronò la sua devozione mostrata a Palermo col chiamare il Papa ch'è la vera gloria d'Italia: sozzura, cancro d'Italia, vergogna di diciotto secoli.
Ed in seguito: metro cubo di letame.
Mi spiace tra le altre cose, che Garibaldi non abbia letto Monsignor della Casa. Leggilo, caro exdittatore, se negli ozii tuoi ozio ti resta e tu grande italiano amerai certamente que'libri che sono testo di lingua italiana, e nel Galateo di Monsignor della Casa troverai bellissimi avvertimenti anche per te che sei l'eroe de' due mondi.
I garibaldini versavano a piena voce la miscredenza e la depravazione nel popolo. Alcuni giornalacci, in capo la Forbice
di Palermo, schizzavano idee sovversive, cele bravano l'anarchia alla Marat, la scostumatezza alla Aretino. Metteano in burla preti, vescovi, e Papa: metteano in caricatura i Santi, l'Immacolata, e Iddio stesso. La Sicilia fu inondata di libri d'ogni tristizia pieni; commedie, racconti, storiacce, filosofie empie, catechismi guasti e corrotti, almanacchi osceni, storie galanti, poesie luride, e compendii di protestantesimo, scritti da preti e frati ai quali facea incomodo la sottana, e tra gli altri, in capo l'ex-domenicano ex Parroco de Santis. E quei libri che stillavano veleno nei cuori, sofismi ne' pensieri, voluttà ne' sensi, che emancipavano il figlio imberbe da' genitori, la moglie dal marito, che assassinavano la società, si appellavano libri rigeneratori, capilavori di senno e di scienza, e chiamavano tiranno, nemico dell'intelligenza il Governo Borbonico perché li avea proibiti.
Intanto correano tempi di chi piglia piglia. Da' ben de' Liguorini e Gesuiti si volsero ducati diciottomila annui all'istruzione pubblica, il resto non si sa a quale uso fossero stati impiegati. Si ordinò una sovraimposta del due per cento sul valore di tutti i bei del clero, da pagarsi in tre rate.

Da tutte le parti del mondo erano arrivati sussidii ed oblazioni per la
santa causa della rivoluzione,
fatta questa vincitrice non si tenne conto di que' danari; e si obbligò il tesoro siciliano a pagar milioni per armi, munizioni, vestiarii, cavalli, spie, ed altri compensi a' compatrioti, non essendosi costoro satollati ancora, essendo simili alla lupa di Dante.
Si erogarono ducati settecentomila, prezzo di quattro decrepiti legni a vapore, che la rivoluzione comprò più per ingraziarsi gl'inglesi che per vero bisogno.
Il Dittatore, non contento di tutte queste spese, dettò in ottobre allo Scrivano di razione il seguente ordine:
«Rimborserà il tesoro generale di un milione e quattrocentomila ducati per estinguere cambiali all'estero, senza darne conto,
ponendo l'esito al capitolo delle spese nello Stato discusso.»
Vi era attorno a quest'ordine la firma di Domenico Peranni allora ministro di finanze.
Per quanto io sappia, nessun sovrano assoluto diede mai un simile ordine nell'erogare il danaro de' contribuenti, neppure Luigi XIV di Francia, il quale dicea: Lo Stato son io.
Ma a' rivoluzionari è tutto lecito, e principalmente a Garibaldi, ed adepti.
Di tanto male, di tanto danno che ha sofferto, soffre e soffrirà la Sicilia, chi fu la cagione primaria? quella camerilla che circondava Ferdinando II, a capo della quale era il Duca di Mignano, Alessandro Nunziante; e poi i componenti di quella camerilla, quali abbandonarono quali tradirono il giovine ed innocente Francesco II.
Causarono la rivolta e le disgrazie della Sicilia tutti que' napoletani che bazzicavano in Corte, la maggior parte oriundi della Sicilia stessa che odiavano e deridevano i siciliani; consigliavano Re Ferdinando a non visitar mai quell'Isola, ad averla come terra di conquista, e a trattare i siciliani come i Lacedemoni trattavano gli Iloti, se non in tutto almeno in parte.
I Siciliani non pativano molto relativamente a pagar tributi, ne pagavano meno de' napoletani, e questi erano i meno vessati di tasse in confronto agli altri Stati d'Italia. Ma, non in solo pane vivit homo.
I napoletani andavano in Sicilia e trattavano quelli isolani come un popolo schiavo, e quel che più monta, li disprezzavano.
Si era chiusa la comunicazione tra l'Isola e Napoli, era proibito ad un siciliano recarsi alla Capitale dei due regni riuniti, ove risiedea la Corte e il sovrano. Per ottenere un passaporto erano così lunghe le pratiche e le molestie che si doveano sostenere, che metteano un grande scoraggiamento anche a' più volentierosi. I siciliani che venivano a Napoli erano sorvegliati e molestati da una trista e sciocca polizia che mai li lasciava tranquilli. Io che, per concorrere a Cappellano militare, fui chiamato a Napoli con ufficio del Cappellano maggiore, il quale era un Arcivescovo, un Capo di Corte, e faceva l'ufficio di Ministro col Portafoglio, penai non poco per ottenere il passaporto, ed in Napoli fui tanto vessato ed insultato dalla polizia, che stava per ritornarmene in Sicilia, senza neppure presentarmi al cappellano maggiore. Fu un mio compattriota che mi animò a rimanere, e mi ottenne dalla polizia la grazia
di trattenermi in Napoli sino al giorno del concorso, e partire subito, senza che io avessi potuto sapere i resultati.
Nell'organico del 1849, fu stabilito che gli impiegati siciliani nelle diverse amministrazioni della Capitale doveano essere la terza parte: in realtà appena erano la decima parte. Due soli preti siciliani chiedemmo di concorrere al posto di cappellani militari, fra trentadue altri candidati napoletani, e neppure ci voleano ammettere. Convenne che facessimo delle pratiche per non essere esclusi.
Tutto questo offendea l'orgoglio siciliano, ma questa offesa era niente a petto di quella che i Siciliano era erano visitati dal Re, essendo Palermo la vera sede della monarchia de' due regni riuniti. È vero che Ferdinando II nel suo lungo regno visitò qualche volta la Sicilia, ma le sue visite furono sì rapide che pochissimi siciliani poteano vederlo, mentre si facea avvicinare da chiunque lo desiderasse.
La real Famiglia prodigava le sue beneficenze in Napoli: il Re, i principi, le principesse reali, e la Regina Maria Teresa, tanto calunniata anche di avarizia, pagavano di propria borsa senza ostentazione e millanterie migliaia di pensioni mensili a semplice titolo di soccorsi a' bisognosi. Io conosco oggi tante famiglie napoletane cadute nella più desolante miseria, che allora viveano co' soccorsi della real Famiglia. Napoli era la prediletta de' Borboni, la Sicilia meno amata per intrighi di nemici. I Siciliani non invidiavano i Napoletani, come diceano e dicono tutt'ora coloro che rovinarono la Dinastia. Un popolo generoso qual'è il Siciliano, è difficile ad esser vinto dalla trista e bassa passione dell'invidia. Il popolo siciliano potea dire al napoletano: non invideo miror magis.
I Siciliani, per essere contenti, desideravano poco: e fu un grande errore non averli contentati a tempo opportuno.
Difatti so con certezza che Francesco II e qualche altra persona della real Famiglia, conobbero il male che si era fatto senza colpa loro e se ne dolevano poi in Gaeta e nell'esilio di Roma.
I veri Siciliani per essere contenti non desideravano quello che pretendono i rivoluzionari di tutti i regni del mondo, cioè franchigie, o costituzioni politiche ammodernate come mezzo di afferrare il potere, dissanguare i popoli, ed infine detronizzare i re. I veri ed onesti cittadini siciliani non desideravano né costituzioni politi che, né franchigie astratte, vuote di senso e dannose al vivere civile. Essi desidera vano di avere in Palermo la Corte almeno per più mesi dell'anno: e si sarebbero pure contentati di un Vicerè della real Famiglia, che risiedesse in Palermo. Desideravano un'istruzione elementare tanto necessaria ne' piccoli paesi, il commercio, l'agricoltura agevolata, e le opere pubbliche proporzionate a quelle di Napoli.
Sotto i Borboni, le finanze e la sicurezza pubblica, che sono il perno sul quale si aggira la civile società, nulla lasciavano a desiderare; e credo difficile il ritorno di quei tempi qualunque studio facesse l'attuale ordine di cose, anche sforzandosi ad operare con tutta la buona fede possibile; que' tempi di ottimo regime e di personale sicurezza, resteranno un desiderio non solo per la presente generazione, ma chi sa per quante altre che verranno appresso di noi.
Il Governo passato era detto da' rivoluzionarii il Governo della tirannide
e della negazione di Dio.
Ma non governò mai con lo stato di assedio e con leggi eccezionali, eccettuati pochi mesi nel 1849: intanto non vi erano tutti que' ladri, mafiosi
ed assassini che vi sono oggi. Difatti mentre pubblico queste memorie, già si dibatte nel Parlamento di Roma una legge speciale di Sicurezza pubblica per regalarla alla Sicilia qual manicaretto de' più appetitosi: come se non esistesse il Codice penale e la legge di pubblica Sicurezza per infrenare l'audacia di pochi ladri, mafiosi
e simile gente! È una vergogna per questo Governo, il quale si proclama liberalissimo e riparatore, e poi ad ogni momento ricorre alle leggi eccezionali per istrascinare la sua malaugurata esistenza. Per infrenare pochi ladri ed assassini non ha rossore di chiedere leggi draconiane, che in effetto colpiscono i buoni cittadini mettendoli in balìa di Proconsoli desiderosi di distinguersi con efferate rappresaglie. Non contento di ciò il Governo manda de' Prefetti che insultano quella classica terra, e calunniano gli abitanti dichiarandogli ingovernabili, barbari e peggio..! Oggi la Sicilia non è più l'Isola progressista, la terra delle grandi iniziative,
sol perché non soffre in pace le prepotenze e le giunterie de' Proconsoli continentali. Badate signori Proconsoli! e ricordatevi come i Siciliani trattarono i Savoiardi nel principio del secolo passato regnando V. Amedeo II di Savoia.
Il Conte Maffei allora Vicerè della Sicilia vi potrebbe servire di salutare esempio. Io ve lo avverto per vostro bene.
In Sicilia sotto i Borboni l'istruzione pubblica elementare ne' piccoli paesi lasciava a desiderare, ottima invece nelle Città ove erano collegi della tanto benemerita e calunniata Compagnia di Gesù, ed altri istituti e collegi tenuti da religiosi.
L'Agricoltura specialmente e il commercio dell'isola erano poco prosperi.
Fortuna che quella terra è ferace, e che potentemente suppliva al bisogno del paese. Il commercio era ristrettissimo a causa delle poche comunicazioni con continente. né pure nell'interno dell'Isola il commercio potea avere un sufficiente sviluppo, in quanto che si mancava di strade e particolarmente di ferrovie.
Difatti lo sventurato Re Francesco II, che volea la prosperità di quell'isola, appena salì sul trono de' Padri suoi, decretò una rete ferroviaria per la Sicilia assegnando i fondi corrispondenti. Ma le sopravvenute calamità del Reame impedirono a quel benefico Sovrano di effettuare le sue leali e vantaggiose risoluzioni a prò della Sicilia e del resto del Regno.
In Sicilia la giustizia era amministrata da magistrati dotti ed integerrimi. Vi era qualche eccezione, e questa bisogna imputarla alla debolezza dell'umana natura più che al Governo.
Il popolo siciliano è di cuore ardente: o vi ama con entusiasmo, o vi odia a morte: trattatelo con franchezza e lealtà, ed esso si gitterà per voi se occorresse anche nel fuoco. Difatti i siciliani furono il baluardo della monarchia de' Borboni dal 1789 al 1815. Ma se lo trascurate, se lo disprezzate, vi farete un nemico pericoloso che presto o tardi si vendicherà rabbiosamente.
Se mi si dicesse da qualche traditore che bazzicava in Corte, e che tutt'ora si vanta borbonico: «qual guadagno han fatto i siciliani ribellandosi contro i Borboni? ««Nessuno, risponderei, anzi han perduto quello che loro restava, ed han fatto malissimo a rivoltarsi contro il legittimo Sovrano, maggiormente che Francesco II sebben non ebbe il tempo di effettuare alcuna riforma avea tutta la buonissima volontà di contentare i Siciliani ».
Il popolo siciliano fu messo alla disperazione solo da coloro che tradivano il Re ed il paese, ed ingannato dai mestatori della rivoluzione cosmopolita; e si può ad esso applicare il bel verso da tutti ripetuto: incidit in Scyllam cupiens vitare Charibdim.
Vi ho detto però che il Siciliano o tosto o tardi si vendica. Io non esprimo de' desiderii, né voti, desidero solamente che si ricordino i casi avvenuti in Sicilia sul finire del Secolo XIII quando si disse: Quod Siculis placuit sola Spirlinga negavit.
Il popolo siciliano è ora senza mezzi, ma la sua storia è là per assicurarvi, che senza millanteria potrebbe ripetere col suo antico ed illustre compatriota Archimede: Da mihi punctum caelum terramque movebo.
Simili riflessioni io facevo mentre la fregata salpava e si avviava alla volta di Napoli. Oh Dio! io mi sentiva stringere il cuore da una mano di ferro nel vedermi allontanato da quella terra infelice ma troppo cara per me. A me giovava di starmi sull'estrema poppa del naviglio, perché mi sembrava in questo modo essere più vicino alla diletta mia Patria. Le mie braccia erano conserte al seno, i miei occhi erano pregni di lagrime. Addio, esclamai, o Patria mia, chi sa.... se ti rivedrò mai più...! forse lascerò queste mie travagliate ossa in qualche Campo di battaglia.
La fregata solcava quel mare tranquillo e trasparente con una rapidità non ordinaria.
Io guardavo verso il Sudovest, e lontano lontano vedea le amene spiagge, e i cari monti che mi videro nascere, ed ove passai la mia infanzia e la mia adolescenza. Quelle spiagge e que' monti mi sembrarono troppo angusti e meschini nella mia prima giovinezza, ed ora desidero la pace di quella solitudine. Quelle spiagge e que' monti, oh quante care e dolci memorie suscitavano nell'anima mia!
Ivi io era cresciuto, ardito e baldo, ignaro a' mali della vita. Ivi sopra quelle spiagge e que' monti mi deliziava con giuochi fanciulleschi, e faceva prove di nautica e ginnastica abilità.
Ivi mi appresero a conoscere ed amare il Creatore, i parenti, il prossimo. Ivi mi beavo nelle carezza e ne' consigli de' miei affettuosissimi genitori. Oh! ad un uomo volgare, queste rimembranze sembreranno miserie: ma nelle anime sensibili, si identificano, direi quasi, con lo spirito istesso e formano la gioia e il dolore. Nello stato in cui mi trovava, quelle care rimembranze mi cagionavano un dolore che ha pari, e bene potevo io dire con la Francesca da Rimini di Dante: «Nessun maggior dolore - che ricordarsi del tempo felice - nella miseria.
Io aguzzava lo sguardo, e mi sembrava vedere la sommità di un monte. Oh! là io lasciava il padre mio, vecchio paralitico, dolente de' pericoli che io correva, ma contento della mia condotta: io temeva di non rivederlo mai più. Lo rividi dopo un anno, ma ohime! per poco: la ferocia rivoluzionaria mi strappò dal seno paterno e mi obbligò all'esilio. E quando il mio vecchio padre spirò l'estremo sospiro della vita, a me tolse il destino di sentire le ultime benedizioni che impartiva sul mio capo.
Cosa potete darmi di più, uomini che morrete? l'esilio, la prigione, il distacco dal più caro degli esseri che avea sulla terra? me li avete già dati! Ma voi mi avete onorato: voi, mi conduceste in quella stessa prigione che fu onorata dall'illustre Arcivescovo Monsignor Francesco Saverio Apuzzo!
Io lasciava in que' luoghi, affettuosi fratelli, sorelle ed amici. Non pochi di quest'ultimi, uniti a qualche mio parente, giudicandomi nella sventura, mi rinnegarono e mi perseguitarono.
Ma io mi sono vendicatoSì! li perdonai, e feci loro del bene, secondo i subli mi precetti del Divino Maestro, e le naturali tendenze del mio cuore.
Già le spiagge della Sicilia erano scomparse: i più alti monti sembravano a fior di acqua: a poco a poco si confusero con la gran volta celeste... sparirono...!
Ed io, abbattuto, addolorato mi prostrai e pregai il Dio delle misericordie per la salvezza e la prosperità di quell'isola che più non vedea, ma che mi parlava potentemente nella memoria e nel cuore.

(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).