Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.
Porto di Palermo in una foto d'epoca.
Il giorno 8 giugno giunse l'ordine che la truppa si trasferisse a' Quattroventi e al Molo. La brigata Meckel si mosse in bell'ordine, prese la via della Flora,continuò per la strada Marina, o Foro borbonico, Doganella, Borgo, e si condusse al Molo. La truppa della Fieravecchia, e porta di Termini marciava con la testa alta, e con baldanza militare sotto gli occhi di un gran popolo, perché avea la coscienza di aver vinto tutte le volte che pugnò contro i rivoluzionarii. Quel popolo era maravigliato di veder quel numeroso e fiorente esercito abbandonare vergognosamente una città che avea vinta. Si rechi a lode di quella popolazione il contegno dignitoso e circospetto: né un gesto, né una parola ella disse che avesse potuto offendere i soldati.
Prima che la truppa del palazzo reale e piano di S. Teresa partisse alla volta de' Quattroventi, Lanza montò a cavallo - l'unica volta dopo che venne in Palermo - e mosse verso il Molo; non isdegnando di farsi accompagnare da' garibaldini, invece di mettersi alla testa della truppa.
Poichè l'armata fu tutta riunita a' Quattroventi e al Molo, Bosco scelse tre uffiziali del 9° cacciatori, de' quali anch'io facea parte, con l'ordine di recarsi a Monreale, e condurre al Molo di Palermo le famiglie de' militari rimaste in quella città. Siccome fummo accompagnati da due garibaldini, uno de' quali si facea chiamare Capitano, e l'altro pure in camicia rossa che riconoscemmo per un soldato disertore del 3° esteri, traversammo la città occupata da' garibaldini. Ivi tutto era baccano e saturnali; e il delirio era al colmo. Tutti si abbracciavano con gioia disordinata, e gridavano: «Siamo liberi italiani, ora saremo ricchi, ora cammineremo sul danaro: l'argento (era quello del Banco), già comincia a scorrere per la città come moneta di bronzo. Viva la libertà! viva l'indipendenza! viva Garibaldi!» Oh fallacia degli umani giudizi! Oh fatale disinganno! Godi, io dissi, o Palermo; io non vorrei turbare la tua ebbrezza, non t'invidio, né t'ammiro, anzi ti compiango troppo credula città. Oh quanto ti costeranno cari questi momenti di gioia sì disordinata! Guai a quel popolo che crede farsi libero con le braccia dello straniero.
La strada che da Palermo conduce a Monreale era gremita di popolo scomposto, e vi era lo stesso baccano, la medesima ebbrezza della città. Se qualcuno osava insultarci, un solo cenno sdegnoso de' garibaldini che ci accompagnavano facea tornare tutti al dovere.
In Monreale trovammo le famiglie de' militari saccheggiate ed atterrite: si erano ricoverate nel monastero de' padri Benedettini, ove l'aveano raccolte que' buoni e caritatevoli religiosi, e con affettuosa cura le consolavano e proteggevano. Anche noi alloggiammo in quel monastero per una notte, e perché nella sventura, fummo trattati con più cordialità del solito.
Io fui visitato da un tale che abitava al primo piano della mia casa; era quasi intieramente vestito degli abiti miei, che aveami saccheggiati assieme a pochi mobili del mio alloggio. Vedete che impudenza! Però a' rivoluzionarii è tutto lecito, perché tutto fanno pel bene e la gloria della patria. Povera patria!
La mattina del giorno seguente ritornammo al molo di Palermo conducendo le famiglie dei militari, e quella pochissima roba che aveano potuto salvare dalle unghie de' patriotti.
L'aiutante maggiore del 9° cacciatori, capitano Marotta, non volle seguirci ad onta dell'ordine del comandante Bosco e delle nostre calde preghiere.
Quel tristo, incapace capitano, si era dato per ammalato per non seguire il battaglione quando partì per Parco; si negò assolutamente di seguirci a Palermo, perché da gran tempo avea fatto comunella co' rivoluzionarii di Monreale; neppure volle far partire con noi cinque soldati che avea presso di sè. Quel capitano morì dopo qualche anno, e mi si dice, che la sua numerosa famiglia viva di stento.
I 24 mila uomini di truppa erano tutti riuniti tra i Quattroventi e Molo di Palermo. In tutti i fatti d'armi combattuti sino ad allora, erano morti 4 uffiziali e 204 soldati; feriti 33 uffiziali e 529 soldati.
Garibaldi appena s'impossessò del Banco, tra le altre cose, cominciò la propaganda di far disertare i soldati. Lanza lasciava libero il passo a' propagandisti che venissero nel campo. Ai soldati esteri prometteano 40 ducati se avessero disertati con armi e bagaglio, 30 se senz'armi, di più il viaggio franco se avessero voluto ritornare in patria. Ai soldati ed uffiziali napoletani si prometteano onori,
danaro, e gradi militari.
Dal campo de' Quattroventi e del Molo disertarono molti soldati esteri e napoletani. Disertò pure qualche chirurgo di battaglione, e due cappellani militari, che non voglio nominare. Questi ultimi, cioè i chirurgi e i cappellani, sono i più riprovevoli di tutti, maggiormente i cappellani dapoichè non poteano attenuare la loro fellonia col solito detto allora in moda; cioè che disertavano perché non si voleano battere contro i fratelli.
I chirurgi e i cappellani dell'esercito non erano parti belligeranti: quelli aveano una missione umanitaria, e questi oltre di quella missione, ne avean un'altra più sublime, la carità evangelica, la quale non fa distinzione tra amici e nemici qualunque siano. Io l'ho già detto che gli uffiziali disertori sono la feccia degli eserciti, e che il nemico che li riceve in cambio di far guadagno fa perdita. I disertori degli eserciti sono come i cattolici che si fanno protestanti e d'altra setta, cattivi cattolici, pessimi settarii. Un militare di onore se ha principi diversi da quelli del governo che serve, non faccia il militare volontario, e se si trovi, si dimetta non già in tempo di guerra, che sarebbe una viltà, ma in tempo di pace. Gli uffiziali e sottouffiziali non son tenuti a servire per forza, ma possono dare la dimissione quando lo vogliano.
Nel campo de' Quattroventi e del Molo, avvennero de' piccoli fatti poco piacevoli al generalissimo Lanza.
I soldati guardavano biechi costui, e non lo salutavano in quelle rare volte che si facea vedere. Un giorno un soldato gli disse: «E bene, Eccellenza, non vede quanti siamo? dobbiamo darla vinta a quelli straccioni?» Lanza con la faccia di un cadavere, gli rispose: «Zitto ubbriacone...» e si affrettò ad andar via. Un altro giorno che il maggiore Bosco avea fatto schierare il 9° cacciatori sotto l'abitazione di Lanza, costui trovandosi al balcone, quel maggiore arringò a' soldati, e disse delle parole assai amare sulla guerra mal diretta, e pessimamente finita. Il generalissimo credendosi insultato fece giungere al Re le sue doglianze contro Bosco: ma il Re invece di punire il supposto reo, lo fece per allora colonnello in compenso della condotta tenuta in quella guerra.
In certo modo era piacevole di vedere in quel campo tanti Generali, che in tempo di pace io avea veduti altieri, burbanzosi, atteggiati a gradassi, e tali che pareano distruggere tutti gli eserciti d'Europa al solo brandire la propria spada, andare umiliati, avviliti, abbattuti da muovere non sò s'io mi dica sdegno o pietà. Oh! dopochè io vidi que' Generali in atteggiamento tanto umiliato, quando poi ho veduto altri due atteggiati a rodomonti e ne ho veduti di diverse nazioni ho detto tra me e me: vi vorrei vedere nel ballo a tuono de' cannoni.
La truppa de' Quattroventi e del Molo di giorno in giorno diminuiva, e la maggior parte s'imbarcò per Napoli. Il 19 giugno partì Lanza insieme al suo Stato maggiore, e gli altri duci gallonati.
Giunti nel porto di Napoli, fu loro comunicato l'ordine del Re di recarsi ad Ischia prigionieri. Il Re ordinò una giunta composta de' generali Ritucci, Vial, Casella, e Delcarretto, perché si togliesse ad esame la condotta di que' duci, e sottoponesse i rei al Consiglio di guerra.
Ma le sopravvenute calamità del Regno, conseguenza dell'abbandono di Palermo, giovarono a que' Generali, a' quali non si attese più oltre.
Fece però nausea il sentire il modo che tentarono nel difendersi. Nel fare il male tutti gareggiarono e furono uniti, nel difendersi poi delle ricevute imputazioni, si gettarono la colpa l'un l'altro. Lanza accusava Letizia e Buonopane, questi accusava Letizia e l'altro a vicenda. Chi sa, se una giustizia opportuna e sollecita non avesse ancora salvato il Regno? Io l'ho detto a proposito de' fatti di Calatafimi, che l'impunità de' Generali sarebbe stato un dannevole esempio. Il governo del Piemonte dopo la rotta di Novara del 1849 fece fucilare un generale, e questi non era tanto reo quanto i generali che vollero abbandonare Palermo a Garibaldi.
È qui necessario far conoscere le ragioni che Lanza espose al Re Francesco con la lettera del 13 giugno 1860, per giustificare la sua condotta tenuta in Palermo in quella disgraziata guerra. Dirò le ragioni ch'egli credeva più convincenti.
Dice, che Colonnelli e Generali invece di ubbidirgli, faceano ubbidirsi da lui Lanza si dichiarò inetto, ma dovea dichiararsi tale quando accettò la missione di recarsi a Palermo per abbattere la rivolta e rimettere l'ordine nel regno. D'altronde in tutta la sua vita si era mostrato ignorante, imbecille mai. Dice riuscito vano il bombardamento di due giorni contro Palermo. - Questa discolpa che adduce è il suo maggior torto, perché bombardare una popolosa città senza ordine del Re, e senza scopo militare, era infamare sè stesso, e la causa che fingeva di difendere. Accusa Meckel perché costui non inseguì Garibaldi dalla Ficuzza a Palermo. - Ed egli che avea 20 mila uomini di buonissima truppa - mentre Meckel ne avea 4 mila - perché li lasciò oziosi quando entrarono i garibaldini in Palermo? Perché non lasciò il generale Colonna con la sua brigata nella posizione che minacciava il nemico, ma in cambio lo chiamò al palazzo reale per lasciarlo ivi inoperoso? Bene osservò Meckel, il quale disse che sarebbe stato sufficiente il generale Colonna, che si battea davvero, per impedire non solo all'oste garibaldina di buttarsi dentro Palermo, ma di stritolarla. Dice, che Meckel giunse a Palermo dopo che la tregua era firmata. È questa una di quelle sfacciate menzogne di cui furono prodighi molti generali napoletani, come appresso vedremo. Meckel giunse a Marineo il 29 maggio a mezzogiorno; Lanza fu subito avvertito, ma finse di non crederlo. Più tardi l'uffiziale telegrafico Agostino Palma gli fece vedere la brigata Meckel che marciava in ordine di battaglia sopra Palermo, e già a poche miglia distante di questa città. Fu allora che il Lanza, dopo di avere confabulato col colonnello Gonzales, spedì un prigioniero sardo a Garibaldi per chiedergli una tregua: quale tregua non era stata né discussa né firmata, ma in parola, quando Meckel investì Palermo e vinse e disperse i rivoluzionari annidati e fortificati in questa città.
Quella tregua si potea misconoscere ad onta che Lanza si mostrasse tanto tenero e scrupoloso con un nemico non riconosciuto per parte belligerante. Si sa poi come Garibaldi avesse adempito alla sua parola, trattandosi di tregua fatta col nemico, ed in queste memorie ne accennerò qualche esempio. Lanza solamente potea lasciar distruggere la rivoluzione dal braccio del solo Meckel senza mancare alla sua parola, giacchè ne faceva tanto conto trattandosi solamente di agevolare un nemico che assaliva proditoriamente. Egli al più avrebbe potuto dire a Garibaldi: io non mi muovo per assalirti, però dovrai vedertela tu con Meckel il quale non sa nulla della nostra tregua, e non ne vuole sapere affatto; ed io non voglio e non posso impedirlo con mettermi al pericolo di un conflitto tra soldati dello stesso re, o espormi ad una rivolta militare, dapoichè i soldati sono inviperiti contro di te.
Con questa risposta Lanza avrebbe salvato Re e trono.
Dice, che protrasse la tregua per suggestioni di Letizia e Buonopane. Ciò dimostra sempre la sua affettata imbecillità. Confessa che Palermo sarebbe caduto senza la tregua, sgominata e vinta la rivoluzione. Perché dunque domandar la tregua al nemico? Lanza risponde che la domandò per provvedere a' feriti. Bella ragione in verità! Si getta nel fango l'onor militare, si perde un Regno per provvedere a pochi feriti, i quali non aveano bisogno della tregua per essere provvisti. Conchiude, essere avvelenato di dispiacere, desiderare la morte, e che morrà di dolore protestante la sua innocenza. Ma Lanza potea cercar la morte onoratamente combattendo i nemici del suo Re; egli invece si nascose nel palazzo reale, solo visibile a' messi di Garibaldi: e non morì di dolore, anzi si ammogliò per la seconda volta dopo la catastrofe della dinastia e del Regno, e vide scorrere tante lagrime e tanto sangue versato da' suoi concittadini, ed egli ne era stata la causa prossima. Che Lanza non tradisse lo dica a Dio solamente che scruta i cuori degli uomini, ma gli uomini scrutano i fatti e giudicano il valore di questi. La storia è inesorabile, non ammette simili proteste. Epperò, Lanza confermò la sua indecorosa condotta tenuta in Palermo, con la visita che fece a Garibaldi il dì 7 settembre di quell'anno. Egli non era tenuto in nessun modo a visitare il suo avversario di Palermo, eppure fu uno de' primi che visitò il Dittatore delle Due Sicilie, appena costui giunse a Napoli e prese stanza nel palazzo d'Angri, ove fu ricevuto cordialmente. Non è dunque colpa degli uomini e della storia se abbiam messo alla gogna il generale Lanza, e dichiaratolo uno de' cinque uomini fatali, che disonorarono il Regno, rovesciando Re e trono, involgendo nella ruina i popoli innocenti.
Il colonnello Polizzy capo dello Stato maggiore di Lanza, non isfuggirà al severo giudizio della storia circa i fatti di Palermo del 1860. Egli, uffiziale onorato e prode, avrebbe dovuto abbandonare quel posto nel quale tutto dovea sapere e vedere; e svelare al suo sovrano gl'intrighi che si ordivano, e le infamie che si commettevano. Fu una tale disgrazia! anche gli uomini onesti e devoti al Re, contribuirono con la loro inerzia alla catastrofe dell'invidiato Regno delle Due Sicilie.
Però è necessario sapersi, che il colonnello Polizzy, poi generale, si condusse bene in tutto il resto della campagna militare, e che fu uno de' capitolati di Gaeta, ove prestò segnalati servigi.
Il generale Letizia e il colonnello Buonopane furono giudicati abbastanza nella pretesa discolpa che al Re il generalissimo Lanza; io non ho detto tutte le vergogne che costui addebitasse a quelli. Gli altri generali che si trovavano in Palermo, non tutti fecero poi il loro dovere, come appresso dirò. Ma tutti questi duci lasciarono sì trista e vergognosa fama in Sicilia, che tuttavia i più benigni Siciliani li chiamarono: Generali, teste di cartone.
Il 9° cacciatori fu destinato a Messina con altri battaglioni: e fu l'ultimo ad imbarcarsi sull'Etna,
vapore mercantile comandato dal capitano Caracciolo della marina militare.
Lo confesso ch'ebbi la vanità di volermi imbarcare l'ultimo di tutti. Aspettavo che si fosse imbarcato l'ultimo de' soldati; quando vidi dietro di me il capitano del Giudice, il quale si era molto distinto in tutti i fatti d'armi, e meritò poi le grazie del Re. Io invitai il capitano a volersi imbarcare prima di me: però questi che avea indovinata la mia vanità, nò, mi disse, tocca a me imbarcarmi l'ultimo: voi non siete parte belligerante. Io non lo feci finire, saltai nella barchetta. Il capitano dato uno sguardo di inestimabile cordoglio alla città e al campo già vuoto di soldati, si lanciò nella barchetta con un viso che mettea paura.
Quando ci avvicinammo al Piroscafo, mi disse: guardate dalla parte della Dogana. Io mi voltai e vidi una masnada di uomini sudici in camicia rossa ed armati che occupavano i posti della Dogana.
Per deviare un poco i tristi pensieri del mio amico, e non trovando da dire altro in quel momento gli feci osservare la burlesca figura che faceano que' garibaldini, i quali portavano in testa un berretto simile a quello che usano i lazzaroni di Napoli.
Il capitano mi rispose con voce roca: voi, guardate le strane fogge, io penso che quegli straccioni lì sono i nostri vincitori, e se l'avessero voluto...! questa mia spada, io...! l'avrei dovuta consegnare in quelle mani...! Si alzò con furia, si coprì il viso con ambe le mani, ed esclamò: oh vergogna! questo pensiero mi avvelena, e temo che mi faccia perdere la ragione. Oh! se io non avessi la certezza di una rivincita... non mi sarei imbarcato... e mi sarei fatto saltare le cervella...! Io, quantunque in grande agitazione, mirando lo stato di quel prode ed onorato militare, purnondimeno mi toccò riprenderlo de' suoi sentimenti poco cristiani: indi feci di tutto per consolarlo, ed egli abbassò il capo e non disse più motto.
Non appena imbarcato l'ultimo della truppa, il forte Castellammare alzò bandiera tricolore. Fece il medesimo il fortino del Molo, il vapore di Florio, il Corriere Siciliano,
il quale era a terra perché dovea restaurarsi. Le Campane di Palermo e quelle del Molo suonavano a stormo per festeggiare la partenza della truppa.
La nostra navigazione da Palermo a Messina fu lunga e trista, dappoichè l'Etna
tirava dietro di sè due Paranzelli carichi dell'equipaggio della truppa, e giungemmo in Messina il domani sul tardi, giorno 20 giugno.
Soldati della Regia Marina delle Due Sicilie nel porto di Napoli.
(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).