martedì 7 maggio 2013

“Dalla comunità al comunitarismo” (seconda parte)

 
 
Pubblichiamo, a cura di Marco Massignan,  la seconda parte dello scritto del Prof. Danilo Castellano “Dalla comunità al comunitarismo”, pubblicato sulla Rivista Instaurare omnia in Christo (Anno XXXVII, n. 1; Gennaio-Aprile 2008).
 
Il comunitarismo e la sua impossibile individuazione 
Se la comunità ha perso il suo significato, il comunitarismo non l’ha mai avuto. Il comunitarismo, infatti, è definibile solamente per opposizione. Anzi, per essere più precisi, esso in ultima analisi si pone come sola opposizione. La sua opposizione, perciò, a differenza di quella che viene instaurata sulla base di qualcosa di positivo, è semplicemente negativa, vale a dire essa consiste in una critica – assai significativa sul piano della denuncia ma priva di un fondamento che la legittimi – alla dissocietà del liberalismo, avrebbe detto Marcel De Corte.
 
Il comunitarismo, infatti, nelle sue varie forme si caratterizza per il suo anti-individualismo,(individualismo) che è il presupposto dei diritti proclamati dalla Rivoluzione francese e accolti, sia pure con qualche differenza, negli stessi anni dalle Dichiarazioni nordamericane e dalle Costituzioni della fine del secolo XVIII. Si deve, però, osservare subito che l’anti-individualismo del comunitarismo non rappresenta il superamento dell’individualismo in sé, poiché il comunitarismo in ultima analisi critica l’individualismo formale, vale a dire l’individualismo che invoca il diritto come garanzia e strumento per l’affermazione della soggettività della modernità, nella cui affermazione (o almeno possibile affermazione) fa consistere la giustizia.
 
Sotto un altro profilo, invece, il comunitarismo accoglie l’individualismo. Esso, infatti, racchiude in sé la tendenza a legittimare e promuovere l’affermazione dell’immediatezza del sentimento dell’individuo sia pure nell’ambito delle identità collettive, le quali accolgono, custodiscono e tramandano consuetudini sociologiche e culture meramente antropologiche condivise: al comunitarista, infatti, basta il “noi qui facciamo così”; non va oltre; non sente il bisogno di giustificare perché “noi qui facciamo così”.
 
In altre parole gli è assente la dimensione etica della politica, tanto che non considera il problema del perché noi qui dobbiamo fare così. L’integrazione che chiede, per esempio, allo straniero o all’immigrato è un’integrazione sul piano del solo costume e della sola tradizione storicistica, considerata da taluni comunitaristi (McIntire, per esempio) criterio della stessa razionalità.
 
La reazione contro la Rivoluzione francese e il processo politico e giuridico da essa avviato è, quindi, una reazione contro l’astrattezza dei diritti, la pseudo-trascendenza dei criteri normativi e l’universalità razionalistica delle Dichiarazioni. In altre parole è la reazione alla dottrina liberale, allo Stato di diritto procedurale e, talvolta, al selvatico stato di natura che talune scuole vorrebbero imporre attraverso la teorizzazione del primato del mercato.
 
L’opposizione, però, che il comunitarismo esprime non è basata sull’ordine naturale ma sulla rappresentazione che di esso dà la comunità, intesa “come un tipo ideale di relazione sociale in cui la disposizione dell’agire sociale poggia… su una comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) degli individui che ad essa partecipano” (V. Pazé, Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea, Laterza 2002, p. 8). L’ordine, come il bene, viene così fatto dipendere dal gruppo: è l’identità collettiva che esprime l’ordine e il bene, non sono questi condizione dell’identità.
 
Significativa, per la comprensione di questa affermazione, è l’instaurazione da parte dei comunitaristi della contrapposizione fra giustizia e bene e, talvolta, fra giustizia e bene comune. Il movimento comunitarista, infatti, pur con argomentazioni in parte diverse e con diverse sfumature, ritiene che la giustizia sia di ostacolo al bene. La tesi è singolare, poiché la visione classica della politica considera la giustizia fine e misura della politica stessa. (…)
 
La si può comprendere (la tesi comunitarista) se si fa attenzione alla polemica via via svolta a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, cioè sin dalla nascita del comunitarismo. Essa è una polemica tutta interna alla Weltanschauung razionalistica della politica, condivisa – la cosa può sembrare paradossale – sia dai liberali nordamericani contemporanei sia dai comunitaristi.
 
I liberali, infatti, tendono a identificare la giustizia con il riconoscimento, la garanzia e talvolta la protezione dei soli diritti umani modernisticamente intesi, vale a dire come mere pretese soggettive di instaurare l’ordine che ognuno ritiene per sé preferibile (una specie di anarchia protetta dal diritto positivo). È il modo d’intendere il diritto, in particolare il diritto soggettivo, di derivazione protestante rafforzato dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese. Se la giustizia consistesse in ciò, essa sarebbe certamente di ostacolo alla vita della comunità, il cui bene, però, non può consistere in un qualsiasi progetto di vita condiviso con il quale viene identificata la “vita buona” da parte dei comunitaristi.
 
Il bene, infatti, in questo caso sarebbe un mero flatus vocis, un’espressione puramente nominalistica anche se dagli effetti pesantemente condizionanti. Il bene non può essere identificato con una qualsiasi elezione o scelta sia pure collettiva. La storia dimostra che molte identità collettive hanno operato scelte sbagliate in diversi settori e a diversi livelli. Il bene deve trovare un fondamento vero, non convenzionale. Esso non ha per base la rappresentazione collettiva; al contrario è rappresentazione di ciò che è, non di ciò che si immagina. Inoltre esso richiede la giustizia che è una delle sue condizioni, non un suo ostacolo.
 
Il comunitarismo, perciò, sbaglia ad erigere una contrapposizione tra giustizia e bene. Sbaglia, però, perché parte da una premessa sbagliata e perché si subordina, sia pure nell’opposizione, al liberalismo o al neoliberalismo che si propone – e crede – di combattere. Il comunitarismo evidenzia una esigenza: quella di scoprire la comunità. Esso, però, non riesce a rispondere a questa esigenza soprattutto perché identifica la comunità con una qualsiasi identità collettiva.
 
Anche quando erroneamente vengono loro attribuite etichette (talvolta in verità autorivendicate) di aristotelismo, di tomismo e via dicendo, i comunitaristi sono lontani dalla filosofia classica, anzi essi non assurgono mai a livelli autenticamente filosofici. È assolutamente assente in loro l’esigenza di comprendere la realtà. I comunitaristi, infatti, si fermano nell’ipotesi migliore all’effettività. Il comunitarismo è caratterizzato, infatti, in ultima analisi da un radicale anti-platonismo che rivela la premessa gnostica di questa dottrina politica e l’opzione senza prove per il “sistema”, considerato erroneamente garanzia e fondamento della verità, compresa la verità della politica.
 
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