Proprio con la farsa dei plebisciti
scoppiarono con grande violenza contro gli invasori piemontesi le prime rivolte,
che si propagarono a macchia d’olio in tutto il Sud. Fu una vera e propria
guerra che durò piú di dieci anni ed in cui le truppe piemontesi compirono tanti
delitti e tali distruzioni che non si erano mai visti in alcuna altra guerra. Le
forze militari impegnate dai piemontesi furono di circa 120.000 uomini, ai quali
vanno aggiunti 90.000 militi della collaborazionista guardia nazionale. Queste
forze, verso il 1865, comprendevano circa 550.000 uomini, quanto gli Americani
nel Vietnam.
Dopo la resa di Gaeta intere zone della Lucania, della
Calabria, delle Puglie e degli Abruzzi si erano liberate dei presidi piemontesi
ed avevano innalzato i vessilli duosiciliani. I piemontesi nel ritirarsi
compirono molte rappresaglie su civili inermi. Nell’aprile del 1861 si formarono
le prime grosse bande di partigiani comandati da Carmine Crocco, detto
Donatello, Nicola Summa, detto Ninco Nanco, Domenico Romano, detto il sergente
Romano, che liberarono centinaia di paesi. La reazione piemontese fu immediata.
Interi paesi furono distrutti a cannonate e chi si opponeva all’occupazione
veniva fucilato immediatamente. Significativo quanto avvenne il 14 agosto del
1861 a Pontelandolfo e Casalduni, ove allo scopo di terrorizzare le popolazioni
vi furono saccheggi, violenze, stupri e le case furono bruciate e completamente
rase al suolo. Vi furono oltre un migliaio di morti. Alcuni furono trucidati nel
modo piú barbaro, con le teste mozzate poi esposte agli ingressi dei paesi come
monito. I generali piemontesi, come Cialdini e tanti altri, furono dei veri e
propri criminali di guerra. Lo Stato "italiano" ancora oggi li venera come
"eroi" .
Dai dati ufficiali piemontesi, non
attendibili, nel solo 1862 i paesi rasi al suolo furono 37, i fucilati furono
15.665, i morti in combattimento circa 20.000, incarcerati per motivi politici
47.700, le persone senza tetto circa 40.000. Ma nonostante l’impari lotta di un
popolo male armato e scoordinato, costretto ad una vita difficilissima nelle
valli e tra i monti, la guerriglia diventò sempre piú fiera, tanto che nel 1863
il Savoia valutò la possibilità di abbandonare i territori conquistati, ma poi
il suo governo emanò la tremenda legge Pica che autorizzava fucilazioni
immediate senza alcun processo. La repressione continuò piú ferocemente. I
Partigiani duosiciliani con velocissime incursioni attaccavano ovunque i
rifornimenti militari, le colonne militari, distruggendo i collegamenti
telegrafici e postali. Ma era una guerra impari e destinata all’insuccesso
perché senza alcun aiuto esterno.
Nel frattempo tutti i macchinari industriali
utili erano stati trasferiti al Nord, il resto fu distrutto con determinazione e
per cause belliche. L’Ansaldo di Genova, ad esempio, che era una piccola
officina, nacque praticamente con i macchinari dello Stabilimento di Pietrarsa.
Nel 1862 chiusero la maggior parte degli opifici tessili, le cartiere, le
ferriere della Calabria, le concerie. Alle ditte lombardo-piemontesi furono
affidati i lavori pubblici da compiere nelle province duosiciliane. La solida
moneta duosiciliana d’argento e di oro fu sostituita da quella cartacea
piemontese. L’economia meridionale ebbe cosí un crollo verticale e la
disoccupazione si aggiunse al dramma della guerriglia.
Nel 1863 il debito pubblico piemontese fu
unificato con quello di tutto il resto d’Italia. Il Sud "liberato" ne sopportò
tutte le spese. Da quell’anno incominciò l’emigrazione, che in pochi anni
diventò una vera e propria diaspora. A tutt’oggi sono emigrati dal Sud
dell’Italia circa 20 milioni di persone che si sono sparse in tutto il
mondo.
Nel 1864 furono espropriati e venduti tutti
i beni ecclesiastici e demaniali del Sud, il cui ricavato venne usato per il
rilancio dell’agricoltura della Valle Padana. È di quell’anno lo scandalo delle
speculazioni Bastogi nella costruzione delle ferrovie meridionali. Intanto in
Sicilia, per catturare i renitenti alla leva, interi paesi venivano circondati e
privati dell’acqua potabile. I renitenti trovati, oppure i loro parenti,
venivano fucilati come esempio. Interi boschi furono bruciati perché i
"briganti" non avessero piú la possibilità di rifugiarvisi.
Nel 1865 fallirono quasi tutte le fabbriche
meridionali, perché senza piú commesse. In quell’anno il carico fiscale venne
aumentato dell’87%, ma il danaro cosí drenato fu tutto speso al Nord.
Soprattutto quello tratto dall’agricoltura meridionale che finanziò le nascenti
imprese industriali del Piemonte e della Lombardia.
Nel 1866 anche in Sicilia si ebbero delle
serie sommosse. Palermo fu ripresa dopo un lungo assedio da parte di migliaia di
soldati piemontesi. Oltre ai duemila morti causati dalle cannonate, si ebbero
poi in tutta la Sicilia, nel giro di circa una settimana, 65.000 morti per il
colera scoppiato tra le truppe piemontesi. Diventarono sistematiche la pratica
della tortura e le ritorsioni sulla popolazione inerme, con stragi di interi
villaggi e la distruzione dei raccolti per affamare i paesi dove si trovavano i
resistenti legittimisti.
La guerra per la definitiva conquista
piemontese, durata circa 10 anni, costò al Regno delle Due Sicilie oltre un
milione di morti, 54 paesi rasi al suolo, 500.000 prigionieri politici, l’intera
economia distrutta e la diaspora di molte generazioni. Il Piemonte ebbe il
doppio dei morti che aveva avuti in tutte le sue sedicenti guerre
d’indipendenza.
CONCLUSIONE
L’invasione piemontese del pacifico Stato
delle Due Sicilie fu ben piú di una semplice sconfitta militare e si può
affermare che essa ha tanto inciso sulla nostra vita sociale ed economica che
ancora oggi viviamo nell’atmosfera creata da quell’evento, dal quale sono nati
tutti i nostri mali presenti. Gli effetti di una sconfitta militare, infatti,
per quanto terribili, col tempo vengono sanati se il territorio e la popolazione
non vengono annessi a quelli del vincitore. Per le Due Sicilie, invece, a causa
della particolare posizione geografica, senza soluzione di continuità
territoriale con il resto della penisola italiana, l’annessione ha prodotto
effetti cosí devastanti che la coscienza del popolo stesso ne è stata
alterata.
La storia piú che millenaria del Sud, ricca
di immense glorie e di immani tragedie, prima dell’occupazione piemontese era
stata la storia di un popolo che non aveva mai perso, nel bene e nel male, la
propria identità nazionale. È stata, dunque, questa perdita, causata dalla
forzata unione con gli altri popoli della penisola, il piú grave danno inferto
al Popolo Duosiciliano.
Il Regno delle Due Sicilie proprio nel 1860
si stava trasformando in un grande Stato moderno. C’erano tutte le premesse,
perché allora era una tra le piú progredite nazioni d’Europa, ma la delittuosa
opera delle sette che governavano la Francia e l’Inghilterra e la sete di
conquista savoiarda ne distrussero i beni e le tradizioni, compiendo un vero e
proprio genocidio umano e spirituale.
Come fu precisato da Lemkin, che definí per
primo il concetto di genocidio, esso "non significa necessariamente la
distruzione immediata di una nazione ... esso intende designare un piano
coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali
della vita dei gruppi nazionali ... Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la
disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della
lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei
gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà,
della salute, della dignità e persino delle vite degli individui ... non a causa
delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo
nazionale".
Si dice, inoltre, che vi sono due metodi per
cancellare l’identità di un popolo: il primo, quello di distruggere la sua
memoria storica; il secondo, quello di sradicarlo dalla propria terra per
mischiarlo con altre etnie. Noi Duosiciliani abbiamo subíto entrambi i soprusi,
ma fortunatamente, per la nostra storia di quasi tremila anni, il nostro
inconscio collettivo ci ha salvati in parte dalla distruzione della nostra
identità nazionale.
La principale causa del crollo delle Due
Sicilie va, senza dubbio, inquadrata nel marciume generato dalla corruzione
massonica. Esso era dappertutto: nelle articolazioni statali, nell’esercito,
nella magistratura, nell’alto clero (fatta salva gran parte dell’episcopato),
nella corte del Re, vera tana di serpenti velenosi. Infatti, come ha esattamente
analizzato Eduardo Spagnuolo: "addebitare ai piemontesi le colpe del nostro
disastro è vero solo in parte e contrasta anche con i documenti dell’epoca. La
responsabilità della perdita della nostra indipendenza e della nostra rovina è
per intero della classe dirigente duosiciliana, che si fece corrompere in ogni
senso. Non a caso le bande guerrigliere piú motivate, come quella del generale
Crocco e del sergente Romano, si muovevano per colpire, innanzitutto, i
collaborazionisti e gli ascari delle guardie nazionali".
L’opposizione armata, tuttavia, fu soltanto
un aspetto della piú vasta resistenza all’invasione piemontese, perché la
resistenza si sviluppò per anni in modo civile. Numerose furono le proteste
della magistratura e dei militari, le resistenze passive dei dipendenti pubblici
e i rifiuti della classe colta a partecipare alle cariche pubbliche. Moltissime
le manifestazioni di
malcontento della popolazione, soprattutto
nell’astensione alla partecipazione ai suffragi elettorali, e la diffusione, ad
ogni livello, della stampa legittimista clandestina contro l’occupazione
piemontese.
Mai, nella sua storia, lo Stato delle Due
Sicilie aveva subito una cosí atroce invasione. Quante ricchezze, inoltre,
furono distrutte insensatamente, che avrebbero potuto fare veramente grande
l’Italia. L’economia dell’Italia meridionale, poi, ebbe un crollo verticale non
solo perché il centro propulsore fu spostato al Nord, che ne venne privilegiato,
ma anche perché la concezione dogmatica del liberoscambismo imposto dal
Piemonte, impedí in seguito di porvi dei ripari. Il miope colonialismo dei
piemontesi, come poi si rivelò l’occupazione dei "liberatori", divenne una vera
e propria tragedia, che dura ancora ai nostri giorni e che solo il conciliante e
forte temperamento della gente del Sud ha impedito che divenisse una catastrofe
irreversibile.
Gli abitanti delle Due Sicilie furono usati,
prima come carne da cannone per le altre guerre coloniali dei Savoia, poi come
mercato per i prodotti delle industrie del Nord e come serbatoio di voti per
quei ciechi politici meridionali, spesso solo servi sciocchi delle lobby del
cosiddetto "triangolo industriale". La classe dirigente meridionale, inoltre,
allo scopo di conservare piccoli vantaggi domestici, ha fiancheggiato sempre
tutti i governi che si sono avvicendati in Italia dall’inizio dell’occupazione,
governi che pur definendosi "italiani", hanno curato solo e sempre gli interessi
di alcuni, i quali per questo mantengono eterna la "questione
meridionale".
Il Popolo delle Due Sicilie, in tutta la sua
lunghissima storia, non ha mai fatto una guerra d’aggressione contro altre
genti. Ha dovuto, invece, sempre difendersi dalle aggressioni degli altri
popoli, che lo hanno assalito con le armi o con le menzogne. Ancora oggi dal
Nord dell’Italia, per una congenita ignoranza, alimentata continuamente dalla
propaganda risorgimentale avallata dallo Stato "italiano", siamo ancora
puerilmente aggrediti con violenze verbali, con luoghi comuni sui
"meridionali".
Nella considerazione di tutti gli
avvenimenti succedutisi dopo il 1860 fino ad oggi si può senza dubbio affermare
che proprio a causa di quel violento movimento nato nel Nord, il cosiddetto
"risorgimento", si originò un processo autodistruttivo, che, passando attraverso
continue guerre, per lo piú suggestivamente etichettate, culminò nel fascismo,
che, con la sua fine, ridusse a una sciatta repubblica tutta la penisola
italiana, cosí ricca di valori prima del "risorgimento" .
I Duosiciliani veraci, tuttavia, sanno di
far parte di un paesaggio unico e inconfondibile, sanno che il loro animo è
immutabile e viscerale, proprio per questo, dovunque si troveranno, si
porteranno sempre dietro questa loro contraddizione: quella di essere diventati
forzatamente "italiani".
Antonio Pagano