La statua di Ferdinando II a
Pietrarsa
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Testo
di Giuseppe Ressa
Editing
e immagini a cura di Alfonso Grasso
Ferdinando II comunicò il 1°
maggio 1859, con una nota inviata alle cancellerie europee, la sua ennesima
“perfetta neutralità“, fedele alla sua massima “amici di tutti, nemici
con nessuno”, a questo proposito c’è però da rilevare la validità dell’altro
aforisma: “tanti amici, nessun amico”; infatti, mentre Cavour teneva i
fili di una diplomazia agguerrita ed attivissima, all’opposto
“L’atteggiamento di Ferdinando lo isolava sempre più: Francia e Inghilterra
gli erano ostili, il Piemonte non gli era certo amico, l’Austria si era
disgustata per la politica velleitaria di lui che si tirava indietro se c’era da
assumere impegni per la paura delle posizioni nette, quando invece sarebbe stato
opportuno prenderle. L’indipendenza, la neutralità sostenute da Ferdinando
finivano infatti col coincidere con un atteggiamento passivo, rinunciatario, che
poteva lasciarlo in balia dei nemici se fosse stato assalito“.[1]
Le
ragioni di questa politica estera isolazionista erano in gran parte causate
dalle continue intromissioni diplomatiche, e non, di Francia e Inghilterra nelle
questioni interne del regno, che abbiamo già precedentemente descritto; ma
soprattutto dal fatto che Ferdinando II si sentiva illusoriamente al sicuro
perché il suo regno “era protetto per tre quarti dall’acqua salata e per un
quarto dall’acqua santa” [lo Stato della Chiesa, considerato ingenuamente un
antemurale inviolabile], di lui, Metternich ebbe a scrivere:“ egli non sopporta
intrusioni, è convinto che il suo regno, per posizione geografica, non ha
bisogno dell’Europa” [2]; erano rimaste amiche del
regno delle Due Sicilie solo la Spagna e la Russia, l’una militarmente
insignificante, l’altra lontanissima geograficamente.
Questo
isolazionismo politico con la conseguente scialba ed incolore politica estera
del regno delle Due Sicilie e’ stata, dalla maggioranza degli storici, molto
criticata e giudicata come causa non secondaria della caduta del regno nel
momento dell’invasione piemontese, qualcuno, al contrario, fa osservare che
questo atteggiamento isolazionista di Ferdinando II era l’unica dignitosa
alternativa, per un piccolo stato come le Due Sicilie, rispetto a una politica
servile e di subordinazione alle grandi potenze; i patti internazionali
riconoscevano l’integrità del suo regno che egli però voleva rendere intangibile
con delle forze armate all’altezza, per questo riorganizzò completamente
l’esercito e dotò il Sud della terza marina da guerra del mondo. La sua opera
aveva reso il suo regno veramente indipendente, forte finanziariamente ed
economicamente, aveva stretto trattati commerciali con molti stati e la sua
flotta mercantile era la quarta del mondo, c’erano quindi tutti i presupposti
per essere padroni a casa propria; alcuni studiosi pensano che proprio per
questi motivi se il Re fosse vissuto più di soli 49 anni, nulla avrebbero potuto
ottenere le trame di Cavour e dei suoi alleati: le Due Sicilie sarebbero rimaste
indipendenti e avrebbero probabilmente “contrattato” l’adesione ad un Italia
federale, come era già stato accettato nel 1848, evitando gli enormi danni di
una annessione ottenuta con una conquista militare.
Ma la
ruota della storia aveva deciso diversamente perchè il 22 maggio del
1859, dopo trent’anni di regno, moriva Ferdinando II, “i miei nemici
balleranno, com’ ‘e sùrece quanne ‘a gatt’ è morta”[3]. Leggendo De Cesare
[4] si capisce, pur calandosi
nella realtà delle conoscenze del tempo, come tardiva sia stata la decisione di
incidere una raccolta di pus in zona femorale in un paziente che n’aveva tutti i
sintomi e segni. Il diabete mellito si conosceva da secoli e Ferdinando ne
soffriva senza dubbio, in più si sapeva benissimo che questo tipo di malattia
predispone alle infezioni della pelle e del sottocutaneo. Un certo dottor Nicola
Longo, a Bari (dove il re si era recato per accogliere la sposa del primogenito
Francesco, Maria Sofia, sorella della regina d’Austria Sissi), voleva fare
un’incisione e disse al sovrano che la sua sventura era di non essere un
paziente qualunque ma il Re, se non lo fosse stato sarebbe già stato operato e
molto probabilmente guarito. Malgrado Ferdinando gli dicesse "Don Niccola, mo
me trovo sotto, facite chello che vulite" la camarilla di Corte decise di
trasportarlo via mare a Napoli e poi Caserta, lì giunto si perse altro tempo
prezioso e quando ci si decise a procedere chirurgicamente, la raccolta di pus
era diventata molto grande ma, quel che è peggio, c'era stata una disseminazione
per via sanguigna (setticemia) con conseguente formazione di nuovi ascessi sulla
pelle e negli organi interni.
Giuseppe Ressa
Note
[1] Giuseppe Coniglio, “ I Borboni di Napoli ”,
Corbaccio, 1999
[2] Giuseppe Campolieti, Il re bomba, Mondadori,
2001
[3] esclamazione del re nella lunga agonia, riportata da
Campolieti, op. cit.
[4] Raffaele De Cesare, La fine di un regno , vol I,
Newton Compton , 1975, pagg. 404 e segg.
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