mercoledì 14 marzo 2012

UN SECOLO DI DOPOGUERRA DI SECESSIONE AMERICANA


La guerra fra americani era finita e se ne potevano fare i bilanci. Quello in vite umane era spaventoso: 365 mila soldati dell’Unione e 316 mila della Confederazione erano caduti sul campo o morti per le ferite riportate in battaglia. Altri 350 mila o 400 mila erano rimasti vittime delle malattie e degli stenti; i mutilati e gli invalidi non erano meno di 485 mila. Sono morti più americani nella cosiddetta “guerra civile” che in tutte le altre guerre Usa sommate. Cento volte il costo umano del Vietnam. Una carneficina dovuta anche ai progressi ineguali della tecnologia. Le armi da fuoco si erano evolute più in fretta delle tattiche: i fucili di precisione aprivano vuoti enormi, da cento metri di distanza, fra soldati che marciavano a ranghi serrati come nel Settecento. E per i feriti c’era poco scampo. I chirurghi nulla potevano per chi era colpito al torace o all’addome. Tre operazioni su quattro erano amputazioni, che di solito portavano alla morte per infezione. Erano rimasti più cadaveri sul solo campo di battaglia di Antietam che nella Rivoluzione e nelle guerre contro l’Inghilterra fra il 1796 e il 1812.
La parte maggiore di questo prezzo spaventoso l’aveva pagata il Sud. Erano andati a combattere l’ottanta per cento degli uomini in età di servizio militare e, su cento che avevano indossato la divisa grigia, 36 erano rimasti sul campo e altri 13 erano tornati a casa invalidi. Cifre che illustrano il coraggio e la devozione alla causa con cui i confederati si erano battuti e rispondono a una domanda importante: che futuro avrebbe avuto la Confederazione se avesse vinto, cioè se avesse difeso con successo la propria indipendenza. Le guerre creano le nazioni. Una guerra combattuta così le cementa, con le memorie e con i miti. Un Sud vittorioso sarebbe durato.
Ma era stato sconfitto, e le guerre non creano solo le nazioni: a volte le distruggono. Una guerra totale distrugge totalmente. Questa aveva cancellato un’intera generazione. Un analista annotò, a fine secolo, che nei decenni successivi alla sconfitta le orchestre delle sale da ballo suonavano solo dei “lenti”: tenevano conto del numero enorme di mutilati e di invalidi. Solo l’avvento di una nuova generazione riportò i ritmi svelti.
Era una metafora per l’intero Sud, paralizzato in un vuoto di macerie, desolazione e fame. I tre quarti del suo patrimonio si erano dissolti, la sua agricoltura era in dissesto, le sue città in rovina. Gli investimenti erano crollati, fra il 1860 e il 1866, del 99 per cento: da quattro miliardi e mezzo a 45 milioni. Metà delle ferrovie erano distrutte. Il crollo della moneta e dei titoli della Confederazione polverizzò i nove decimi della liquidità. Gli occupanti imposero una tassa immobiliare che pochissimi erano in grado di pagare e che servì da scusa per confiscare e vendere all’asta la maggior parte delle piantagioni. La produzione del cotone si ridusse a un quarto della cifra prebellica. Era la sola, vera ricchezza, fu soffiata via col vento e l’opulento Sud si trasformò in una zona depressa, nella Bella Addormentata dell’America, in una palude di stagnante povertà e arretratezza.
Per riprendersi gli ci è voluto più di un secolo. Per cent’anni dopo la sconfitta il Sud ha esportato uomini (di pelle bianca e nera) ed è stato controllato dai capitali del Nord. Il Sud aveva ostacolato lo sviluppo dell’industria del Nord scavalcandola e rifornendosi in Europa (questo era stato uno dei motivi della guerra) e ora veniva sacrificato agli interessi del protezionismo. Non ha partecipato alla conquista dell’Ovest, non ha avuto parte nel travaglio del melting pot, dell’immigrazione di milioni di europei verso la mecca al di là dell’Atlantico. Per loro il Sud non era America, perché l’America era ricchezza, metropoli, opifici, posti di lavoro, emancipazione, libertà; e fino a cent’anni dopo la conclusione della guerra civile il Sud non aveva ricchezza, era rurale, non possedeva industrie, non aveva “jobs” da offrire ed era incatenato dai rancori razziali e dalle barriere di casta con cui i bianchi immiseriti difendevano il proprio orgoglio opprimendo gli ex schiavi ancora più poveri di loro.
Il Ku Klux Klan fu fondato negli anni torbidi e magri dell’immediato dopoguerra e dell’occupazione militare. Nacque come la bravata di quattro ragazzi di Pulaski, nel Tennessee, ma dilagò nella ex Confederazione vinta e devastata. Lincoln e i suoi successori avevano tolto i ceppi agli schiavi e non gli avevano dato un lavoro ma il diritto di voto, privandone al contempo quasi la metà dei bianchi, perché avevano combattuto nelle armate del Sud. Per questi ultimi l’unico modo per vincere e riprendersi il potere locale era tener lontani dalle urne i novizi di colore terrorizzandoli con i cappucci, le croci incendiate, le fustigazioni, gli assassini.
Non era il Sud che piaceva a Robert Lee. Rispettatissimo, il leggendario condottiero si teneva lontano da ogni attività politica. Diventò rettore di una università in Virginia, si spense nel 1870. Ulysses Grant, suo rivale sui campi di battaglia, arrivò alla Casa Bianca, a reggere un’Amministrazione sfregiata dagli scandali. Quando se ne andò, il Nord era stanco. L’opera di distruzione chiamata Ricostruzione finì nel 1877 con il ritiro delle truppe e la parziale restaurazione dei privilegi. Jefferson Davis, che diversamente da Lee dopo la sconfitta aveva conosciuto persecuzione e carcere, tornò a Mongomery nel 1885, un quarto di secolo dopo la nascita della Confederazione. Lo salutarono le note di “Dixie” e il rombo di cento colpi di cannone. Vecchio e debole, fece un discorso breve: ricordò che “allora i nostri cuori erano giovani”.
La “riconciliazione” era nell’aria. Fu celebrata formalmente nel 1913, con una cerimonia sul campo di battaglia di Gettysburg, presenti oltre cinquantamila veterani. Officiava il primo presidente democratico del XX secolo, Woodrow Wilson. Lo stesso che tre anni dopo ospitò alla Casa Bianca la presentazione di “Birth of Nation”, il famoso film di D.W.Griffith che glorifica il Ku Klux Klan. Nasceva il mito postumo del Sud, ma il Sud continuava a vegetare nella miseria. Il suo reddito pro capite era meno di un terzo della media nazionale e un quotidiano di Atlanta poteva descrivere un funerale in questi termini: “gli scavarono la fossa in una foresta di abeti vicino a una miniera di ferro, eppure la bara di abete era stata importata dal Michigan ed i chiodi e la pala del becchino da Pittsburg, in Pennsylvania. Fu seppellito in un abito fatto a New York, mutande di Chicago, una camicia di Cincinnati e scarpe di Boston. Di suo il Sud aveva fornito il cadavere e la fossa”.
Per voltare pagina, per cominciare a risalire la corrente il Sud ha dovuto aspettare il dopoguerra del secondo conflitto mondiale. Cominciò a spostarsi l’industria, attratta dall’accresciuta mobilità dei trasporti, dalla maggiore disponibilità di spazio e di mano d’opera, dai salari più bassi: la “prova generale”, all’interno degli Usa, della globalizzazione. Soprattutto delle tecnologie più nuove. Gli uomini che camminarono sulla Luna erano partiti da Cape Canaveral, in Florida, su astronavi concepite a Hunstville, in Alabama, guidate del centro spaziale di Houston, nel Texas. I progressi costanti e accelerati, anche se contrastati, dei diritti civili per la gente di colore contribuirono a invertire il flusso migratorio anche dei discendenti degli schiavi.
A partire dagli anni Ottanta essi cominciarono, come i bianchi, a lasciare le metropoli del nord che avevano dato rifugio e speranza ai loro padri per tornare alle verdi colline del Mississippi e alle terre rosse della Georgia. L’immigrazione dall’America Latina e dall’Asia ha reso multicolore come le altre regioni una società che era stata per secoli in bianco e nero.
Normalizzazione del Sud? C’è chi preferisce parlare di meridionalizzazione dell’America, riferendosi al potere politico a Washington, al fatto che gli ultimi tre presidenti sono venuti dal Texas o dall’Arkansas. Nel suo romanzo “The last gentleman”, Walker Percy narra il ritorno del protagonista alla terra che aveva abbandonato per lunghi anni: “Il Sud che ritrovò era tanto diverso dal Sud che aveva lasciato: era ottimista, vittorioso, cristiano, ricco, patriottico e repubblicano”.
Una rivincita sulla Storia? Non necessariamente. La guerra delle parole sulla guerra di secessione continua e il Sud non la sta vincendo. Anzi, si è arreso alla “correttezza politica” in cambio del potere politico. Aveva ottenuto, e ora sta perdendo, il riconoscimento che la schiavitù non fu il solo e neppure il primo cemento della Confederazione. La controversia che fu decisiva, quella fra i diritti costituzionali degli Stati e il potere dell’Unione, torna ad essere emarginata da una reazione antirevisionista che impone di giudicare il passato secondo i metri, le esigenze, il fine, del momento. Lentamente, inesorabilmente, i bianchi del Sud vengono persuasi che il loro passato non può essere ricordato con rispetto o rivendicato perché include anche la ritardata abolizione dell’istituzione della schiavitù (che in tanti altri paesi del mondo fu messa fuori legge più o meno contemporaneamente, poco prima o poco dopo, con mezzi legali e pacifici). Visto che sul marmo della memoria c’è quella macchia, non si possono più erigere monumenti.
La storia la scrivono sempre i vincitori, ai vinti rimane talvolta l’eredità della leggenda. Le leggende sono fatte di immagini e quelle della sfortunata epopea del Sud, che sono durate tanto, sbiadiscono ora in fretta. I simboli confederati spariscono dalle bandiere, dai sigilli, dagli inni degli Stati. Ci sono ancora cento statue di Robert E. Lee, tutte a cavallo, ma sembrano sbiadire sui loro piedestalli, assomigliano sempre di più alle leggende sconfessate, alle immagini delle donne (europee) del Sud “vestite come angeli” sotto le magnolie dei loro giardini, a sventolare fazzoletti candidi agli uomini in partenza per la battaglia, illuminati, ma non scaldati abbastanza, dal bianco sole dei vinti. La realtà è un Sud moderno, prospero, omogeneizzato, che finalmente torna a stare e a sentirsi dalla parte giusta.
Dalla parte giusta, e da quella vincente. Le mappe elettorali degli ultimi trent’anni mostrano gli Stati della Confederazione compatti come allora, ma non isolati bensì al centro politico dell’America. Però ci sono pervenuti dopo aver assorbito i valori dei vincitori e soprattutto la loro idea dell’America: cosmopolita, democratica, imperiale. Nella prima guerra del XX secolo il Sud aveva incarnato il passato contro l’avvenire. In termini di storia antica, la Repubblica contro l’Impero, l’arcaismo, la nobiltà (e la grettezza) rurali contro l’oro, il ferro dell’Impero, la sua caducità di radici, la sua vigorosa volgarità. Adesso che l’America si sente come la reincarnazione di Roma, il Sud sta dalla parte di Cesare, di Augusto e di Lincoln.

(Tratto dal libro “Dalla parte di Lee” – LFEditore)

di ALBERTO PASOLINI ZANELLI