giovedì 1 marzo 2012

Gaeta, Messina e Civitella (per tacer di Fenestrelle)

Civitella del Tronto


Pagine di storia eroica e drammatica, onore delle nostre genti, obliate dagli storici faziosi perché siglate dagli sconfitti.
di Luigi Vinciguerra

Ingannate dagli alleati inglesi in Sicilia, piegate dal tradimento dei generali dell’esercito e della marina, aggredite alle spalle dai piemontesi in Terra di Lavoro, le armate napoletane ebbero modo di dimostrare il proprio effettivo valore solo quando ormai la guerra era già persa.
Alla nostra mentalità può sembrare suicida la tattica di ritirarsi dalle principali città (Napoli e Palermo in testa) per attestarsi in fortezze di confine lontane dai punti nevralgici del Regno. Un valido storico come Roberto Martucci nel pregevole saggio L’invenzione dell’Italia unita (Sansoni, Milano 1999), ha però messo in risalto studi di storia militare nei quali si sostiene che in quel 1860 «l’insieme di fortezze in mano borbonica – Gaeta, Messina e Civitella del Tronto – presentava caratteristiche analoghe al Quadrilatero austriaco, utilizzato nel 1848 dal maresciallo Radetzky come perno della brillante controffensiva che gli consentì di ribaltare le sorti della campagna di Lombardia». Tanto più che alle piazzeforti andavano aggiunti i presidi borbonici della capitale: l’Arsenale, il Maschio Angioino, i castelli di Sant’Elmo, dell’Ovo, del Carmine.

L’onore di Francesco II a Gaeta
Francesco II, che in quel momento aveva 25 anni, e sua moglie Maria Sofia di Wittelsbach (sorella della famosa Imperatrice Sissi, Elisabetta d’Austria) che ne aveva 19, si convinsero che quella resistenza potesse avere un senso. E, lasciata Napoli il 6 settembre 1860, si diressero alla volta di Gaeta, affidata all’anziano generale Giosuè Ritucci, che pure aveva consigliato al Re di sciogliere le truppe (per iniziare la guerriglia) e ritirarsi a Roma: in quell’ultima disperata battaglia riuscirono a dare prova di grande coraggio, determinazione e dignità.
In effetti, con le nuove invenzioni dei cannoni rigati e del loro uso sulle navi, il sistema delle fortezze sarebbe ben presto risultato obsoleto, ma allora parve una soluzione accettabile e Francesco II, una volta persa la Sicilia, rendendosi conto del tradimento di molti suoi ufficiali, anziché cercare di bloccare l’avanzata garibaldina prima di Napoli, magari all’altezza del salernitano, preferì lasciare la capitale, far venire i traditori allo scoperto e, quindi, affrontare Garibaldi con uomini fidati, a nord di Napoli.
Gli scontri sul Volturno e sul Garigliano contro le camice rosse ebbero un risultato favorevole, ribaltato però dalla proditoria aggressione dei piemontesi, partiti ufficialmente per fronteggiare Garibaldi, ma giunti con l’intenzione di fiancheggiarli e di sostituirsi ad essi nella conquista del Sud.
Il Re delle Due Sicilie, come accennato, avrebbe a quel punto potuto cercare rifugio a Roma, sciogliendo l’esercito e scatenando la guerriglia (cosa che fece dopo la resa di Gaeta): preferì invece asserragliarsi in una fortezza per un’ultima, disperata resistenza in attesa di improbabili rinforzi prussiani, se non francesi e austriaci.
Difesa (in un primo tempo) dalla flotta di Napoleone III sul lato mare, la fortezza sembrava imprendibile. Anzi, in essa riuscirono ad affluire alcuni reparti borbonici sbandati (si legga a tal proposito l’emozionante epopea descritta nel romanzo L’alfiere di Carlo Alianello), rinforzando la guarnigione che si rese protagonista di alcuni riusciti contrattacchi.

Arriva Cialdini
La situazione cambiò quando a comandare le operazioni d’assedio giunse, all’inizio di novembre, il generale Cialdini, che si sarebbe poi distinto per la sua ferocia nella repressione del brigantaggio. Egli comprese l’importanza di allontanare le navi straniere e, dopo una serie di contatti tra Cavour e Napoleone III, raggiunse il suo scopo.
Era intanto giunto il gennaio 1861 e per gli assediati incominciò un vero e proprio incubo, fatto di continui bersagliamenti da terra e da mare. Grazie ai cannoni rigati in uso da parte dei piemontesi (i borbonici ne avevano solo quattro su un totale di 300 pezzi d’artiglieria) il bombardamento fu devastante: il 4 febbraio 1861 venne centrata la polveriera Cappelletti (vicina alla polveriera Transilvania) e il giorno dopo esplose il magazzino delle munizioni della batteria Sant’Antonio, uccidendo 316 artiglieri napoletani e 100 civili e creando una breccia nei bastioni di protezione e la perdita di oltre 7 tonnellate di polvere da sparo e circa 42.000 cartucce da carabina e da fucile.
A quel punto fu concessa una breve tregua per consentire di seppellire i morti, soccorrere i feriti ed evacuare 200 soldati borbonici feriti e malati: infatti un’epidemia di tifo stava decimando i difensori (tra le vittime del morbo si era già contato, il 12 dicembre, l’aiutante del Re, il duca Emanuele Caracciolo di San Vito).

L’eroismo di Maria Sofia
A rincuorare i soldati, sprezzando il pericolo dei bombardamenti, c’era la stessa Regina Maria Sofia, che per il proprio coraggio si guadagnò il titolo di “aquilotta bavara” (come la chiama Gabriele d’Annunzio nella poesia La notte di Caprera nella raccolta Elettra).
Così il Vate descrive l’intrepida sovrana ne Le vergini delle rocce: «Un immenso grido di gioia e d’amore accoglieva l’apparizione della Regina su le spianate ove grandinava il ferro. Ella s’avanzava con un passo audace, nella grazia libera de’ suoi diciannove anni, chiusa in un busto fulgido come un corsaletto, sorridendo sotto le piume del suo feltro. Senza battere le ciglia ai sibili delle palle, ella fissava su i soldati il suo sguardo inebriante come l’ondeggiamento delle bandiere; e sotto quello sguardo l’orgoglio pareva allargar le ferite, mentre gli incolumi si rammaricavano di non aver la gloria d’una macchia rossa. Di tratto in tratto, uomini con gli occhi ardenti nel viso annerito, con le vesti ridotte in tritume come dalle mascelle d’un ruminante, coperti di sangue e di polvere, si slanciavano dai cannoni verso di lei chiamandola per nome e le baciavano il lembo della gonna…».

La resa
Comunque, le forze erano ormai allo stremo e Francesco II, per risparmiare ulteriore sangue, dette mandato al Governatore della piazzaforte Giosuè Ritucci di negoziare la resa. Era l’11 febbraio 1861 e un drappello di alti ufficiali si recò a Mola di Gaeta (l’odierna Formia) via mare per trattare con il nemico, restandovi per due giorni durante i quali il generale Enrico Cialdini, in spregio a qualsiasi legge d’onore, fece continuare il bombardamento di Gaeta. Si giustificava dicendo che, pur felice di iniziare le trattative di resa, non poteva accogliere una richiesta di tregua essendo sua abitudine continuare le ostilità finché non fosse stata firmata la capitolazione.
La sera del 13 dicembre iniziò il cessate il fuoco: la guerra era ufficialmente terminata e il Regno delle Due Sicilie cancellato.

Messina e Civitella del Tronto. Poi, Fenestrelle…
Mentre Gaeta diveniva una prigione (nel 1870 avrebbe anche ospitato il “padre della patria” Giuseppe Mazzini, sgradito al governo sabaudo), altre due fortezze borboniche continuarono le ostilità: Messina, che si sarebbe arresa solo il 14 marzo, a un mese dalla caduta di Gaeta, e Civitella del Tronto, che avrebbe ammainato bandiera bioncogigliata (ma senza consegnarla) il 20 marzo.
Per i combattenti si aprirono varie strade: darsi al “brigantaggio” e cercare restaurare con la guerriglia quel regno che non erano stati capaci di difendere con la guerra regolare; passare al nemico oppure affrontare la carcerazione, magari nel forte di Fenestrelle, praticamente un gulag, per le condizioni terribili in cui i prigionieri venivano tenuti.
Almeno 24.000 deportati borbonici (ma si parla anche di 40.000) vennero trattati come bestie: senza pagliericci, senza coperte, senza luce; addirittura, in una zona dove la temperatura d’inverno era quasi sempre sotto lo zero, vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare i prigionieri con il freddo. La liberazione avveniva perlopiù con la morte e, non sapendo dove seppellire il gran numero di deceduti, si procedeva a discioglierli nella calce viva in una grande vasca: una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei “misfatti” compiuti.
Non a caso si è parlato di “lager dei Savoia”: del resto, una scritta accoglieva i prigionieri ammonendo «Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce» (in tedesco suonerebbe Arbeit macht frei). Ma in questo caso non vi fu alcun Lord Gladstone a parlare di “negazione di Dio in terra”.


(RC n. 61 - Gennaio 2011)