giovedì 1 marzo 2012

Gli eroi dimenticati della Brigata Estense



Un caso eccezionale e commovente di soldati che seppero difendere il proprio onore e la propria fedeltà al legittimo sovrano e alla propria patria.
di Elena Bianchini

«Una truppa la quale segue il proprio Sovrano non il giorno del trionfo ma in quello della sventura, che resiste alle seduzioni dell’usurpatore, non protesta forse con tutta l’energia di una fede antica, contro alla vituperevole cedevolezza dei tempi nuovi?». Teodoro Bayard de Volo interpretava la vicenda della Brigata estense come una protesta, «un plebiscito solenne, assai più splendido e spontaneo di quanti ebbero in seguito a porsi in scena con menzognero prestigio». E anche i piemontesi dovettero leggere lo stesso messaggio, avvertirne tutto il pericolo, se a più riprese s’adoperarono per far rientrare i 3.000 soldati in esilio con il Duca.
«Non agli sgherri del Duca di Modena, a coloro che hanno venduto l’anima loro ai nemici dell’Italia io mi dirigo, ma agl’italiani che per inganno o per lusinghe, si trovano mischiati a coloro. A noi dunque, giovani ingannati, a noi venite e vi abbracceremo fratelli»: Garibaldi adulava i soldati estensi dopo che Farini aveva fallito con le minacce.
Ma essi, ben lungi dal sentirsi “ingannati”, parevano assai decisi. Già quando l’11 giugno 1859 lasciavano Modena, sapevano che le difficoltà sarebbero state enormi. E in effetti lo furono, ma ciò non compromise la loro scelta. Il numero dei soldati addirittura aumentava: molti «onde togliersi dalle persecuzioni ed esimersi dal servire sotto un governo usurpatore, vennero ad arruolarsi nelle nostre file», si legge nel Giornale della Reale Brigata Estense, diario redatto da Emiliano Manni e pubblicato anonimo a Venezia nel 1866.
«Si ha bella dimostrazione nell’accorrere che fanno tanti giovani per avere l’onore e la ventura di servire sotto la Bandiera del Duca» scriveva la Civiltà Cattolica, che col De Volo parlava di «una permanente protesta contro l’usurpazione piemontese».
I modenesi ancor nel 1862 erano certi che Francesco V sarebbe tornato sul trono «niuno avendo mai creduto né potendo credere alla durata di quella strana ed eterogenea riunione di varii stati per indole, interessi, abitudini e tradizioni cotanto disparati che dicesi Regno d’Italia». Ma in quello stesso anno Vittorio Emanuele emanò un decreto, definito dal Giornale una «spogliazione per chi voleva perseverare nella via dell’onore», che alla decadenza dai diritti aggiungeva la confisca delle proprietà. Francesco V, dinanzi al rischio che i suoi fedeli perdessero tutto, autorizzò il congedo, ma in pochissimi se ne andarono.
L’Austria intendeva aiutare Francesco V a riconquistare il trono, poi gli eventi precipitarono: le forze liberali si fecero preponderanti nel parlamento, che decretò lo scioglimento dell’esercito estense.

“L’onore è salvo!”
A Cartigliano Veneto, il 24 settembre 1863, la brigata era schierata a Palazzo Cappello. Ciascun soldato ricevette la medaglia Fidelitate et constantiae in adversis. Gli ufficiali consegnarono le bandiere a Francesco V «che solo aveva il diritto di riprenderle» e che disse di trovar sollievo al pensiero «che l’onore era salvo». «Riabbracciò quindi il generale e rientrò in palazzo, seco portando le bandiere e seco traendo l’Augusta Consorte, quell’angelo di bontà e di materna tenerezza, quell’angelo benedetto da tutti, che nella foga del suo affetto non sapeva separarsi dai suoi sudditi». «L’agitazione del cuore prevalendo quasi sul rispetto», tutti si gettarono intorno ai Duchi. Adelgonda col viso inondato di lacrime risalì in carrozza e il Duca la raggiunse: «Addio miei figli, siate ognora uomini d’onore».
«Il sacrificio era così intieramente consumato!» lamentava il Giornale: «L’esistenza della Reale Brigata Estense era purtroppo di fatto del tutto cessata. Essa soggiacque vittima del turbine rivoluzionario. La sventura fu immensamente grande, ma, come pur ci disse l’amatissimo Sovrano, l’onore era salvo».

Un vero italiano
Molti soldati estensi presero servizio nell’esercito imperiale austriaco. Interrotta la narrazione del Giornale, la loro vita emerge dalla corrispondenza del generale Saccozzi. Essi continuarono a vivere in miseria, fra mille sacrifici. Erano eroi, ma erano anche uomini, come tutti esposti all’angoscia: «Possibile che le cose andranno per noi sempre alla strapeggio? Possibile che la causa nostra che è pure la causa della giustizia e della Religione non otterrà una volta il dovuto trionfo?...» scriveva il Manni, mentre Bononcini, pur in gravi ambascie, cercava un riscatto: «Io non mi pentirò mai di una condotta che onora me e i miei compagni di fede (...) e per cui molto più ci onoreranno i posteri nella storia».
Dello scioglimento il Saccozzi «rimase per siffatta guisa rammaricato, che la salute sua, infino allora vegeta e robusta, illanguidì e rapidamente decadde». Narra il De Volo come «un morbo celato e lento si impadronì di lui e, quasiché l’afflizione provata gliene avesse aperto l’adito, ne invase la tessitura del cuore». Si spense il 4 dicembre 1865 «col coraggio del soldato e colla fede del cristiano».
La “Gazzetta Ufficiale” di Venezia annunciando che «la morte ha spento un’altra preziosa esistenza, vittima dessa pure delle rivolture d’Italia» scriveva: «Attaccamento sincero alla Cattolica religione, lealtà senza limite, affabilità senza stento, carità senza ritrosia furono le doti precipue del nobile e affettuoso cuore del Saccozzi, doti che ne formarono un uomo sotto ogni aspetto degno e veramente grande, e gli procacciarono in vita, come gli manterranno estinto, la stima e le benedizioni d’ogni onesto».
Purtroppo “la stima e le benedizioni d’ogni onesto” non sono mai arrivate. La nuova Italia, quella nata nel 1861, lo ha impedito. Le glorie d’una grande nazione, culla della civiltà, fucina di artisti e di eroi sono state sacrificate al nuovo Stato, avaro nei ricordi e prodigo nelle etichette e nelle bugie. Un’Italia troppo giovane e infinitamente più piccola si è sostituita a quella antica e vera. E in questo spazio angusto non ha trovato posto un uomo grande come Agostino Saccozzi.

Il sacrificio estremo della menzogna
La cultura manipolata che fatta l’Italia ha voluto provare a fare gli italiani soffocando il precedente e il diverso, ci ha costretti a infangare il nostro passato, a rinnegare avi e parenti. Quando nel 1923 le spoglie di Alberto Saccozzi, morto nella Grande Guerra, furono traslate a Correggio, un parente, Guido Vecchi, nell’orazione funebre disse che il caduto, col suo sacrificio, aveva «lavata l’onta di cui il Generale Saccozzi aveva macchiato il nome della famiglia», in quanto comandante della truppa ducale!
Calunnie, vergogna, oblio. Dispensati a piene mani da chi continua a definirsi o a essere definito patriota. E sui soldati della brigata è calato il sipario.
I soldati che, recandosi in esilio con il Duca, s’opposero al nuovo regime vennero severamente puniti. La perdita dei diritti, la confisca dei beni, furono i castighi inflitti dai “liberatori”. Poi venne il castigo della storia. E fu il peggiore, perché li privò di ciò a cui più avevano tenuto.
“L’onore era salvo”. Questo credevano, ma questo non è stato. La retorica di chi nonostante tutto continua a dirsi italiano, ha chiesto ai soldati della Brigata un altro sacrificio.

(RC n. 61 - Gennaio 2011)