annientare, distruggere la religione. Basterà dare un'occhiata alla corrispondenza dei primi congiurati di questo secolo per vedere se si siano comportati come poi i Giacobini loro successori, e se Péthion, Condorcet, Robespierre, che anche loro parlavano tanto di tolleranza, abbiano adottato o meno le aspirazioni dei loro predecessori e le abbiano messe in pratica.
Spoliazioni, violenze portate all'eccesso, morte, fu questa la tolleranza dei rivoluzionari, e nessuno di questi mezzi fu estraneo agli auspici dei primi congiurati, dai quali i giacobini avevano preso in
prestito quell'espressione. Quanto alle spoliazioni, ho già parlato di ciò che Voltaire fin dall'anno 1743 andava macchinando con il re di Prussia per privare dei loro possedimenti i principi ecclesiastici e gli
ordini religiosi; si è veduto che nel 1764 aveva esteso i suoi progetti alle decime inviando al duca di Praslin un memoriale per abolirle allo scopo di togliere al clero la sua sussistenza. (Lett. di Volt. al conte d'Argental anno 1764.) Nel 1770 egli non aveva perduto di vista l'idea di queste spoliazioni; si nota assai chiaramente quanto gli stessero a cuore quando scriveva a Federico: “Piacesse a Dio che Ganganelli avesse qualche buon possedimento vicino a voi e che voi non foste così lontano da Loreto. È bello sapersi burlare di codesti arlecchini facitori di bolle: amo renderli ridicoli, ma preferirei spogliarli.” (Lett. 8 giugno 1770.) Queste lettere insegnano allo storico che il capo dei congiurati prefigurava i decreti di esproprio dei Giacobini e le scorrerie che le armate rivoluzionarie avrebbero fatto sino a Loreto.
Federico però, assumendo un tono da re, parve per un istante contrario a queste spoliazioni, sembrò dimenticarsi che era stato lui il primo a sollecitarle e rispose: “Se Loreto confinasse con la mia vigna,
non la toccherei. Quei tesori potrebbero sedurre i Mandrin, i Conflans, i Turpin, i Rich...a e i loro simili. Non che io rispetti i doni consacrati dall'abbrutimento, ma è meglio risparmiare ciò che il pubblico venera, non bisogna dare scandalo; ed ammesso che uno si creda più saggio degli altri, è conveniente, per compassione, per commiserazione delle loro debolezze, non contrastarli nei loro pregiudizi. Sarebbe desiderabile che i pretesi filosofi dei nostri giorni la pensassero in questo modo.” (Lett. 7 luglio 1770.) Ma ben presto il sofista prese il sopravvento sul monarca, allora Federico non ritenne più che i Mandrin fossero i soli a spogliare la Chiesa e l'anno seguente, in modo più conforme ai desideri di Voltaire, gli scrisse: “Se il nuovo ministro francese è uomo di spirito, non avrà né la debolezza né l'imbecillità di restituire Avignone al Papa.” (Lett. 29 giugno 1771.) Ritornò sui
mezzi atti a minare sordamente l'edificio e ad espropriare subito i religiosi, in attesa che si potessero espropriare i vescovi (Lett. 13 agosto 1775.)
Prima di giungere alle spoliazioni, d'Alembert avrebbe voluto che si iniziasse a togliere al clero la considerazione di cui godeva nello stato.
Nell'inviare a Voltaire il suo temino praticamente finito per far dire a lui ciò che non osava dire lui stesso, gli scriveva: “Non bisognerebbe dimenticare, se ciò si potesse fare con delicatezza, di
aggiungere alla prima parte una piccola appendice o un interessante poscritto sul pericolo per gli stati ed i re costituito dal tollerare che i preti formino nella nazione un corpo distinto che abbia il privilegio di adunarsi regolarmente.” (Lett. 96 anno 1772.) Né i re né lo stato si erano mai accorti di questo preteso pericolo insito nel lasciare che il clero formasse nella nazione un corpo distinto come gli altri due ordini, quelli della nobiltà e del terzo stato; ma in tal modo i capi congiurati anticipavano nei loro consigli gli auspici ed i decreti di esproprio degli adepti Giacobini loro successori.
Brano della lettera di Voltaire al re di Prussia del 3 marzo 1767 (Oeuvres completes de Voltaire, tomo 65, Kehl, 1784).
Anche i decreti di esilio, di violenza, di sangue e di morte non erano estranei agli auspici ed ai consigli
dei primi capi. Quantunque si trovino spesso negli scritti di Voltaire le espressioni di tolleranza, di umanità, di ragione, si commetterebbe un grande errore se si credesse che il suo desiderio di distruggere la religione cristiana non si estendesse anche all'impiego di altre armi per riuscirvi; scrive infatti al conte d'Argental: “Se avessi centomila uomini, so ben io quel che farei.” (16 feb. 1761.) La cosa si nota assai meglio quando scrive a Federico:
“Ercole andava a combattere i malandrini e Bellerofonte le chimere: non mi spiacerebbe affatto di vedere degli Ercoli e dei Bellerofonti liberare la terra dalle chimere cattoliche.” (3 marzo 1767.) Non era certamente la tolleranza che gli dettava tali auspici, e si è portati a concludere che gli mancò solo l'occasione per applaudire al massacro dei preti fatto dagli Ercoli e dai Bellerofonti settembrizzatori. Quando Voltaire desidera veder precipitare tutti i Gesuiti nel fondo del mare con un giansenista al collo, quando per vendicare Helvétius ed il filosofismo non si vergogna di chiedere: “Non sarà che l'onesta e moderata proposizione di strangolare l'ultimo dei Gesuiti con le budella dell'ultimo dei giansenisti potrebbe condurre ad una qualche conciliazione?”, quando il capo dei sofisti esprime dei desideri di questo tipo, si sarebbe almeno tentati di sospettare che la sua tolleranza e la sua umanità non si sarebbero molto ribellate al vedere i preti cattolici ammonticchiati in quei navigli che Carrier faceva forare perché fossero inghiottiti dall'oceano tutti insieme.
Martiri Gesuiti in Francia.
Federico sembrava più incline alla tolleranza quando rispondeva a Voltaire: “Non è riservato alle armi di distruggere l'infame (cioè la religione cristiana); essa perirà per mano della verità.”(24 marzo 1767.) Tuttavia Federico prevedeva che l'ultimo colpo alla religione sarebbe stato sferrato da una forza maggiore, e non pareva ostile a questa forza; si nota pure che, se l'occasione fosse stata favorevole, egli avrebbe saputo metterla in atto quando scrive a Voltaire: “La gloria di questa rivoluzione che
si fa negli animi è dovuta senza dubbio a Bayle vostro precursore ed a voi. Ma diciamo la verità: essa non è completa; i devoti hanno il loro partito, e non la si finirà mai se non con una forza maggiore; la
sentenza che distruggerà l'infame deve partire dal governo. Dei ministri illuminati potranno contribuirvi molto, ma bisogna che intervenga la volontà del sovrano. Ciò si farà senza dubbio col tempo, ma né voi né io vedremo questo momento tanto desiderato.” (Lett. 97 anno 1775.)
Non ci si può sbagliare, questo momento tanto desiderato dal re sofista era quello in cui l'empietà, assisa sul trono, avrebbe infine gettato la maschera di tolleranza che necessariamente ancora le copriva il volto. Se il momento tanto desiderato fosse arrivato, Federico, come Giuliano l'apostata avrebbe adoperato la forza maggiore, avrebbe pronunciato la sentenza che avrebbe dovuto distruggere la religione di Gesù Cristo; ai sofismi degli adepti si sarebbe aggiunta la volontà del sovrano, egli avrebbe parlato da padrone ed allora forse, trattati come ribelli alle leggi del sovrano, sotto Federico come sotto Giuliano o sotto Domiziano sarebbe stato necessario scegliere tra l'apostasia, la morte o l'esilio. Certo è ben difficile far concordare questo parlare di forza maggiore e di sentenza di distruzione da parte del governo col seguente giudizio dato da d'Alembert sul re sofista: “Credo che non abbia più scampo, ed è un gran peccato. La filosofia non troverà facilmente un principe come lui,
tollerante per indifferenza, che poi è la vera maniera di essere tollerante, e nemico della superstizione e del fanatismo.” (Lett. 195 an. 1762.)
Ma perfino per d'Alembert questa maniera di essere tollerante per indifferenza non escludeva affatto le persecuzioni occulte, e non era nemmeno incompatibile col desiderio rabbioso e frenetico, da lui
espresso nelle sue lettere a Voltaire, di veder perire una nazione intera proprio perché ha dato prova del suo attaccamento al cristianesimo; un uomo tollerante per indifferenza non avrebbe scritte queste parole: “A proposito di questo re di Prussia, eccolo che pur galleggia, e io penso ben come voi, in qualità di francese e di essere pensante, che è un gran bene per la Francia e per la filosofia. Codesti austriaci sono dei cappuccini insolenti che ci odiano e ci disprezzano e che vorrei veder annientati insieme alla superstizione che proteggono.” (12 gennaio 1763.)
Non è inutile osservare che codesti austriaci che d'Alembert vorrebbe veder annientati erano proprio gli alleati della Francia, che allora era in guerra col re di Prussia, ed è alle vittorie di quest'ultimo
che egli plaudiva. Questa duplice circostanza sembrerebbe annunziare quanto nel cuore dei congiurati la filosofia prevalesse sull'amor della patria, e sembrerebbe affermare che la tolleranza non avrebbe
impedito loro di tradire sia il loro re sia lo stato, se un tale tradimento avesse procurato loro un nuovo mezzo per distruggere l'infame.
Tuttavia i congiurati si facevano sfuggire tutti questi desideri disumani, quantunque non fossero il vero soggetto della loro corrispondenza e delle loro deliberazioni; costoro preparavano le vie ai sediziosi ed alle anime feroci che avrebbero dovuto eseguire ciò che i sofisti non potevano ancora se non solamente meditare e progettare.
Il momento delle sedizioni e delle atrocità non era ancora giunto. Pur avendo i medesimi desideri, a causa delle circostanze i ruoli non potevano essere gli stessi. Mi resta da svelare il ruolo dei primi capi, e ciò che ciascuno di loro ha fatto, nel proprio zelo per la rivoluzione anticristiana, per preparare il regno dei nuovi adepti.