martedì 13 marzo 2012

MOSCA: LA TERZA ROMA. L’IMPERO RUSSO E L’EREDITA’ DI COSTANTINOPOLI

File:Red Square in Moscow (1801) by Fedor Alekseev.jpg
La Piazza Rossa(Mosca) prima del grande incendio del 1812, Fyodor Alekseyev, 1802

Il lettore occidentale conosce pochi personaggi della storia russa – di solito raramente frequentata dai programmi di storia della scuola superiore. Scarse le eccezioni: Pietro il Grande, Caterina II e, ovviamente, il più celebre di tutti gli Zar – Ivan IV Vasilievich, detto “Grozny” (malamente tradotto come il Terribile).
Dmitry Donskoy
Ancora una volta, riprendiamo le fila della narrazione. Dopo quasi duecento anni di sottomissione ai mongoli, l’equilibrio fra la Russia, agglomeratasi attorno al principato moscovita, e la tartaria si è invertito: a partire dalle impreviste e clamorose vittorie di Dmitry Donskoy, i tartari hanno perso la propria aura di invincibilità e la crescente forza economica dei moscoviti rende chiaro che sarà solo una questione di tempo prima che la Russia si liberi completamente dalla dipendenza mongolica. Ciò accade nel 1480 quando un’armata Tartara si rivela così timorosa e fragile da non provare nemmeno a combattere i russi sul fiume Ugra. Ripartiamo da qui. Anzi: da qualche anno prima.


Una costante della storia russa è che molti eventi destinati ad influenzarla in modo drammatico, sia in senso positivo che negativo, si svolgano in realtà ben oltre i suoi confini. E, per la seconda volta, a decretare una definitiva svolta nelle fortune russe si verifica sul Bosforo – a Costantinopoli che, all’alba del 30. Maggio 1453, al termine dell’ennesimo e drammatico assedio turco, si sveglia città musulmana, nonché capitale del nascente impero ottomano. Nel giro di nemmeno cent’anni – Osman, il primo sultano della grande dinastia turca ascende al trono nel 1299 – gli ottomani sono diventati il fattore determinante di tutto il Mediterraneo orientale e, più in generale, lo stato guida di tutto il mondo musulmano. Al termine di un lento e spossante accerchiamento politico e militare, Mehmed II riesce finalmente a far sua la capitale dei Cesari e ad abbattere quella che, nella mentalità medievale, rappresentava la vera e propria “roccaforte della cristianità”. Vero è che Costantinopoli già da un pezzo non rappresentasse più un reale sbarramento alle mire espansionistiche turche nei Balcani: la fatale battaglia di Kosovo plodje era stata combattuta quasi settant’anni prima (1389), mentre Tessalonica (l’odierna Salonicco) giaceva sotto bandiera turca già dal 1387. Abbiamo poi parlato dell’ultimo vero tentativo di fermare il Gran Turco nella sua penetrazione balcanica, ovverosia la Crociata di Nicopoli del 1396. In altre parole: quando Costantino XI Paleologo cade nell’assedio di Costantinopoli, ciò che l’Impero rappresentava era morto da un bel pezzo. Tuttavia, la scomparsa dell’ultimo diretto erede dei Cesari smuove qualcosa a livello ideologico. Qualcosa di molto consistente.

Rappresentazione di Costantino XI, prodotta nel XIX secolo


Cominciamo dalla sfera religiosa. Vogliate scusarmi, cari lettori, ma sarò costretto ad un accerchiamento ancor più lungo delle armate turche attorno Visante (il nome di Costantinopoli usato nell’età dei Paleologi). Nella primitiva concezione costantiniana, l’Imperatore era ritenuto una sorta di nuovo apostolo: una delle attribuzioni dell’Impero dopo il concilio di Nicea del 325 consisteva esplicitamente nell’espansione del Cristianesimo in tutto il mondo, attività che rendeva quindi l’Imperatore il vero vicario di Cristo sulla Terra e quindi isoapostolo (ovverosia, uguale agli apostoli). Come al solito, la politica antica si esprimeva molto bene attraverso l’architettura: Costantino, battezzato morente, si fece seppellire nella Chiesa dei Santi Apostoli, in uno dei tredici sarcofagi che lì aveva fatto predisporre – uno per ciascuno degli apostoli, più uno per l’Imperatore. Torniamo a noi: nella primigenia organizzazione della Chiesa, immediatamente sotto all’Imperatore abbiamo quattro patriarchi. Ogni patriarca è autocefalo, ovverosia dipende solo dai dettami conciliari e da nessun altro, sia in materia di culto che di dottrina, ed è responsabile per le diocesi (l’amministrazione territoriale imperiale al tempo vigente, e sopravvissuta nella terminologia cristiana) cristianizzate dalla sede di cui è responsabile. Come detto, sebbene la cosa sia un po’ discussa, il Concilio di Nicea identifica 4 patriarcati: Roma, Antiochia, Gerusalemme ed Alessandria d’Egitto. Fra questi, il più influente dal punto di vista religioso è rappresentato da quello di Alessandria, cui afferiscono alcune delle personalità più spiccate del IV secolo come Ario, Nestorio ed il loro nemico giurato Atanasio (il vero “padre” delle basi della fede cristiana quale oggi la conosciamo nelle sue varie declinazioni), il più ricco è quello di Antiochia (la Siria era la più ricca delle province Romane, e per questo combatterono con la Persia per qualcosa come cinquecento anni per il suo possesso), ed il più rispettato (per ovvie ragioni cultuali) quello di Gerusalemme, ma il più potente è quello di Roma. Poiché tutte le province d’occidente sono state battezzate da Roma, tutto l’Occidente ha un solo patriarca che quindi esercita la sua autorità su un territorio e su un numero di fedeli pari a quello di tutti gli altri tre messi insieme. Nel cinquantennio seguente, l’aumentata importanza di Costantinopoli scompagina le cose: prima di tutto, perché l’Imperatore – che ormai risiede sul Bosforo, ha bisogno di una controparte degna di nome e quindi nel 381 d.C. il Primo Concilio Ecumenico di Costantinopoli eleva il metropolita bizantino al titolo di Patriarca, ed il suo terzo canone lo riconosce al secondo posto dopo Roma. Nei secoli seguenti, i patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme perdono pressoché ogni importanza. Alessandria è la prima a distaccarsi dalla pentarchia quando, nel corso del regno di Giustiniano I, l’Impero perde praticamente ogni forma di controllo: ancora oggi, il patriarca di Alessandria è di fede eterodossa, o monofisita, e non riconosce nessuna autorità diversa dalla propria (tant’è che viene chiamato Papa). La seconda a “cedere” è la sede di Gerusalemme: la causa è la completa distruzione della città da parte dei Persiani dello Shah Khosrau II (614 d.C.). Antiochia cade qualche anno dopo quando, dopo la battaglia di Yarmouk (636 d.C.), la Siria finisce definitivamente nelle mani del nascente califfato, nelle cui mani tutti e tre i suddetti patriarcati finiscono per cadere. Nel 1054, i due patriarcati indipendenti – Roma (Papa Leone IX) e Costantinopoli (Patriarca Michele Cerulario)a, mal tolleratisi a vicenda nel corso dei quattrocenti anni precedenti, si mandano al diavolo a vicenda con una serie scomuniche e controscouniche incrociate che dividono la cristianità in due. Come abbiamo già visto, la Russia (e qui torniamo ad occuparci della Rodina, così come i Russi chiamano la propria patria) sceglie inizialmente una posizione intermedia, salvo poi allinearsi a Costantinopoli. Da questo momento, Roma quindi è considerata non soltanto la sede dell’antico Impero – ma anche di un patriarca eretico, così come eretico (minaccioso, nemico…) è tutto l’Occidente, il che ci aiuta a capire meglio l’atteggiamento di Nevsky di cui abbiamo parlato nel secondo episodio di questa serie. Con la caduta in mano turca del quarto patriarcato su cinque, tutti coloro che nel 1054 avevano scelto Costantinopoli si trovano quindi privati della propria leadership, ritenuta certamente non più autorevole come prima. Ed è la Russia a cogliere l’attimo: già prima del 1453, nel 1448, il metropolita di Kiev e di tutta la Russia (attenzione a questa terminologia, perché è critica per capire il seguito) rigetta il Concilio di Firenze del 1439 , uno sfacciato colpo di mano delle potenze occidentali che, ricattando l’accerchiata Costantinopoli con la promessa di aiuto in denaro e soldati, avevano obbligato l’Imperatore a fare mea culpa sullo scisma del 1054. Compiute le scomuniche incrociate di rito, la chiesa Russa diventa de facto autocefala nonché la massima autorità religiosa per tutti i credenti di fede cristiana non cattolica né copta dell’Oriente e del mondo slavo.

Partendo da sinistra: Papa Leone IX  e Patriarca Michele Cerulario


Mosca si proclama quindi erede di Costantinopoli dal punto di vista religioso, il che va in perfetto parallelo con le pretese politiche dei principi moscoviti. Come ricorderete, dopo il matrimonio fra Vladimir il Santo e Anna Porfirogenita, sorella del veneratissimo Basilio II Vulgaroktonos, i sovrani moscoviti sono gli ultimi eredi diretti dell’ultima casata imperiale pienamente legittima – la Casa di Macedonia (tralasciamo pure come l’avo Basilio I avesse conquistato il trono… una storia di corna omosessuali e di omicidi degna di feuilleton), eredità di sangue cui la linea riurikide danilovide aggiunge quella dei Comneni e, per tramite del già citato Ivan III, quella dei Paleologhi, l’ultima e sfortunata casa regale di Bisanzio. Dopo la caduta di Costantinopoli, la marea montante turca impiega alcuni anni per venire a capo delle ultime roccaforti bizantine in Morea (il Peloponneso): prima della definitiva caduta, il despota (che nella terminologia bizantina significa semplicemente governatore) Tommaso Paleologo, fratello del defunto imperatore Costantino XI, fa appena in tempo a mandare in sposa la figlia Zoe al Gran Principe di Mosca, da pochi anni rimasto vedovo della prima moglie Maria di Tver. Poiché contro gli eredi delle grandi casate costantinopoletane (Angeli, Comneni e Paleologhi) gli Ottomani avevano scatenato una vera e propria caccia per mare e per terra, ovunque essi si trovassero, Zoe può essere considerata letteralmente l’ultima dei Paleologhi sopravvissuti. Con questo matrimonio, da cui nascerà il Gran Principe Vasily, padre di Ivan il Terribile, i Riurikidi raccolgono l’eredità dell’ultima casata imperiale e con essa il testimone della legittimità imperiale.


Tommaso Paleologo

Zoe Paleologa

Ivan III Vasil'evič , marito di Zoe Paleologa


Attenzione però: i Riurikidi sono consci di essere portabandiera della Russia, e la Russia è già nel XV secolo conscia e fiera di essere terra slava. All’eredità di culto e di sangue, si aggiunge quindi un’eredità morale, che condizionerà per tutti i secoli seguenti, fino alle vicissitudini kosovare odierne, la politica estera russa: il mandato cioè di proteggere tutti i popoli slavi, ovunque essi siano, da chiunque li minacci, riportando tutti i popoli slavi di religione ortodossa sotto una vera e propria “casa comune”. A maggior ragione se questi popoli si trovano in terre che appartengono al mandato territoriale dell’Impero di Costantinopoli: la Guerra di Crimea e lo sfortunato tentativo di espugnare Istanbul; il coinvolgimento russo nella prima guerra mondiale; persino l’organizzazione geografica della “cortina di ferro” e la politica estera russa post-1991, con il coinvolgimento nei Balcani, nel Caucaso, in Ucraina, la guerra lampo in Georgia, la strana tolleranza nei confronti del regime Bielorusso, trovano in questo mandato un preciso chiarimento ideologico. Chiarimento ideologico che viene mirabilmente espresso e sintetizzato nella cosiddetta “dottrina della terza Roma”.



Per capire meglio ciò di cui parliamo, torniamo ad Ivan e Zoe: Ivan, la cui potenza ne fa ormai il faro di tutte le terre russe che controlla direttamente (fra le sue conquiste, anche la Repubblica di Novgorod) o indirettamente per tramite del proprio potere economico-militare, è ormai considerato il leader indiscusso di tutto il mondo slavo. Il figlio Vasily, una volta asceso al trono moscovita, prosegue l’opera di riunificazione della Russia sotto la guida della moscovia: nel 1510 è il turno di Pskov e, per ingraziarsi il nuovo signore cittadino, il monaco Filofey (Филофей) di Pskov, riprendendo un testo del 1453, composto da un certo Foma di Tver sull’onda emozionale della conquista di Costantinopoli, compone un panegirico in suo onore sotto forma di profezia. Usando le parole del mistico: 

File:Vasilii III.jpg
Vasilij III Ivanovič


“Due Rome sono morte a causa dell’eresia e ora la Terza Roma brilla nel mondo più del sole: la Terza Roma alta si erge e non ve ne sarà una Quarta.”



Quindi, riassumendo: Mosca è la seconda Costantinopoli e quindi la Terza Roma. La Prima Roma è caduta, prima ancora che a causa dei Barbari, per mano dell’eresia – il riferimento è allo scisma del 1054, che per i fedeli Ortodossi ha prima di tutto una base ideologica (la pessima traduzione latina del credo niceano, scritto in greco che introduce un “filioque” assente nel testo originario), e così la seconda in quanto – di fronte ai Musulmani (che per i cristiani del medioevo erano spesso considerati cristiani eretici) ha preferito rivolgersi agli eretici occidentali. La Terza Roma, che nel 1054 è rimasta fedele a Costantinopoli e quindi ha rigettato il Concilio di Firenze, a buon diritto è quindi il Sole – la luce guida, per tutti coloro che sono Cristiani e che in Roma non si riconoscono.
File:Byzantine eagle.JPG
L'aquila bizantina, simbolo del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e dell'Ortodossia


La dottrina della Terza Roma sicuramente faceva agio a Vasily, ma è suo figlio Ivan a introdurla sistematicamente nel suo programma politico. Ivan IV ascende al trono nel 1533 a nemmeno 3 anni, quando Vasily III muore a causa di una ferita alla gamba maldestramente curata dai medici di corte. L’evoluzione del sistema politico moscovita pone immediatamente in pericolo l’eredità del giovane principe. Poco prima di morire, Vasily impone a tutti i boiari di obbedire alla moglie Elena Glinskaya come se questa fosse il Gran Principe, e di restare fedeli in quest’alleanza fino alla maggiore età di Ivan che, quindi, gli succederà come nuovo sovrano moscovita. Fra 1533 e 1538 è dunque questa principessa, anch’essa di “sangue misto” lituano e serbo, a reggere le sorti dello stato in quella che si rivela una vera e propria guerra civile a bassa intensità. I primi a muoversi sono i fratelli di Vasily ancora in vita (Yury Ivanovic e Andrey Ivanovic) che a rigor di legge possono in realtà aspirare al titolo di Gran Principe con la stessa legittimità del giovane Ivan: la vasilissa Elena si muove per prima con una durezza quasi selvaggia. Nel 1534 fa quindi incarcerare, accecare, strangolare e quindi (a scanso di equivoci) impalare ed infine bruciare i due danilovici che moriranno fra 1536 e 1537, rapidamente seguiti da mogli e figli. Se spendiamo due parole su questi orrori è per ragioni storiche: come vedremo, alla morte di Ivan IV, una delle cause del cosiddetto “Periodo dei Torbidi” (Smuda) sarà proprio la sostanziale estinzione dei Danilovici. La brutalità di Elena stabilizza la situazione per i quattro anni successivi, durante i quali le due casate principesche dei Schujskij (Шуйский, appartenenti allo stesso ramo Riurikide dei Romanov) e dei Bel’skij (Бельский, discendenti del Gran Duca Geminidas di Lituania) vedono accrescersi esponenzialmente la propria importanza politica ed economica. Nel 1538, dopo una serie di omicidi incrociati, le due casate giungono ad un accordo di massima che si concretizza nell’avvelenamento della regina Elena: il principe Ivan viene quindi preso in custodia condivisa da parte delle due casate, con l’obiettivo di assicurare per tramite della sua neutralizzazione operativa il pieno controllo sulle terre e sugli appannaggi già in loro possesso. In realtà, le cose prendono quasi subito una piega diversa e molto più drammatica. Nel decennio seguente, le due casate scatenano una vera e propria guerra civile i cui alti e bassi sono pressoché impossibili da seguire fino al 1544 e la cui unica costante è rappresentata dai ripetuti rapimenti del principe Ivan: poiché il possesso del principe rappresenta il lasciapassare per il controllo del Paese, le due casate se lo contendono a suon di rapimenti fino al 1542 quando il neo-eletto metropolita Macario (1482-1563), trovandosi di fronte un principe quasi analfabeta, malnutrito, e più in generale in pessime condizioni di salute, a suon di scomuniche applicate o minacciate, si impone su entrambe le parti auto-proclamandosi unico tutore del bambino. Macario, che non a caso viene venerato come un santo dalla Chiesa Ortodossa Russa, nei cinque anni seguenti difenderà con le unghie e con i denti il giovane principe, proteggendolo a prezzo della propria vita da nuovi tentativi di rapimento, allevandolo con sorprendente affetto. In virtù di quest’affetto Ivan si macchierà del suo primo delitto. Nel 1544, i boiari organizzano un incendio doloso nel Cremlino il cui scopo è eliminare il ribelle metropolita che, tuttavia, riesce miracolosamente a scappare. Ivan, cieco di rabbia, usò le poche risorse in suo possesso per assoldare due bracconieri i quali, nel mezzo di una battuta di caccia, riuscirono a mettere le mani sul capo della casata Schujskij, che fece uccidere strozzare davanti ai suoi occhi. Pochi giorni dopo, il quattordicenne Ivan faceva il suo ritorno in grande stile nella corte moscovita – completamente trasformato rispetto al fanciullo deprivato che abbiamo citato poc’anzi. Nei tre anni passati sotto la protezione di Macario, Ivan era diventato un giovane di proporzioni colossali e forza erculea, la cui intelligenza, lungamente trascurata dall’incuria dei “protettori boiari” era stata nutrita dal metropolita con letture di ambito religioso (la prosa di Ivan è strabordante di slavo ecclesiastico, a testimonianza che si formò effettivamente su quel genere di letture) e politico, fra le quali senz’ombra di dubbio il citato testo di Felofey.

Ivan IV
Ivan IV il Terribile, ritratto di Viktor Mikhailovič Vasnetsov.
Così, sfruttando la confusione ed il timore dei boiari, Macario organizza in fretta e furia l’incoronazione di Ivan. Il quale sceglie però di non proclamarsi Gran Principe. Ivan IV è infatti il primo sovrano moscovita a reclamare per sé il titolo di Zar, ovverosia: Imperatore Romano (il termine deriva infatti o dal tedesco Kaiser, o dal greco Kaesar, l’uno e l’altro adattamento fonetico del latino Caesar, utilizzato in epoca imperiale per denominare l’imperatore che, in analogia ad Ottaviano Augusto, all’incoronazione diventava figlio adottivo spirituale dell’imperatore precedente, e così via fino al primo della linea, ovverosia Giulio Cesare). Secondariamente, egli si proclama “Zar di tutte le Russie”. Ovverosia: massima ed assoluta (indipendente cioè da chiunque altro) autorità politica, militare, legislativa e giudiziaria di tutte le terre sulle quali vivono popoli eredi dell’antica Rus’.

 Ivan IV
Se ciò non si fosse capito, Ivan lancia un messaggio palese alla Polonia-Lituania ed al Khanato, che popoli figli della Rus’ kieviana ancora reggono sotto il proprio stendardo: suo preciso mandato politico è costruire un impero UNIVERSALE, le cui fondamenta saranno i popoli russi esattamente come fondamenta dell’Impero Romano erano stati i popoli italici. Se non si tratta di una dichiarazione di guerra, poco ci manca. E come se non bastasse, nella stessa incoronazione Ivan IV lancia analoghi ed ancor più violenti strali nei confronti degli altri due imperatori all’epoca presenti in territorio europeo – Carlo V e Solimano il Magnifico: dopo che il metropolita lo ha incornato con il copricapo di Monomakh , si fa consegnare uno scettro ed un globo cui segue un battesimo con monete d’oro (la scena è mirabilmente ricostruita da Eisenstein nel suo capolavoro, Ivan il Terribile ). A noi moderni sembreranno dettagli – ma si tratta di un clamoroso schiaffo ad entrambi. Il globo è, infatti, il simbolo stesso dell’Autorità imperiale romana : quando Massenzio ha ormai capito di essere sconfitto da Costantino nella battaglia di Ponte Milvio, piuttosto che consegnare le proprie insegne le fa seppellire in un luogo segreto (ciò che del resto ci ha permesso di riscoprirle a distanza di quasi millesettecento anni); è il globo imperiale che Odoacre invia all’imperatore Zenone per riconoscere l’annientamento della Pars Occidentalis dell’Impero e quindi l’ascesa dello stesso Zenone ad unico Imperatore; qualsiasi iconografia dell’Imperatore medievale, anche la più ingenua, prevede che l’Imperatore regga il globo nelle sue mani.  In quanto allo scettro, è un simbolo ancor più criptico ma ancor più sfrontato: esso è infatti l’emblema del potere del Sultano Ottomano, che a sua volta l’ha recuperato dall’antica eredità dell’Imperatore di Persia . In altre parole, Ivan anche a livello iconografico lancia una clamorosa sfida a Carlo V e Solimano il Magnifico (la cui moglie Hürren Sultan era per di più russa…) il cui significato può essere così riassunto: “Carlo potrà essere imperatore, eretico, di Roma e dei Romani; Solimano potrà avere usurpato il trono ed il seggio di Costantinopoli e così proclamarsi a sua volta imperatore, ma la Rus’ ha in Ivan un imperatore a loro pari, se non superiore, così come Mosca è superiore alla Prima ed alla Seconda Roma”. A completare il guanto di sfida, Ivan rimpiazza lo stemma dei Danilovici (il viso di Cristo su campo dorato) con lo stemma dei Comneni: l’aquila imperiale bifronte. Emblema che fa ancora parte dell’iconografia dello stato russo, essendo nientemeno che l’emblema nazionale. Il passo successivo di Ivan è un gesto che farà sorridere noi contemporanei, ma che nuovamente ha un preciso e clamoroso significato politico: organizza cioè un concorso di bellezza per la scelta della sua consorte. Questa scelta ha una logica precisa: secondo la concezione imperiale romana post-Dioclezianea, l’autorità dell’imperatore è così alta ed assoluta che al suo confronto qualsiasi altra creatura umana è parimenti uguale al nulla. In altre parole: di fronte all’irraggiungibile altezza dell’imperatore una principessa ed una contadina sono ugualmente pari a niente. E’ il matrimonio con l’imperatore che tramuta una nullità nell’unica entità umana prossima al Cesare e pertanto di tale grazia possono beneficiare tutte le donne, indipendentemente dalla propria origine. Il tutto è quindi uno strumento politico, volto ad umiliare le casate principesche tanto nell’antica Bisanzio quanto a Mosca: va detto tuttavia che, se a Bisanzio poteva capitare che una popolana fosse elevata per la sua bellezza o altre doti al rango di imperatrice (ciò che accadde in almeno un paio di occasioni), Ivan scelse la propria consorte con precisione scientifica. Si trattò di Anastasia Romanovna Zacharina, discendente di Roman il grande (esponente della più potente linea dinastica riurikide alternativa ai dolgorukidi) e come tale co-erede con il fratello Nikita di una delle più grandi fortune di tutta la Russia. Pochi se ne rendevano conto ma, mentre le corone nuziali venivano poste sul capo dei giovani sovrani (diciassettenne Ivan, quindicenne Anastasia), la sfida mortale fra lo Zar ed i Boiari aveva avuto inizio.

File:Wedding of Ivan IV and Anastasia.jpg
 

Matrimonio di Ivan IV e Anastasia


Scritto da:

Il Giacobita