lunedì 19 marzo 2012

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):(Parte 22°): Francesco II° lascia Napoli su consiglio dei traditorie ed le defezioni dei gallonati continuano

Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.


Re Francesco consigliato e spinto da' nemici e dagli amici, si risolse a lasciar Napoli in balìa della rivoluzione, mosso dalla grande e generosa idea di non insanguinare con la guerra civile
questa sua diletta patria. Il 5 settembre chiamò i Ministri, e disse loro, che uscirebbe da Napoli il dì appresso. Diede incarico al Presidente Spinelli di scrivere una proclamazione: questi la commise a D. Liborio, il quale l'avea scritta da più giorni; e il Dumas assicura di averla letta il 2 Settembre. Ecco la proclamazione.
«Fra i doveri prescritti a' re, quelli dei giorni di sventura sono i più solenni, ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti monarchi.
A tale scopo rivolgo ancora una volta la mia voce al popolo del mio Regno, da cui mi allontano col dolore di non aver potuto sacrificare la mia vita per la sua felicità e la sua gloria.
Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, nonostante che io fossi in pace con tutte le potenze europee. I mutati ordini governativi, la mia adesione ai grandi principii nazionali non valsero ad allontanarla, che anzi la necessità di difendere l'integrità dello Stato trascinò seco avvenimenti che ho sempre deplorati. Ond'io sollennemente protesto contro tale invasione, e ne faccio appello alla giustizia di tutte le nazioni incivilite.
Il corpo diplomatico residente presso la mia persona seppe fin d'allora di quali sentimenti era compreso l'animo mio verso questa illustre metropoli del Regno. Salvare dalla rovine e dalla guerra i suoi abitanti e le loro proprietà, gli edifizi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni d'arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua civiltà e della sua grandezza, e che, appartenendo alle generazioni future, è superiore alle passioni di un tempo.
Questa parola è giunta l'ora di profferirla. La guerra si avvicina alle mura della Città, e con dolore ineffabile io mi allontano con una parte dell'armata, trasportandomi là dove la difesa de' miei diritti mi chiama - L'altra parte di questa nobile armata resta, per contribuire all'inviolabilità e incolumità della capitale, che, come un palladio sacro raccomando al ministero, al Sindaco, e al comandante della guardia nazionale. La prova che chiedo all'onore e al civismo di essi è di risparmiare a questa patria carissima gli orrori dei disordini interni e i disastri della guerra vicina,
a qual uopo concedo loro tutte le necessarie e più estese facoltà di reggimento.
Discendente di una dinastia che per 126 anni regnò in queste contrade continentali, i miei affetti son qui. Io son napoletano; né potrei senza grave rammarico, dirigere parole di addio a' miei amatissimi sudditi.
Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò per essi forti ed amorevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, i doveri cittadini, e che uno smodato zelo per la mia sorte non diventi face di turbolenze.
Quando alla giustizia di Dio piacerò restituirmi al trono de' miei maggiori, quello che imploro è di rivedere i popoli concordi e felici.»
Napoli, 5 settembre 1860
Francesco II
Non dee recar meraviglia se in questa proclamazione s'incontrano idee false, dapoichè, come ho già detto fu scritta dal celebre D. Liborio Romano.
Il ministro degli esteri de Martino, scrisse a nome del Re una protesta per mandarla a tutte le potenze: non vale la pena trascriverla, perché altro non dice che la storia dell'invasione garibaldina aiutata dal Piemonte, la partenza del Re per non insanguinare la Capitale, e che Costui si riserbava tutti i titoli, ragioni, e diritti garentiti da' trattati.
Un'altra proclamazione della polizia settaria comparve il giorno 6 settembre su i cantoni della città: e siccome è l'espressione del ministero Spinelli, che già si levava la maschera per operare apertamente, mette conto trascriverla in queste pagine. La proclamazione della polizia, scritta da D. Liborio, è degna di chi la scrisse. Eccola:
«Cittadini, il Re parte. Fra un'altra sventura che si ritira e un gran principio che si avanza trionfante non potete star dubbiosi. L'una vi impone il raccoglimento al cospetto della maestà eclissata, l'altra vuole il buon senso, l'abnegazione, la prudenza, il coraggio civile. Nessuno di voi turberà lo sviluppo degli eroici destini d'Italia. Nessuno dilanierà la patria con mani vendicatrici e scellerate. (D. Liborio si mettea paura per sè?) Attendete calmi il memorabile giorno che schiuderò al vostro paese la via di uscire da' perigli, senza altre convulsioni e senza spargere sangue fraterno.
Esso è vicino, ma, aspettandolo, la città sia calma.
Il commercio continui confidente; ciascuno duri nelle consuete bisogne; tutte le menti si uniscano nel sublime accordo della pubblica salute. Per vostra sicurezza la polizia è in permanenza; la Guardia nazionale veglia sull'armi. In tal guisa, cittadini voi non renderete inutile il lungo e paziente sagrifizio di quelli che sfidarono le incertezze degli eventi, e si sono sagrificati al governo della cosa pubblica, e che stogliendo i pericoli minaccianti la vostra libertà, e l'indipendenza della nazione, ne furono i vigili e fermi guardiani.
Eglino proseguiranno il nobile mandato (ne siamo persuasi), e sono certi che la vostra concordia e condotta aiuteranli ancora a sormontare le ultime difficoltà, e che non saranno sforzati a convocare la severità delle leggi contro le insensate agitazioni de' partiti estremi. (questo lo sappiamo pure che è riservato a voi solamente).
Così compieransi i nostri destini; (con la severità delle leggi?!) e la storia che terrà conto del patriottismo (e delle fellonie) di quelli che la governano, dispenserà del pari la gloria alla salvezza civile di questo popolo veramente italiano.»
Si divulgò subito in Napoli la notizia che il Re partisse. Gli onesti, gli amici della dinastia previdero ruine; e trionfi de' tristi, per allora paurosi si chiusero in casa, e quelli che aveano mezzi presero la via dell'esilio.
La setta sentì sicuro il suo trionfo, e diede il motto d'ordine di cessare l'agitazione fittizia popolare, difatti Napoli rientrò in una specie di calma che facea paura più che qualunque agitazione, perché faceva vivere nell'incertezza la più desolante.
Il ministero si valse dell'ore estreme della monarchia per infamarla, e togliere qualunque odio contro i rivoluzionarii, avendo costoro stabilità di rovinare tutte quelle famiglie che non aveano voluto parteggiare per la setta. Difatti si fecero firmare innumerevoli decreti da Francesco II con i quali si destituivano onesti ed antichi uffiziali non che impiegati civili, e se ne creavano dei nuovi solo conosciuti da' settarii. Chi volea un brevetto di nomina regia dopo la partenza del Re, l'ottenea con l'antidata, ma (vedi rigenerazione!) con dar delle mance. Ne' primi dieci giorni del governo di Garibaldi, il giornale uffiziale usciva ogni giorno pieno di decreti firmati dal Re Francesco!...
Il ministero Spinelli che fingeva patire inopia di tutto, quando il Re volea combattere Garibaldi, per la partenza del Sovrano avea tutto pronto. Carri, armi, vettovagli pe' soldati, e le strade ferrate pronte. Si chiesero danari per tre mesi di soldo, finse non negarsi, e poi non li diede. Compiangevasi la sorte del Sovrano, e lo si aiutava in tutto a partir subito. Negli ultimi momenti del Regno, quel fedifrago ministero trattava Francesco II, come l'avrebbe dovuto trattar sempre, se gli uomini che lo componevano fossero stati davvero onesti e patrioti.
Sulle ore 3 pomeridiane del 6 settembre, i Ministri si presentarono al Re. Questi loro rivolse brevi e dignitose parole, manifestando i pericoli che correa l'autonomia del Regno, e i mali imminenti che ne derivavano. Francesco II diede loro una lettera scritta di proprio pugno con la quale comunicava la facoltà amplissima di reggere la cosa pubblica, con far qualunque sacrifizio per evitare alla sua diletta Napoli gli orrori della guerra civile. Esempio unico nella storia! Poi voltandosi piacevolmente a D. Liborio Romano, gli disse: «Voi D. Liborio, cercatevi un passaporto per assicurarvi il capo.» All'onestissimo Sindaco Principe d'Alessandria, e al de Sauget capo della Guardia nazionale, raccomandò le tutela di questa Città che i rivoluzionarii dicevano che Egli odiasse.
Ov'erano allora i cortegiani de' tempi felici? Infamia! Alcuni imbecilli si nascondevano perché aveano abusato dei favori della Corte, e per quanto si mostrarono burbanzosi ne' tempi di prosperità, tanto codardi e vili si mostrarono nella sventura. Altri paurosi delle prepotenze che aveano fatte presero la via dell'esilio per salvarsi la pelle. Altri infine non coraggiosi ma impudenti, per non perdere la pagnotta  e il potere, si preparavano a ricevere il nuovo padrone Garibaldi.
Però ho detto di sopra, che la classe più distinta dell'aristocrazia napoletana seguì il Re nell'esilio, ma non tutti pel principio borbonico, molti per ispeculazione, come poi lo dimostrarono co' fatti. È questa la sorte di tutte le dinastie che tramontano!
Oh! come avrei contentato il mio cuore se avessi potuto classificare i nomi di tutti, additandoli alla posterità: ma non è possibile, e debbo attenermi a giudizi generici.
Re Francesco II, il discendente di tanti sovrani, mentre lasciava la splendida Reggia di Napoli e si avviava all'esilio, depositando la più bella e ricca corona d'Italia per non insanguinare la sua diletta patria, era accompagnato dalla giovanetta sposa, Maria Sofia Amalia di Baviera, da quattro soli personaggi napoletani, e dalla Duchessa di S. Cesario dama di onore della Regina; oltre del segretario Ruiz, de' quali terrà conto la storia sino alla più tarda posterità. Que' quattro personaggi fortunati sono: il maresciallo Duca Riccardo de Sangro! basterebbe questo sol nome, superiore a qualunque encomio per dimostrare di quali uomini fu circondata la dinastia borbonica nella sventura. Riccardo de Sangro, il fervente cattolico, era il prototipo della più distinta e ricca aristocrazia del Reame: onorato ed amato in Corte, e da' suoi concittadini per le sue non comuni virtù, e per la sua fedeltà a tutta prova verso la Patria e verso il suo Re. Egli lasciava le sue ricchezze, i suoi comodi, la sua diletta famiglia..! e seguiva la sventura! La sua fine gloriosa di gentiluomo e di soldato sarà da me scritta quando ragionerò de' fatti di Gaeta, dappoichè ebbi l'alto onore di assisterlo, per ordine di Francesco II, sotto la casamatta regia nelle ore estreme della sua vita esemplare.
Gli altri uomini illustri che accompagnarono la Maestà eclissata, sono: il Duca S. Vito, il Principe Ruffano, l'ammiraglio Federico del Re. Oggi tutti e quattro tra il numero de' trapassati, chi in Gaeta, chi in volontario esilio; avendo lasciato alle proprie famiglie la più bella gloria «che forse non morrà «acquistata con nobilissima risoluzione il 6 settembre 1860!
Il Re in quel giorno scendea della Reggia e saliva sulla Saetta
piccolo battello a vapore napoletano, comandato dal fedele Tenente Vincenzo Criscuolo, e partiva sull'imbrunire per Gaeta. Seguivano sopra altro legnetto a vapore, il Delfino,
i cinque signori sopra nominati.
Francesco II lasciò ne' banchi trentatre milioni di ducati moneta sonante:
lasciò ricchissimi Musei, Reggie suntuose, arsenali, e tanti monumenti e ricchezze che sarebbe lungo a descrivere: e tutte cose retaggio degli avi suoi: dapoichè si sà come trovò il Regno l'avolo suo Carlo III dopo che cacciò i Tedeschi da queste contrade italiche. Il Re partiva! ed ognuno si domandava, qual sarà la nostra sorte e quella del Regno?!
Quando passò la Saetta
in mezzo alla flotta napoletana, le ciurme di questa gridarono: Viva il Re.
La flotta avea avuto l'ordine di seguire il Sovrano a Gaeta, e tutti i comandanti di quei legni aveano promesso di ubbidire. Intanto il giorno precedente, il Persano, Ammiraglio Piemontese, avendo confabulato con gli ufficiali traditori, avea fatto togliere alcune valvole dalle macchine, ed i franelli delle barre de' timoni, ed avea
fatto eseguire altri simili guasti alle macchine de' piroscafi da inutilizzarli a potersi muovere nel porto. Il Persano vanta nel suo Diario queste fellonie..! I marinari voleano seguire il Re, ma gli uffiziali che si erano venduti alla rivoluzione, dissero loro che il sovrano l'avrebbe mandati a Trieste per servire l'Austria, e che non sarebbe più permesso loro di ritornare a Napoli. Le ciurme non rimasero persuase di quello che diceano furbescamente gli uffiziali traditori: e mancò tra quelle ciurme un uomo ardito per mettersi alla testa de' fedeli marinari, e seguire il Re, trascinando la flotta a Gaeta in qualunque modo. Però que' marinari non vollero poi servire né Garibaldi, né il Piemonte, e più di seicento si recarono alla spicciolata in Gaeta, ove i distinsero da riuscire i più prodi in quella Piazza.
La Saetta,
checonduce il Re a Gaeta incontrò diversi legni della flotta napoletana: tutti ebbero l'ordine di volgere a Gaeta, ma nessuno ubbidì; il solo generale Pasca comandante la fregata a vela Partenope,
che si trovava in rada, seguì la Saetta.
Persano dice nel suo Diario, che avrebbe voluto ritenere a forza la Partenope,
ma si astenne per non produrre cattivo effetto. L'Etna
ritornava da Ponza, e il comandante Viguna, non sapendo quello che fosse successo, entrò nel porto di Gaeta. Volle dimettersi, si dimisero eziandio gli uffiziali della Partenope,
e ritornarono a Napoli. Indicibile, viltà d'animo ingratissimo!
Il Re, per tutelare Napoli, oltre di aver dato ample facoltà al Ministero, lasciò nella città seimila uomini divisi in questo modo. Il colonnello de Liguoro col 9° di linea, al Castel Nuovo; il colonnello Perrone col 6° di linea diviso ne' Castelli del Carmine, dell'Uovo e S. Elmo; il Maggiore Golisani col 13° battaglione Cacciatori a Pizzofalcone; e finalmente Francesco Nunziante colonnello del Reggimento Marina nella Darsena. Il 9° di linea e il 13° Cacciatori voleano recarsi a Capua; il Re volle che restassero in Napoli sino a che consegnassero i Banchi, e poi si recassero a Gaeta.
Francesco II per non far saccheggiare il danaro depositato ne' Banchi che poi se lo prese Garibaldi perdette quasi per intiero il 13° Cacciatori, e tutto il reggimento Marina, ad eccezione di pochi soldati che fuggirono in Capua, come dirò tra non guari.
Appena partito il Re da Napoli, i ministri voltarono faccia, e mutarono livrea; degli ordini che loro avea lasciati il Sovrano nessuno ne adempirono; neppure vollero accusar ricevuta di un telegramma spedito da Gaeta. Il Fonzeca, tanto beneficato da' Borboni, non volle ricevere una lettera con la quale gli si ordinava di mandar le casse militari, preparate per Capua e Gaeta. Disse solamente: «sono stanco di ricevere ordini di lordure siffatte.
Molto comoda questa maniera di rispondere per coloro che debbono dar danaro! e se ne trovano molti i quali usano simili frasi, e cercano di infamarvi, se loro domandate il vostro danaro!
Il solo Salvatore Barone Carbonelli di Letino direttore de' lavori pubblici, scrisse al Re, e lo supplicò che l'ammettesse a Gaeta, e l'ottenne.
De' Ministri esteri accreditati presso la Corte di Napoli, si recarono a Gaeta, il
Nunzio Apostolico, il Ministro di Russia, quello di Austria, di Prussia, del Brasile: quello di Spagna li avea preceduti. Villamarina, Ministro del Piemonte, com'era da aspettarsi, rimase in Napoli per dirigere i comitati rivoluzionarii, e ricevere Garibaldi. I Ministri di Francia e d'Inghilterra dissero che non poteano recarsi a Gaeta perché attendeano istruzioni de' proprii Governi. Però non appena videro le parate di Garibaldi, ritornarono a' loro paesi.
La partenza del Re da Napoli fu la causa di non combattersi in Salerno. Intanto su questa unica e principale causa se ne spacciano altre insussistenti e maligne da quelli stessi che si diceano e si dicono ancora amici del Re. Anzi, costoro asseriscono che il Re parti da Napoli, perché non si volle combattere in Salerno, cioè la causa la fanno effetto e viceversa.
Dopo le catastrofi delle Calabrie, il re fidava sopra quattro Generali come i più istruiti e i più valenti dell'esercito, cioè sopra Ischitella, Pianelli, Won Meckel, - o Mechel come altri scrivono - e Bosco. I tre primi furono contrarii a formare un campo in Salerno per arrestare la marcia di Garibaldi. Solo il Bosco e il giovine Colonnello Matteo Negri, furono a ciò favorevoli.
Ischitella prevedeva ruine e peggio al campo di Salerno dicendo: se i soldati vincessero, non sarebbe vittoria definitiva per l'ostilità del popolo; se perdessero, retrocederebbero sopra Napoli insieme al nemico, recando incendii, rapine e stragi. Meglio sarebbe, dicea, per carità di patria sciogliere l'esercito.
10già l'ho detto, che coloro i quali si diceano amici e devoti al Re, nell'ultima crisi del Regno aveano perduta la testa, ed uno di costoro era il generale Ischitella. Se tutti i Generali ammettessero simili principii e si facessero imporre dalle riflessioni insussistenti di costui, appena un Regno fosse assalito dal nemico, dovrebbe mette re giù le armi, e sciogliere gli eserciti per lo specioso pretesto della carità patria, quando sarebbe carità di patria la difesa ad oltranza per evitare mali maggiori. D'altronde i giudizii del generale Ischitella erano solamente un effetto della sua fan tasia. Il certo si è che il Regno avea ancora cinquantamila uomini che fremeano di battersi; Garibaldi non avea che un'accozzaglia di uomini che chiamava esercito. È poi assolutamente falso che il vero popolo fosse ostile alla Monarchia; al più il popo lo de' Camorristi
avrebbe, non già combattuto, ma acclamato il vincitore qualunque esso fosse. Nel caso poi che la truppa avesse perduta una battaglia nelle pianure di Salerno, non sarebbe stato né conveniente né necessario ritirarsi a Napoli, avrebbe potuto ripiegare sopra Capua.
Del generale Ministro Pianelli, non ritenendosi leale il suo consiglio, è meglio tacere.
Il Meckel disapprovava pure quel campo, e il 29 Agosto scriveva al Re, che il nemico potea girarlo dalla parte di Benevento, e che non si potea fidare sopra i tre battaglioni esteri. In effetto uno di que' battaglioni avea gridato: Viva Garibaldi,
e Meckel lo avea fatto retrocedere a Nocera. Questo Generale consigliava al Re di riti rare tutto l'esercito dietro il Volturno. Solo il generale Bosco consigliò al Re che si desse battaglia a Garibaldi nelle pianure di Salerno.
Il Re, cui aveano fatto capire che nell'esercito di Salerno erano degli uffiziali traditori, ordinò a que' duci di scandagliare le disposizioni politiche e morali di quegli uffiziali. Afan de Rivera Gaetano, comandante in Capo l'esercito si Salerno, e Meckel comandante una brigata, risposero alternando assicurazioni e dubbi sulla fedeltà e sulle disposizioni di alcuni uffiziali. Bosco indagato lo spirito della sua brigata, il 5 settembre mandò a Napoli il Capitano Luigi Dusmet per assicurare il Re sulla buona disposizione de' suoi dipendenti, meno alcuni uffiziali dell'8° cacciatori, consigliava però di darsi battaglia nelle vicinanze di Salerno.
Tali differenti pareri tenevano il Re indeciso se avesse dovuto lasciare o togliere il campo di Salerno.
Per mezzo del ministro di Spagna Bermudez de Castro ne interrogò Girolamo Ulloa militare di gran mente, emigrato, e poi rimpatriato con l'amnistia (altri dicono il de Sauget)!
Ulloa il 5 settembre con una scritta consigliò levarsi il campo di Salerno, e ritirarsi tutto l'esercito dietro il Volturno; non potendosi sostenere colà, ritirarsi sul Garigliano; e però quando il bisogno lo richiedesse entrare in Gaeta. Però essere sempre necessaria LA PRESENZA DEL RE IN MEZZO ALL'ESERCITO.
In quanto a Napoli consigliava che i soldati rimanessero in possesso de' Castelli. Il Re seguì il parere di Girolamo Ulloa. Garibaldi in possesso della ricca capitale acquistò forza, prestigio, e mezzi per continuare la guerra, e tanto di più per quanto ne perdette la Monarchia.
Giunto l'ordine della ritirata, le due brigate di Salerno, il 6 settembre, retrocessero a Cava, Nocera di Pagani, Sarno, e Capua, ove si giunse la sera dell' 8.
Le popolazioni stupefatte e quasi atterrite, vedendo tornare indietro quella florida truppa guardavano con sospetto i generali ed i colonnelli.
La sera del 5 settembre il generale Bosco fu assalito da un dolore a' lobi, ch'egli suole soffrire ad intervalli, e per evitarlo facea continuo moto, anche esercitandosi alla scherma col sergente del 9° Cacciatori, Gennaro Ventimiglia, famoso schermitore.
Trovandosi in quello stato, e temendo che fosse sorpreso dal nemico che si avanzava, la sera innanzi che la truppa retrocedesse, si fece condurre a Napoli in casa de' suoi parenti.
Entrato Garibaldi nella Capitale, Bosco fu tradito da una sua ordinanza, la quale andò a riferire al Dittatore che egli giaceva a letto, incapace di muoversi abitando dalla propria sorella alla riviera di Chiaia. Garibaldi ordinò l'arresto del Generale. Però, per intermissione di alcuni amici e del cognato sig. Zir liberale, si stabilì che Bosco dovesse lasciare il Regno appena guarito, ed obbligarsi a non combattere per tre mesi contro la rivoluzione. Di fatti, ligio alla parola data, come si guarì, mosse per Parigi.
Il generale Bosco è una delle figure storiche di que' tempi, sul quale il pensiero potrà fissarsi senza essere funestato da ricordanze di viltà e di tradimenti. Egli operò sempre da uomo onesto e prode soldato. Quelli che mi conoscono non tutti ignorano
come io dal Bosco non avessi ricevuto mai favori: anzi fu egli la causa di una mia grave malattia, della quale risento ancora le conseguenze per avermi inconsideratamente dato un gran dispiacere. È vero che se ne pentì poi, e cavaliere qual'è mi presentò le sue scuse: ma il male alla mia salute era già fatto! Ho voluto accennare questa particolarità per avvertire che, s'io difendo Bosco, e fo' degli elogi alla sua condotta militare, non è simpatia o riconoscenza che mi spinge a farlo, mal'amore del vero.
Alcuni invidiosi uffizialotti degeneri in tutto dell'illustre nome che portano, i quali faceano la Corte al Bosco, non solo in Napoli anche in Roma, e buoni solamente a passeggiare un tempo davanti il Palazzo reale facendo i bellimbusti, dandosi oggi gran merito come designatori di certi balli in carnevale, mentre in tutto il tempo della guerra non intesero né l'odore della polvere né il rombo del cannone; e quando giunsero a Mola di Gaeta, si affrettarono a raggiungere lo Stato Pontificio. Questi uffizialotti oggi ardiscono ancora asserire che il campo di Salerno si tolse per opera del generale Bosco, e che costui fosse stato la causa principale dell'abbandono di Napoli.
Che il campo di Salerno non si tolse per opera di Bosco, l'ho già dimostrato, anzi ho detto che egli era il solo Generale che consigliava il re di darsi ivi battaglia a Garibaldi
A. S. R., il conte di Trani fratello del Re, scrisse al Bosco una lettera confidenziale, chiedendogli notizia sullo spirito delle due brigate di Salerno. Bosco rispose con un'altra lettera confidenziale, e gli dicea, che non poteasi fidar molto sopra alcuni uffiziali dell'8° cacciatori, e che parecchi soldati esteri aveano gridato Viva Garibaldi.
Forse che questa notizia non rea conforme a quanto aveano scritto al Re i due generali Meckel e de Rivera? Eppure i detrattori di Bosco vogliono attribuire a quella lettera la causa dell'abbandono del campo di Salerno, e della catastrofe della dinastia e del Regno! Bosco interrogato confidenzialmente da quel Principe reale, non potea rispondere diversamente, perché disse la pura e semplice verità, conosciuta da tutti quelli che allora si trovavano in Salerno.
Mi si potrebbe dire: poichè Bosco avea opinione che non si potesse fidare di alcuni individui della truppa di Salerno, perché consigliava il re di dare ivi battaglia a Garibaldi? Rispondo: che un semplice sospetto intorno alle buone disposizioni di alcuni uffiziali di un battaglione, e di pochi soldati esteri, non dovea far perdere l'occasione di tentare la sorte della armi, trattandosi massimamente di abbandonare Napoli al nemico, il maximum degli errori che si commisero in quel tempo malaugurato! Che Bosco non s'ingannasse nel consigliare di darsi battaglia in Salerno, ad onta de' sospetti espressi nella lettera diretta al Conte di Trani, lo prova la lodevole condotta tenuta in Capua da quelle due stesse brigate che volea spingere allora contro Garibaldi.
Mi fa poi maraviglia che il Marchese D. Pietro Ulloa pubblicò in Roma nel 1863 alcune lettere scritte in francese, dirette a' ministri de' più potenti gabinetti di Europa, ed in una delle quali dicea, che la causa della ritirata di Salernofu la lettera
180di Bosco scritta al Conte di Trani;
mentre egli non dovea ignorare che era stato suo fratello Girolamo il quale avea consigliato il Re di non darsi battaglia in Salerno, di abbandonare Napoli e ritirarsi con l'esercito dietro il Volturno. Quelle lettere furono pubblicate dopo che Bosco avea lasciato il soggiorno di Roma, e si trovava in Parigi!
Gli uffizialotti bellimbusti (oggi in parrucca) che si dicono cattolici ed intanto combinano duelli, accusano eziandio Bosco di essere stato fedele alla Convenzione fatta con Garibaldi, e dicono: «invece di recarsi a Parigi e rimaner lì per circa tre mesi, dovea andarsene immediatamente a Capua, o a Gaeta presso il Re.» Questa proposizione è degna di chi l'ha detta. Garibaldi non era un generale riconosciuto di diritto come belligerante, e disgraziatamente lo riconobbero di fatto que' generali napoletani vili o traditori; i quali fecero tante convenzioni con quel duce della rivoluzione approvate poi dal ministero liberale; e tutti le adempivano scrupolosamente. Si pretendea che il solo Bosco avesse mancato alla sua parola per una promessa personale, dopo che avea ricevuta la libertà dal nemico, il quale avrebbe potuto -sebbene ingenerosamente ed ingiustamente - farlo marcire in un castello, invece di farlo partire per Parigi? Bosco non contrattò con Garibaldi come persona pubblica, ma accettò come un semplice particolare una offerta, che in quella eccezionale circostanza, non solamente davagli mezzo di liberarsi della prigionia, ma gli lasciava la speranza di raggiungere il suo Sovrano sopra i campi di battaglia. Quindi secondo noi era in obbligo come semplice gentiluomo di adempiere alla sua promessa fatta a Garibaldi.
Bosco, non appena finiti i tre mesi della convenzione fatta, quando non vi era più speranza alcuna di salvare la dinastia, nei primi giorni della seconda quindicina di dicembre, si recò a Gaeta; e come dirò appresso, rese segnalati servizii in quella fortezza, disegnando tre sortite contro il nemico, e salvando così l'onore di quella guarnigione, dapoichè i Generali che si trovavano in Gaeta parte si rifuggirono sotto le case matte, e parte si erano solamente ristretti a difendere la Piazza.
E quando Bosco in Gaeta esponeasi a tutti i pericoli e disagi di un terribile assedio, ov'erano gli uffizialotti suoi detrattori? Erano in Roma in seno alle proprie famiglia ricevendo decorazioni ed onori immeritati; e che da veri sibariti godeano tutti i comodi ed i piaceri della vita che suole apprestare una grande Metropoli...!
Il campo di Salerno si tolse perché Francesco II fu costretto ad abbandonare Napoli, ed abbandonò questa Città perché non trovò un uomo politico di mente e di cuore che l'avesse aiutato a liberarsi del Ministero Spinelli. Stando al potere que' Ministri settarii e fedifraghi tutto dovea andare a soqquadro. Taluni, che a tempo opportuno si mostrarono politici da nulla, o pessimi militari, oggi atteggiandosi a grandi uomini sputano sentenze, e criticano, per lo meno, di inesatto chi sopra le loro magagne.

(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).