Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.
Gli animali
feroci quando insieguono la preda, tutti insieme s'intendono e si aiutano per afferrarla: però, non appena l'hanno ghermita, si dilaniano rabbiosamente tra loro o per averla tutta intiera come il leone della favola, o per averne la maggiore o la miglior parte. Così fecero i rivoluzionarii della predata Napoli dopo la partenza di Re Francesco. Si unirono in casa del presidente Spinelli, e chi volea darsi a Cavour, e chi a Garibaldi; e sempre col fine di avere o intiera o la maggior parte della preda. D. Liborio Romano volea che si proclamasse il governo piemontese, in questo modo i suoi personali interessi sarebbero stati meglio garentiti: il comitato
dell'ordine
facea eco a D. Liborio. Però, il comitato di
azione
volea Garibaldi Dittatore. Lo Spinelli che volea dare un colpo più da maestro contro la dinastia, disse che il ministero di Francesco II non dovea fare adesione né a Cavour, né a Garibaldi. Il Municipio napoletano, che non era opera di D. Liborio, unanimemente deliberò di non aderire alla rivoluzione, se non che, da 24 eletti, i soli quattro aggiunti aveano deliberato a favore di Garibaldi, e furono cacciati via da' colleghi. Il principe d'Alessandria, Sindaco di Napoli, fu chiamato in casa del presidente Spinelli, e consigliato a proclamare un governo provvisorio, quel Sindaco si negò risolutamente.
Mentre si discuteva tra ministri e sindaco, si presenta il Villamarina accompagnato dal marchese d'Afflitto, lasciando fuori molti suoi cagnotti per essergli utili se occorresse. Questo settario in veste diplomatica volea obbligare il Sindaco a proclamare il governo piemontese, descrivendo i mali che sarebbero piovuti sulla Città e sul Regno, se si fossero negati. Egli avea sulle fregate sarde de' bersaglieri, e dicea che avrebbe potuto chiamarli a terra, e con essi tenere a segno i
faziosi,
e provvedere al buon ordine. Ministri e Sindaco si negarono. L'illustre e benemerito principe d'Alessandria disse a Villamarina: Napoli ha il suo Re, non volerne altro: e se ne uscì da quel conciliabolo.
Rientrato in casa sua, questa fu circondata da' cagnotti di Villamarina, ed egli fu chiamato fuori. Appena uscì sulla strada gli si presentò il Pisanelli, e gli disse, egli essere il Presidente del Comitato
dell'ordine, e
pregarlo a nome
dell'umanità
di creare un governo provvisorio, riconoscendo lo Statuto piemontese. Il principe d'Alessandria si negò dignitosamente anche questa volta, e disbrigossi eziandio di Pisanelli. A costui, tanto tenero dell'umanità, come Bixio in Bronte, gli tardava di
regalare a' suoi concittadini le leggi eccezionali di sicurezza pubblica, e darle il suo nome. Villamarina ed i suoi aderenti erano allarmati, perché Bertani Segretario intimo di Garibaldi consigliava questi a non proclamare il Governo piemontese, ma invece dichiararsi Dittatore delle due Sicilie, proseguire la marcia sopra Roma, e poi pensare alla forma del Governo che dar si dovesse all'Italia. Il Bertani era conosciuto per caldo repubblicano, e il suo consiglio, oltre di guastare i piani di Cavour e consorti, compromettea l'Italia rivoluzionaria, dapoichè in Roma stavano i francesi, a capo de' quali non vi erano né Landi, né Lanza, né Clary, né Gallotti, né Briganti, né Ghio, e que' capi non aveano un ministro di guerra simile a Pianelli; quindi benissimo dice il Persano nel suo diario: «L'avanzare contro Roma ci porterebbe indietro di dieci anni almeno nella nostra unificazione ed indipendenza nazionale, se anco non sarebbe la rovina d'Italia.
Villamarina partì subito per Salerno sul piroscafo Sardo
l'Authion
per abboccarsi con Garibaldi e Bertani, e persuaderli di arrestare la loro marcia e proclamare il governo piemontese.
Garibaldi, che sapea non essere Roma osso per i suoi denti, promise a Villamarina che non marcerebbe contro quella metropoli, ma che si sarebbe proclamato Dittatore indipendente delle due Sicilie, ed indi penserebbe ad annettere questo Regno al Piemonte.
Il telegrafo tra Napoli e Torino travagliava a maraviglia, Persano e Villamarina rapportavano tutto a Cavour, e da costui ricevevano l'imbeccata.
D. Liborio, che volea subito proclamare in Napoli il governo piemontese, subodorata la conferenza tra Villamarina e Garibaldi, scrive subito a questo, e gli dice: «
Napoli aspetta con ansietà l'invincibile dittatore delle Due Sicilie, e a lui confida i suoi destini.»
D. Liborio oltre di essere un valente cortigiano con le sue stomachevoli adulazioni, da vero avvocato
strascinafaccende,
sapea pur far bene due parti in commedia! Intanto in Napoli Villamarina, Persano e il Comitato
dell'ordine
intrigavano sempre a proclamare il governo piemontese, supponendosi tutti l'espressione della volontà popolare; ma si opponeva l'altro Comitato di
azione
che avea le stesse pretensioni ed optava per la dittatura assoluta di Garibaldi. Nondimeno il Persano proclamò un governo provvisorio schiccherando il seguente manifesto o decreto, come lo chiama il Persano. Italia e Vittorio Emanuele.
«In nome del generale dittatore, e fino al momento del di lui arrivo nella capitale, i sottoscritti,
a tale uopo invitati
(da chi?) si costituiscono governo provvisorio di Napoli, sia per tutelare l'ordine pubblico, sia per rendere più manifesta la volontà del paese.
Napoli 7 Settembre 1860, ore 11 a.m.
Firmati
G. Ricciardi - Giuseppe Libertini - Filippo Agresti - Camillo Caracciolo -Andrea Colonna - Raffaele Conforti - Giuseppe Pisanelli.
Sebbene quel manifesto del Comitato
dell' Ordine
metteva innanzi il nome del Generale Dittatore, e i firmatarii dichiaravano un governo provvisorio sino all'arrivo di Garibaldi, costui subodorò la manovra Cavourriana, cioè che gli si volea far
trovare il posto occupato, ed immediatamente ordinò l'arresto di que' sei del governo provvisorio. Ma il Dittatore, considerando poi che egli non avrebbe potuto lottare col Piemonte, senza del quale non sarebbe stato più
Xinvincibile Dittatore:
i Cavourriani considerando pure che non aveano forza, e che il Re legittimo si trovava di poche tappe lontano, tutti si rabbonirono ed accomodarono in modo le divergenze da dividersi pacificamente la conquistata preda. Fu dunque convenuto che i garibaldini doveano dare il primo assalto alla pingue preda, e poi il Piemonte e i piemontizzati si poteano spolpare le ossa, e rodersele pure all'occorrenza. Però l'operare di Garibaldi in questa circostanza non fu secondo i principii che volea rappresentare: egli si mostrava umanitario e liberale finchè lo secondassero; appena si stabiliva un governo provvisorio ov'egli ancora non era giunto, e perché questo governo non facea totalmente i suoi interessi, subito scaraventava un arresto alla Musulmana!
Il Comitato
dell'ordine
assicurava che solamente esso rappresentava la volontà del popolo; l'altro Comitato
d'azione,
con altri principii, affermava la stessa cosa: chi de' due comitati avea ragione? né l'uno, né l'altro! Le pretensioni e le gare di que' due Comitati erano proprio come le questioni teologiche tra Luterani e Calvinisti, i quali si scomunicavano a vicenda senza averne l'autorità. Son tutti figli dello stesso padre, né dobbiamo meravigliarcene.
Ora cominciano i proclami e le dicerie che si stamparono e si affissero sulle mura, prima e dopo l'arrivo di Garibaldi a Napoli. Que' proclami e dicerie dànno chiara certezza degli uomini e delle circostanze di quei tempi, quindi non voglio defraudare i miei benevoli lettori di quelle cicalate per esilararli un poco.
La prima proclamazione è del sempre distinto Caposquadra D. Liborio, già ministro dell'interno di Francesco II, e quando la scrisse funzionava ancora a nome del Re. Si dovrà notare nella seguente proclamazione lo stile basso e cortigianesco del liberalissimo D. Liborio Romano; ecco la proclamazione in forma di lettera.
«All'invittissimo general Garibaldi Dittatore delle Due Sicilie Liborio Romano ministro dell'interno.
Con la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo, per salutare il Redentore d'Italia, e deporre nelle sua mani i poteri dello Stato e suoi destini. In questa aspettativa starò saldo a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica; la sua voce già da me resa nota al popolo, è il più gran pegno di successo di tali assunti. Mi attendo ulteriori ordini, e sono con illimitato rispetto. Di Lei Dittatore invittissimo, Liborio Romano; 7 Settembre 1860. »
L'instancabile Don Liborio scarabocchiò un'altra proclamazione al popolo; eccola:
«Cittadini, chi vi ricorda l'ordine e la tranquillità in questi solenni momenti, è il Generale Giuseppe Garibaldi. Osereste non esser docili a quella voce, cui da gran tempo s'inchinano tutte le genti italiane? No, certamente. Egli arriverà tra poche ore in mezzo a voi, e il plauso che ne avrà chiunque avrà concorso al sublime intento, sarà la gloria più bella cui cittadino italiano possa spirare. Io quindi, miei buoni
cittadini, aspetto da voi quel che il Dittatore Garibaldi vi raccomanda ed aspetta. Il Ministro dell'interno e polizia Liborio Romano.»
Garibaldi, prima di partire da Salerno per Napoli, mandò la seguente proclamazione al popolo napoletano:
«Alla cara popolazione di Napoli. Figlio del popolo, è con pari rispetto ed affetto ch'io mi presento dinanzi a questo nobile ed importante centro di popolazione italiana, cui secoli di dispotismo non hanno potuto umiliare, e ridurre a piegare il ginocchio avanti la tirannia. Il primo bisogno d'Italia era la concordia per realizzare l'unità della grande famiglia italiana: oggi la Provvidenza ci dà questa concordia, giacchè le province sono unanimi e lavorano con magnifico slancio alla ricostituzione nazionale. Quanto all'unità la Provvidenza ci ha dato Vittorio Emmanuele, che in questo
momento
noi possiamo chiamare vero padre della patria italiana. Vittorio Emmanuele, modello de' sovrani, inculcherà ai suoi discendenti i doveri che dovranno adempiere per la felicità di un popolo che lo ha scelto per Capo con ossequio entusiastico. I Preti italiani (ci siamo!) che han la coscienza della loro missione, han per garenzia del rispetto col quale saranno trattati, lo slancio, il patriottismo, l'attitudine veramente cristiana de' loro confratelli; i quali dai degni monaci della Gancia sino a' generosi preti del continente napoletano, noi abbiamo veduti alla testa de' nostri soldati, sfidare i più grandi pericoli delle battaglie.
(Proprio come quel R.mo prete che in Sovaria-Mannelli si rubò la cassa militare dell'11° Cacciatori, con dentro 1500 ducati, e poi facea l'usuraio!)
Lo ripeto la concordia è il più gran bisogno d'Italia.
Noi dunque accoglieremo come fratelli coloro che non pensavano come noi in altri tempi, e che vorranno oggi sinceramente portare la loro pietra all'edifizio patriottico. Infine noi rispettiamo la casa altrui, ma vogliamo esser padroni in casa nostra, piaccia o non piaccia a' dominatori della terra.
Giuseppe Garibaldi.»
Il Dittatore partì da Salerno la mattina del 7 settembre e giunse alla stazione della ferrovia di Napoli sul mezzogiorno. Era egli accompagnato da soli dieci garibaldini, il de Sauget ed altri pochi giovani napoletani andati a riceverlo a Salerno, tra gli altri il principe di Fondi, ed era costui il solo appartenente all'aristocrazia napoletana. Giacchè Garibaldi osò avventurarsi ad entrare in Napoli senza le sue squadre garibaldesche, ci fa pensare che facea a fidanza col comandante della truppa regia.
D. Liborio sempre il primo a far mostra di sè trattandosi di trovarsi in contraddizione col mandato che aveagli dato Francesco II, aspettava alla stazione della ferrovia il Dittatore, insieme ai direttori Giacchi, de Cesare e Badari Prefetto di polizia. Alla stazione era eziandio un battaglione di Guardia nazionale, gran numero di camorristi, ed altro popolaccio attirato da' poliziotti e della curiosità.
Appena Garibaldi entrò nella stazione, D. Liborio gli si presentò facendo una
smorfia,
e quattro
salamelecchi;
cavò una scritta compilata e firmata da lui, e da' due direttori, la lesse a Garibaldi in nome del ministero di Francesco II, che più non potea e non dovea rappresentare, non avendo certamente avuto questo mandato:
«Generale. Vi è innanzi il ministero di Francesco II: ma noi ne accettammo la potestà, per far di noi un sacrifizio al nostro paese, (con pigliarci i bei soldi dovuti ai ministri, che n'aveano tanto di bisogno!) L'accettammo in difficile momento, quando il pensiero dell'unità italiana con Vittorio Emmanuele, che da gran tempo agitava gli spiriti napoletani, sostenuto dalla vostra spada, era già onnipotente; quando era cessata ogni fiducia tra sudditi e sovrano; quando antichi rancori, e diffidenze riprodotte dalla ridate liberà costituzionali, faceano che il reame stesse angosciato per tema di nuove violenti dimostrazioni. Accettammo il potere nel fine di mantenere l'ordine pubblico (a modo nostro) e salvare lo stato della guerra civile, (e renderci fedifraghi). Il paese comprese questo nostro intento, (e chi nol comprese!) e ne apprezzò gli sforzi (di fellonia). A noi non mancò la confidenza de' nostri concittadini; (cioè de' camorristi) e noi dobbiamo al loro concorso l'aver preservata questa città dagli atti di violenza e distruzione, fra tanti odii di partiti, (da noi suscitati). Generale, tutti i popoli del Regno, sia per sollevazioni aperte, sia per istampe, ed altri modi, han manifestato chiaramente la volontà di far parte della gran patria italiana, sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele, voi siete il simbolo più alto (simbolo alto!) di questa volontà e di questo pensiero; però in voi si girano tutti gli sguardi (de' nuovi pagnottisti) in voi tutte le speranze sono poste. E noi depositarii della potestà, noi pure cittadini italiani, trasmettiamo il potere (che più non abbiamo) nelle vostre mani, certo che il terrete con vigore, e che saprete menare la patria (alla miseria) verso il nobile scopo ch'è scritto nelle vostre vittoriose bandiere, impresso ne' cuori di tutti: Italia e Vittorio Emmanuele.»
Dopo che D. Liborio finì di leggere la sua tiritera, Garibaldi lo ricompensò con una stretta di mano, chiamandolo (traditore) salvatore di Napoli, e confermandolo ministro dell'interno!
Quando Garibaldi usciva dalla Stazione, alcuni artiglieri del forte del Carmine gli voleano tirare addosso, ma gli uffiziali li trattennero secondo gli ordini ricevuto dal generale Cataldo comandante la Piazza di Napoli. A questo proposito voglio qui trascrivere quello che dice il Capitano di Stato Maggiore
Tommaso Cava nella
Difesa nazionale napoletana,
pag. 63. Napoli 1863;
«Il giorno che giunse in Napoli il Generale Garibaldi, io mi ritrovava tuttavia per disbrigare alcuni urgenti affari di famiglia, e fui spettatore di tutto quello che avvenne. Raggiunsi le bandiere il giorno seguente, e fui l'indomani dal Re in Gaeta, il quale consapevole della mia residenza in Napoli il giorno 7 Settembre, volle sapere i particolari di quello che era avvenuto; e mentre io gliene faceva la narrazione, un zelante uffiziale si permise di osservare con rammarico, che nessun soldato tirò al Generale Garibaldi di dentro il Forte del Carmine, per esservici passato d'innanzi tanto lentamente per come io riferiva. Avreste dovuto star lì signori detrattori, per sentire con quanto dignità il Re rimproverò l'espressione di quei sentimenti a quel fanatico ciarlone, dicendogli che si meravigliava come fra gli uffiziali del suo Esercito, vi era ancora chi nutriva bassi sentimenti di traditore; che Garibaldi si combattea in campo aperto, e non si assassinava, poichè esso seguiva l'impulso di un principio politico:
quindi trattomi più in disparte si fece raccontare il resto, e quando mi congedò perché avessi raggiunto il mio posto, mi lasciò dicendomi:
ora che abbiamo adempito al dovere di padre dei popoli, risparmiando la Capitale dal flagello di una guerra civile, adempiremo a quello di Re e di soldato.
Non trovate, signori detrattori, qualche differenza fra i sentimenti di Francesco II verso il suo nemicoGaribaldi che venne a detronizzarlo, e quelli di un Rattazzi, di un Petitti ec. che l'hanno talvolta chiamato bandito e trattato come tale? E ciò dopo di averne ricevuto in dono due regni in uno, ossia dopo di avere ricevuto ventidue province, coll'annessione pura e semplice al Piemonte?
Il Dittatore dopo la diceria di D. Liborio, montato in carrozza assieme a Bertani e 'l De Sauget in abito di Guardia Nazionale.... si levò in piedi in camicia rossa, e con lo storico fazzoletto al collo, rispondea
viva
agli
evviva,
levando alto il cappello con code di cappone. Passò impunemente sotto le bocche de' cannoni regi del Carmine, e si disse che una sentinella regia gli avesse fatto il segno di onore con le armi.
Seguivano la carrozza di Garibaldi altre carrozze; si distingueva quella di Villamarina, Ministro Sardo
accreditato
presso Re Francesco II, costui smentiva ufficialmente tutte le proteste del Piemonte contro Garibaldi, facendo la corte a chi il suo Padrone Cavour avea chiamato filibustiere anche ufficialmente. Indi seguiva quella del celebre Padre Gavazzi vestito mezzo prete mezzo garibaldino; avea accanto una donna con camicia rossa, tunica verde e bianca veste. il Dittatore in trionfo col suo corteo prese la via del Piliero, marciando lentamente: giunto nel Piano del Palazzo Reale, smontò di carrozza, salì nel Palazzo della Foresteria, e dal balcone disse: «Giusto è il vostro entusiasmo in questo dì che cessa la tirannia e comincia (la legge eccezionale) la libertà.» Fu poco udito, moltissimo acclamato. Si presentò Ayala con altri che si diceano deputati della Città, e fece a Garibaldi un ampolloso discorso, indi gli chiese un bacio dicendo: «Voi date questo bacio a cinquecentomila abitanti di questa Città» anche a' Preti?!?...
È indescrivibile il baccano che si fece all'entrata di Garibaldi in Napoli; qualunque penna non potrebbe darne un'idea approssimativa. Quel baccano superò l'altro di Palermo. Quelli però che applaudirono il Dittatore erano stranieri, camorristi, donne di cattivo odore in toletta di
signore;
gente avida di novità, sfaccendati speranzosi di ghermire una pagnotta, e gente prezzolata. Si disse che D. Liborio erogasse in quella giornata ventiquattromila ducati dello Stato per suscitare que' saturnali indecentissimi. La nobiltà napoletana quasi tutta avea preso la via dell'esilio, il clero sparito per incanto, l'onesta borghesia serrata in casa propria, le botteghe chiuse: il campo restò libero a' camorristi, alla comprata plebaglia. Tutta questa gente girava in armi la città, a piedi e in carrozza, gridando
Italia una,
con tutte l'altre appendici, costringendo i curiosi spettatori a gridare nel modo medesimo, se no busse e coltellate. Questa gente buttava fiori sopra Garibaldi
redentore;
e gridò tanto
Italia una
che perdette la voce, e fu costretta alzare il dito indice della mano destra per indicare
quell'una
senza neppure intendere cosa si fosse. D. Liborio fu ben servito da que' gridatori, egli da uomo scaltro avea fissato il prezzo corrispondente a gridi ed ai chiassi di ciascuno.
Preti spretati e monaci apostati, irti d'armi e di crocifissi, faceano anche numero in quel baccano. Più di cento cinquanta uffiziali di artiglieria, del genio, e d'altri corpi, disertori chi per codardia, chi per non perdere l'impiego, tenendo perduta la causa del Re, faceano anche numero fra quel popolaccio scomposto e briaco.
Faceano numero in quell'orgie tanti stranieri venuti a Napoli a bella posta per far popolo ed applaudire Garibaldi. Anche antichi impiegati rimasti per amor del proprio bene in officio, sperando promozioni applaudivano. Questi ultimi si atteggiavano a liberali per quanto si erano mostrati assolutisti e provocanti: si vantavano, chi liberale del 1820, chi del 1848, raccontando persecuzioni che non avano mai sofferte da' Borboni. Anche le spie della polizia borbonica in quel giorno memorando vestivano aspetto di liberali, e si protestavano congiuratori e vittime del passato Governo.
Quel giorno, invece di essere il trionfo di Napoli, come lo chiamarono i così detti liberali, fu giorno che rivelò l'ingratitudine e la bassezza di non pochi napoletani, da far vergognare ogni anima onesta. Era rivoluzione: e non dobbiamo maravigliarci, se la feccia era venuta su. Così avviene in tempestosa marea, torna a galla ciò che in fondo giace.
Quasi in tutte le strade di Napoli succedevano que' tripudii satanici, ed i promotori erano per lo più quelli beneficati da' Borboni, o gli stessi condannati da' tribunali per fellonie perpetrate nel 1820, nel 1830 e 1848, e a cui Ferdinando II non solo avea fatto grazia, ma aveali rimessi ne' perduti impieghi. Questa gente facea di più, aizzava i camorristi e compagnia a perseguitare gl'innocui cittadini, o perché designati come borbonici, o perché non voleano far parte di quelle orgie. Quel giorno alla via della Marinella avvennero fatti indegni e selvaggi a causa di una cannonata a polvere tirata dal forte del Carmine, perché i camorristi ferirono una
Sentinella;
quella cannonata fu il segnale contro la gente tranquilla. Supponeano i camorristi che si avesse voluto reagire; e quindi guai a tutti coloro che non aveano aspetto di briganti, che non erano armati, e che non gridavano Viva Garibaldi. Un nostro conoscente, il Chirurgo del 13.° Cacciatori Achille Corcione, il quale passava in quell'istante per la via della Marinella, vestito in uniforme, perché andava alla ferrovia per recarsi a Capua a raggiungere l'esercito, si trovò compromesso in mezzo a quelle baruffe, e vide scene poco degne d'un popolo festante.
Volendosi salvare da que' selvaggi briachi cercò ricovero nella Caserma della Guardia Nazionale di S. Pietro Martire: fu accolto dal Comandante di quella guardia; ma qual non fu la sua sorpresa nell'osservare che sotto la divisa di Guardie nazionali vi erano non pochi volgari assassini, che martirizzavano gli onesti cittadini, o perché non gridavano a modo loro, o perché li credevano borbonici e reazionarii! Il mal capitato Chirurgo Corcione, ebbe a gran fortuna fuggire da quella caserma, contentandosi di sfidare l'innebriata onda popolare che facea aspro governo contro tutti coloro che non le rassomigliassero.
Garibaldi discese dal palazzo, si pose in carrozza, smontò dopo poco innanzi il Caffè d'Europa, e di là si diresse con gli altri in processione verso il Duomo per la via di Toledo. Egli andò al Duomo per visitare il Patrono della Città, e da italianissimo scimmiottare il francese Championnet. Avealo preceduto il padre Pantaleo; quantunque si fosse ordinato di preparare e disporre tutto quello che occorresse per ricevere il Dittatore, nondimeno si trovò tutto chiuso e fu necessario scassinare i cancelli, e senza riguardo si sfondarono le porte della sagrestia, ove non si trovarono arredi sacri. I camorristi devenuti accoliti del Reverendo Pantaleo, bastonarono il custode del Duomo, come quello che non avea eseguito gli
ordini
ricevuti. Corrono alla vicina chiesa de' Gerolomini, battono coloro che si negano dare gli arredi sacri, sfondano le porte di quell'altra sagrestia, e rapiscono quegli arredi che abbisognavano a quella specie di sacrilegio.
Giunto il Dittatore al Duomo con tutto il suo seguito, il padre Pantaleo sale in pergamo vestito ancora con l'abito di frate e con camicia rossa, cinto d'armi, e con l'ostensorio in mano, prorompe in triviali bestemmie, e tra le altre bestiali empietà dice: «Dio, prima diè la legge a Mosè, poi la mandò più perfetta pel Cristo suo figliuolo redentore,
ora l'inizia perfettissima per Garibaldi redentore novello.»
E tutti applaudirono non escluso Garibaldi
redentore.
Infine il padre Pantaleo intuona il
Tedeum
e dà la benedizione. Intanto nel Duomo, come in Mercato, si vendeva, si comprava, si mangiava, si beveva, e si bestemmiava! Oh! la setta che odia e perseguita la santissima religione fondata dall'uomo-Dio, vuol poi costringere i ministri del Santuario a celebrare i suoi eccessi, e ringraziare Iddio delle sue consumate nefandezze contro il Cristo medesimo!
Garibaldi, uscito di Chiesa, montò in carrozza con l'amico D. Liborio, si fermò a Toledo allo Spirito Santo, e a dispetto del proprietario s'impossessò del palazzo del principe d'Angri, e con lo scopo di scimiottare ancora i francesi duci Championnet e poi Massena che alloggiarono in quel palazzo. Il Dittatore occupò il piano superiore, il piano nobile fu occupato dal suo corteo. Quindi si potrà supporre in quale stato il principe d'Angri abbia trovato l'elegante mobilio al suo ritorno che fece da Parigi.
Il Padre Pantaleo, come cappellano maggiore di Garibaldi, e lo stato maggiore di costui, s'impadronirono dell'altro palazzo del Principe S. Antimo fuggito a Parigi; ove alloggiarono da grandi aristocratici. Si vede che a que' democratici non dispiacevano i comodi e gli agi principeschi.
Garibaldi al palazzo d'Angri cominciò a ricevere visite da' felloni e traditori, e segnatamente ricevè la visita del generale Lanza bombardatore di Palermo, ed avversario in maschera al Dittatore nella guerra di quella città. Lanza fu ricevuto cordialmente; ed invero, senza millanteria avrebbe potuto dire a Garibaldi: «inchinati innanzi a me, io avrei potuto stritolarti: il tuo trionfo, e il posto che occupi sono tutti opera mia.
Quel giorno stesso il Dittatore fu visitato dall'ammiraglio Sardo Conte Persano vestito in grande uniforme per dar più importanza a quella visita, e per far persuaso
il popolo che l'ammiraglio Sardo sarebbe stato pronto a sostenere l'opera del duce rivoluzionario con tutte le sue forze.
L'incontro di Persano con Garibaldi fu cordiale; si abbracciarono da veri amici, e si comunicarono le loro idee guerresche e politiche. Però questi intendea proseguir la marcia sopra Roma e Venezia, e quello disapprovava tale risoluzione giudicandola inopportuna, e quindi pericolosa.
Il Dittatore, di moto proprio, disse a Persano che volea dargli il comando di tutte le forze navali del Regno, e senza più dettò il seguente decreto che rimise a quell'Ammiraglio:
«Il Dittatore decreta. Napoli 7 Settembre 1860.
Tutti i bastimenti da guerra e mercantili appartenenti allo Stato delle Due Sicilie, arsenali e materiali di Marina sono aggregati alla squadra del Re d'Italia Vittorio Emmanuele, comandata dall'Ammiraglio Persano.
Firmato G. Garibaldi.»
Trovavasi ancora in Torino il Ministro di Francesco II accreditato presso quella Corte, e Persano senza alcuno scrupolo, anzi slealmente, s'impossessò della marineria regia, arsenali e materiali di marina, frutto di cinquanta anni di spese e lavori fatti dalla Casa Borbone.
Il Persano volea mandare subito in Sardegna la flotta napoletana, ma non potea mancandogli i marinari per guidarla. Il 13 Settembre uscì un manifesto col quale si prometteano venti ducati d'ingaggio, sei ducati al mese di soldo, e il vitto a bordo a quei marinari napoletani che avessero voluto servire il Piemonte. Nessuno si presentò, e Persano dovette usare la forza per averli, e per mandare in Sardegna la flotta napolitana! Quale virtuosa differenza tra l'ufficiale settario e 'l fedele soldato!
Lo stesso giorno 7 Settembre, a richiesta del Persano, il Dittatore firmò il seguente decreto:
Il Capitano di Vascello Vacca, (quello del
Monarca)
e il Capitano di Vascello Barone, i Capitano di fregata Vitagliano, sono confermati nel loro grado; siccome tutti gli uffiziali di Marina che diedero le loro dimissioni (cioè che tradirono il proprio Sovrano), per servire la causa italiana. Firmato G. Garibaldi; «Gloria eterna ai Vacca, ai Baroni ed ai Vitagliano!
La sera del 7 Settembre passò tranquillamente: si vedeano molte bandiere, poca gente, meschina illuminazione festiva, e questi apparenti segno di giubilo erano opera di D. Liborio e de' Camorristi.
Il giorno seguente festa di Piedigrotta, tanto rinomata in Napoli, il Dittatore disse volervi intervenire per
devozione
assieme al suo indivisibile D. Liborio. Però i maligni dissero che vi fosse andato per far le veci di Sovrano: egli tanto democratico?! In mancanza di preti autorizzati, supplirono Pantaleo e Gavazzi, i quali vestirono la Madonna co' tre colori, e presentarono a Garibaldi il mazzo di fiori benedetti come si dava a' re; e il Dittatore baciava que' fiori, e li baciucchiavano pure i Camorristi che faceano corteggio alla novella Sovranità garibaldesca. E con queste profanazioni e pagliacciate credeano corbellar il popolo! Al ritorno di questa pagliacciata Giove Fluvio ricompensò tutto il corteo garibaldesco con una pioggia niente piacevole.
(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).