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A poche settimane dall’uscita di Sionismo bifronte, mi è capitato di rileggere un testo in cui il tema della complementarità tra sionismo ed antisemitismo veniva nuovamente e frontalmente toccato.
Come noto, trattasi di argomento tabù, in quanto gravemente destrutturante rispetto alla vulgata mediatica che associa inscindibilmente “antisionismo-e-antisemitismo” quasi fosse una sola parola.
L’articolo in questione è di Vincenzo Pinto, nella sua parte iniziale cita non un’intellettuale dissidente ma una storica “dell’establishment” come l’israeliana Anita Shapira.
Invito alla lettura: [...] La storia del sionismo è legata indissolubilmente a quella dell’antisemitismo moderno. Un’affermazione apodittica di questo tipo, già sostenuta con forza da Hannah Arendt nel suo noto saggio sulle origini del totalitarismo1, racchiude dentro di sé un problema immediatamente centrale nell’analisi delle origini del nazionalismo ebraico. Nel 1995 Anita Shapira, uno dei più noti studiosi israeliani appartenenti alla cosiddetta “storiografia dell’establishment”2, ha posto lucidamente la vessata questione: in che misura il sionismo ha saputo puntellare la sua costruzione identitaria su di un principio negativo (come l’antisemitismo) rispetto a uno positivo (come la rinascita nazionale ebraica)? Paragonato ad altri responsi ebraici all’antisemitismo (l’umanesimo liberale, il bundismo, l’ebraismo riformato), «l’unicità del sionismo sta nell’aver accettato l’assunto basilare antisemita che gli ebrei costituissero un “corpo estraneo” nella fabbrica nazionale dei popoli europei – un corpo che non poteva mai assimilarsi. [...] Un velo è sollevato dai loro occhi, ed essi [i sionisti] possono parlare onestamente e apertamente dei difetti e delle debolezze ebraici. Questo era un candore che gli ebrei non avevano potuto permettersi finché essi credevano ancora che il problema ebraico avrebbe potuto un giorno essere risolto entro la struttura delle nazioni europee»3. [...] [Per leggere il resto cliccare qui]
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Scheda a cura di Andrea Giacobazzi