"Sia il vostro dire sì sì no no": forte di questa ammonizione evangelica, presenterò la mia tesi in modo inequivocabile, affermando che del risorgimento non c'è niente da salvare, ma che anzi i più grandi problemi degl'italiani derivano dall'unità d'Italia, o almeno dalle cattive modalità con le quali nel XIX secolo si è compiuta l'unificazione nazionale. Il 150°anniversario dell'evento, caduto nel corso del 2011, avrebbe potuto essere l'occasione per ragionare su questi avvenimenti e presentarli al grande pubblico in modo veritiero. Così, una volta conosciute le radici di certi problemi, avrebbe potuto iniziare una discussione nuova e magari costruttiva. Invece ha prevalso la retorica patriottarda dei ciampi benigni e cazzulli vari (1), a cui il popolo si è accodato, urlando quant'è bello essere italiani e appendendo tricolori a ogni balcone. (Ma non s'illudano i patrioti nazionalisti: queste hanno rappresentato solo manifestazioni esteriori di un sentimento superficiale. Il popolo italiano in realtà esiste solo quando gioca la nazionale di calcio; nei momenti cruciali della vita politica e sociale hanno continuato e continueranno a prevalere, come sempre, l'individualismo egoistico e lo spirito di fazione itaglioti).
Analizzando alcuni errori ed orrori del risorgimento e dei suoi protagonisti, quindi, scopriremo l’origine di alcune debolezze strutturali che oggidì, detto en passant, rischiano di far sì che il giocattolo si rompa da un momento all'altro. (Sì, lo riconosco: non me la sento di scommettere più di tanto sul futuro dei questo paese).
-Questione meridionale
1- ll Regno delle Due Sicilie
Non era, il regno dei Borbone, una specie di paradiso terrestre. E infatti nessuno lo afferma (a parte gli unitaristi, che cercano di attribuire ai critici del risorgimento queste considerazioni, nel vano tentativo di screditarne il lavoro). Tuttavia, nell'Italia meridionale non si viveva peggio che nel resto dell'Italia e dell'Europa. Nel 1856 il regno borbonico era stato premiato alla mostra di Parigi come primo stato più industrializzato d'Italia e terzo d'Europa. Napoli, a metà '800, era la terza città europea dopo Parigi e Londra. Gli impianti industriali più evoluti d'Italia, Mongiana e Pietrarsa, si trovavano al sud: l'ultimo dei due in particolare fungeva da modello e attirava delegazioni di studio dalle altre potenze europee, dal Piemonte alla Russia! Non che mancassero, ovviamente, sacche di miseria e povertà, condite con un diffusissimo analfabetismo. Ma, come ha ricordato Pino Aprile, in quegli anni le altre due metropoli europee facevano da teatro a romanzi come "I miserabili" o "Le avventure di Oliver Twist": i paradisi terrestri, evidentemente, non esistevano neanche più a nord... A Napoli borghesi arricchiti e nobili spadroneggiavano, e in Sicilia ciò avveniva in misura ancora maggiore, dato lo strapotere dei baroni latifondisti e la scarsa presenza del potere statale. Tuttavia, le Due Sicilie sono anche lo stato che ha avviato la prima profilassi antitubercolare e quello in cui si è avuta la prima assegnazione di case popolari. Inoltre esso possedeva una flotta militare e mercantile di tutto rispetto, tanto da farne una delle prime tre potenze marine d'Europa, e grazie agli spostamenti mercantili via mare sopperiva alla debolezza infrastrutturale legata alla scarsità di strade e ferrovie (scelta logica, in uno stato circondato per 3/4 dal mare). Ancora: già all’indomani del Congresso di Vienna i Borbone avviarono il primo sistema pensionistico d’Italia, attraverso trattenute del 2% sugli stipendi degli statali, e nel Regno c’era la più alta percentuale di medici per abitante della penisola, cioè 9390 su circa 9 milioni di abitanti: anche per questo, forse, lì si registrava la più bassa mortalità infantile italiana.
Queste brevi considerazioni, ancorchè non esaustive, dovrebbero essere sufficienti per capire la natura di una delle grandi bugie del risorgimento, ossia l’idea di un meridione barbaro-retrogrado-povero, provvidenzialmente liberato dai soliti “eroi”.
2-I contrasti con l’Inghilterra e l’invasione
Eppure, in pochi mesi, il regno millenario fu cancellato dalle carte geografiche. A proposito della spedizione dei mille e dei suoi interpreti si è già scritto tanto. Essi, come ammetteva lo stesso Garibaldi, erano "tutti di origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni con radici nel letamaio della violenza e del delitto". Riuscirono a sbarcare perché protetti dalla presenza della marina militare inglese, e vinsero le prime battaglie corrompendo vertici militari e funzionari civili duosiciliani. Domanda: come una sbranca di delinquenti potè rimediare così tanto denaro da far saltare uno stato? (2) Semplice: furono finanziati dalla logge massoniche inglesi e dai circoli protestanti anglo-americani, perché facessero in loro vece un lavoro sporco (molto sporco), che essi desideravano per almeno tre motivi: eliminazione di un rivale commerciale degli inglesi, con cui nei decenni precedenti avevano maturato non pochi contrasti (vedi questione dello zolfo siciliano, materia prima all'epoca importante e sulla quale l'imperialismo di sua maestà britannica aveva messo gli occhi, non gradendo ad esempio i rapporti di Re Ferdinando con lo Zar); eliminazione di un forte stato cattolico e, ancora più importante, tappa di avvicinamento verso lo stato della Chiesa, che questi soggetti sognavano di distruggere per poi eliminare definitivamente anche il cattolicesimo; creazione di un feudo britannico nel cuore del mediterraneo, da poter poi usare, all'occorrenza, in chiave antifrancese. Per inciso: divertente il corto circuito logico nel quale cadrebbero i nazionalisti nostrani, che mai ebbero in simpatia la perfida albione, se non facessero finta di ignorare che senza i soldini e le navi inglesi l'italia non sarebbe mai nata.
3- La guerra civile e il brigantaggio
La conquista fu completata quando l'esercito piemontese, in barba a qualsiasi regola e consuetudine, invase lo stato da nord. Contro i liberatori, tuttavia, si sviluppò fin da subito una resistenza armata, che impose al nuovo stato italiano l'impiego di metà dei suoi effettivi (oltre 100000 uomini) nonché misure repressive spietate. Nel 1863 fu approvata la legge Pica, che legittimava lo stato d'assedio. I combattenti antipiemontesi, i briganti, erano figure etereogenee unite dalla lotta ai savoia: legittimisti borbonici, delinquenti comuni, ex militari degradati, civili che sposarono la lotta armata perchè non accettarono le nuove regole savoiarde che aumentavano a dismisura la pressione fiscale e li costringevano ad un lunghissimo periodo di leva militare obbligatoria lontani dalla patria. Essi tennero in scacco l'esercito piemontese fino alla metà degli anni '60, anche se l'ultimo brigante fu ucciso nel 1872. In questo periodo i “fratelli d'italia” usarono qualsiasi mezzo per avere la meglio: fucilazioni, esecuzioni sommarie, stragi. Accade, e accadde più di una volta, che interi paesi furono bruciati, con le donne e i bambini dentro. Da Bronte (siamo ai primi vagiti dell'invasione) a Pontelandolfo, a Casalduni gli eccidi furono la norma. Alla fine, tra i meridionali, si conteranno centinaia di migliaia di morti, forse un milione (sia nella I che nella II guerra mondiale i caduti italiani saranno circa 600mila ! ) Ricordiamo anche, dato che non è stato fatto spesso, che i prigionieri militari borbonici che non accettavano di rinnegare il giuramento di fedeltà a Re Francesco finivano spesso in carceri, ormai universalmente definiti “lager”, dove venivano fatti morire di fame e di freddo. A migliaia !
Ecco il risorgimento, l'impresa inenarrabile di benignesca memoria. Sì Roberto, hai ragione: fu proprio un'impresa inenarrabile... Come si sia potuti arrivare a questo massacro, non è facile capirlo. Certo, i pregiudizi e l'odio antimeridionale covato dalle elite piemontesi, e instillato nei militari, di certo ha aiutato. Consiglio una rassegna delle dichiarazioni dei vari boia Cialdini, D'Azeglio, Nievo, Bixio sui meridionali: dalla razza inferiore e vaiolosa al “bruciamoli tutti” ce n'è per tutti i gusti !
Un ultimo appunto: alla vigilia della II guerra di indipendenza (quella fatta per liberare gli italiani, of course) il Piemonte rischiava la bancarotta. Nel decennio cavouriano il debito pubblico era salito alle stelle: oltre un miliardo di lire. La guerra di conquista con conseguente furto delle ricchezze degli stati assoggettati era l'unica possibilit・ di sopravvivenza per lo stato sabaudo, come disse a chiare lettere il liberale piemontese Boggio: “La pace ora significherebbe per il Piemonte la riazione e la bancarotta”. Per fortuna le casse del regno duosiciliano erano piene di milioni d'oro: ci avrebbero pensato loro a risanare il bilancio piemontese !
4-Le conseguenze ancora attuali: emigrazione, desolazione, criminalità organizzata e mancanza di senso civico
Nonostante la distruzione dello stato e delle industrie (l'impianto siderurgico di Mongiana prima dell'invasione era il più all'avanguardia della penisola) fino agli anni '70 il divario tra nord e sud (che, come abbiamo visto, non esisteva prima dell'invasione) rimase poco accentuato, ma da quel momento in poi iniziò a manifestarsi nella sua drammaticità. Vista l'esito sfavorevole della lotta armata, e venute meno le opere di assistenza fornite dai vari ordini religiosi (dopo che lo stato italiano aveva proceduto al furto dei beni della Chiesa) per milioni di meridionali l'emigrazione divenne l'unica speranza. Il fenomeno iniziò dagli anni '70/'80, e non si placò se non dopo molti decenni. Capitolo criminalità organizzata: così come i briganti, soprattutto tra Lazio e Campania, erano presenti da secoli, ma solo negli anni '60, grazie all'appoggio della popolazione, si formò il brigantaggio, così è certo che nel sud esistevano forme di criminalità organizzata, le quali esercivano una forma di controllo del territorio, soprattutto dove l'autorità statale era più lontana. Ma da qui ad assumere le connotazioni proprie dell'epoca post-unitaria, ce ne passa eccome. Fu durante l'unità che il potere della mafia si consolidò: lo sbarco di Garibaldi fu preparato logisticamente dagli agenti di Cavour che si accordarono coi picciotti dei potentissimi baroni siciliani (chissà che caruccia la scena di Garibaldi che a Salemi, scortato dai mafiosi dell'epoca, proclama la dittatura dell'isola); a Napoli, dopo la partenza di Re Francesco, il ministro Liborio Romano, altro beneficiario dei soldini garibaldo-massonici, conferì il mantenimento dell'ordine pubblico ai camorristi (sembra uno scherzo ma purtroppo è la realtà). Camorristi che, esibendo con orgoglio la coccarda tricolore, “vigileranno” con impeccabile senso del dovere anche le operazioni di voto del plebiscito di annessione. Da quel momento in poi, in intere regioni del sud niente avrebbe fermato il potere della criminalità organizzata, con buona pace di chi afferma che questa era presente anche prima e che l'unificazione non ha contribuito ad aumentare esponenzialmente il suo potere e la sua influenza sul territorio, fino a farne un vero controstato.
Pino Aprile, nel suo fortunato “Terroni”, dedica molto spazio ad analisi di psicologia sociale, che ci possono essere utili per analizzare i rapporti tra unificazione e attuali problemi del sud. Perchè- si chiede Pino Aprile, che con onestà non nega gli attuali enormi limiti civici del meridione- un calabrese che si trasferisce a Pavia diventa un buon cittadino ? Non essendo evidentemente una questione genetica, bisogna cercare altre spiegazioni. Il ruolo dell'individuo nella società- spiega Aprile- è fondamentale per determinare la sua condotta, ancora più della volontà immediata dell'individuo stesso. Al sud, dopo il 1860 si impose il concetto di “impotenza appresa”: sconfitti militarmente, i meridionali furono spinti a credere che fosse stato giusto così. Coloro che non emigrarono erano i più apaticamente propensi a tollerare soprusi, e a venire a patti col nuovo potere. Una società che ha certi pregiudizi agisce in modo da confermarli, e così al sud ognuno si adeguò al suo nuovo ruolo. Il vinto fu portato, seppur inconsapevolmente, ad accettare come giusta la sua condizione. Non basta però tutto questo a spiegare il disfacimento dell'ordine civile che colpì il meridione, dove il senso civico si restrinse alla famiglia o al clan. Una realtà mai analizzata, ad esempio, fu la tragedia della “perdita dei padri”: prima la resistenza all'invasore coi suoi massacri, poi l'emigrazione, che coinvolse principalmente giovani uomini, infine la carneficina della I guerra mondiale dove morirono, in proporzione, più meridionali che uomini del nord, fecero sì che molte persone di tre generazioni di meridionali crebbero senza padre. Addirittura, ai primi del '900, sorse un problema demografico legato alla sovrabbondanza di femmine rispetto ai maschi. L'assenza di autorità paterna, in una società da secoli abituata a conoscere l'importanza del padre, fece sfilacciare l'insieme delle regole che governavano la comunità. Alla luce di tutto questo, si può ancora difendere il risorgimento?
-Il fine giustifica il mezzo (?)
I convinti sostenitori dell'unità diranno che, evidentemente, queste erano le uniche modalità per arrivare a fare l'italia unita. A questa tesi si può rispondere in due modi diversi: in primo luogo, non sta scritto da nessuna parte che uno stato unitario italiano dovesse nascere per forza. Questa idea a ben vedere è figlia di una visione storica determinista e teleologica, di matrice romantica, per la quale tutto il processo storico è corso inevitabilmente verso la creazione dello stato-nazione Italia. Questa in realtà era stata unita politicamente solo ai tempi dell'Impero di Roma, (4) quando era una parte della grandiosa res publica sovranazionale. Conosciamo un parere autorevole in proposito:
“Per duemila anni l'i talia ha portato in sé un'dea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un'idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l'idea dell'unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale.
I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un'idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l'arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l'italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? E' sorto un piccolo regno di second'ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, [...] un regno soddisfatto della sua unità che non significa letteralmente nulla, un'unità meccanica e non spirituale (cioè non l'unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second'ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!” Così si esprimeva Dostoievski nel suo "Diario di un viaggiatore".
“Per duemila anni l'i talia ha portato in sé un'dea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un'idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l'idea dell'unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale.
I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un'idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l'arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l'italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? E' sorto un piccolo regno di second'ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, [...] un regno soddisfatto della sua unità che non significa letteralmente nulla, un'unità meccanica e non spirituale (cioè non l'unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second'ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!” Così si esprimeva Dostoievski nel suo "Diario di un viaggiatore".
Un'eventuale unione degli italiani non avrebbe mai dovuto avvenire in seguito ad un processo di conquista, ma gradualmente e solo su una base confederale o largamente federale !
-Lega o federazione italica: chi avrebbe voluto e chi si è opposto.
Arriviamo dunque ad analizzare la seconda risposta che potremmo fornire all'unitarista di turno: l' unità è stata fatta nel peggiore dei modi possibili, quando invece avrebbero potuto essere battute altre strade. Vediamo come, ricordando che non ci accingiamo tanto a raccontare una “storia fatta coi sè”, del tutto fine a se stessa, ma, ancora una volta, ad analizzare certi fatti storici alla base dei mali endemici dello stato italiano. La creazione di uno stato unitario ed accentrato, la cosiddetta piemontesificazione, ha umiliato la tradizione policentrica e municipalistica della penisola e, dove ha trovato una resistenza di popolo, ha comportato costi umani mai conosciuti fino a quel momento. I creatori dell'Italia unita, rude manovalanza dei circoli massonici europei, non hanno avuto interesse a tenere in debito conto la necessità di preservare quel “tesoro di tradizioni italiche, quell'inimitabile patrimonio di differenze che caratterizzava il paese delle tante capitali” (5). I piemontesi spesso non conoscevano il meridione e lo odiavano pregiudizialmente: lo stesso Cavour, che pure aveva soggiornato a lungo in Inghilterra e Francia, non si era mai spinto più a sud di Firenze (e parlava abitualmente in francese, così come re vittorio emanuele, che riusciva a esprimersi decentemente solo in francese o in piemontese, alla faccia dell'idea per la quale i piemontesi avrebbero “cacciato gli stranieri”, ossia sovrani nati e cresciuti in italia, come Leopoldo e Ferdinando di Toscana , Francesco di Modena e Francesco di Napoli). I piemontesi hanno conquistato l'italia sfruttando al meglio le contingenze storiche verificatesi tra il 1859 e il 1861 (ma pianificate da anni), mangiandosi i vari stati come le “foglie di un carciofo”. Tuttavia, negli anni precedenti, proprio loro avevano rifiutato di contribuire ad un'unione federale dei popoli italiani. In realtà, a mio avviso, l'unica logica e legittima possibilità di unione degli italiani. Unione federale che, invece, era stata proposta a più riprese proprio da coloro che la retorica menzognera ha presentato come nemici dell'idea di Italia. Il primo a parlare una lega degli stati italiani era stato, infatti, il Re di Napoli Ferdinando II, che nel 1833 aveva proposto agli altri un'unione difensiva tra gli stati della penisola. Nello stesso anno un'assemblea di liberali riunitasi a Bologna gli offrì segretamente la corona d'Italia (ricordiamo che all'epoca il regno del sud si presentava più liberale del piemonte: basti pensare che mentre Vittorio Emanuele I nel 1814 aveva restaurato tout-court la legislazione pre - napoleonica, Ferdinando I aveva mantenuto i nuovi codici, con qualche misurato adeguamento. Inoltre nel regno sabaudo furono giustiziate molte decine di oppositori, 169 solo tra 1821 e 1832). Re Ferdinando però rifiutò per rispetto agli altri sovrani della penisola. In seguito Papa Pio IX, tra il 1847 e il 1848, avviò trattative per una lega doganale, premessa di un'eventuale unione politica federale, con le case regnanti di Napoli, Firenze e Torino, ma il progettò non decollò proprio per l'ostilità dei Savoia, che avevano ormai deciso di fare da sé (per modo di dire, chè senza Francia e Inghilterra prima e Prussia poi, non avrebbero vinto neanche una battaglia). L'azione di Pio IX ci rivela un altro aspetto mistificato, un'altra bugia del risorgimento: l'eventuale opposizione della Chiesa all'unità. Tacendo in questa sede del contributo intellettuale dei cattolici al dibattito politico e culturale di quel periodo (basti pensare a Gioberti e al neo-guelfismo) rileviamo che il Papato si oppose al processo di unificazione quando questo fu egemonizzato da casa savoia, che fece sue le istanze anticlericali massoniche.
-L'annessione del centro Italia: come sempre inganni e bugie. La vergogna dei plebisciti farsa
Il giovane Francesco d'Austria-d'Este, futuro Duca di Modena col nome di Francesco V, quando era ancora in vita il padre, Francesco IV, nel 1841, elaborò un interessante studio a proposito di una possibile unione federale degli italiani. Nel testo, a intuizioni interessanti si alternano anche considerazioni ingenue, ma l'aspetto importante del documento è, ancora una volta, il fatto che il concetto di “Italia” e “italiani” stava a cuore anche a chi dal processo risorgimentale uscì sconfitto. Proprio il mite Francesco V sarà vittima di una campagna calunniatoria orchestrata dai tirapiedi di Cavour, i quali diffusero la voce che nel 1859, dopo la battaglia di Magenta, egli era scappato da Modena portando con sé un ingente patrimonio personale, quando invece aveva lasciato tutto nelle casse dello stato. Furono in realtà i piemontesi ad impossessarsi del patrimonio degli Estensi, e a fonderne gli oggetti preziosi. Da registrare che 3600 soldati modenesi rimasero fedeli al Duca e lo seguirono nell'esilio, accettando lo scioglimento della loro brigata, detta “Brigata Estense”, solo nel settembre 1863. Nel Granducato di Toscana, invece, nei giorni della II guerra di indipendenza la situazione interna era calda, a causa della presenza di agitatori al libro paga del conte di Cavour, che avevano corrotto, anche in questo caso, militari e funzionari di polizia. Per evitare che la situazione degenerasse, il 27 aprile Leopoldo II lasciò Firenze. Nel marzo 1860 si tenne il plebiscito farsa per sancire l'annessione al Piemonte. Le cose, pressapoco come a Napoli, in Veneto e dovunque furono organizzate queste macabre farse, andarono così: (5) la fine della guerra tra i franco-piemontesi e l’Impero Austriaco fu sancita dall’armistizio di Villafranca dell’11 luglio 1859. Tra le clausole del trattato era prevista la restaurazione del Granducato (il 27 aprile, come detto, un moto organizzato e finanziato dai piemontesi aveva infatti spinto SAIR Leopoldo II a lasciare lo stato). Per agevolare il ritorno degli Asburgo-Lorena sul trono di Firenze proprio Leopoldo decise di abdicare in favore del figlio, Ferdinando IV, che venne riconosciuto come nuovo sovrano di Toscana dagli altri capi di stato d'Europa. Durante la seconda metà del 1859 si impose però una situazione di empasse dovuta ai contrasti tra le grandi potenze internazionali circa il futuro della penisola. Mentre Napoleone III aspirava a sostituire la sua influenza politica a quella austriaca mediante la nascita di una federazione a sostanziale egemonia francese, l’Inghilterra avrebbe preferito la creazione di uno stato unitario, proprio per evitare un accrescersi dell’influenza francese in europa e nel mediterraneo. Per superare questa situazione si decise così di ricorrere ai plebisciti, uno strumento che in quel momento accontentava tutti: in questo modo i piemontesi avrebbero potuto giustificare le loro annessioni; i francesi, usciti a mani vuote dal sanguinoso conflitto dei mesi precedenti avrebbero a loro volta, sempre tramite plebiscito, annesso almeno la Savoia e gli inglesi sarebbero rimasti padroni dei mari.
Fin qui tutto chiaro: quello che però a scuola non è stato insegnato sono le modalità con cui sono stati svolti i plebisciti, e che li hanno ridotti, in pratica, ad una drammatica farsa. Pesantissime irregolarità si sono infatti avute sin dalla “campagna elettorale”: il nobile Ricasoli, dittatore pro-tempore e maggior responsabile della svendita dello stato toscano ai piemontesi, vietò ad esempio l’ingresso e la pubblicazione di ogni rivista che potesse spingere l’elettorato verso il rifiuto dell’annessione al Piemonte, mentre la stampa rimanente si adoperò in un incessante propaganda anti-autonomista. Insomma, “(Ricasoli) …mise in moto tutta la macchina affinché il risultato di quelle consultazioni non presentasse alcuna sorpresa al Piemonte...” Intimidazioni ai contadini, minacce ai preti erano dunque normali, in quei giorni. Come se non bastasse, i votanti il giorno stabilito per il referendum poterono scegliere tra due opzioni: “Unione alla monarchia costituzionale di Re Vittorio Emanuele II” o un non meglio precisato “Regno separato”. La possibilità di richiedere la restaurazione della famiglia Granducale, che tanto bene aveva governato la Toscana per quasi 130 anni, non era neanche contemplata nelle schede! Inoltre, sembra quasi grottesco raccontarlo, soprattutto se non sgombriamo la mente dai luoghi comuni della retorica risorgimentale, ma il voto non fu segreto ! Nelle urne dalle quali attingere le schede era infatti ben visibile le scritte SI o NO. Da tutto questo capiamo che quando qualche storico parla di brogli e mere pressioni fisiche e psicologiche in relazione al plebiscito toscano usa solo degli eufemismi. Ma la parte peggiore di questo storia italiota deve ancora essere narrata. Grazie al memoriale di un agente di Cavour rinvenuto dallo storico Giuseppe de Lutiis negli archivi del ministero della difesa possiamo capire come il dato sulla percentuale degli astenuti, pari ad oltre un quarto degli aventi diritto, sia del tutto simbolico, e frutto dei più squallidi brogli dei savoiardi e dei loro tirapiedi. La gente che non andò a votare fu molta di più, ma venne considerato come se avessero votato per l’unione al Piemonte. Leggiamo insieme come accadde. “Noi ci eravamo fatti consegnare i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori, indi preparammo tutti i polizzini. Nel voto dell’annessione un piccolo numero di elettori si presentò a prendervi parte, lande noi, nel momento della chiusura delle urne, vi gettammo i polizzini (naturalmente in senso piemontese) di quelli che s’erano astenuti. E’ superfluo il dire che ne lasciammo in disparte qualche centinaio o migliaio in ragione alla popolazione del collegio. Occorreva salvare le apparenze, almeno in faccia allo straniero. In alcuni collegi l’immissione nelle urne dei polizzini degli astenuti si fece con tanta trascuratezza e si poca attenzione, che lo spoglio dello scrutinio diede un maggiore numero di votanti di quello che lo fossero gli elettori iscritti. In siffatti casi si rimediò al fatto con una rettificazione al processo verbale”.
Fin qui tutto chiaro: quello che però a scuola non è stato insegnato sono le modalità con cui sono stati svolti i plebisciti, e che li hanno ridotti, in pratica, ad una drammatica farsa. Pesantissime irregolarità si sono infatti avute sin dalla “campagna elettorale”: il nobile Ricasoli, dittatore pro-tempore e maggior responsabile della svendita dello stato toscano ai piemontesi, vietò ad esempio l’ingresso e la pubblicazione di ogni rivista che potesse spingere l’elettorato verso il rifiuto dell’annessione al Piemonte, mentre la stampa rimanente si adoperò in un incessante propaganda anti-autonomista. Insomma, “(Ricasoli) …mise in moto tutta la macchina affinché il risultato di quelle consultazioni non presentasse alcuna sorpresa al Piemonte...” Intimidazioni ai contadini, minacce ai preti erano dunque normali, in quei giorni. Come se non bastasse, i votanti il giorno stabilito per il referendum poterono scegliere tra due opzioni: “Unione alla monarchia costituzionale di Re Vittorio Emanuele II” o un non meglio precisato “Regno separato”. La possibilità di richiedere la restaurazione della famiglia Granducale, che tanto bene aveva governato la Toscana per quasi 130 anni, non era neanche contemplata nelle schede! Inoltre, sembra quasi grottesco raccontarlo, soprattutto se non sgombriamo la mente dai luoghi comuni della retorica risorgimentale, ma il voto non fu segreto ! Nelle urne dalle quali attingere le schede era infatti ben visibile le scritte SI o NO. Da tutto questo capiamo che quando qualche storico parla di brogli e mere pressioni fisiche e psicologiche in relazione al plebiscito toscano usa solo degli eufemismi. Ma la parte peggiore di questo storia italiota deve ancora essere narrata. Grazie al memoriale di un agente di Cavour rinvenuto dallo storico Giuseppe de Lutiis negli archivi del ministero della difesa possiamo capire come il dato sulla percentuale degli astenuti, pari ad oltre un quarto degli aventi diritto, sia del tutto simbolico, e frutto dei più squallidi brogli dei savoiardi e dei loro tirapiedi. La gente che non andò a votare fu molta di più, ma venne considerato come se avessero votato per l’unione al Piemonte. Leggiamo insieme come accadde. “Noi ci eravamo fatti consegnare i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori, indi preparammo tutti i polizzini. Nel voto dell’annessione un piccolo numero di elettori si presentò a prendervi parte, lande noi, nel momento della chiusura delle urne, vi gettammo i polizzini (naturalmente in senso piemontese) di quelli che s’erano astenuti. E’ superfluo il dire che ne lasciammo in disparte qualche centinaio o migliaio in ragione alla popolazione del collegio. Occorreva salvare le apparenze, almeno in faccia allo straniero. In alcuni collegi l’immissione nelle urne dei polizzini degli astenuti si fece con tanta trascuratezza e si poca attenzione, che lo spoglio dello scrutinio diede un maggiore numero di votanti di quello che lo fossero gli elettori iscritti. In siffatti casi si rimediò al fatto con una rettificazione al processo verbale”.
-La guerra contro la Chiesa e le durature conseguenze del divario tra paese legale e paese reale.
Nel XIX secolo solo il sentimento religioso cattolico univa gli italiani. Della lingua s'è già detto (vedi nota 3): esisteva una tradizione linguistica secolare che univa Petrarca a Machiavelli ad Alfieri a Vico ecc ecc, ma riguardava la classe colta: i popoli capivano solo i loro dialetti. (6) Logica avrebbe voluto che l'unità degli italiani fosse costruita intorno a quel sentimento religioso e non contro di esso. Ma, come abbiamo già visto, i protagonisti del risorgimento erano più interessati a servire i desiderata dei loro burattinai, sia che avessero base oltralpe che oltremanica, piuttosto che a costruire qualcosa di buono e duraturo. La gravissima rottura che si formò tra paese legale (istituzioni del regno) e paese reale (il 98% della popolazione, che non aveva né seguito né voluto il processo risorgimentale ed era fedele alla Chiesa, e che non aveva neanche diritto di voto), si protrasse per vari decenni dopo il 1861, e non è assurdo pensare che esso sia una delle cause dell'endemico distacco tra cittadini e stato, quindi dello scarso senso civico e dello scarso spirito di popolo degli italiani. Ma in cosa è consistita questa guerra contro la Chiesa? Innanzitutto la sua Dottrina sociale era contraria al centralismo e all'unitarismo, vie maestre (anzi, gran maestre, si potrebbe dire con una battuta) seguite dalla corrente vincitrice del risorgimento. D'altronde- ha ricordato Angela Pellicciari - “I principali esponenti della massoneria non hanno dubbi: il federalismo, il particolarismo, il localismo, sinonimi di disordine e confusione, di Medioevo, di forza bruta e barbarie, in una parola di Chiesa cattolica, vanno assolutamente evitati e superati a favore dell'omogeneità, dell'identità, dell'unità delle ragioni ideali”. Ma la guerra contro la Chiesa cattolica, iniziata in Piemonte negli anni '50 e poi estesa a tutta la penisola, si è attuata tramite atti drammaticamente concreti: confische ed espropri (di fatto furti illegittimi, perchè i beni della Chiesa erano frutto di secolari donazioni); ma anche incarcerazioni di sacerdoti e persino vescovi; soppressione di ordini religiosi; promulgazione di una legislazione sfavorevole e unilaterale (un solo esempio: la soppressione del foro ecclesiastico era già avvenuta in quasi tutti gli stati cattolici europei, senza suscitare particolari problemi, tramite un'azione d'intesa tra Chiesa e governi nazionali). Tra l'altro queste istituzioni avevano un forte ruolo sociale in favore dei poveri: quando nel 1889 la guerra sabauda contro la Chiesa si completerà con il furto delle “Opere pie”, per molti italiani non resterà altra scelta che emigrare.
-Garibaldi, Mazzini e Cavour: chi erano (davvero) costoro?
Credo che, per concludere in bellezza, due paroline sui “padri della Patria” si possano dire. Tralasciamo nei limiti del possibile i vizi privati (erano quasi tutti puttanieri, seppur ognuno secondi i suoi gusti: re vittorio preferiva le ruspanti contadinotte piemontesi, che cercava sempre di “rimorchiare”: una delle poche cose che a quanto pare sapeva fare benino; il fine Cavour invece si trovava meglio negli eleganti bordelli della grandi città europee). Ma sorvoliamo questi dettagli. Oltre che puttaniere, il conte Cavour era anche ricchissimo, nonché speculatore. La “Società anonima dei mulini angloamericani di Collegno”, di cui era azionista principale, aveva fatto incetta di granaglia (si disse 15000 sacchi di farina), che portarono al nostro amico non pochi guadagni, in occasione della carestia del 1853; a prescindere dalla speculazione immorale, vogliamo parlare del conflitto di interessi che lo coinvolgeva, in quanto in quegli anni fu anche ministro dell'agricoltura, e poi delle finanze?!? Giuseppe Garibaldi invece, il biondo eroe dei due mondi, oltrechè mercenario e massacratore, durante la sua permanenza in america latina era stato anche protagonista di una compravendita di schiavi! Tacciamo, per carità di patria e per non annoiare oltre gli amici lettori, le imprese di Mazzini, terrorista ante-litteram, e della sua religione civica panteistica, alla base (punto che mi prometto di approfondire in seguito) al pari di altre esperienze politico-culturali anticristiani, dei totalitarismi novecenteschi.
Conclusioni
Abbiamo conosciuto, seppur per sommi capi, alcune pagine poco note del risorgimento: storie di bugie, corruzione, violenza, morte. Cosa salvare? Il fatto che alla fine della fiera, al termine di tutto ciò, è stato creato lo stato italiano? No, e ho già spiegato il perchè. Se faccio uno sforzo, posso riconoscere la buona fede di alcuni protagonisti di queste vicende, come gli studenti toscani che a Curtatone e Montanara si sono coperti di gloria. Giovani infatuati da un'idea nuova, che in Italia era una (disgraziata) merce d'importazione risalente all'epopea napoleonica: il nazionalismo. Un'idea che in seguito sarebbe stata foriera di indicibili lutti; tuttavia a loro, e a chi come loro, ha creduto in qualcosa, va il mio cavalleresco omaggio. Spero che un giorno gli italiani tutti scoprano come sono stati uniti, e forti di questa consapevolezza creino un'Italia nuova, federale, inserita nel concerto di una libera Europa dei popoli. Si studia quello che è successo ieri anche e soprattutto per costruire un domani migliore.
(1)Avevo già scritto della patetica esibizione di Benigni a Sanremo 2011, qui: http://rivoluzionereazione.blogspot.it/2012/02/alcune-considerazioni-sullo-show-di.html
(2) Quindici milioni di sterline solo in Scozia: “l'impavido eroe” non si mosse se non dopo aver avuto adeguate “garanzie” economiche e militari.
(3) Il policentrismo politico, che non ha ostacolato ma anzi ha favorito la grandezza culturale e artistica della penisola nel medioevo e nell'epoca moderna, ha caratterizzato la storia d'Italia per 14 secoli. Ciò che univa gli italiani, o almeno la stragrande maggioranza di loro, nel XIX secolo, era solo il sentimento religioso. E la lingua, alla base dell'idea romantica che la nazione (intesa come comunità etnica linguistica) dovesse per forza coincidere con l'istituzione giuridica, cioè lo stato? Secondo una certa scuola di pensiero, no: la lingua non univa gli italiani. Presento ad esempio la recensione di un saggio di S.Salvi edito da Ilcerchio, reperibile qui http://www.lindipendenza.com/patriottismo-linguistico-e-lingua-del-mi/ : Sulle pagine di questo libro Sergio Salvi, grande storico e linguista libero, sbriciola, sottoponendolo al rullo implacabile della storia e della scienza, proprio il mito più pervicace alla base del Risorgimento: che l'italia fosse (e sia) una di lingua. Accanto a questo mito, proseguendo nella lettura del libro, traballano molti altri luoghi comuni: che l'italia sia una penisola; che il suo nome abbia coperto l'intero Paese quale risulta oggi e non, alternativamente, gli attuali Sud e Nord così irrimediabilmente divisi nonostante una recente e ancora sottile buccia unitaria; che le regioni allestite nel 1970, ma progettate maliziosamente assai prima, rispettino le identità etniche e culturali sottostanti; che il rapporto tra lingua di Stato e dialetti di popolo sia quello insegnato nei gradi e negli ordini bassi della scuola di Stato e professato di conseguenza dalle classi alte dei professionisti della politica e della pubblica opinione. Da mezzo secolo, ormai, la ricerca linguistica internazionale ha stabilito, con dovizia di particolari, che sul territorio dell'attuale repubblica italiana si parlano, a partire dall'alto medioevo, almeno cinque lingue autoctone (senza contare quelle, ancora più numerose, degli alloglotti), una sola delle quali, il Toscano, ha prodotto la cosiddetta lingua nazionale allontanando gli altri idiomi dalle bocche dei loro parlanti condannati al ruolo secondario di dialettofoni. Una di queste lingue considerate inferiori il Padano, non fruisce di una forma standard ma si presenta come una federazione di dialetti strettamente correlati, strutturalmente diversi dal Toscano e assai più facilmente apparentabili al Francese, all'occitano, al Catalano. Sono dialetti parlati in Italia ma non sono dialetti italiani. La caratteristica più appariscente, anche se non la più importante, di questo Padano è che in esso, unica tra le dodici lingue scaturite dal latino, il pronome personale non deriva dal nominativo ego ma dal' accusativo me: un fenomeno così eccezionale, testimoniato da Torino a Pesaro, da Ventimiglia a Oderzo, che ha fornito l'occasione per titolare questo libro proprio "La lingua del mi".
(4)Cfr: “Il Ducato” Francesco V e gli altri. I progetti per un'Italia federale”, p.3, editoriale di Elena Bianchini Braglia
(5) Avevo già ricostruito la storia qui http://rivoluzionereazione.blogspot.it/2012/02/come-nacque-litalia-il-plebiscito-in.html, ispirandomi a un articolo di Marco Matteucci, apparso sulla rivista “Nobiltà”
(6)Non ritengo l'unificazione linguistica un male a prescindere (anche in Germania accanto alla varietà dialettale regionale, per la quale un bavarese che parla a sua mamma sarebbe difficilmente compreso da un uomo di Amburgo, esiste un Hochdeutsch che unisce tutti i cittadini); di certo è stato un male la perdita di quello straordinario patrimonio storico culturale che erano i dialetti, la lingua dei padri.
Per non appesantire la lettura, trattandosi di un testo divulgativo, ho inserito pochissime note. Alcuni riferimenti a dati numerici e i resoconti degli eventi li potrete trovare in alcuni dei libri a seguire, di cui consiglio la lettura:
-P.Aprile, Terroni ; A.Pellicciari, L'altro risorgimento; G. Di Fiore, Controstoria dell'unità d'Italia; Francesco V e gli altri...; 1861, Fasanella, Grippo; V. Bruno Guerri, Il sangue del sud; M, Viglione, Le due Italie; A,. Del Boca, Risorgimento disonorato
Fonte: