Venerdì 17 marzo
Intanto in piazza la scena cambiò radicalmente. Una
torma della peggiore plebaglia a piedi nudi (cosa piuttosto rara in Italia), vestita
di luridi cenci, irruppe nel luogo dove stava la gente vestita bene che andava
un poco alla volta disperdendosi. Il rullo di tamburo e il suono di strumenti a
fiato provenienti dalla piazzetta sembravano annunciare l’arrivo della banda
militare, come ai bei tempi, quando i rapporti erano pacifici. Pareva una mossa
ben indovinata, per incanalare pian piano l’iniziale fermento entro binari
collaudati. Ma le cose andarono diversamente. Il popolo – o meglio i suoi capi
segreti – aveva raccattato chissà dove alcuni suonatori della banda musicale
italiana della Marina; e questi, in mezzo alla calca, si schierarono sulla
piazza e fecero un po’ di rumore, poiché di certo non si poteva definire musica
quella miserevole accozzaglia di suoni emessi nella magnifica piazza regale.
Ciò che balzava agli occhi era vedere la servitù, ossia i gondolieri di diverse
e antiche casate nobiliari veneziane, darsi da fare tra la folla come per
impartire ordini.
Mentre ancora si aspettava di vedere che piega
avrebbero preso quelle inaudite meschinità, emergevano segnali sempre più
inquietanti.
All’improvviso infatti, ecco alle finestre aperte del
secondo piano delle Procuratie Vecchie e dell’appartamento del conte Contarini Zaffo, apparire le mani delicate di
entrambe le sue giovani figlie, con strisce sottili con i colori italiani,
rosso, bianco e verde. Al di sotto, giovani uomini ben vestiti mostrarono
questo particolare alla folla, che subito applaudendo proruppe in alte grida di
evviva. A stento si poteva credere che acclamazioni provenienti da mani e da
bocche del genere potessero suonare lusinghiere a giovani dame di un ceto così
elevato, ma tutto ciò faceva parte di un piano; perciò ecco sventolare sempre
più numerose strisce di stoffa; infine dalla stessa finestra spuntò su di una
lunga asta una grande bandiera tricolore (italiana) cucita con ritagli di
vestiti di ogni genere.
[…] Comparve un corteo di persone ancora una volta
delle classi più basse, con in testa un ragazzino dai riccioli biondi che
portava un piccolo busto in gesso del papa regnante, e immediatamente tra alte
grida di giubilo tutta la folla di straccioni a piedi nudi si avvicinò
all’immagine disponendosi a cerchio, s’inginocchiò prostrandosi con la testa a
terra e battendosi il petto: il tutto si ripeté tre volte.
[…] Davanti alla chiesa di San Marco s’innalzano i tre
grandi pennoni per le bandiere (stendardi), che l’antica Repubblica aveva
collocato come segno del suo dominio sui tre regni di Morea, Cipro e Candia e
dove, fin dai primi tempi del governo austriaco veniva issata la bandiera
bianco-rossa nelle principali festività, mentre nel resto dei giorni i pennoni
rimanevano senza bandiera. Ed ecco all’improvviso si vide, con le funi da
sempre utilizzate per quello scopo, issata la bandiera tricolore italiana,
anche se va detto che si trattava solo di un pesante cumulo di stoffe cucite
assieme alla bell’e meglio che non riuscivano a dispiegarsi. In piazza alcuni
personaggi ben vestiti furono visti gettare soldi a piene mani nel berretto
dell’uomo che aveva issato la bandiera.
[…] Nel frattempo il disordine continuava imperterrito
e rumoroso, senza lasciarsi impressionare dal segnale d’allarme, malgrado i più
sapessero di sicuro cosa significava. Improvvisamente tutti si affollarono
sotto il pennone con il tricolore, dove aveva preso posizione una divisione di
trenta uomini del reggimento Kinsky. Il popolo accerchiò quei pochi uomini,
fischiò e inveì per manifestare la propria contrarietà ai soldati intervenuti a
rovinare la festa. Allora si vide il generale Culoz, un uomo imponente che
sovrastava la folla ondeggiante attorno a lui, uscire dal palazzo del
governatore e attraversare la piazza dirigendosi verso la divisione lì
schierata. Evidentemente il popolo gli assicurò che avrebbe tenuto un
comportamento pacifico, a patto che non ci fossero soldati in piazza: quello
schieramento infatti non aveva né senso né scopo, ed era percepito come un
passo falso da parte del comando della città. Il generale diede ordine alla
truppa di ritirarsi verso la Gran guardia che stava nella piazzetta, stentando
a sottrarsi alle dimostrazioni d’affetto del popolo.
Solo in quel momento si palesarono i veri effetti
degli spari d’allarme. Da ogni dove arrivarono di gran passo le colonne della
guarnigione, con fare severo attraversarono la piazza e in silenzio si
disposero in fila lungo le Procuratie Nuove e il palazzo del viceré.
[…] Avevo camminato per ore, in preda ai più diversi
stati d’animo, e, sempre più umiliato e affranto, vidi il grande dispiegamento
di soldati e nessun indizio di nuovi assembramenti. Dovevo anche occuparmi dei
miei, riferire quel che avevo sentito, rincuorare gli animi affranti. Appena
messo piede in casa, sentii suonare la campana di San Marco: un incendio forse?
Infatti, dal momento che la truppa era schierata in piazza nei pressi del
campanile, poteva questo scampanio avere altro scopo? poteva venire da un
ordine delle autorità? Certo che no, il suono chiamava alla rivolta: chiamava a
raccolta in piazza San Marco il popolino e la disordinata plebaglia per
diffondere agitazione e disordini in tutta la città. Pochi impudenti agitatori
avevano preso possesso del campanile e ora suonavano le campane a più non
posso, finché non fu mandata una guarnigione di granatieri a riprendere il
controllo del campanile e di quelle facce toste di rivoltosi. Visti però
preparativi così spaventosi, come mai venivano trascurate in questo modo le
consuete precauzioni, mentre i rivoltosi non aspettavano altro che di prendersi
per prima cosa il campanile?
La plebaglia, radunata dalle campane che chiamavano
alla rivolta, in numero sempre maggiore e con modi di fare sempre più
sfrontati, poteva in definitiva ben dare adito a preoccupazioni, quando, per
utilizzare tutti i mezzi disponibili (ma fin dall’inizio del tutto
inutilmente), ecco che il patriarca, indossando gli abiti della sua alta
dignità ecclesiastica, si fece alla finestra accanto al governatore, per
benedire il popolo e assicurare tramite la religione l’ordine cittadino e la
quiete. La folla, così si racconta, credendo che l’alto prelato volesse
riferire una comunicazione da parte del governatore, si precipitò in massa
verso il palazzo. I soldati e il loro comandante credettero di cogliervi
l’intenzione di un attacco generale; fu allora che le baionette vennero
abbassate; l’intera linea avanzò, e così il popolo accalcato si dileguò in modo
scomposto, senza però riuscire a evitare che qualcuno venisse ferito lievemente
e che le vetrate del Caffè Quadri andassero in frantumi per colpa di chi
cercava di rifugiarsi all’interno. Solo il tizio biondo che portava il busto
del papa fu gettato a terra dai suoi stessi compagni nel fuggi fuggi disordinato,
e morì schiacciato.
Il settario Manin il 17 Marzo 1848
Estratto da:
“Rivolta e tradimento. Sudditi fedeli all’imperatore raccontano il Quarantotto veneziano”,