lunedì 25 febbraio 2013

R.P. M. Liberatore: Del dovere di tutela che lo Stato ha verso la Chiesa.

R. P. Matteo Liberatore d.C.d.G.

Da: La Chiesa e lo Stato (2a ed.) Napoli 1872, cap. I, pag. 72-87.

CAPO I. — CONDIZIONE DELLA CHIESA RIMPETTO ALLO STATO.

 
 

ARTICOLO VI.

Del dovere di tutela che lo Stato ha verso la Chiesa.

I.

Aspetto della quistione.

La pretesa libertà di coscienza e di culto può considerarsi sotto due aspetti: in sè medesima, o come conseguenza della natura dello Stato. Considerata in sè medesima alcuni la difendono qual diritto essenziale dell'uomo, altri qual espediente politico pel maggior bene della società. Noi vedemmo nell'articolo quarto come sapientemente il Pontefice, quanto a diritto la dichiara delirio, quanto a spediente politico la dichiara mezzo di perdizione.
È delirio come diritto, perchè dovrebbe fondarsi o nel panteismo, o nell'indipendenza della creatura dal Creatore, o nella negazione di diversità del vero dal falso. Invece del diritto di credere a talento, l'uomo ha essenziale dovere di accettare la verità da Dio rivelata, e conformare ad essa le proprie azioni. Che se per mala ventura non sia ancor giunto a ravvisarla, ha stretta obbligazione di porre ogni opera per venirne a capo. Il solo diritto che compete all'uomo in tutta questa faccenda, è di esservi condotto per via di persuasione e non costretto colla violenza. Ma ciò appunto la Chiesa ha sempre insegnato per organo de' suoi Pontefici e de' suoi Dottori, ed ha ripreso il falso zelo di que' principi, che talvolta si son dilungati da questa regola. L'apostolato della spada è prerogativa del Corano, non del Vangelo [1].
È poi mezzo di perdizione come espediente politico, sì per la discordia che pone tra' cittadini, contraria al concetto stesso di società; e sì per l'ampia e sdrucciolevole via che apre al corrompimento e alla rovina delle anime. L'uomo, nella presente condizione della sua natura, ha bisogno di molti aiuti e di molte cautele, per preservarsi dai sofismi dell'errore e dagli allettamenti del vizio; nè le moltitudini imperite o la gioventù inesperta trovano in loro stessa sufficiente schermo contro le arti di seduttori eloquenti ed astuti.
Questi due punti, relativi alla considerazione della libertà di coscienza, considerata in sè medesima, furono da noi bastevolmente messi in chiaro. Resta ora che ci volgiamo all'altra considerazione, a quella cioè che riguarda la libertà di coscienza e di culti come conseguenza della natura dello Stato. Lo Stato, dicono alcuni, per sè medesimo non ha che fare colla religione, nè ha per còmpito l'eterna salute dei cittadini. Esso non può dare la verità, di cui è sola ministra la Chiesa; e benchè riconosca essa Chiesa, tuttavia è da lei distinto. Dunque, benchè sia innegabile che niuno ha diritto all'errore, e che però la libertà di coscienza non può approvarsi dalla Chiesa; tuttavia lo Stato dee permettere l'errore e lasciare libera balìa a ciascuno di seguire o predicare qualsivoglia credenza, purchè non si opponga alla pubblica tranquillità. Almeno ciò importa l'idea di società incivilita e ottimamente formata.
Questa falsa opinione altresì di non riconoscere nello Stato il dovere di proteggere colle sue leggi la Chiesa, è riprovata dal maestro infallibile della cristiana credenza: Contra sacrarum Litterarum, Ecclesiae, sanctorum Patrum doctrinam asserere non dubitant optimam esse conditionem societatis, in qua Imperio non agnoscitur officium coërcendi sancitis poenis violatores catholicae religionis, nisi quatenus pax publica postulat [2]. Nel qual luogo torniamo ad avvertire ciò, che abbiamo avvertito altra volta, cioè non parlarsi dal Pontefice dell'ipotesi particolare di tale o tal altra società, la quale può trovarsi in sì fatta contingenza, attese le divisioni religiose già in lei radicate, che la prudenza consigli civil tolleranza rispettivamente a tutti i culti, senza protezione speciale dell'unico vero. Ma il Pontefice parla della tesi generale, ossia della massima in ordine all'ottima forma di reggimento, vale a dire a quella forma di reggimento, che meglio risponda all'idea divina e alla felicità dei popoli.
Vuol tenersi d'occhio in questa materia ciò che Cristo c'insegna in una delle parabole, da lui recate nel capo decimoterzo di S. Matteo. «Il regno dei cieli, ossia la Chiesa, egli disse, può rassomigliarsi a un Padre di famiglia, il quale seminò del buon grano nel proprio campo. Dormendo i coloni, venne un suo nemico e vi soprasseminò la zizzania. Essendo questa apparsa, tostochè crebbe il frumento, i servi del Padre di famiglia andarono a lui e gli dissero: Non hai tu piantato ottimo grano nel campo? Donde dunque cotesto loglio? È opera del mio nemico, rispose il Padrone. Ed essi a lui: Or vuoi tu che andiamo e lo sterpiamo dal campo? No, quegli replicò; perchè ci sarebbe rischio che sterpaste insieme col loglio il frumento. Lasciate che crescano entrambi insino alla messe; e allora dirò ai mietitori che raccolgano la zizzania per gittarla nel fuoco, e il frumento per conservarlo ne' miei granai [3].» Qui apertamente il Padre di famiglia credette di dover dare anche alla zizzania libertà di vegetazione, posto il male dell'essersi di già abbarbicata nel campo; ma non per questo riputò una tale necessità cosa buona per sè medesima, nè approvò la negligenza dei coloni d'aver lasciato agio all'avversario di penetrare nel suo podere. Quella concessione fu voluta dallo stesso Padre di famiglia come opportuna al presente stato di cose, ma tuttavia la dichiarò disastro, inimicus homo hoc fecit; disastro peraltro da comportare per fuggire maggiori danni, ne forte colligentes zizania eradicetis simul cum eis et triticum.

II.

Di tre capi, per cui lo Stato è obbligato a proteggere colle sue leggi la Chiesa.

Che lo Stato debba, colle sue leggi, proteggere la religione cattolica, può rilevarsi da un triplice ordine: da quello in che esso è verso i sudditi, da quello in che esso è verso la Chiesa, da quello in che esso è verso Dio.
I. Lo Stato ha dovere d'assicurare e proteggere da ogni offesa i diritti dei cittadini. Ora i cittadini han diritto a non essere scandolezzati da pubblica scostumatezza, a non soffrire che i loro figliuoli vengano corrotti nella mente o nel cuore da insidie di seduttori, a non vedere vilipesa e conculcata la loro fede dall'altrui empietà. Ciò è sì vero, che nello stato estrasociale le famiglie disperse avrebbero diritto ad adoperare eziandio la forza, contro un vicino contumacemente molesto e pregiudiziale in punti di tanta rilevanza. Lo scandaloso, il pervertitore, il pubblico bestemmiatore di Dio, è, secondo ragione, meritamente agguagliato all'ingiusto aggressore. Quella forza dunque, che ciascun uomo avrebbe diritto di adoperare per sè medesimo nella condizione, come suol chiamarsi, di natura, convien che venga adoperata dallo Stato, supposto la società; e ciò eziandio nell'ipotesi liberalesca che il diritto sociale non sia altro che il diritto collettivo dei singoli associati.
Di più, dove la diversità di culti non abbia talmente invasa la società, che sia entrata nelle idee, nelle abitudini, nei costumi del popolo; il possesso della vera religione è bene non di soli privati, ma sivveramente della comunanza. Ora è dovere strettissimo dello Stato tutelare co' mezzi suoi la conservazione de' beni sociali, e assicurarli da ogni assalto interno od esterno. Il che ha tanto più forza nella presente materia, in quanto la religione non è un bene qualunque, ma è il bene massimo dell'uomo; giacchè riguarda i suoi eterni destini: ed è bene altresì massimo della società, la quale trova in essa il suo più valido appoggio. Se dunque è dovere dello Stato proteggere colle sue leggi gli altri beni inferiori, quanto più questo che li supera tutti?
In fine lo Stato ha massimamente dovere di proteggere l'impotenza del debole contro la prepotenza del forte. Ora l'abuso della forza può aver luogo, come nell'ordine materiale, così ancora nell'ordine morale. Chi ha maggior ingegno, maggiore dottrina, maggiore eloquenza, ha in mano un'arme potentissima come pel bene così pel male, e può agevolmente abusarne in danno altrui. Il rozzo, l'idiota, l'uomo di scarso intelletto non ha per sè stesso mezzi a propulsarne l'offesa. In suo aiuto adunque uopo è che venga lo Stato; se è vero che l'impulso alla vita sociale è appunto il trovare presidio in quelle cose, a cui non è bastevole la individual debolezza. E ciò per rispetto al danno, che la religione de' cittadini può ricevere dall'altrui malizia. Ma oltre a questo, non vuolsi omettere il conforto, che all'onestà della vita proviene loro dal rigor delle leggi; essendo pur troppo vero che sopra gli animi grossolani, de' quali in ogni paese del mondo è composta la maggior parte delle moltitudini, fanno meno impressione le pene della vita avvenire, che quelle della presente. Onde S. Leone Magno, nell'epistola al Vescovo Toribio, dice che spesso il timore del gastigo temporale, minacciato dalle leggi civili, risveglia nel cuore dei cristiani traviati il pensiero della salute eterna.
II. Venendo ora al secondo capo, egli è certo che non solo gli spicciolati individui, ma le associazioni politiche altresì sono membri di questa gran Società, da Cristo stabilita nel mondo, cioè della Chiesa. Anzi più ancora le associazioni politiche; giacchè queste formano direttamente l'assegnamento fatto a Cristo dal divin Padre: Dabo tibi gentes haereditatem tuam. Come la famiglia è composta di particolari, e la nazione di famiglie; così la Chiesa è composta di Nazioni. Però essa fu dai Profeti rappresentata come un impero da succedere agli antichi imperi della forza; il quale colla sua potenza morale avrebbe assoggettata al suo dominio la terra. Ora i membri di ogni società hanno dovere di concorrere alla difesa di lei, e assicurarne la pacifica esistenza, contro i perturbatori di dentro o gli aggressori di fuora. Dunque lo Stato, per ciò stesso che è cattolico e rappresenta una nazione cattolica, è obbligato a proteggere e difendere co' suoi mezzi la Chiesa. Che se esso, apostatando, in quanto è Stato, dalla Fede, nega di compiere siffatto dovere; questo cade di natura sua nei singoli fedeli: i quali certamente non possono in faccia alla Chiesa perdere la lor natura sociale, per colpa di chi sarebbe destinato a rappresentarli. In tal guisa sorge nella società umana un necessario disordine, cioè una forza legittima, indipendente dal pubblico depositario della forza; nè è meraviglia che fiorisca un diritto non conforme alla condizione normale, quando questa viene abbandonata e sconvolta. Anche in Logica, stabilito un contraddittorio principio, ne segue di necessità una contraddittoria illazione. La Chiesa essendo stabilita da Dio come società perfetta, ha ricevuto senza dubbio da lui tutti i diritti necessarii alla sua conservazione. Altrimenti converrebbe accusar Dio d'incoerenza, come colui che avesse voluto il fine negando i mezzi. Ora tra i diritti proprii di una Società perfetta ci è quello di coazione contro i nemici interni ed esterni. Nello stato di scambievole alleanza tra lo Stato e la Chiesa, il predetto diritto viene da questa esercitato per mezzo di quello, in virtù della tutela armata che esso le porge. Quinci l'idea delle due spade, la spirituale e la materiale, confederate insieme a salute del mondo. Ma rotta una tale alleanza, ognun vede che quel diritto della Chiesa non può perire, siccome risultante dalla natura stessa sociale, di cui non dallo Stato ma da Dio fu rivestita.
Di più, tutti i Dottori insegnano che la potestà temporale dev'essere subordinata alla potestà spirituale; e una tal verità è stata da noi più innanzi, nell'articolo secondo, bastevolmente dimostrata.
Or chi non vede che parte precipua di questa subordinazione si è l'armonizzare le leggi civili colle canoniche e far servire la forza di quelle all'adempimento di queste? Una, a parlar propriamente, è la società umana , benchè per conseguire appieno il suo fine abbia bisogno di due poteri, lo spirituale e il temporale. Di qui nasce, qual necessaria inferenza, che cotesti due poteri, per ciò stesso che son distinti, han diritto ad assistenza reciproca. Altrimenti l'opera di Dio sarebbe imperfetta, e i mezzi non sarebbero nè proporzionati nè ben disposti tra loro. Come dunque la Chiesa aiuta lo Stato, informando i popoli ad ogni virtù umana e cittadina, e rendendoli obbedienti e tranquilli sudditi dell'autorità politica; così e converso fa d'uopo che lo Stato aiuti la Chiesa, prestando appoggio alle sue leggi e punendo i perturbatori della fede e della morale cristiana. Acconciamente il dottissimo Phillips: «Non basta che essi (i Principi) tutelino ciò che si riferisce ai bisogni esterni della Chiesa, il mantenimento del suo culto, i mezzi di sussistenza pei suoi ministri; non essendo un compimento pieno di tutti i loro doveri verso di lei il non averle negata quella protezione legale, a cui ha diritto ogni società lecita in sè medesima. Essi debbono inoltre (ed è questo il fine supremo, la principale missione della potestà temporale) favorire lo stabilimento del Regno di Dio, e per conseguente dare ai loro popoli una legislazione, la quale armonizzi con la legge divina annunziata dalla Chiesa, una legislazione che porga l'appoggio della sua autorità alle prescrizioni della legge religiosa [4]. Or la prima condizione di un'alleanza efficace della legge dello Stato colle leggi della Chiesa, è l'applicazione dei mezzi coercitivi, di cui esso Stato dispone, in tutti quei casi, nei quali la pena spirituale è insufficiente [5]. La voce del Pastore non ha sempre virtù bastevole per allontanare i rapaci lupi dall'ovile di Gesù Cristo. Appartiene allora al Principe, investito dell'autorità della spada, armarsi della sua forza per reprimere e mettere in fuga tutti i nemici della Chiesa [6]
III. E qui l'argomento stesso ci porta a dir qualche cosa del terzo capo; attesochè il Governante terreno conviene che sia soggetto a Dio non sol come uomo, ma ancora come governante. Se negli atti che all'uno e all'altro ordine si riferiscono egli opera come ente morale, egli deve farli servire entrambi alla divina gloria. Ora ciò non può farsi altrimenti, che cooperando colla Chiesa alla salute delle anime e alla conservazione e propagazion della Fede; giacchè alla Chiesa è affidato da Dio l'incarico di procurar la sua gloria e procurarla colla santificazione de' fedeli. Laonde il Pontefice S. Leone il Grande scrivendo a Leone imperatore, gli diceva: Tu devi assiduamente considerare che la regia potestà ti è stata conferita non solo pel governo del mondo, ma massimamente pel presidio della Chiesa: Debes incunctanter advertere, regiam potestatem tibi non solum ad mundi regimen sed maxime ad Ecclesiae praesidium esse collatam [7]. E S. Agostino nel suo libro della Città di Dio dice: Appelliamo felici i cristiani Imperanti, non perchè regnarono lungamente, nè perchè trapassando con morte tranquilla lasciarono la corona a' figliuoli..; ma sibbene perchè volgendo la loro potenza alla dilatazione massimamente del culto di Dio, la fecero serva della maestà di Lui: Christianos imperatores non ideo felices dicimus, quia vel diutius imperarunt, vel imperantes filios morte placida reliquerunt..; sed si suam potestatem ad Dei cultum maxime dilatandum, maiestati eius famulam faciunt [8]. Scrivendo poi al Conte Bonifacio, governatore dell'Africa, si esprime così: In altra guisa il Principe serve a Dio in quanto è uomo, e in altra guisa in quanto è Principe. In quanto è uomo serve a Dio, vivendo secondo la Fede; in quanto è Principe serve a Dio, con far leggi che comandino il bene e proibiscano il male. In ciò dunque servono a Dio i Principi, come Principi, in quanto volgono al servizio di lui quelle cose, che non possono fare se non i Principi: Aliter servit Deo quia homo est; aliter quia etiam rex est. Quia homo est, ei servit vivendo fideliter; quia vero etiam rex est, servit leges iusta praecipientes et contraria prohibentes convenienti vigore sanciendo... In hoc ergo serviunt Domino reges, in quantum sunt reges, cum ea faciunt ad serviendum illi, quae non possunt facere nisi reges [9]. Questo dovrebbero capire i reggitori dei popoli; se amassero la vera sapienza ed intendessero il loro ufficio. E dovrebbero anche capire che in ciò non si tratta tanto dell'interesse della Chiesa, quanto si tratta dell'interesse loro proprio. Imperocchè, la Chiesa, la quale in mezzo alle persecuzioni di tre secoli giunse ad impadronirsi del mondo, ben può passarsi della protezione del secolo, senza suo sostanziale discapito e sottentrando Dio a tutelarla per vie straordinarie. Ma il secolo andrà in soqquadro, se viene privato del soccorso della Chiesa. Il separarsi del corpo dall'anima non torna sostanzialmente a danno dell'anima, la quale è immortale; ma ben torna a gravissimo danno del corpo, il quale per tal separazione muore e si corrompe.

III.

L'anzidetto dovere nasce nello Stato non per mutazione intrinseca di natura, ma per mutazione estrinseca di rapporti.

Un errore di gravissimo momento in questa materia bisogna schivare, ed è il credere che lo Stato abbia rivestito il dovere di tutela verso la Chiesa, per ragione d'intrinseco mutamento di natura, prodotto in lui dal Cristianesimo. Ciò condurrebbe a molto erronee conseguenze. Imperocchè se il governante politico si persuadesse che il debito di tutelare con la sua sanzione le leggi della Chiesa sia nato, perchè coll'abbracciare la fede cristiana l'autorità civile siasi intrinsecamente cambiata da ciò che era nell'ordine naturale, sicchè l'obbietto suo non sia più la felicità temporale riposta nella pubblica pace e nel mantenimento della giustizia tra' cittadini, ma sia propriamente la salute eterna delle anime o anche la cristiana onestà de' costumi, cioè a dire la virtù in quanto elevata pel Vangelo all'ordine soprannaturale; se, diciamo, il governante politico si persuadesse una sì esorbitante opinione, egli per questo stesso si arrogherebbe il diritto di far leggi in materia religiosa, e mettere direttamente le mani in ciò che spetta a credenza e morale. Fu questo l'errore degl'Imperatori del basso Impero, imitato poscia dalle pretensioni del Gallicanismo e del Febronianismo, e che ora si vorrebbe suscitare negli Stati moderni, dopo che questi, come Stati, han cessato di essere cattolici colla libertà concessa dei culti. Ma il secolo non si spaventa mai di contraddizioni ed assurdi. È necessario adunque chiarir brevemente un tal punto.
Diciamo dunque che il fine dell'autorità politica per sè stesso non può essere che naturale. La ragione è chiarissima: giacchè il fine è proporzionale al principio, non potendo niuna cosa superare la causa da cui procede. Ora il principio della autorità politica è la semplice natura: giacchè essa non tira origine, come la Chiesa, da soprannaturale istituzione divina, ma da puro dettame della ragione. Dunque il suo fine non può essere che naturale; giacchè la natura non può superare sè stessa, ordinando a ciò che è fuori la cerchia e le forze sue. Ora se il fine dell'autorità politica per sè stesso è naturale, tale intrinsecamente è rimasto anche dopo il Cristianesimo. Imperocchè qualunque intrinseco accrescimento sopra l'ordine di natura, non sarebbe potuto avvenire in lei, se non per positiva collazione divina; e questa collazione non ha avuto luogo in nessun modo nella legge evangelica: giacchè Cristo non a Cesare ma a Pietro solamente ed agli Apostoli conferì la novella autorità che veniva a recare sulla terra. Che poi nello stesso giro della natura il potere politico sia di per sè ristretto al solo ordine esterno, si deduce facilmente dal considerare che più in là non si stendono i mezzi, di cui esso dispone; e la natura non prefigge uno scopo, pel quale non somministri nel tempo stesso i mezzi opportuni.
In che dunque si è cangiato il potere politico per l'avvenimento di Cristo? Ha mutato i suoi estrinseci rapporti. Dove prima aveva relazione col fine puramente naturale degl'individui; adesso l'ha col fine soprannaturale dei medesimi. Dove prima era a contatto con un'autorità religiosa o a sè attribuita o da sè dipendente; adesso ha di fronte un sacerdozio di origine più alta che la sua, da sè totalmente distinto e a sè superiore. Dove prima bastava che l'ordine pubblico prendesse norma dall'onestà de' costumi, conosciuta per lume della ragione; adesso questa medesima onestà convien che sia retta dal vero rivelato e dalle prescrizioni della legge evangelica [10]. Di che si vede che la mutazione dei rispetti, di cui parliamo, si desume da tre capi, coerentemente a quelli che abbiamo noverati nel paragrafo precedente. Il primo è, perchè nella società cristiana il popolo non è più composto di semplici uomini, ma di fedeli; cioè di uomini rigenerati da Cristo alla vita della grazia e rivestiti di nuovi diritti e obbligati da nuovi doveri. Il termine dunque, riguardato dall'autorità politica, è mutato; ed ogni mutazione del termine si tira dietro necessariamente mutazione di rapporto nel soggetto correlativo. Il secondo capo è che per l'istituzione della Chiesa la società è per diritto divino sottoposta al governo di un nuovo potere supremo, al potere cioè sacerdotale, indipendente al tutto dal potere politico, e col quale il potere politico dee porsi in armonia, acciocchè l'andamento sociale sia ordinato e tranquillo. In fine se il governante stesso ha abbracciata la fede, egli non può non operare in conformità di questa fede, eziandio come governante; giacchè la fede si costituisce come norma suprema di tutto l'operare morale, e sarebbe assurdo il voler sottrarre dall'ordine morale gli atti governativi, quasi non fossero atti liberi dell'uomo e però capaci di bontà o di malizia [11].
Dalle quali cose sorgono due corollarii. L'uno è che il potere politico per l'avvenimento del Cristianesimo è stato ristretto in più angusti limiti; l'altro che nei nuovi limiti, a cui venne ridotto, è stato elevato a un'eccellenza, molto superiore alla propria natura. È stato ristretto in più angusti limiti, perchè, come saviamente osserva il Suarez, gli è stato interamente sottratto l'ordine religioso; il quale, socialmente considerato, nel paganesimo dipendeva da lui. Allora la cura della religione, in quanto pubblica, aveva per iscopo la felicità della repubblica; e però o era pertinenza del potere regio, o si congiungeva con esso nella medesima persona del principe, o ad esso era subordinata. Quindi veggiamo il re Anio essere al tempo stesso sacerdote di Apollo [12]; e presso i Romani il supremo Pontificato era come corona e compimento della dignità imperiale. Ma adesso nella legge evangelica la religione, così privata come pubblica, è intesa e voluta per sè medesima, siccome quella che riguarda la gloria di Dio e la salute eterna delle anime, e non è ordinata ad alcun bene terreno, ma tutti gli altri beni sono ordinati a lei. Laonde ne è commessa la cura non punto al principe, ma ai Vescovi con a capo il romano Pontefice; e ciò per immediata istituzione di Cristo [13]. Senonchè questa limitazione del potere civile è tornata in sua maggiore esaltazione e più sublime decoro. Imperocchè, attesa l'alleanza, in che il potere civile deve costituirsi colla nuova autorità spirituale, e la protezione che a lei dee; esso da amministratore d'un bene meramente umano è cangiato in cooperatore di un bene divino, non ristretto alla vita presente ma riguardante altresì l'avvenire. Egli partecipa indirettamente dell'impero stesso universale della Chiesa, e la sua spada materiale per una specie di consecrazione, che riceve dal contatto colla spirituale, da strumento di morte si converte in ministra di vita. Di ciò lo Stato dovrebbe meritamente andar superbo. Ma per satanico inganno, esso da prima disconosce questa sua dignità, separandosi dalla Chiesa; poscia, rifattosi pagano, cerca di ripigliare sulla religione di Cristo quella balìa, che innanzi esercitava sulle superstizioni umane del Gentilesimo.

IV.

Si risponde ai due sofismi obbiettati da principio.

È facile ora sbrigarsi con poche parole dei due sofismi, in virtù de' quali dalla natura dello Stato volea inferirsi l'indifferenza politica per ogni sorta di religione, e l'incapacità di tutela verso la Chiesa. Lo Stato, si diceva, ha per fine la felicità temporale degli uomini associati: la pace cioè, la giustizia esterna, la copia de' mezzi, necessarii al loro ben essere nella vita terrena. Esso è distinto dalla Chiesa, che mira alla felicità spirituale ed eterna; dunque dev'esserne separato. Esso non può dare la verità; dunque non può difenderla.
Noi potremmo insistere sul fine stesso politico, qual è descritto dagli avversarii, e mostrare com'esso, dopo l'apparizione del Cristianesimo non può più corrispondere alla dignità della natura umana, nè tornare in vero bene dei sudditi, senza entrare in istretta relazione colla Chiesa. Ma perciocchè questo punto sarà da noi toccato di proposito in processo, là dove parleremo del naturalismo politico, basterà qui solvere i due argomenti, che sopra vi si fabbricavano. Egli è verissimo che essendo quello, sopra descritto, il fine dello Stato, lo Stato per ciò stesso apparisce distinto dalla Chiesa; giacchè ogni società viene specificata dal proprio fine. Ma da ciò non segue in niuna guisa che dev'esserne separato. Anche il corpo è distinto dall'anima; e nondimeno nell'uomo non solo non è da lei separato, ma è con lei nella massima delle unioni, qual è quella di natura e di persona. Noi anzi dall'essere lo Stato distinto dalla Chiesa, deducemmo come necessaria conseguenza l'opposto, cioè il diritto di scambievole assistenza tra loro e di armonia nell'ordinare, l'uno e l'altra secondo il proprio fine, la medesima società. Altrimenti, dovendo essa società sottostare ad amendue i poteri, correrebbe rischio, se essi non fossero in concordia tra loro, di trovarsi in contrasto con sè stessa, e venir tirata in parti avverse, con gravissimo disturbo dell'ordine.
Del pari, è indubitabile che lo Stato, avendo origine umana non può dare la verità, la quale ha origine divina. La sola Chiesa, a cui Iddio ha partecipata la sua infallibilità, ha un tal potere. Ma che per ciò? Il corpo non può dare l'anima: ne inferireste voi, che avvivato una volta dall'anima, non può concorrere cogli atti suoi ad aiutare e difendere l'esterna esplicazione delle forze di lei? Il fatto vi smentirebbe. Da quella premessa, che lo Stato non può colla virtù sua dare la verità, segue solamente che esso deve guardarsi dall'entrare, come che sia, nelle decisioni dommatiche o morali; e ciò fa contro le oltracotate pretensioni dei Placet e degli Exequatur, di cui già facemmo cenno più innanzi, e parleremo appositamente appresso. Ma in menoma guisa non segue da quella premessa che lo Stato ricevendo la verità dalla Chiesa, la quale sola ne è maestra quaggiù, non possa o non debba prestarle il suo braccio, sicchè ella compia liberamente la sua divina missione, senza venire impedita da ostacoli materiali. Anzi ciò è conformissimo all'intenzione di Dio, e all'ordine della ragione; pel quale il corpo dee servire allo spirito e la forza materiale alla forza morale.
E qui ci piace conchiudere col ricordare una gravissima considerazione. Il Pontefice proscrivendo l'erronea opinione, la quale dice ottima forma di reggimento politico quella che stabilisce la libertà di coscienza e l'impunità dei delitti religiosi, afferma che essa è contraria alla dottrina della sacra Scrittura, della Chiesa e dei Padri: Contra Sacrarum litterarum, Ecclesiae sanctorumque Patrum doctrinam. La santa Scrittura loda sempre quei Re che fecero servire la spada delle leggi a difesa della vera Religione. Nell'antico Testamento era prescritto che i Re di Giuda, nell'atto della loro consecrazione, ricevessero dai Sacerdoti il libro della divina legge, per significare che conforme ad essa dovevano governare la nazione. Iddio è propriamente Re; i governanti non sono che suoi Ministri: Cum essetis Ministri Regni illius [14]. Or di che nuova foggia Ministri sarebbero quelli, i quali si mostrassero indifferenti all'offesa del loro Signore, e lasciassero che impunemente se ne potessero trasgredire i precetti? Sopra un tal punto Cristo stesso ci volle ammaestrare col suo esempio, percotendo di propria mano col flagello i profani, che disonoravano il tempio. La tradizione poi della Chiesa è costante, nè ammette eccezione. Si consultino intorno a ciò i decreti dei Pontefici, i canoni dei Concilii, gl'insegnamenti de' Padri e de' Dottori, e si troveranno sempremai conformi nell'attribuire ai principi cristiani il dovere di proteggere la Chiesa e punire i trasgressori delle sue leggi. Ci contenteremo per saggio riportare l'autorità di due Santi, che per la loro sapienza nel governo della Chiesa universale meritarono il soprannome di Grandi. Siano questi, san Leone Magno e san Gregorio parimente Magno. Il primo, nella sua lettera a Toribio, parlando del rigore delle leggi contro i disseminatori di eretica dottrina, dice: Profuit ista districtio ecclesiasticae lenitati, quae etsi Sacerdotali contenta iudicio, cruentas refugit ultiones, severis tamen Christianorum principum constitutionibus adiuvatur: dum ad spirituale nonnunquam recurrunt remedium, qui timent corporale supplicium [15]. Il secondo, scrivendo all'imperatore Maurizio, lo ammaestra così: Ad hoc enim potestas super omnes homines Dominorum meorum pietati caelitus data est, ut qui bona appetunt adiuventur, ut caelorum via largius pateat, ut terrestre regnum caelesti regno famuletur [16].
A due santi Pontefici tengano dietro due santi Dottori. San Pier Damiani nell'epistola a sant'Annone, Arcivescovo di Colonia, scrive: Quoniam utraque dignitas (la regale cioè e la sacerdotale) alternae invicem utilitatis est indiga, dum et Sacerdotium regni tuitione protegitur, et regnum sacerdotalis officii sanctitate fulcitur [17]. San Bernardo poi scrivendo al Pontefice Eugenio III, lo esorta: Exerendus est nunc uterque gladius in passione Domini... per quem autem nisi per vos? Petri uterque est; alter suo nutu, alter sua manu, quoties necesse est, evaginandus [18].
E questa metafora, così espressiva, delle due spade, da doversi insieme congiungere, era divenuta sì comune nella Chiesa, che gli stessi principi secolari la usavano sermonando nelle pubbliche assemblee, o, come ora si direbbe, nei loro discorsi della Corona. Il re Edgaro confortava i Vescovi, congregati a Dunstan nell'Inghilterra, con queste eloquenti parole: «Gareggiate meco, o Sacerdoti, gareggiate nelle vie del Signore e nei precetti del Nostro Dio. È tempo d'insorgere contro coloro, che dissiparono la divina legge. Io ho in mano la spada di Costantino, voi quella di Pietro. Uniamo le destre; congiungiamo spada a spada, e sieno cacciati fuori del campo i leprosi, si mondi il santuario del Signore, e ministrino nel tempio i figliuoli di Levi [19].» Lo stesso Federico II, di orribil memoria, pure costretto dalla pubblica opinione, confessava ai Principi, adunati nella Dieta di Wormazia, che la spada materiale era ordinata in aiuto della spada spirituale: Gladius materialis constitutus est in subsidium gladii spiritualis [20].
Che i laici ignorino questa perpetua tradizione della Chiesa, è un difetto scusabile, non essendo essi obbligati ad ampie e profonde cognizioni di dottrina sacra. Ma intorno a ciò vogliono avvertirsi due cose: l'una, che una eguale scusa non meriterebbero le persone ecclesiastiche, per la contraria ragione. L'altra, che quando trattasi di materie così delicate, quali son le morali, e massimamente se hanno alcun rapporto colla religione; la prima cura d'ogni buon cattolico dev'essere d'informarsi qual è intorno ad esse il sentir della Chiesa, per potere così assicurare la propria mente da ogni pericolo di errore. Poco importa che diversamente ne pensino i Parlamenti odierni o i barbassori del diritto nuovo. Molte altre bestialità costoro insegnano; e starebbe fresca la scienza umana, se dovesse tenersi a simili insegnamenti. Il sincero cattolico, il quale sa che colonna e maestra del vero è la Chiesa di Gesù Cristo, cerca innanzi tutto che cosa pensa e giudica essa Chiesa, e non cerca di tirare al proprio preformato giudizio la dottrina di lei, stiracchiandola più o meno stranamente; ma alla dottrina di lei, con docile e schietto animo appresa, volonteroso conforma il proprio giudizio.
[CONTINUA]

«E contro la dottrina delle sacre Lettere, della Chiesa e dei santi Padri, non dubitano di asserire ottima essere la condizione della società, nella quale non si riconosce nell’Impero il debito di reprimere con pene stabilite i violatori della cattolica religione, se non in quanto lo dimanda la pubblica pace.» Papa Pio IX, Enc. Quanta cura, 8 dic. 1864.


NOTE:

[1] Vedi Phillips, Du droit eeclèsiastique etc. tome second. §. 98. Dèfense d'employer la contrainte pour convertir.
[2] Enciclica dell'8 Dicembre 1864.
[3] Simile factum est regnum caelorum homini, qui seminavit bonum semen in agro suo. Cum autem dormirent homines, venit inimicus eius et superseminavit zizania in medio tritici, et abiit. Cum autem crevisset herba et fructum fecisset, apparuerunt et zizania. Accedentes autem servi patrisfamilias, dixerunt ei: Nonne bonum semen seminasti in agro tuo? Unde ergo habet zizania? Et ait illis: Inimicus homo hoc fecit. Servi autem dixerunt ei: Vis, imus et colligimus ea? Et ait: Non: ne forte colligentes zizania eradicetis simul cum eis et triticum. Sinite utraque crescere usque ad messem; et in tempore messis dicam messoribus: Colligite primum zizania et alligate ea in fasciculos ad comburendum; triticum autem congregate in horreum meum. Matth. c. XIII.
[4] Can. Certum est, 12, d. 10.
[5] Cap. Ad abolendum, 9, X, de Haeret. (V. 7.) — Imperialis fortitudinis vigore suffulti.
[6] Du Droit ecclèsiastique, etc. Tom. II, Ch. 10, §. 107.
[7] Epist. 75.
[8] De Civit. Dei, l. V.
[9] Epist. 185 ad Bonifacium.
[10] Come ognun vede, qui prescindiamo dalla costituzione della Chiesa giudaica, e parliamo del solo potere religioso tra le Genti.
[11] Questa in sostanza è la dottrina che concordemente agli altri Dottori cattolici insegna il Suarez, là dove dice che la potestà civile, in quanto si trova nei principi cristiani congiunta colla fede, benchè non si stenda, nella materia che riguarda e negli atti in cui si spiega, al fine soprannaturale o spirituale dell'uomo; tuttavia può nelle sue leggi e in parte ancora è tenuta ad aver di mira il fine soprannaturale e ad esso riferire l'atto stesso legislativo: «Dico potestatem civilem (etiam prout est in principibus christianis fidei coniuncta) non extendi in materia vel actibus suis ad finem supernaturalem seu spiritualem vitae futurae vel praesentis; licet ipsi legislatores fideles in suis legibus ferendis intueri possint et ex parte debeant supernaturalem finem, et actum ipsum ferendi legem in supernaturalem finem referre.» Scendendo poi a chiarir la cosa in particolare, l'esimio Dottore soggiunge che questa relazione della potestà civile al bene religioso si ha da intendere in doppio modo. Prima in senso di positiva ordinazione, e così ordinariamente è di solo consiglio, purchè non intervenga speciale precetto o necessità che la comandi. Secondamente in senso negativo, cioè di cautela a non istabilir cosa alcuna che sia contraria al fine soprannaturale o nuoca al suo conseguimento; la quale avvertenza nel potere politico ha origine dalla fede e può dirsi una virtual relazione all'ultimo fine. Nè essa è di solo consiglio ma è di vero precetto, massimamente proprio dei principe cristiano e cattolico. «Est autem observandum hanc relationem posse dupliciter fieri. Primo per positivam ordinationem, et sic regulariter erit in consilio, nisi speciale praeceptum vel necessitas ad illum obligaverit..... Secundo intelligi potest per negationem tantum, seu per circumspectionem nihil statuendi per hanc potestatem, quod sit contrarium fini supernaturali vel eius consecutionem impedire possit; quae observatio et prudens cautio ex fide procedit et virtualis quaedam relatio in ultimum finem dici potest. Estque non tantum in consilio sed etiam in praecepto, maxime proprio christiani et catholici principis, ut constat.» De legibus l. III, cap. 7.
[12] Rex Anius, rex idem hominum Phoebique sacerdos. Virg. Aeneid. III, 28.
[13] Quoad illa quae pertinent ad religionem, civilis potestas magis limitata nunc est in Ecclesia, quam esset ante christianam religionem. Nam olim cura religionis ordinabatur ad honestam felicitatem reipublicae: nunc autem religio et spiritualis salus et felicitas per se primo intenta est, et reliqua propter illam. Et ideo olim cura religionis vel pertinebat ad potestatem regiam, vel cum illa coniungebatur in eadem persona, vel illi subordinabatur: nunc autem cura religionis specialiter Pastoribus Ecclesiae commissa est. Suarez, De Legibus, lib. IV. c. XI.
[14] Sap. VI.
[15] Epist. XV, ad Turribium, Asturiensem Episcopum.
[16] Epist. lib. 3. Ep. 65, ad Mauritium Augustum.
[17] Epist. lib. 3, Ep. 6.
[18] Epist. 256, ad Eugenium.
[19] Aemulamini, o Sacerdotes, aemulamini vias Domini et iustitias Dei nostri. Tempus insurgendi contra eos qui dissiparunt legem. Ego Constantini, vos Petri gladium habetis in manibus. Iungamus dexteras; giadium gladio copulemus, et eiiciantur extra castra leprosi, et purgetur Sanctuarium Domini, et ministrent in templo filii Levi. — Orat. Edgari regis an. 969. Hardouin, Concil. t. VI, p. 1, col. 675.
[20] Pertz, Monum. Germ. hist. t. IV. p. 234.