Finalmente, ero fuori Venezia! Costeggiammo l’immenso ponte
ferroviario, e vidi arrivare all’imbarcadero una locomotiva coperta di bandiere
tricolori; come ho saputo in seguito, recava delle false notizie; per mantenere
la rivolta effervescente, le persone che ci erano sopra gridavano: «Treviso,
Vicenza hanno proclamato la repubblica!», «Viva San Marco»
rispondeva il popolo. Durante il tragitto, l’atteggiamento indeciso dei
Veneziani mi aveva ispirato l’idea di andare a Padova, per incontrare il
generale barone d’Aspre, che comandava in quella piazza. La sua energia, le sue
capacità erano note a tutto l’esercito, e mi sembrava che lanciando qualche
battaglione su questa città, ancora stupefatta per la sua libertà, si sarebbe
potuto ristabilire l’autorità imperiale. Arrivando a Mestre, i gondolieri si
fermarono presso una casa isolata dove avrei potuto, mi dissero, trovare una
carrozza e dei cavalli. Mi fidai del padrone di casa, e gli dissi che volevo
andare a Padova. «A Padova!» gridò, ostentando un grande stupore, «ma la
campagna è piena di crociati e di contadini in armi: appena fuori
Mestre, sarete ucciso o impiccato a qualche albero». D’istinto intuiva che
bisognava impedirmi di partire per Padova. «Vi domando» gli dissi «una vettura,
dei cavalli, e subito». «Ah, signore», mi disse in preda a grande emozione
«poiché non posso trattenervi, impedirvi di sfidare morte certa, permette
almeno che vi dica addio, che vi abbracci versando lacrime sul vostro
sfortunato destino». Poi, alzando gli occhi al cielo: «Un uomo così giovane!»
gridò «e correre così verso la morte!». E, gettandomi le braccia al collo, mi
abbracciò versando qualche lacrima; ma, vedendo che i suoi sforzi erano vani,
mi volle fare arrestare e, col pretesto di andare a prendere una carrozza,
risalì insieme a me una lunga strada, su uno dei cui lati correva il muretto
del canale. Visto che guardava di continuo e ostentatamente verso l’acqua, gli
chiesi «Allora, che cosa vedete?». «Ah, mio Dio», mi rispose, «questa mattina
il popolo ha massacrato alcuni soldati del reggimento d’Este, e ha gettato i cadaveri
nel canale». Non era vero, come ho saputo in seguito. Camminavo svelto, per
paura di essere circondato dalle persone che riempivano la strada e già
cominciavano a seguirmi; arrivai su una piazza, coperta di capannelli d’uomini;
mi fermai e mi addossai, tranquillo e pronto a tutto, al muretto del canale: il
mio uomo mi aveva abbandonato. Tutti, allora, si fecero avanti verso di me,
prima lentamente, come dei curiosi che vengono a guardare; poi, quando ebbero
formato un semicerchio intorno a me, quelli che erano dietro gridarono: «Morte
al cane! Morte al tedesco!». Si spingevano uno con l’altro, agitando le
braccia per minacciarmi. Li guardavo in faccia senza tremare, ma temevo di
essere buttato nel canale, oltre il muretto della riva, quando un ometto con in
testa un tricorno, e una larga sciarpa, si fece largo tra quel popolo e venne
da me. Pensavo che fosse il podestà e, prendendo saldamente il suo bavero con
la mano sinistra, gli dissi sfoderando la mia sciabola: «Se questi mi toccano,
vi ficco la mia sciabola nella pancia». Provò a fare un salto indietro, ma lo
tenevo saldo, e si fermò guardandomi fisso. Due personaggi piuttosto ben
vestiti, probabilmente temendo la vendetta delle truppe imperiali, si
piazzarono tra la folla e me; mi fecero scudo con i loro corpi e chiamarono un
uomo che passava di là con un carretto. Questi pochi minuti mi erano sembrati
eterni; ero fradicio di sudore. Questi signori montarono con me sul carretto,
che prese subito la strada per Castelfranco. Mi accompagnarono fino in campagna,
e dopo avermi detto addio, scesero dalla vettura.
Rinunciai a Padova; ero stato giocato dalla commedia
del tizio di Mestre e dalla sua commozione simulata, poiché poi ho saputo che
non c’era un solo crociato tra Mestre e Padova.