di
Lorenzo Terzi
Festa onomastica di
S.M. il Re Ferdinando II
Gaeta, 29-30 maggio
1999
Il
testo della relazione tenuta dal prof. Lorenzo Terzi, alla Festa onomastica dei
S. M. il Re Ferdinando II, organizzata da l’Editoriale Il Giglio a Gaeta, il
29-30 maggio 1999, nell’ambito delle anticelebrazioni del bicentenario della
Repubblica giacobina napoletana.
Il
prof. Terzi è esperto di archivistica e collabora presso l’Archivio di Stato di
Napoli e l’Istituto Italiano per gli Studi Storici.
Introduzione
Le brevi schede successive
presentano otto periodici usciti durante il semestre della Repubblica giacobina
napoletana.
Da alcune di queste testate saranno estratte
le citazioni, il cui esame potrà farci “toccare con mano” i modi e le forme
della propaganda attuata nel 1799 sulle colonne dei giornali giacobini
partenopei.
Non si farà cenno alle pubblicazioni
di cui si conosce solo il nome o il programma editoriale, ma esclusivamente a
quelle che hanno lasciato una consistente traccia nelle biblioteche
meridionali.
Sull’argomento “stampa periodica
napoletana del ‘99”, è stato scritto molto, ma dovendo indicare una
bibliografia essenzialissima, l’elenco può essere limitato a soli due testi:
Girolamo Addeo, Libertà di stampa e produzione giornalistica nella Repubblica
Napoletana del 1799, Loffredo Editore;
Mario Battaglini (a cura di), Napoli 1799 - I giornali giacobini,
Edizioni Alfredo Borzi.
Si tratta di due opere - non tanto
la seconda, in verità, quanto la prima - chiaramente apologetiche in senso
filorepubblicano, ma molto ben scritte e documentate, indispensabili per avere
una visione d’insieme dell’argomento.
Cominciamo la nostra rassegna, com’è
d’obbligo, con il
Monitore Napoletano
È senza dubbio il prodotto più
celebre e celebrato della stampa periodica della Repubblica napoletana. Già a
pochissimi giorni di distanza dall’ingresso delle truppe francesi nella
capitale, precisamente il 29 gennaio 1799, cominciò a circolare per le strade
della città un volantino che annunciava la prossima pubblicazione d’un foglio
il cui intento era quello di rendere “conto di tutte le operazioni governative”
dei giacobini. Il titolo, Monitore
Napoletano, richiamava esplicitamente l’omonimo periodico parigino,
avidamente seguito e letto nella cerchia degli intellettuali partenopei di fede
rivoluzionaria. Fu la stessa volontà del governo a istituirlo: secondo
Battaglini, anzi, il suo fondatore è da identificarsi nientemeno che nel primo
presidente del Governo provvisorio in persona, Carlo Lauberg.
Sabato 14 Piovoso (2 febbraio 1799),
con un giorno di anticipo rispetto a quanto era stato annunciato, il Monitore Napoletano usciva dai torchi
della tipografia di Gennaro Giaccio, il quale firmò il periodico, pur con
qualche eccezione, dal I al XXV numero; successivamente, però, la stampa venne
curata dalla Tipografia Nazionale.
A partire dal 9 maggio, Eleonora de
Fonseca Pimentel ne dovette assumere il ruolo di esclusiva e diretta
responsabile. La famosa “patriota”, tuttavia, compariva già come redattrice –
pressoché unica – sin dall’avviso del 29 gennaio. Il giornale ebbe un ritmo
bisettimanale di pubblicazione uscendo quasi sempre, con intervallo di tre
giorni, cioè ogni martedì e sabato. Ciascun numero fu costituito da quattro
pagine – tranne l’ultimo di sei – che raccoglievano gli articoli su due
colonne.
Sopra al titolo - che fu Monitore Napolitano dal numero I al
numero XIV, e Monitore Napoletano dal
XV al XXXV (dell’ 8 giugno 1799), troneggiavano le due parole-chiave “Libertà”
ed “Eguaglianza”; sotto era riportato il numero cronologico con la data di
pubblicazione nel nuovo e vecchio stile, ossia secondo il calendario
repubblicano e quello gregoriano.
Giornale patriotico della Repubblica
Napoletana
Il 16 Piovoso (4 febbraio) 1799, la
stamperia Pergeriana iniziava la pubblicazione del Giornale patriotico. Si tratta in realtà di otto volumetti di 176
pagine l’uno, usciti con ritmo trimensile il 14, 8, 25 febbraio, il 7, 16, 29
marzo, il 15 e il 29 aprile. Il periodico, scrive Girolamo Addeo, “raccoglieva,
introdotti da titoli in carattere corsivo ma senza distinzioni particolari, i ‘monumenti’
dei preposti alle istituzioni: avvisi, decreti, leggi, disposizioni,
dichiarazioni, inviti, istruzioni, ordini, notificazioni, regolamenti e
proclami delle autorità francesi e napoletane con testi quasi sempre [... ] in
francese ed in italiano [... ]; e congiuntamente i ‘monumenti’ dei promotori
della rivoluzione e della nuova educazione patriottica: allocuzioni, discorsi,
lettere, memorie, pensieri, orazioni, progetti, sonetti e parlate in lingua
vernacola: il tutto si susseguiva senza ordine di rubriche fisse o
precostituite, sicché il lettore sfogliava le pagine senza preclusione, ovvero,
volendolo, lasciandosi guidare dall’indice analitico generale che chiudeva ogni
volume”.
Corriere di Europa
Direttore del periodico fu il dotto
canonico Giovanni De Silva, frequentatore, nel periodo precedente la
Rivoluzione, del salotto-accademia del duca di Belforte. Insieme con il
tipografo e giornalista Angelo Coda, a partire dal 28 agosto 1798, diede vita
al Corriere di Europa, uscito fino all’arrivo dei francesi per un totale di
quaranta numeri.
Nel febbraio del 1799, De Silva e
Coda si ripresentarono al pubblico: confessarono la loro “rigenerazione”
repubblicana e annunciarono contemporaneamente la ripresa della loro “gazzetta
universale”. La collezione completa del giornale consta di ventisei fascicoli
ordinari ed uno supplementare, editi con cadenza bisettimanale, il sabato e il
martedì, dal 16 febbraio al 26 maggio 1799, in formato di otto pagine numerate
progressivamente in modo da costituire un corpus di 216 pagine.
Si conserva un documento del 14
giugno 1799 (quando Ruffo stava ancora al Ponte della Maddalena e le macerie
del fortino di Vigliena, conquistato il giorno prima, erano ancora fumanti)
recante un ordinativo di pagamento di 92 carlini per l’importo di carte di real
servizio dal medesimo [Angelo Coda ndr]
stampate al Quartier generale del Ponte della Maddalena”.
Corriere di Napoli e di Sicilia
Benedetto Croce ricorda che il
titolo della testata allude ai giorni iniziali della conquista francese, quando
il Generale Championnet progettava uno sbarco nella Sicilia rimasta agli
anglo-borbonici.
Proprietario e direttore del
giornale era il cittadino Marcilly, che insieme con il cittadino Mittois fu
anche redattore del Bollettino delle leggi della Repubblica Napoletana, in cui
furono raccolti, con numerazione progressiva, tutti gli atti prodotti dalle
pubbliche amministrazioni giacobine. Il Corriere
di Napoli e di Sicilia durò poco più di due mesi, dal 17 febbraio al 27
aprile 1799; si stampò bilingue, in italiano e francese, nella Stamperia
nazionale, per un totale di venti numeri di sedici pagine ciascuno, tranne i
numeri 6, 9 e 14 di venti pagine più un supplemento di quattro. Osservò un
ritmo variabile, a periodicità oscillante dai tre ai cinque giorni. Pur
occupando, sempre secondo Croce, il secondo posto dopo Il Monitore nel panorama
dei giornali dell’epoca, cessò di uscire non appena vennero meno i
finanziamenti pubblici (anche questo è un tratto di “modernità”, comune a tanta
stampa odierna!). Infatti il governo aveva concesso al Marcilly un bonus di
duemila ducati per il lavoro dei primi due mesi che, in seguito, non fu
rinnovato per motivi rimasti ignoti.
Veditore repubblicano
L’unica collezione pervenutaci del
periodico, conservata presso la Società Napoletana di Storia Patria, è formata
da quattro numeri, disposti in ordine progressivo per complessive quarantasette
pagine. Secondo l’uso, il Veditore fu
annunciato con un manifesto che ne precisava il programma, il metodo di
conduzione e il luogo di vendita; era anche formulata la promessa che il primo
numero sarebbe stato messo in circolazione il 21 marzo 1799, circostanza
puntualmente verificatasi.
Gli altri tre numeri seguirono con
ritmo decadario, il 30 marzo, il 9, 19 e 29 aprile, quando con tutta
probabilità il giornale cessò definitivamente le pubblicazioni. Editori e
direttori del periodico furono Gregorio Mattei e Pietro Natale Alethy, quest’ultimo
nativo di Ragusa e condannato all’esilio all’indomani della restaurazione
borbonica, con minaccia di pena di morte nel caso fosse rientrato nel Regno
senza il permesso di Ferdinando IV.
Giornale estemporaneo
Dalla tipografia di Gennaro Giaccio,
la stessa che stampava come abbiamo visto il
Monitore della Pimentel, uscì anche un altro singolare prodotto del
giornalismo repubblicano. Si tratta, appunto, del Giornale estemporaneo, il cui nome, come si suol dire, era davvero
tutto un programma. Si sa per certo che ne uscirono almeno nove numeri, ognuno
dei quali formato da quattro pagine. Tuttavia la collezione completa, conservata
presso la Società Napoletana di Storia Patria e ristampata da Mario Battaglini
nel 1988, ne comprende soltanto sette, dal numero 1 dell’ 11 Germile (ovvero 31
marzo) del 1799 al numero 9 del 2 Pratile (ovvero 21 maggio) dello stesso anno;
sono andati perduti il numero 3 e il numero 7. Il secondo fascicolo, il quarto
ed il quinto uscirono, rispettivamente, sabato 6, 20 e 27 aprile; il sesto e l’ottavo
sempre di sabato, il 4 e il 18 maggio. Non si conosce il nome del redattore.
Il vero repubblicano
L’iniziativa della pubblicazione di
questo periodico, ricorda Addeo, fu assunta all’inizio di aprile del 1799 dal
tipografo Vincenzo Orsini, personaggio molto noto nell’ambiente dell’editoria
napoletana. Il manifesto che ne annunciava l’uscita prometteva una sola
tiratura settimanale, il venerdì. Tale cadenza non venne poi rispettata, stando
a quanto possiamo capire esaminando i soli due numeri superstiti presso la
Società Napoletana di Storia Patria, il primo ed il quarto. Entrambi i
fascicoli sono privi dell’indicazione della data. Girolamo Addeo, basandosi
sulla puntuale analisi dei contenuti, sostiene che il primo numero fu
certamente pubblicato posteriormente alla giornata di venerdì 19 aprile 1799,
mentre il quarto sarebbe molto presumibilmente da ascriversi al successivo
venerdì 3 maggio; si deve pertanto ritenere che il secondo e il terzo dovettero
essere stampati tra il 20 aprile e il 2 maggio dello stesso anno. Ogni
fascicolo, composto di otto pagine progressivamente numerate, era strutturato in
tre settori: nel primo si riportavano leggi, decreti e proclami via via emanati
dal governo e dalle autorità militari, nel secondo brevi resoconti dei
dibattiti che si tenevano nelle commissioni istituzionali, nel terzo notiziari
sulle vicende politiche e militari con corrispondenze da varie città italiane
ed estere.
Spettatore Napoletano
Mentre le sorti della Repubblica
Napoletana erano ormai irrimediabilmente segnate dalla vittoriosa avanzata dell’esercito
della Santa Fede e dall’ostilità della masse popolari contro il giacobinismo e
i suoi fautori, c’era ancora chi, a Napoli, trovava il tempo e la voglia di
fondare un nuovo periodico. Sabato 18 maggio 1799, infatti, uscì lo Spettatore Napoletano, testata che
riprendeva, nel titolo, un modello una volta tanto inglese: quello dello Spectator, per l’appunto, nato grazie
all’iniziativa di Joseph Addinson. Autore e redattore del giornale napoletano
fu invece Nicola Mazzola, celebre patriota “della prima ora”, inquisito sin dal
1794, uomo di fiducia di Carlo Lauberg durante il semestre repubblicano, nonché
inesorabile “democratizzatore” di numerosi centri del Casertano e dell’Irpinia.
Non si sa con esattezza quanti siano i numeri del suo Spettatore effettivamente
pubblicati. La collezione più completa è quella appartenuta ad Alfredo Zazo,
che al giornale e al suo fondatore dedicò un accurato studio sulla rivista “Samnium”.
Tale collezione è stata ristampata da Girolamo Addeo in appendice alla già
ricordata opera Libertà di stampa e produzione giornalistica nella Repubblica
Napoletana del 1799. Comprende quattro fascicoli, ciascuno costituito da
quattro pagine con numerazione progressiva, usciti il 18, 21, 25 e 28 maggio
1799. A detta di Zazo, però, la testata avrebbe cessato definitivamente le
pubblicazioni soltanto il martedì 4 giugno successivo. Sta di fatto che di
quest’ultimo ipotetico numero, come di un quinto che lo avrebbe preceduto, non
v’è traccia nelle biblioteche pubbliche napoletane.
La propaganda
Veniamo adesso al nostro tema, la
propaganda nei giornali giacobini.
Il carattere essenziale di questa
propaganda, che plasma e informa di sé tutta la stampa del semestre
repubblicano, tanto per essere chiari, è la menzogna. Essa percorre ogni
colonna, dilaga in ogni riga dei periodici rivoluzionari, imperversando con
maniere e gradazioni differenti: ora impronta, avvelenandoli, i toni della
prosa, ora stravolge i fatti fino ad oltrepassare la soglia del ridicolo, ora,
infine, deforma e nasconde la verità con un ghigno sinistro che gli apologeti
nostri contemporanei vorrebbero spacciare per “passione civile”.
La manifestazione della menzogna si
realizza nel Monitore e nei suoi
fratelli più o meno minori essenzialmente attraverso quattro strategie: la
completa subalternità politica e ideologica che induce i giacobini a travisare
il vero presentando contro ogni evidenza gli invasori francesi come bonari
apostoli di libertà e di pace; la sistematica feroce diffamazione dell’avversarlo;
la pura e semplice diffusione di notizie false; e infine, l’uso fraudolento di
parole-chiave del linguaggio religioso al fine di creare perplessità e
disorientamento nei naturali nemici del processo rivoluzionario. Mostrerò
quindi, con un metodo un po’ “rapsodico”, alcuni esempi tratti dai giornali
elencati in precedenza, come altrettanti “campioni” dell’uso consapevole e
sistematico della menzogna attuato dalla stampa repubblicana.
Ancora una volta è giocoforza
cominciare col Monitore, considerata
la sua importanza “quantitativa” e “qualitativa”. Si tratta del periodico
giacobino che vanta il maggior numero di uscite e che nutre maggiori ambizioni politiche.
La de Fonseca Pimentel, inoltre, vi impegna senza risparmio tutto l’armamentario
della menzogna, poco sopra inventariato.
E a proposito della
completa subalternità agli invasori,
iniziamo bene, anzi male, sin dal numero 1 del Monitore (Sabato 14 Piovoso, 2 febbraio 1799): già nelle prime
righe troviamo uno splendido esempio di capovolgimento dei dati della realtà finalizzato
all’esaltazione dell’armata francese occupante. La nostra scrittrice, giornalista,
poetessa, patriota, nonché protofemminista, declama alata:
«Siam
liberi in fine, ed è giunto anche per noi il giorno, in cui possiam pronunciare
i sacri nomi di libertà e di uguaglianza, ed annunciarne alla Repubblica Madre,
come suoi degni figliuoli; a’ popoli liberi d’Italia, e d’Europa, come loro
degni confratelli.
[...
] Napoletani, se l’armata francese prende oggi il titolo di armata di Napoli, è
ciò in seguela dell’impegno sollenne ch’essa prende di morire per la vostra
causa, e di non fare altro uso delle sue armi che quello di conservare la
vostra indipendenza, e sostenere i vostri diritti, ch’essa ha conquistati per
voi. Si rassicuri dunque il popolo su la libertà del suo culto, cessi il
cittadino d’inquietarsi per i diritti della sua proprietà: un grand’interesse
ha stimolato i tiranni a’ grandissimi sforzi ch’hanno fatto per calunniare agl’
occhi delle nazioni i sentimenti e la lealtà della Nazion francese; ma pochi
giorni son necessari ad un popolo tanto generoso per disingannare gli uomini
creduli delle odiose prevenzioni, di cui si serve la tirannia per condurli ad
eccessi deplorabili.
[...
] L’organizzazione della rapina e dell’assassinio, dall’ultimo re vostro
imaginata, e da’ suoi agenti perversi eseguita, qual un mezzo di difesa, ha
prodotto disastrose e serie conseguenze funestissime; ma rimediando alla cagion
del male, facil cosa sarà arrestar gli effetti, e di ripararne queste
conseguenze.»
Puntuali e arguti, a tale proposito,
i commenti del Nuovo vocabolario
filosoficodemocratico indispensabile per chiunque brama intendere la nuova
lingua rivoluzionaria, importantissima e misconosciuta opera reazionaria
attribuita al gesuita Lorenzo Ignazio Thjulen e pubblicata una prima volta a
Venezia, proprio nel 1799, presso Francesco Andreola, e una seconda a Firenze,
presso Campolmi, nel 1849 (quindi, come vediamo, in due momenti “caldi” dell’offensiva
liberale contro la legittimità). II Nuovo
vocabolario, dunque, chiosa:
«[...
] si ripete che la religione sarà rispettata conservata e protetta: se per
Religione si intende l’Ateismo, la promessa si verifica a puntino; altrimenti è
una solennissima menzogna ed impostura.
[...
] [la parola proprietà ndr] nelle Repubbliche democratiche finché si
spoglia, non ha né uso né significato. Quando si ha Spogliato, si pretende
vocabolo sacro.»
Il 15 Fiorile (4 maggio 1799), il Giornale Estemporaneo rincarava la dose
rispetto alla Pimentel. Vi ritroviamo lo stesso servilismo ideologico, la
stessa mentalità da subalterni che caratterizzò, d’allora in poi, le classi
dirigenti meridionali, rendendole incapaci di rappresentare gli interessi del
Mezzogiorno, da esse puntualmente sacrificato a qualche astratto “idolo”
rivoluzionario: la Repubblica, la Libertà, l’Eguaglianza e la Fraternità nel ‘99;
ancora la Libertà, e l’Unità d’Italia, nel 1860.
«Giovani
Napolitani, l’Italia ha i suoi sguardi sopra di voi; prevenuta in favor vostro,
attende con impazienza il racconto delle vostre gesta, e vuol vedere i frutti
del vostro coraggio. I bravi Francesi ve ne han dato l’esempio, son pronti ad
assistervi, ma vorrebbero allievi degni di loro.»
Nel primo numero del Corriere di Napoli e di Sicilia (29
Piovoso, 17 febbraio 1799) i francesi si identificano tout court con la “Libertà”,
ovviamente con la lettera maiuscola. Vi si legge, infatti, un appello
indirizzato agli abitanti siciliani, rimasti fedeli a Ferdinando IV, e così
concepito:
«Discesa
dalla vetta dell’Alpi la Libertà trionfante vien ad inalberare i suoi stendardi
sulle rive della Calabria; e va con un passo solo a sormontar lo Stretto di
Messina. Voi sorgerete dalle vostre rovine, Siracusa, Leonzio, Agrigento.
Figlie troppo infelici degli Elleni, voi ristabilirete il bel culto della
Morale sotto il più bel cielo del Mondo. La semplicità maestosa delle Feste
della Grecia vostra originaria, e patria tanto gloriosa comparirà nel suo
primitivo splendore.
Adunque
duemila anni di avvilimento, di delitti, di sanguinosa barbarie, cedono ora la
piazza alle belle arti ed alle cognizioni della libertà generatrice. Secondate,
sì secondate con coraggio la grande intrapresa de’ vostri liberatori: la gioja,
l’abbondanza, la felicità ne saranno il prezzo. Sì, malgrado gli ultimi
attentati del Despotismo spirante, malgrado le velenose imposture del
fanatismo, malgrado le combinazioni odiose dell’Aristocrazia, voi stessi goderete
del frutto de’ vostri sforzi, e la vostra posterità benedirà i sacrifizj, che
voi avrete fatti per essa.»
Qui è notevole, accanto al consueto
spirito adulatorio nei confronti dell’armata occupante, la denigrazione
selvaggia e indiscriminata che va a colpire due millenni di storia siciliana e
meridionale. Guarda caso si tratta proprio dei duemila anni nel corso dei quali
è comparso e si è imposto il cristianesimo. Rino Cammilleri, nel pamphlet Fregati dalla scuola (Effedieffe), ha
colto con ineguagliabile efficacia il nesso esistente fra questa mentalità e
tanta manualistica che imperversa nei nostri istituti d’istruzione d’ogni
ordine e grado, mettendo altresì in evidenza il fondo irrimediabilmente “pagano”
del classicismo:
«Il
Medioevo, i “secoli bui” [... ] Sbrigativamente catalogati come “età di mezzo”.
Cribbio, che lunga morte! Ma “in mezzo” a cosa? All’Età Classica e al
Rinascimento. Vuol dire che si era vivi ai bei tempi di Atene e Roma, poi si
morì per mille anni e si rinacque infine alle soglie del Cinquecento. Infatti
nel Rinascimento riappaiono, nell’arte, i trionfi di Bacco ed Arianna, Ercole,
Apollo e Minerva. Cioè il paganesimo antico. Ecco la “rinascita”. Tra un
paganesimo (quello antico) e l’altro (quello rinascimentale) c’era un periodo
di mille anni che quelli che ci abitavano chiamavano “Cristianità”. Ergo:
durante i secoli cristiani eravamo morti, mentre si era ben vivi nei tempi
pagani.»
Sulle colonne del Corriere di Napoli e di Sicilia, come
abbiamo visto, la storia del Sud, dopo la chiusura dei templi dei Gentili, è
storia di “avvilimento”, “delitti”, “sanguinosa barbarie”, cui si contrappone “la
semplicità maestosa delle Feste della Grecia”. Ci verrebbe voglia di chiedere
all’estensore dell’articolo, duecento anni dopo, a quali feste abbia fatto
riferimento, poiché sappiamo per certo che le celebrazioni rituali dell’antichità
pagana degeneravano spesso, e abitualmente, in orribili eccessi (altro che semplicità maestosa!), eccessi stroncati proprio in virtù dell’avvento della
religione cristiana. Al di là di questo, comunque, mette conto di evidenziare
un dato fondamentale. La denigrazione del passato storico del Mezzogiorno, visto
come causa pressoché unica del suo attuale sottosviluppoaffonda le radici
negli avvenimenti napoletani di duecento anni fa. Prima di allora il Sud si era
comportato come un gigantesco sversatoio e collettore di civiltà, mantenendo la
propria identità sotto le varie dominazioni, anzi arricchendola con quanto di
più valido i dominatori recavano alla cultura locale: «[... ] presero dai
padroni del Reame - scriveva Angelo Manna - tutto ciò che alla propria
mentalità sembrò opportuno non rigettare, tutto ciò che apparve più consono
alla propria natura, e perciò assimilabile senza sforzo. E i conquistatori, a
loro volta, presero a piene mani dai modelli culturali dei conquistati».
Con il 1799 si verifica un fenomeno
del tutto nuovo: un gruppo di intellettuali, napoletani all’anagrafe, e non
tutti, ma estranei al comune sentire della Nazione Napoletana, apre le porte allo
straniero in nome dell’ideologia. Questi ingegni pervertiti perseguono l’affermazione
di un mondo nuovo, di “nuovi cieli e nuova terra”. Il corpo sano della società
meridionale reagisce sul duplice piano della dottrina e dell’azione militare,
riuscendo a scongiurare l’avvento della palingenesi giacobina. Ma nel 1860 1a
storia, come sappiamo, non si ripeterà.
La
calunnia e la diffamazione usate come strumento di lotta politica. C’è l’imbarazzo della scelta. Già
spulciando il solo Monitore si
potrebbe riempire un intero volume di contumelie e di falsità calunniose
lanciate contro gli avversari. Gli altri giornali, poi, forniscono
testimonianze inequivocabili di feroci lotte tra fazioni interne al movimento
giacobino, perfettamente spiegabili dal momento che il giacobinismo è per
antonomasia la degenerazione isterica dello spirito di parte.
Prendiamo ancora le mosse dalla
nostra scrittrice, poetessa, patriota e chi più ne ha più ne metta. La candida
Eleonora durante il suo periodo cortigiano aveva composto all’indirizzo di
Ferdinando IV e Maria Carolina versi come O
Fortunati / Eccelsi Genitori, a Voi si serba, / i magnanimi sensi / formar di
sì gran Figlio [il primogenito Carlo Tito di Borbone] / e riunite in Lui / le
trasfuse virtù crescer sì belle”, o come “Riede Fernando amabile / con la sua
dotta Egeria / che il nome ha seco d’Austria / Gran Carolina, in occasione
del ritorno della coppia reale da un viaggio a Vienna.
La stessa non esiterà, sulle colonne
del Monitore, ad attribuire alla
regina di Napoli epiteti come “Furia vomitata dal Settentrione”, “novella
Aletto”, “Tesifone”, “novella Messalina” e ad inveire contro Ferdinando IV, già
celebrato come “Fernando amabile”!, chiamandolo senza mezzi termini “despota” e
“tiranno”.
Il cardinale Ruffo? Neanche a
parlarne: egli è “cardinal mostro”, “presenza mostruosa”, “brigante”, “capo
masnada”, e gli insorgenti che lo fiancheggiano e l’accompagnano sono “briganti”,
“ladri”, “assassini”, “scellerati”, “mentecatti”, che lo Spettatore Napoletano a sua volta definisce, con scarsa
originalità, “ladri”, “orde di assassini”, “ribelli”, mentre di nuovo Maria
Carolina è qui additata come “Messalina di Sicilia”.
Il Veditore repubblicano ripete pedissequamente gli stessi insulti:
Ferdinando è “despota” e “tiranno”, gli insorgenti sono “ciurmaglia” e “razza
di fiere”. Questo giornale, in particolare, porta avanti una fanatica battaglia
sulla toponomastica, considerata, e giustamente, quale strumento elementare di
mistificazione della memoria storica, secondo una strategia che avrà largo
seguito in periodo post,risorgimentale.
In base a questa logica, coloro che
avevano difeso S. Elmo prima dell’arrivo dei francesi compaiono nel numero 4
del periodico del 30 Germile (19 aprile 1799) come “scellerati”; si propone
dunque che l’edificio, “cancellatone il monastico nome”, ancora una volta la
civiltà cattolica abolita per decreto, “sia quindi detto IL CASTELLO DELLA
GIOVENTÙ”, “a memoria di que’ giovani, i quali ne’ dì dell’anarchia con molto
coraggio riuscirono a liberar il castello di S. Eramo”.
Analogamente i difensori del
castello del Carmine, “plebe”, secondo l’estensore dell’articolo, si erano resi
colpevoli di “ostinata resistenza”, per la qual cosa il Carmine avrebbe dovuto
prendere la denominazione di “Castello della Vittoria”, “con nome di bel
augurio insieme, e bene al fatto accomodato”.
Castel Nuovo, scrive il Veditore, “che spalancatosi d’ordine
secreto de’ tiranni empì d’armi, e di armati la città, ed i vicini contorni,
panni, che IL CASTELLO DEL FURORE si potrebbe dire con proprietà”.
Oltrepassa poi i limiti del delirio
il grottesco excursus storico dell’ineffabile giornalista intorno a Castel dell’Ovo.
Ascoltiamolo dalla sua viva voce:
«Nel
quarto ed ultimo luogo, è da ricordare, il Castello dell’Ovo detto così dalla
plebaglia per la sua figura ellittica [... ] Il luogo ora occupato da tal
Castello, è fama che servisse anticamente ad un palagio di Lucullo, Romano
Senatore; il quale non è maraviglia, che fabricato lo avesse in modo, che il
mare vi corresse liberamente d’intorno, alla guisa che fa oggi circondando il
Castello. Perchè i Romani o sulle colline o per entro il mare fondavano le
case, che al diletto loro, ed a passar l’estate destinavano. Il che ci potrebbe
far intendere l’error presente di coloro, che sulla spiaggia di Portici hanno
distese le loro ville, dove era luogo più appropriato a distender le reti de’
pescatori, fuggendo la bellezza delle colline e l’ampiezza, e la varietà della
loro veduta, 0l’edificar sopra il mare, da cui è mandata fuori in estate una
deliziosa freschezza. Oltrechè prolungandosi gli edificj nel mare, l’arena
delle spiaggie si rompe, e profonda, ed apronsi sott’acqua delle vie, e de’
seni, per gli quali correr possono i battelli di diporto infino alle mura
stesse di tali ville, e così la commodità insieme, e le delizie accrescono a
palagi in cotal guisa edificati. Ma tornando al Castello dell ‘Ovo, che ci fece
uscir di materia, e passare a dir cosa, che non sarà inutile, e sempre giova a
conoscere come la monarchia estinguendo la ragione, e la filosofia, guasta
anche ed affoga i piaceri, ed i commodi della vita corrompe, tornando dico al
fatto nostro, il nome che s’avrebbe a impor di nuovo a quel castello esprimer
dovrebbe l’acquietamento, che avvenne finalmente in tutta la città, col ceder,
che fece la plebe ch’era quivi ristretta a difendersi, alle armi vittoriose de’
Francesi. Converrebbe perciò dirlo IL CASTELLO DELLA QUIETE.»
Ma il Nostro trova modo di sistemare
anche le porte della città di Napoli. “Porta San Gennaro”? Non sia mai! Nome
clericale per eccellenza. E allora?
«[...
] converrebbe d’ora innanzi nominarla LA PORTA OSTINATA per essere stata
furiosamente difesa dai Lazzaroni, i cadaveri de’ quali intrisi di sangue, ed
avviluppati l’un sull’altro mostrando tutti il viso orribilmente squarciato,
faceano conoscere che non erano quivi fuggendo caduti. Similmente essendovi
stata grande resistenza, e grand’empito d’armi alla porta Capuana, dir si
vorrebbe per l’innanzi LA PORTA DELLA CONTESA».
Dopo questo quadro terribile di
ammazzamenti e di macelli il giornalista ha il coraggio di concludere con
soavità ebete: “[... ] le altre [porte] poi, che non dettero occasione a verun
fatto repubblicano sieno dette semplicemente, e con nomi augurati, PORTA DELL’ABBONDANZA,
PORTA FELICE, PORTA DELLA GIOCONDITÀ”.
La medesima folle e iconoclastica
volontà di gettare nell’oblio tutta la storia passata del Mezzogiorno, come se
il Sud fosse nato e morto con la Repubblica napoletana, si era d’altronde già
manifestata nel numero precedente del periodico, il 3 del 20 Germile (9 aprile
1799) mediante la pazzesca proposta di “spegnere la fama” d’un Vicerè, Don
Pedro de Toledo, propugnando il cambiamento del nome della splendida arteria da
questi aperta, via Toledo appunto, in “Strada del Gran Patto” (il rousseauiano
patto sociale, evidentemente).
Gli altri periodici repubblicani
riprendono in sostanza monotonamente le medesime contumelie contro i sovrani
Borbone e i loro sostenitori. Segnalo Il vero repubblicano, secondo il quale il
re di Napoli è “il Tiranno”, il “vile Ferdinando”, “l’imbecille Ferdinando”.
Illuminante per comprendere l’ottenebramento quasi satanico delle menti
giacobine è un’apostrofe indirizzata dalle colonne di questo giornale proprio
all’“imbecille Ferdinando”. Compare fra le righe un livore che definirei “tormentato”,
spia di una “coscienza infelice”, da “parricida” nel senso psicanalitico del
termine, cioè di “assassino dell’autorità paterna” (in questo caso “regale”),
che nel momento stesso in cui si vanta del proprio delitto prova un imprevisto
e ciononostante invincibile senso di colpa:
«Imbecille
Ferdinando! non t’accorgi che gl’Inglesi ti spogliano de’ tesori, e delle
fortezze, e ti tengono già nelle catene. Tu mi facesti un tempo del bene
(compensato per altro con grave usura col male) e perciò da vero Cristiano, e
Repubblicano ti dico: Va a Pekin, co’ tuoi, o piuttosto nostri milioni, lascia
l’odiata furia [Maria Carolina, naturalmente, ndr], ivi fingiti mercante, negozia, divertiti alla caccia, ed in altro, che
tu fai; e vivi felice, e libero quanto potrai; altrimenti l’infelicità, la
miseria almeno ti aspettano; e tu sai la fine de’ tuoi parenti.»
Quest’ultimo, atroce riferimento è,
con ogni probabilità, a Maria Antonietta e Luigi XVI.
La
pura e semplice diffusione di notizie false. Si tratta di uno stratagemma usato con altissima
frequenza nei giornali giacobini o allo scopo di gettare infamia sugli
avversari o per risollevare il morale dei repubblicani. È, né più né meno, la
strategia della menzogna per eccellenza. La illustrerò limitandomi a prendere
in esame soltanto alcuni esempi di essa che si ritrovano sulle colonne del Monitore, miniera inesauribile di bugie.
È quasi divertente seguire i salti mortali della de Fonseca Pimentel per negare
la pericolosità e le vittorie di colui che ella chiama, come abbiamo visto “cardinal
mostro”. Nel numero 6 del 1 Ventoso (19 febbraio 1799) la “marchesa
rivoluzionaria” scrive:
«In
mezzo a cotesto generale trasporto, il Cardinal Ruffo, i feudi della cui
famiglia sono nelle Calabrie, o portando, o dicendo portare diploma di Vicerè,
se n’era passato colà per far genti ed armi, ma si crede di certo arrestato già
in Reggio; pur lo sia o non lo sia, poco monta un brigante qualche sia il color
del suo Cappello, alle Calabrie tutte unite a sostener se stesse, ed alla cui
volta è già partito per la via di Salerno un buon corpo francese, la cui prima
divisione pernottò jeri in Castellamare.»
Ruffo venne talmente fermato dai
giacobini e dai francesi che il 24 febbraio entrava a Mileto, dopo aver emesso,
proprio il 19 febbraio, giorno in cui uscì il fascicolo del Monitore dal quale abbiamo tratto la
citazione precedente, il famoso proclama con l’apostrofe: “Bravi e coraggiosi
Calabresi! soffrirete voi tante ingiurie?”.
Da questo momento in poi la Pimentel
sembra colta da un improvviso quanto cospicuo strabismo, che le fa scambiare
puntualmente per ritirata l’avanzata irresistibile del Vicario di Ferdinando
IV. Il numero 15 del 10 Germile (30 marzo 1799) reca infatti la seguente notizia:
«Si
è inoltre sparsa la voce, che avendo il despota congedate le truppe napoletane,
ch’ erano presso di lui, queste sieno sbarcate in Calabria, ed abbiano pugnato
per la causa della Libertà, ed il Citt. Muscettola già principe Luparano alla
testa della sua Cavalleria abbia pienamente disfatti i pochi briganti assoldati
dal Card. Mostro, vale a dire il Card. Ruffo.»
Tutta questa storia raccontata dalla
Pimentel è assolutamente falsa. Giovanni Antonio Muscettola, principe di
Leporano, fu effettivamente inviato da Ferdinando IV al Ruffo con un gruppo di
cavalieri, ma si guardò bene dal passare al nemico. L’origine della leggenda
diffusa dal Monitore va forse
ricercata, afferma Mario Battaglini, nel fatto che un fratello del principe,
più giovane, era rimasto a Napoli e passato ai giacobini.
Il capolavoro della de Fonseca è,
però, quello realizzato sul numero 23 dell’8 Fiorile (27 aprile 1799), in cui
la “patriota” annuncia:
«È
un pezzo, che il Cardinal Mostro ognuno intende il Cardinal Ruffo, creatosi di
propria autorità Papa, si fa chiamar Urbano IX. Il nostro buon Arcivescovo con
pia e cristiana pastorale fulminò subito contra lui l’anatema; sua non Santità
si affacciò per una oblazione de’ fedeli a Rossano, cioè per darli il sacco. La
fedelissima, e veramente devota comune rese cento per uno tiri di fucile a sua
Santità, e fece man bassa su’ suoi sgherri santissimi.»
Queste poche righe sono un
concentrato di ignobili calunnie, di fantasie e di volgarità. Se nel 1799 fosse
esistito un codice di deontologia professionale dei giornalisti, il passo qui
riportato sarebbe stato sufficiente a motivare l’espulsione immediata e
perpetua della de Fonseca dall’Ordine.
Superfluo confutare l’assurda voce
della autoproclamazione a papa. Resta da rilevare che il cardinale Ruffo entrò
vittoriosamente a Rossano l’11 aprile del 1799 e vi si trattenne quattro
giorni. Non ebbe luogo alcun saccheggio: già dall’8 aprile, infatti, erano a
lui giunti messi della città, conquistata dall’aiutante di campo Giuseppe
Mazza.
Quando più tardi il tracollo della
Repubblica apparve evidente anche a chi si bendava gli occhi per non vedere,
neppure allora venne meno il fanatismo dei maîtres
a penser giacobini e la loro subordinazione ideologica allo straniero.
Nel penultimo numero del Monitore, del 17 Pratile (5 giugno
1799), dopo il resoconto catastrofico delle spedizioni militari contro l’armata
della Santa Fede, si legge: «Malgrado
queste spiacevoli notizie, non si volle tralasciar domenica sera di celebrare
le vittorie francesi. Vi fu cantata correlativa al teatro del Fondo, cantata, e
festa di ballo nel teatro nazionale, ribassando il prezzo da 5. carlini a tre
per facilitar il concorso».
Il diarista Carlo De Nicola commenta
esterrefatto e sarcastico, sotto la data del 1 giugno: «Si crederebbe? mentre
si annunziano tali feste, e si fa illuminazione, Napoli è stretta dagl’
insorgenti, è vicina ad una rivoluzione, e se non altro, ad essere affamata.
Più oggi stesso è venuto fuggendo il residuo di una colonna di truppa partita
ieri».
Ancora De Nicola annota che il
giorno successivo, 2 giugno, l’illuminazione fu ripetuta; ma alla vista di
essa, alcuni soldati ritiratisi precipitosamente nella capitale “domandarono se
quella illuminazione facevasi per le mazzate
[che] avevano ricevute, o per la loro fuga”. Inoltre, scrive il cronista,
sempre il 2 vi fu, come affermato dal Monitore,
«al Fondo la cantata [che] porta il titolo di Vero patriottismo, ed il soggetto non è altro che un giovane il
quale vuole allontanarsi dalla sua amante per andarsi a battere con degli
insorgenti, arriva a tempo la notizia che quelli sono battuti, ed egli resta a’
piedi della sua bella».
Il trentacinquesimo e ultimo
fascicolo del periodico della “marchesa rivoluzionaria” (20 Pratile, 8 giugno
1799) incomincia con una frase di irresistibile umorismo involontario: “Continua
questa Centrale [Napoli, ndr] a
godere della maggior tranquillità”.
Pochi giorni dopo, il 13 giugno,
festa di S. Antonio da Padova, si compiva il destino della Repubblica. Il 20
agosto 1799 Eleonora de Fonseca Pimentel subiva l’impiccagione nella piazza del
Mercato.
Ancor oggi gli epigoni del
giacobinismo partenopeo insorgono contro questa condanna a morte qualificandola
come un’azione ignobile di bieca crudeltà. Lasciamo pure nel dubbio se l’esecuzione
sia stata o meno un atto realmente censurabile sul piano della legittimità. Lo
fu certamente dal punto di vista strategico, perché si fece di una mediocre
incarnazione del tipo umano, davvero insopportabile, della “gran dama dalle
opinioni sovversive” una martire e un esempio. È anche vero che, afforcandola,
le si impedì di continuare a scrivere; il che ad essere sinceri, considerati
gli esiti della produzione poetica e giornalistica della Pimentel, non fu poi
un gran male.
Quarta
ed ultima “strategia della menzogna”:
l’uso fraudolento di parole chiave del linguaggio religioso al fine di creare
negli avversari confusione e disorientamento dottrinale. Cominciamo, tanto per
cambiare, dal Monitore Napoletano, e
precisamente dal numero 2 del 17 Piovoso (5 febbraio 1799):
«Molti
zelanti Cittadini, pubblicano anche ogni giorno delle civiche ed eloquenti
allocuzioni dirette al Popolo; sarebbe però da desiderarsi, che se ne
stendessero alcune destinate particolarmente a quella parte di esso che chiamasi
plebe, proporzionata alla costei intelligenza, e ben anche nel costei
linguaggio. Invitiamo il Governo a stabilire delle missioni civiche, siccome ve
n’erano prima delle semplicemente religiose; ed invitiamo il gran numero de’
nostri non men dotti, che civici, e zelanti ecclesiastici, i quali han già la
pratica della persuasiva popolare, a prestarsi a quest’opera anche senza l’ordine,
ed invito del Governo. Non è mai tutto reo chi delinque perché ignorante,
quindi l’esatta giustizia ci obbliga ad istruire la plebe, prima che
condannarla, ed ogni momento è tardi per questa istruzione.»
Cade a proposito un commento del
linguista Manlio Cortelazzo, inserito nel saggio I dialetti dal Cinquecento ad oggi: usi non letterari:
«Per quanto possa sembrare paradossale,
gli stessi modelli della propaganda religiosa, collaudati da secoli di
esperienze positive, comprese le scelte linguistiche, sono fatti
programmaticamente propri dalla propaganda giacobina per acquistare il consenso
del popolo al credo (un termine religioso, appunto) rivoluzionario. «Noi
dobbiamo apprendere la grand’arte di formare il popolo democratico dagli
astutissimi preti passati», tuonavano i più accesi giacobini [come Girolamo
Bucalosi, ricordato da Cantimori e De Felice in Giacobini italiani, Bari,
1964]. Specialmente il basso clero, a diretto contatto con la plebe, di cui
conosce umori, passioni e sentimenti, è chiamato a farsi mediatore dal pulpito
delle idee e delle disposizioni governative. Così, voci come `missione’,
`catechismo’, `predicazione’, `apostolato’, `predica’, `sermone’, entrano nel
vocabolario laico non quali metafore più o meno aderenti alle rivoluzionarie
concezioni politiche, ma come concrete ripetizioni di procedimenti operativi
ritenuti efficaci anche nel nuovo ruolo non meno delle canzoni popolareggianti,
appositamente composte per veicolare motivi propagandistici, o dei «soggetti
democratici» da introdurre nel repertorio dei burattinai, come si scrive nel «Monitore
Napoletano» del 19 febbraio [1 Ventoso] 1799: [Mozione presentata nell’Istituto
Nazionale due giorni prima]
Fu fatta la mozione, ricorda la de
Fonseca Pimentel, perché coloro i quali con teatro portatile di burattini van
divertendo il minuto popolo per le piazze, faccian anche da questi trattar
soggetti democratici; e quei cantastorie, che similmente per le piazze cantan
favole di Rinaldo ed Orlando cantino delle istruttive canzoni Napoletane.
[... ] La nobildonna napoletana, commenta
Cortelazzo, considera il tramite dialettale una fase provvisoria, necessaria fin
tanto che la «plebe» non diventerà «popolo». Dalla pagina del «Monitore
Napoletano» partiva la sua proposta organica di una gazzetta dialettale,
scritta, almeno provvisoriamente, nello stile più familiare al popolo. Gli
intendimenti della Fonseca Pimentel sono chiari: riprendere l’uso della
propaganda via via borbonica, clericale e antirivoluzionaria, adeguandosi alla
mentalità dei lazzaroni da convincere, adoperando le loro stesse parole, il
loro modo di esprimersi, perfino gli stessi riferimenti connotativi. Il re
Ferdinando non sarà più chiamato col nome dell’imperatore tiranno Claudio, ma
col nomignolo di (`zipeto’) `Maccarone’; i `Franzisi’ potranno togliersi di
dosso il peso di conquistatori, se saranno fregiati del titolo positivo e caro
alla plebe di `guappi’ o `guapponi’. [... ]»
Il secondo e il sesto volume del Giornale patriotico contengono due
significative testimonianze dell’importanza attribuita dall’élite giacobina non
(attenzione!) all’istruzione, ma all’“indottrinamento” delle masse popolari,
che è cosa ben diversa e ben più sinistramente “totalitaria”.
Il 18 febbraio (30 Piovoso) del
1799, il periodico pubblica, infatti, una Parlata
pe chille che non ntennono lo Toscanese e che nfra l ‘allegrizze stanno comme l
‘asene mmezzo a li suone:
«Ed
è possibele che nfra Vuje non ce sia n’ommo de ciappa? A la bonora la capo
vosta è ghiut’ammitto. Site Uommene, e site Ciuccie; Scetateve na vota,
spaparanzate ss’uocchie, e s’avite pe na chelleta maltrattate Chille, che senza
nteresse sso benute per lo bene vuosto, abbracciatele, e fora trademiento,
rengraziatele co la vocca, coll’arma, e co lo core.
Mmalora
è sovierchio mo adda.vero! Ve site armate,. avite comm’a pazze commattuto, e pe
chi? Allecordateve de li guaje passate. [...] Persuaditeve che nfra li Briccune
cippe de nfierno non nc’è stato lo simmele. Jura, fa la pace tre bote co li
Franzise, e po’ de bello senza justizia le rompe lo mmafaro. [ ...] e pe jonta
de lo ruotolo nce vo mettere ncanna ca Isso commatte pe la Fede; Che Fede va
contanno; parla de Fede e sta spoglianno Chiesie, se sguaglia nfi a li Sante, e
pe vregogna nce resta quacche Calece, e buje l’avite visto. Hà rotta la Guerra
p’avè la scusa de nce assassenà, pe t restarece nchiana terra, e pe da gusto a
chille Canaglia Ngrise, che non fanno auto che fa lo fatto lloro, e che sso Ili
nnemice de la S. Fede. [Da notare come per i “tolleranti” e “libertari”
giacobini, nemici giurati del “fanatismo religioso”, i protestanti ridiventino
all’occorrenza, “nemici della Santa Fede”]
[...]
Napole sarrà ricco, e venarrà lo tiempo de la Grassa; Fora Signure, e fora l’Ezzellenze;
lo povero, e lo ricco songo eguale, ogn’uno potrà dì lo fatto sujo, e che
bolite cchiù? [...] Unimmoce da Frate co Ili Franzise guappe e amoruse; e coll’arma,
e co lo core vasammo le mmane a chillo Gioia de lo Generale lloro pocca nc’ha
sparagnata la penetenzia de lo danno fatto, e senza guaje nc’anno dato lo
rescatto da la Tirannia de no Goviemo peo assai de chillo che stace n’Varvaria.
A
Napole li 15. de lo Mese che chiove. L’amico di chi è ommo, e Patriota. S.F.»
Per inciso, immediatamente dopo
queste righe segue la trascrizione di un annuncio fatto affiggere da “chillo Gìoja de lo Generale” Championnet
sulle mura della capitale, così concepito:
«ABITANTI
DI NAPOLI
Il
Soldato che turberà la vostra quiete sarà punito di Morte; ma vi dichiaro che
il primo fra di Voi che farebbe insulto a un Francese, e metterebbe il
disordine in codesta Città, sarà condotto innanzi il Consiglio militare, e
archibuggiato subito.
CHAMPIONNET
Generale in Capo.
Il
Generale di Brigata Capo dello Stato Maggiore Generale BONNAMY.»
Il volume VI, del 9 Germile (29.
Marzo 1799), contiene invece le Riflessioni
politiche del Cittadino Domenico Pignataro al Governo Provvisorio della
Repubblica Napoletana.
L’estensore del documento scrive:
«Propongo
adunque.
1.
Che s’invitino i Vescovi, e gli Ordinarj de’ luoghi perchè colle loro Pastorali
insinuino a’ popoli l’ubbidienza alle leggi, la subbordinazione al Governo,
dovendo ogni buon Cristiano farsi un dovere di adempiere questi consigli come
que’ che convengono alla Divina Scrittura, cogl’ insegnamenti di S. Paolo, e co’
fatti della Storia Sacra. Rassicurino i Popoli, che finora sono state calunnie
ciò che si è sparso contra l’invitta Nazione Francese, giacchè il bravo
Generale Championnet ha promesso far rispettare, e difendere le persone, le
proprietà e la Religione, di che ha dato luminose ripruove: e loro inculchino a
deporre volontariamente le armi
[...]
VI. È espediente più di ogni altra cosa che ogni Comune abbia a sua spesa una
pubblica Scuola, dove scelti de’ migliori soggetti pieni di spirito e di
coraggio Repubblicano s’ istruissero i Giovini nella scienza de’ diritti dell’uomo,
e del Cittadino. E poichè per ragion del dispotismo, e della tirannia in cui
han soggiaciute le nostre belle Contrade niuno de’ nostri ingegni ha ardito
finora pubblicare una Istruzione a ciò corrispondente, ed analoga: ho preso io
l’impegno, e la cura formarla con metodo facile, e chiaro; dove sosterrà con
argomenti, contro cui non vale risposta, esser la Democrazia la miglior forma
di Governo di quante mai state ve ne sieno presso i Popoli, e le Nazioni; e che
perciò sotto di questa, come sola corrispondente a’ diritti dell’uomo, sia
ognuno obbligato di vivere. [... ]
Dalla
Comune del Vallo nel Dipartimento del Sele 3. Ventoso (21. Febbrajo v. s.)
1799. Libertà Eguaglianza»
Notate: una volta conosciuta la
democrazia, “miglior forma di Governo di quante mai state ve ne sieno presso i
Popoli”, chi non l’accetta, chi liberamente rifiuta di vivere sotto un libero
regime, diventa automaticamente un criminale. Ecco la grande aporia, l’irresolubile
ed eterna contraddizione del sistema liberale. Tutto ciò richiama alla memoria
quanto dichiarato, tempo fa, da un autorevole esponente dell’Istituto per gli
studi filosofici. A chi gli faceva notare la discrepanza tra il principio dell’abolizione
della pena capitale sostenuto da Robespierre nella sua tesi di laurea, e la
prassi dell’ammazzamento generale cui il rivoluzionario si era attenuto nel
corso della sua carriera politica, il brillante uomo di cultura dell’Istituto
napoletano replicò sostenendo che con la Rivoluzione francese si era venuto a
creare un nuovo “ordine” ideologico, sociale, culturale, all’interno del quale
tutti gli uomini sarebbero stati liberi, uguali e fratelli, e non avrebbe avuto
luogo l’estremo supplizio. Ma chi quell’ordine lo aveva respinto, come Luigi
XVI o i Vandeani, se ne era automaticamente posto al di fuori, e dunque non
avrebbe potuto e dovuto assaporarne i vantaggi: perciò era lecito
ghigliottinare Luigi e massacrare gli Insorgenti senza crearsi scrupoli di
coscienza.
Ognuno può vedere a cosa abbiano
portato, nella storia contemporanea, queste torve elucubrazioni degne di un Pol
Pot: il totalitarismo, il fanatismo ideologico, la guerra “mondiale” senza
quartiere e senza regole, i lager e i gulag.
Ma per venire ai rivoluzionari di
casa nostra, sulle ceneri dell’esperienza dialettale repubblicana si leva
fortunatamente il canto antigiacobino del popolo, improntato ad una sana e
genuina riaffermazione del principio di realtà:
Libertà
ed Uguaglianza
Li
denari vanno in Franza
E
ntri ntri ce fa la panza.
Vani riusciranno i tentativi di
lavaggio del cervello a danno dei controrivoluzionari, come quello proposto
dalla Pimentel sul numero 6 del 1 Ventoso (19 febbraio 1799) del Monitore:
«Se
gli altri Popoli, e la stessa Francia nel procacciarsi la libertà han trovato
un ostacolo nei falsi principj, e nelle private passioni del loro Clero,
siccome ne risuonano i loro pubblici fogli, dobbiam noi felicitarne, e
gloriarne nel nostro. Il passato Governo riuscì è vero, ad illuder i Popoli col
ministero di alcuni ecclesiastici; ma la Corte opprimeva, e riduceva al
silenzio i buoni, de’ quali si contano anche molti martiri nel clero così
regolare, che secolare, e faceva solo parlar ed agire i pochi cattivi, ma
questi scompariscono nella Repubblica in faccia alla gran massa de’ buoni. Non
vi è fra loro, chi non abbia da lungo tempo intimata guerra a’ pregiudizi papisti;
chi non senta che la prima carità è quella della patria, ed il Sacerdozio lungi
dal disgiungerlo, lo collega più intimamente con questa; che il dover di
Sacerdote l’obbliga più intimamente a dar egli l’esempio di fedeltà, e di
obbedienza alle patrie leggi, e che la fratellanza imposta dal Vangelo è la
fratellanza, e l’uguaglianza che impone la repubblica, in una parola è la vera
democrazia.»
“La prima carità è quella della
patria” è la massima fondamentale che presiede ad ogni statolatria. Nel sistema
cattolico è un principio falsissimo. In esso la prima carità è, e non può non
essere, quella verso Dio. La dottrina cristiana permette, anzi ingiunge la
disobbedienza al potere civile, se questi emette leggi inique, cioè contrarie
ai comandamenti.
Eppure gli stessi temi, fondati sul
sofisma secondo cui gli “immortali princìpi” della Rivoluzione Francese altro
non sarebbero che verità identificabili tout
court con quelle del messaggio evangelico, si ripetono spessissimo nella
propaganda dei giacobini.
Si tratta, anzi, della loro mossa
più abile, e in un certo senso più riuscita, se guardiamo agli sviluppi
successivi del cosiddetto “cattolicesimo liberale”, basato proprio su questa
confusione dottrinale. Il procedimento consiste nel far passare per il medesimo,
sotto lo stesso nome, idee e concetti che non sono affatto il medesimo, anzi
che si contraddicono e si escludono l’un l’altro.
Carlo Colletta riporta il testo di
una circolare diffusa dal ministro dell’Interno della Repubblica napoletana,
Francesco Conforti, il quale, non dimentichiamolo, era un sacerdote,
indirizzata il 12 marzo (22 Ventoso) “A’ cittadini Arcivescovi, Vescovi e
Prelati”. Conforti sembra quasi voler tradurre pari pari in decreto i
desiderata della Pimentel:
«L’interessante
Ministero a voi divinamente affidato, venerandi cittadini, v’impone di
dissipare e distruggere quello spirito d’insurrezione, che dopo la felice
rovina del dispotismo continua ad agitare le vostre Diocesi. La parte del
popolo, che è mossa da questo fanatico incitamento, vive nell’errore
disseminato da quegli Ecclesiastici, cui piacque di abbandonare la divina
missione di rendere felice il genere umano, per divenire ministri della
tirannia.»
È evidente qui l’aberrazione della
dottrina nel ministro-sacerdote Conforti, che andrebbe perciò rimandato al
catechismo. La missione degli ecclesiastici, semmai, è quella di condurre il
genere umano alla salvezza eterna, come è detto nella Messa, “per Cristo, con
Cristo ed in Cristo”. Non è affatto quella di procurare al genere umano una “felicità”
dal sapore evidentemente naturalistico ed immanentistico. Ma continuiamo a
leggere la circolare.
«Tocca
a voi d’illuminare gl’ ignoranti, istruendoli che dalla generosa, benefica e
potente Nazione francese, rott’ i ferri del dispotismo, si è organizzata tra
noi un’Amministrazione, in cui il diritto, e l’interesse s’uniscono, e la
giustizia e l’utilità s’accordano, e che il Governo di questo genere è il più
conforme alla mente del Vangelo. Siate presti ad insegnar loro con linguaggio
di Pastori le massime, che seguono, rendendole facili e sviluppandole con
chiarezza.
Tra
le diverse forme di amministrazione sociale la democrazia è il più gran
beneficio che Dio faccia al genere umano.»
Sappiamo invece che la dottrina
sociale cattolica non ha mai detto questo. Altri precetti:
«Felice
è quella nazione, che rott’ i ferri del dispotismo, si organizza in Repubblica
La
felicità dell’uomo dipende dall’esercizio de’ suoi diritti imperscrittibili,
che sono la libertà, l’eguaglianza, la proprietà e la sicurezza.
Nella
sola democrazia l’uomo gode dello esercizio di questi diritti, de’ quali il
benefico Creatore lo avea fornito, e la tirannia lo avea spogliato. [ ... ]
Da
Gesù Cristo fu commendata la democrazia; perché nell’Evangelo gli uomini
vengono invitati alla Libertà ed alla Eguaglianza, ossia al godimento di que’
dritti, che sono il fondamento della Costituzione Repubblicana.
Nel
Governo Repubblicano, che è conforme alla ragione ed al Vangelo, la felicità è
comune, e non già di un solo e di pochi individui.
Le
calamità, che si soffrono nell’attuale crisi, gli effetti sono della male
amministrazione del perfido rovesciato regime.»
Agli argomenti dei giacobini la
Chiesa, almeno negli scritti dei suoi apologeti più insigni, ha sempre
replicato respingendo con fermezza l’identificazione fra le massime dell’Ottantanove
e quelle del Nuovo Testamento.
Un’analisi appena men che
superficiale mette infatti immediatamente in luce il carattere anfibologico - ovvero di “discorso
equivoco” - che le parole liberté,
égalité, fraternité assumono se vengono staccate dal principio cattolico
loro proprio e annesse ad un altro principio, appunto naturalistico, umanitario
e immanentistico, antitetico al primo.
La libertà, nella formulazione di
Tommaso d’Aquino, è “facoltà di muoversi nel bene”: “La libertà è il potere di
fare il bene, come l’intelligenza è la facoltà di conoscere il vero. La
possibilità di fare il male non è l’essenza della libertà più di quanto la
possibilità d’ingannarsi sia l’essenza dell’intelligenza, o la possibilità d’ammalarsi
sia l’essenza della salute”. È precisamente il contrario del concetto
rivoluzionario e liberale di libertà come “facoltà di fare tutto ciò che non
ostacola la libertà degli altri”, in una prospettiva di assoluto indifferentismo
morale. L’eguaglianza è poi nient’altro che una pura verità filosofica e
teologica se beninteso, riguarda la natura dell’uomo e la sua redenzione.
La fraternità, infine, è punto
saliente dell’etica cristiana, purché la “filantropia”, ovvero “amore per l’uomo”,
venga intesa come estensione della “filotèa”, ovvero “amore per Dio”.
Il valore specifico dei tre principi
omonimi della Rivoluzione francese consiste, invece, proprio nell’assumere
ciascuno vita autonoma, senza riferimento assiologico a Dio [assiologia = “dottrina
dei valori”]. In altre parole con il 1789, e con le sue repliche meschine, come
il ‘99, la libertà, l’eguaglianza e la fraternità abbandonano il sistema di
valori del cristianesimo, da cui traevano senso e vita, per andare ad alimentare
quelle “metastasi della Ragione”, quelle “virtù impazzite” che sono le
ideologie.
Concludendo, possiamo senz’altro
convenire, con i laudatores
neogiacobini i quali, riprendendo un giudizio di Croce, vedono nella stampa
periodica repubblicana l’atto di nascita del giornalismo politico a Napoli e,
forse, del giornalismo tout court.
Tale proposizione, tuttavia, può
venire accettata solo se si precisa che quest’atto di nascita è
irrimediabilmente viziato dai peggiori difetti della stampa partenopea, e non
solo partenopea, successiva: il servilismo ideologico, il versipellismo, l’uso della calunnia e della diffamazione a scopo
politico, la tendenziosità dell’informazione e la scarsa vigilanza nell’uso
delle fonti.
Anche da questo punto di vista,
quindi, la Repubblica napoletana del 1799 lascia un’eredità profondamente e
irreparabilmente negativa.
Fonte:
Editoriale il Giglio