di Francesco Pappalardo
[Da Voci per un "Dizionario del pensiero forte"]
1. Per una definizione
La Questione del Mezzogiorno o Questione Meridionale nasce dall’annessione forzata del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia, nel 1861, e la sua storia è la storia dei tentativi compiuti dallo Stato italiano per sanare la lacerazione sociale e morale conseguente all’incontro-scontro fra realtà disomogenee. Questo contrasto fra il "Nord" e il "Sud" — indicazioni geografiche che nascondono realtà sociali complesse e differenziate — è ricondotto dal politologo Ernesto Galli della Loggia a "[...] una diversità etico-antropologica così radicale da farne il punto critico per antonomasia della problematica identità nazionale italiana" e dall’antropologo Carlo Tullio Altan a "uno scontro di civiltà", cioè a un urto fra differenti modelli culturali e forme diverse di organizzazione sociale, che dopo l’Unità sarà affrontato soprattutto come un problema di sviluppo ineguale.
2. Le origini
La rappresentazione del "Mezzogiorno", cioè delle province continentali e insulari dell’ex Regno delle Due Sicilie, come un blocco unitario d’arretratezza economica e sociale non trova fondamento sul piano storico, ma ha genesi e natura ideologica. I primi a diffondere giudizi falsi sugl’inferiori coefficienti di civiltà di quell’area sono gli esuli meridionali che, nel decennio 1850-1860, con la loro propaganda antiborbonica non solo contribuiscono a demolire il prestigio e l’onore della dinastia, ma determinano anche una trasformazione decisiva nell’immagine del Sud, riproponendo secolari stereotipi sul "paradiso abitato da diavoli", presto ripresi dai titolari d’inchieste pubbliche o private. Dopo il 1860, l’intreccio di brigantaggio e di legittimismo borbonico spinge la classe politica unitaria a individuare nelle province annesse il luogo da cui proviene la più grave minaccia interna di eversione e ad assegnarsi la missione d’inserire nella nuova compagine statale l’ex regno napoletano, anche a costo di cancellarne l’identità storica. "La differenza tra il Mezzogiorno e il resto del paese — scrive lo storico siciliano Giuseppe Giarrizzo — si configura come polarità simbolica di barbarie e civiltà, di borbonismo e liberalismo, di "feudalesimo" nel Sud e vita borghese nel Nord — una polarità esasperata dal contrasto mitico tra la difficile natura del Centro-nord e la naturale disposizione del suolo e del clima meridionale alla fertilità e agli agi".
I temi del meridionalismo saranno enfatizzati, a partire dai primi decenni del secolo XX, dal nuovo ceto politico locale allo scopo di rivendicare ingenti provvidenze pubbliche e di porsi come mediatore nella loro distribuzione. Dopo la seconda guerra mondiale (1939-1945), la Questione del Mezzogiorno viene affrontata con una politica d’interventismo statale, caratterizzata da una mole crescente di trasferimenti di risorse verso il Sud, che sono destinate prevalentemente a fini non produttivi e che in parte alimentano il circuito perverso politica-affari-criminalità.
3. Le interpretazioni economiche
Da Pasquale Villari (1826-1917) ad Antonio Gramsci (1891-1937) il Mezzogiorno viene letto soprattutto nei termini di un grande problema sociale e, pur nella diversità delle interpretazioni, l’analisi prende le mosse abitualmente dalla sua condizione materiale. Per il primo meridionalismo, definito "classico", la Questione del Mezzogiorno consiste nella mancata integrazione dell’economia del Sud nel processo di sviluppo capitalistico, mentre per le correnti d’ispirazione marxista — e anche per Rosario Romeo (1924-1987), che "aggiorna" il meridionalismo liberal-democratico — questa integrazione è avvenuta, ma nei modi peculiari con i quali il capitalismo avanzato subordina a sé l’economia dei paesi arretrati, rendendola funzionale al suo sviluppo. In entrambi i casi la lettura del Sud in termini di arretratezza — vista talvolta come divario d’origine rispetto alle regioni settentrionali del paese, altre volte come frutto del processo di unificazione gestito dallo Stato unitario — ha come riferimenti il modello economico liberale, nato dalla rivoluzione industriale che determinò anche una profonda trasformazione dei rapporti sociali, e un’impostazione culturale idealistica, che giudica la storia del Mezzogiorno secondo il parametro della crescita della coscienza civile, che sarebbe giunta a maturazione solo grazie al Risorgimento. Il Meridione d’Italia viene valutato, dunque, in ragione della sua devianza da quei modelli e viene descritto in termini d’individualismo e di carente spirito civico, di arretratezza tecnologica e di resistenza alla modernizzazione, di corruzione e di clientelismo, utilizzando le dicotomie sviluppo/sottosviluppo e progresso/arretratezza come indicatori del livello raggiunto rispetto a una scala ideale da percorrere.
In realtà, nel 1860 la società "napoletana" viene incorporata in un sistema più ampio, nel quale erano presenti i germi di uno sviluppo di tipo capitalistico e di una trasformazione della monarchia amministrativa in un regime liberale — cioè i germi di un "altro" modello di sviluppo —, e ciò determina la subordinazione economica e politica del Sud nei confronti delle altre parti d’Italia, anche a causa della "sistematica e non graduata demolizione di un’immensità di istituzioni, di interessi, di amministrazioni" — denunciata dal giurista Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888) —, che aveva prodotto "una lesione troppo estesa e profonda".
4. Le interpretazioni sociali e culturali
Nel secondo dopoguerra la fioritura degli studi sociologici sul Mezzogiorno si concretizza nella elaborazione di alcune opinabili categorie interpretative — come quelle di "paganesimo perenne" e di "cultura subalterna", riferite al mondo contadino dallo scrittore Carlo Levi (1902-1975) e dall’antropologo Alfonso Maria Di Nola (1926-1997) —, oppure nella lettura della specificità meridionale nei termini di una sua vocazione quasi antropologica a una religiosità elementare e superstiziosa, come per l’etnologo Ernesto De Martino (1908-1965), o del Sud come sacca arretrata e deposito di mentalità pre-moderne, come per il sociologo statunitense Ernest C. Banfield, teorico del "familismo amorale", a suo avviso causa determinante di una disgregazione permanente della società. La categoria dell’arretratezza ricompare così come nodo ineliminabile della storia del Mezzogiorno, in relazione alla sua subordinazione economica o alla sua struttura sociale e culturale, entrambe legate a presunti, secolari condizionamenti. In realtà, i preconcetti di certi studiosi, alcuni dei quali stranieri, servono ad alimentare una letteratura d’impostazione discutibile, diffusa soprattutto nel mondo protestante, secondo cui "[...] la vita religiosa del Sud — come nota lo stesso De Martino — sta in fondo come pretesto fin troppo scoperto per condurre la polemica anticattolica".
Gli studi degli storici Gabriele De Rosa e Giuseppe Galasso hanno consentito, però, di superare il luogo comune di una cristianizzazione superficiale delle regioni meridionali e d’individuare in alcune sopravviventi pratiche magiche — ritenute comunemente parte integrante della religiosità delle popolazioni rurali — solo il relitto di arcaiche strutture psicologiche e religiose. Anche il grande rilievo assunto dalla famiglia nella società meridionale — e nelle altre regioni d’Italia, dove la socialità, secondo lo storico Marco Meriggi, "si sgrana quasi naturalmente in un ventaglio di famiglie, molto più che in una miscela di individui" — non è più ritenuto un sintomo di arretratezza, anzi proprio questa tenace caratteristica sociale ha rappresentato un limite quasi invalicabile all’espansione soffocante dello Stato unitario e il più sicuro antidoto nei confronti dell’individualismo politico ed economico. L’unione forzata in un "grande Stato", nel 1861, ha determinato, prima ancora della spoliazione economica, la dispersione d’una parte rilevante delle inestimabili ricchezze culturali del Mezzogiorno, ma l’insieme dei caratteri e degli aspetti che contraddistinguono gli abitanti di queste contrade, soprattutto a livello del costume e della vita di relazione, s’è mostrato per lungo tempo resistente e impermeabile alla modernità, intesa come insieme di valori globalmente alternativi al cristianesimo e alla sua incidenza politica e sociale.
Il Sud, dunque, non è un’area arretrata o sottosviluppata, o un Nord mancato, ma piuttosto una società dotata d’una forte personalità storica e d’una inconfondibile fisionomia, in cui si sono riconosciute per lunghissimo tempo tutte le sue componenti sociali, una "nazione" che ha le sue radici remote nella vigorosa sintesi, realizzata dopo il secolo VI, fra tradizioni autoctone, cultura greco-romana e apporti germanici. Il Sud non è neppure una periferia d’Europa, caratterizzata da una lunga separazione dal mondo civile o da note di subalternità o d’arcaicità, né è il luogo di coltura della "napoletanità", intesa come un isolato universo antropologico e culturale. Al contrario, la civiltà del Mezzogiorno è stata una delle molteplici versioni della civiltà cristiana occidentale ed è vissuta per secoli in uno stretto rapporto con l’"altra Europa" — presente ovunque nel continente durante l’età moderna e collocata idealmente "sotto i Pirenei" dal giurista e storico spagnolo Francisco Elías de Tejada y Spínola (1917-1978) —, che per molto tempo ha rappresentato la sopravvivenza di un’area di Cristianità e ha costituito un limite all’espansione della modernità.
5. Conclusioni
Negli ultimi centocinquant’anni il popolo italiano ha subìto un processo di alienazione della propria identità e della propria tradizione, romana e cattolica — che avevano vivificato e modellato nel corso dei secoli i costumi, la mentalità e il comportamento degli abitanti della penisola —, da parte di quello che il sociologo delle religioni Massimo Introvigne chiama "[…] partito anti-italiano. Per questo partito "fatta l’Italia" non si trattava soltanto di "fare gli italiani"; si trattava piuttosto di fare l’Italia contro gli italiani, o di disfare il tradizionale ethos italiano radicato nel cattolicesimo".
Il Mezzogiorno, in particolare, è stato aggredito contemporaneamente, e da più parti, da fermenti incalzanti di trasformazione, ma ha costituito un luogo di resistenza alla modernizzazione forzata. Dunque, non il particolare modo d’essere del popolo "napoletano", ma il tentativo diffuso d’annientarne la personalità e di dissolverne l’eredità ha innescato un processo di alienazione culturale, mentre il progressivo venir meno dei punti di riferimento sociali e istituzionali ha aperto la strada allo sviluppo della criminalità organizzata, la cui forza non è il radicamento nel Mezzogiorno — dove tutt’al più ha riattivato i circuiti classici della delinquenza locale, ampliandone le cerchie — ma l’incontro con fenomeni nuovi e poco "meridionali", come il commercio internazionale di droga e d’armi e la lotta per il controllo di enormi risorse finanziarie.
A partire soprattutto dalla seconda metà degli anni 1950 — con una nuova frana emigratoria, che ha prodotto la disarticolazione definitiva dell’antica organizzazione sociale e territoriale, e con l’assimilazione dei comportamenti proposti dal modello consumistico, ritenuto superiore a quello tradizionale — l’identità del Mezzogiorno si sta dissolvendo nel crogiolo dell’omologazione, favorita dalla scuola, dai partiti politici e dai grandi mezzi d’informazione.
Pertanto, quanti si accostano alla Questione del Mezzogiorno non possono ignorare che la sua soluzione passa attraverso una rinascita religiosa e civile, che può essere perseguita soltanto con il ricupero di quanto sopravvive delle radici storiche e nazionali del Mezzogiorno stesso, da tempo conculcate e disprezzate, purtroppo non solamente da parte di estranei.
Per approfondire: vedi Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento ad oggi, Donzelli, Roma 1997; Giuseppe Galasso, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, nuova edizione accresciuta, Argo, Lecce 1997; Giuliano Minichiello, Meridionalismo, Editrice Bibliografica, Milano 1997; e Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1998.