di Angela Pellicciari
Vi fu un connubio evidente tra protestantesimo e Risorgimento italiano. Entrambi miravano alla distruzione della Chiesa e a strappare dal cuore della nostra gente la fede cattolica. Per portarlo ad abbracciare il credo di Lutero.
[Da «il Timone» n. 58, Dicembre 2006]
Per capire la stretta alleanza che si realizza in Italia durante il Risorgimento fra mondo protestante ed élite liberale, conviene partire da una lapidaria affermazione comparsa sulla Civiltà Cattolica nel 1856: «il protestantesimo non è altro che la molla della rivoluzione».
Che cosa intendeva dire la rivista dei gesuiti? Intendeva dire che da quando Lutero comincia la sua violenta opposizione contro Roma, i protestanti di tutto il mondo non fanno che combattere in ogni possibile modo, onesto e disonesto, la cultura e la civiltà cattoliche. Su tutti i fronti: politico, economico e sociale oltre che, ovviamente, religioso. I protestanti costituiscono, ha ragione la Civiltà Cattolica, la vera molla della rivoluzione.
L'odio diffuso a piene mani dalla Riforma contro la «rossa prostituta di Babilonia» (appellativo da Lutero rivolto a Roma), fa sì che i Savoia, trasformatisi in persecutori della Chiesa, trovino i più fedeli alleati fra anglicani, calvinisti e luterani, d'Europa e d'America.
Lo storico valdese Giorgio Spini ricostruisce il clima di aspettativa ed entusiasmo che accompagna, all'estero, il processo di unificazione italiana, in Risorgimento e protestanti del 1989. Spini cita l'affermazione della Christian Alliance americana del 1842: «In questo momento i destini di una grande parte della razza umana dipendono dalle condizioni dell'Italia. L'impero che il pontefice romano tiene nel mondo del pensiero e della fede è legato da intima fratellanza, offensiva e difensiva, con sistemi secolari di malgoverno. Una rivoluzione intellettuale e morale in Italia sarebbe sentita ovunque si estende l'influenza di Roma».
Nel 1847, ricorda lo storico, «l'Italia è già circondata da una sorta di assedio protestante, stesole attorno dall'episcopato anglicano, dal presbiterianismo scozzese e dall'evangelismo "libero" di Ginevra e Losanna, con un appoggio anche dal protestantesimo americano». Spini si pone una domanda che non è retorica: «Quanti sono in Torino, o nell'Italia in genere, tra il 1849 e il 1860, a domandarsi se proprio quel problema della riforma religiosa non stia diventando il problema capitale della situazione italiana?». Sta di fatto che il conte di Cavour farà un esplicito, ripetuto e convinto affidamento sui sentimenti anticattolici della classe dirigente inglese, fiduciosa «che la politica ecclesiastica del Piemonte sia l'inizio di una Riforma analoga a quella dei sec. XVI», per dirla con Spini.
Si capisce con facilità che il Risorgimento in funzione anticattolica fosse accolto a braccia aperte dai protestanti di tutto il mondo. Si capisce meno l'aperta simpatia filo-protestante dei liberali italiani - molti dei quali hanno poco a che spartire con un genuino interesse religioso - ripetutamente manifestata su giornali, riviste ed opuscoli, e nelle stesse aule del Parlamento subalpino. Riteniamo che la motivazione dell'atteggiamento liberale vada ricercata nelle ricadute politiche ed economico-sociali che la Riforma porta con sé.
Dal punto di vista politico, dopo Lutero, potere temporale e potere spirituale vengono a coincidere. Lutero teorizza una perfetta democrazia all'interno della Chiesa: tutti sullo stesso piano, tutti ugualmente investiti dallo Spirito di Dio dal momento che il Magistero pontificio, espressione di un intollerabile sopruso, è soppresso. A questa perfetta uguaglianza sul piano spirituale corrisponde un'enorme disuguaglianza su quello temporale: è al principe, eletto dal Signore, che spetta la conservazione dell'ordine tanto nella Chiesa quanto nella società civile; è al principe che compete la vigilanza sul costume dei fedeli; è ancora al principe che spetta la nomina di pastori e visitatori. Il protestantesimo investe il principe di un potere assoluto. Evidente l'attenzione per il protestantesimo da parte dell'élite liberale: questa si ritiene investita del sacro compito di realizzare in Italia una riforma morale che coincide con la scomparsa del cattolicesimo, ma ha a che fare con una popolazione tutta cattolica. Per tradurre in pratica il proprio disegno, i rivoluzionari italiani hanno bisogno di uno Stato dai poteri veramente esorbitanti. Oltre all'aspetto politico, c'è un altro concretissimo interesse che sospinge i liberali verso il protestantesimo: le rivoluzionarie implicazioni socio-economiche della Riforma. Azzerando la gerarchia e gli ordini religiosi, le grandi proprietà che questi possiedono - frutto, vale la pena di ricordarlo, delle donazioni fatte dagli italiani alla loro Chiesa nel corso dei secoli - perdono i legittimi proprietari. Vescovi, parroci ed ordini religiosi, non essendo più ritenuti soggetti di diritto, perdono la personalità giuridica. Con la conseguenza che tutti i beni della Chiesa, divenuti beni di nessuno, vengono messi sul mercato a disposizione dei migliore offerente.
Grazie al Risorgimento, tutti i beni degli ordini religiosi sono caduti in mano all'uno per cento della popolazione, di fede liberale. I ripetuti, ingenti e costosi tentativi di protestantizzare l'Italia sono però caduti nel vuoto: troppo radicato si è rivelato l'attaccamento della popolazione al cattolicesimo.
Nel 1860, in La politica e il diritto cristiano, lo riconosce con molta lucidità Massimo D'Azeglio. Alcuni sperano di rendere l'Italia protestante?, si domanda il marchese. «No! Rinunziate ad un pensiero che era per voi una speranza. Le moltitudini in Italia o saranno cattoliche o nulla. Tutti gli sforzi delle società bibliche e dei missionari non riusciranno a sostituire un'altra credenza a quella che ha nutrito le nostre generazioni, che ha dato all'Italia le sue arti, le sue costumanze, tutta la sua vita sociale; si può di qua dalle Alpi giungere a una dissoluzione delle idee religiose, ad una decomposizione morale, ad un niente [...] si può corrompere, viziare, dissolvere [...] ma sostituire al cattolicesimo il protestantesimo, giammai!». Buon profeta, D'Azeglio. Rimane da domandarsi se col niente e la decomposizione morale seguita alla scomparsa del cattolicesimo, se con l'apostasia dalla religione nazionale, gli italiani abbiano fatto un buon affare.
Con tutto ciò la nostra élite cultural-politica continua a credere (o a far finta di credere), che i mali dell'Italia derivino dalla sua mancata Riforma. È di qualche mese fa una sibillina frase del governatore del Piemonte, la diessina Mercedes Bresso: «Se mai decidessi di convertirmi, ma lo escludo, non abbraccerei certo la religione cattolica. Diventerei valdese».
La nostra classe dirigente disprezza le masse cattoliche. E vuole che, una buona volta, i cattolici si mettano da parte e la smettano di intralciare il progresso che avanza. Che lascino tranquilli i governanti: loro sì che sanno cosa si deve fare. Va avanti così da quasi due secoli. Anche se ai nostri giorni, con la crisi di fede che il mondo protestante attraversa, è più un riflesso condizionato che vera propaganda filoriformata.
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